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DIRITTO DEL LAVORO
A.S. 2012-2013
Cristina Fenoglio
17\09\2012
FONTI DEL DIRITTO DEL LAVORO
Il diritto del lavoro è una disciplina giuridica moderna, la prima normativa in materia di lavoro risale alla
seconda metà del secolo XIX. La disciplina nasce e cresce ed è legata allo sviluppo industriale e alle
fabbriche, intese come organizzazioni di lavoratori salariati. Il contratto di lavoro è il cuore della disciplina.
Non era previsto dal CC fino al 1942, è nata attraverso la prassi, è stato approvato solo quella
regolamentazione sotto la forma del contratto di impiego nel 1919, è diventata disciplina solo nel 1942.
Il fatto che sia una disciplina moderna implica che le sue fonti non sono lontane nel tempo.
Cosa sono le fonti del diritto?
Chiamiamo fonti del diritto obiettivo o fonti legali quegli atti, e talora anche fatti, ai quali il diritto
attribuisce il potere di creare norme giuridiche vincolanti erga omnes (verso tutti, generalmente vincolanti).
Le norme introdotte dalle fonti formali appartengono all’ordinamento giuridico, al diritto positivo del
nostro ordinamento, il quale ordinamento è basato su una fonte originaria, che è la Costituzione, creata
dall’assemblea costituente è una fonte su cui si basa l’ordinamento giuridico e che a sua volta prevede i
modi di produzione delle fonti legali creando il potere legislativo del Parlamento che produce le fonti legali.
Accanto alle fonti legali e formali del diritto obiettivo dobbiamo inserire le fonti extra ordinem (al di fuori
dell’ordine generale), sono dei fatti che non sono previsti dalla Costituzione come prodotti normativi
provenienti dalle fonti di produzione del diritto ma che sono accettate e osservate dai loro destinatari come
se fossero fonti del diritto obiettivo. I contratti collettivi sono considerati fonti extra ordinem.
Il sistema delle fonti nell’ordinamento vigente è un sistema complicato, se andiamo a guardare l’ART 1 delle
disposizioni preliminari al CC (le preleggi) contiene la gerarchia delle fonti, questo articolo è totalmente
superato perché risale al 1942 (periodo fascista) l’ordinamento italiano attuale prevede una diversa
organizzazione delle fonti ed ha come fonte originaria la costituzione. L’ART 1 delle preleggi non contiene
nemmeno la costituzione perché all’epoca la costituzione era lo Statuto Albertino (non entrava come fonte
e non era nemmeno una costituzione rigida).
Nel nostro sistema di leggi esiste la Costituzione e dalla Costituzione che è sia fonte originaria sia vertice
delle fonti e le altre fonti devono essere tutte compatibili con lei, prevede una serie di atti normativi
gerarchicamente ordinati: la fonte inferiore, di livello inferiore, che sia non compatibile con la fonte di
livello superiore è invalida; sulla invalidità delle leggi il giudice è la Corte Costituzionale, il controllo sulla
conformità delle leggi alla Costituzione può essere fatto solo da lei, le sentenze hanno efficacia generale e
rimuovono, annullano, le leggi incostituzionali.
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Quando parliamo di legislazione parliamo in primo luogo della legge ordinaria, emanata dal Parlamento, ma
accanto ad essa bisogna ricordare le leggi regionali perché le regioni sono enti autonomi dotati di potestà
legislativa; nel nuovo ART 117 della Costituzione che prevede il rapporto fra legislazione dello Stato e
legislazione regionale attribuisce alla regione una potestà legislativa che può essere sia concorrente con
quella dello Stato, sia esclusiva. Fra atti legislativi dobbiamo ricordare gli atti del governo aventi forza di
legge: il decreto legge (che può essere emanato solo in condizioni di necessità ed urgenza e che acquista
efficacia solo dopo la conversione in legge da parte del Parlamento, è immediatamente esecutivo ed entra
immediatamente in vigore non appena il capo dello stato appone la sua firma ma la sua vigenza dura al
massimo 60 giorni, se entro 60 giorni non è convertito in legge decade, con dei problemi per gli effetti che
nel frattempo si sono prodotti);
decreto legislativo (è una delle fonti più importanti della nostra materia perché il DLeg viene utilizzato per
la trasposizione delle direttive che provengono dall’Unione Europea. Siccome molta parte del Diritto del
Lavoro è di derivazione comunitaria, molta della nostra materia è riconducibile a decreti legislativi. È un
atto normativo del governo avente forza di legge, non ha bisogno di alcuna conversione perché è emanato
dal governo ma sulla base di una legge delega: è il parlamento che delega il governo ad emanare questo
atto avente forza di legge. I principi e le regole sono contenute nella legge delega, sulla base di questa il
governo è delegato ad emanare il decreto legislativo che passa ad un esame sul parlamento che segnala
eventuali problemi ma non si può opporre. Nell’emanare il decreto legislativo il governo deve rispettare i
limiti della delega, l’eccesso di delega si traduce nell’annullamento del decreto legislativo da parte della
Corte Costituzionale).
Accanto alla gerarchia delle fonti (Costituzione - Legge Ordinaria - Legge Regionale - Regolamento del
Governo …) c’è la presenza di fonti che provengono da ordinamenti diversi dal nostro, ma che hanno un
impatto particolare sul nostro ordinamento:


diritto dell’Unione Europea che promana dall’unione europea, un ordinamento diverso dal nostro,
ma le fonti normative dell’ unione hanno una posizione sovra ordinata rispetto alle fonti del nostro
ordinamento, le produzioni entrano direttamente a far parte del nostro ordinamento.
fonti del Diritto Internazionale: distinguiamo le fonti del D.I. consuetudinario e le fonti del D.I.
convenzionale; le fonti consuetudinarie sono osservate dagli stati che accettano il rispetto delle
consuetudini internazionali (ripudio della guerra, trattamento dei prigionieri, tutela dei diritti umani
fondamentali); le fonti convenzionali sono i trattati, accordi che si stipulano fra una pluralità di stati
per regolare i loro rapporti reciproci. I trattati internazionali entrano a far parte del nostro
ordinamento attraverso la legge di ratifica e esecuzione del trattato, diventa una legge da
rispettare per i cittadini quando il Parlamento ratifica il trattato e lo rende esecutivo. Vuol dire che
c’è un controllo da parte del potere legislativo sui comportamenti dello Stato, quando però il
trattato viene ratificato e reso esecutivo la legge che ratifica il trattato assume una posizione nella
gerarchia delle fonti superiori rispetto alla legge ordinaria (questo deriva dalla nuova formulazione
dell’ART. 117 della Costituzione che mette gli obblighi derivanti all’appartenenza all’UE accanto agli
obblighi internazionali.
Nella gerarchia delle fonti dobbiamo tenere presente quindi la presenza dell’UE da una parte e il diritto
internazionale dall’altra. Il diritto dell’UE ha una importanza enorme per la nostra materia, il diritto
internazionale ha un’importanza minore ma ha una sua importanza perché esiste una apposita
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organizzazione internazionale dalla delle Nazioni Unite che si occupa del lavoro e che emana degli atti
normativi che vengono poi ratificati dall’Italia e entrano a far parte del nostro Diritto del Lavoro.
UNIONE EUROPEA
Oggi non si può più parlare di diritto comunitario come si è sempre chiamato, perché non esiste più la
Comunità Europea, al suo posto è stata istituita l’Unione Europea.
Origini dell’UE
La prima aggregazione europea risale al 1957 con il Trattato di Roma che istituiva il mercato comune, era
un’unione di sei paesi e l’Italia ne è stata uno dei promotori, a partire da qui c’è stata una serie di revisioni
del Trattato, il mercato comune diventò Comunità Economica Europea insieme alle altre due comunità
minori previste, successivamente diventò comunità europea. Nasce nel 1999 con il Trattato di Maastricht
l’UE, una sorta di sovrastruttura che si regge sulla Comunità Europea, si tiene distinta l’Unione dalla
Comunità. La Comunità ha i suoi organi e istituzioni e l’Unione anche, questa bipartizione è ricomposta
dopo il tentativo della prima costituzione europea che non c’è stata e non c’è perché richiedeva che fosse
approvata e ratificata da tutti gli stati membri, alcuni di questi stati l’approvazione è stata oggetto di
referendum popolari che ha avuto esiti sia positivi che negativi. Quello che è avvenuto è che con il Trattato
di Lisbona del 2009, entrato in vigore il 1° Dicembre del 2009, è stata soppressa la comunità europea, resta
la sola Unione Europea, questo ha dato luogo anche a una revisione della denominazione dei trattati:

Trattato sull’UE che contiene i principi generali e disciplina le istituzione dell’UE;

Ex trattato istitutivo dell’unione economica e della comunità europea (il grosso della disciplina che
vige all’interno dell’UE): Trattato sul funzionamento dell’UE.
Queste sono le fonti dell’UE (Trattato sull’Unione che riguarda principi e istituzioni e il trattato sul
funzionamento dell’UE in cui è dettato anche il funzionamento dell’UE oltre alle discipline generali delle
varie materie). Per quanto riguarda la materia che ci interessa questa prende un nome che è Diritto Sociale
Europeo, delineata del Modello Sociale Europeo.
Fra le fonti del diritto dell’UE fa parte la Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE: venne approvata a Nizza nel
2000 ed è rimasta fino al trattato di Lisbona un atto politico ma non una fonte del diritto dell’UE, è come
fosse una carta costituzionale perché contiene tutti i principi fondamentali suddivisi in quattro grandi
capitoli (uguaglianza, libertà, solidarietà e giustizia), descrive i principi fondamentali e i diritti fondamentali
delle costituzioni in materia di uguaglianza, libertà, solidarietà e giustizia degli stati membri. Sono diritti
fondamentali i diritti umani, civili, politici e sociali (ART.99). La Carta è entrata a far parte delle fonti formali
dell’UE con il Trattato di Lisbona (ART.6) acquistando la stessa efficacia giuridica dei trattati.
Queste fonti formali del diritto dell’UE le distinguiamo in fonti del diritto primario e fonti del diritto
derivato:
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primario: i trattati e quegli atti normativi ai quali i trattati conferiscono ruolo di diritto primario
(regolamenti). Quelle norme che sulle basi dei Trattati l’Unione può emanare sulle materie di
propria competenza esclusiva (libertà di circolazione delle persone, dei lavoratori in particolare, la
libertà dei circolazione dei servizi, delle merci e dei capitali). Su queste materie intervengono i
Trattati e i regolamenti; i regolamenti sono degli atti dell’UE che entrano a far parte
dell’ordinamento degli stati membri direttamente, diventano applicabili ai cittadini degli stati
membri come se fossero fonti del loro ordinamento interno, hanno dunque effetto orizzontale
diretto. Perché questo succede? Perché gli atti di un ordinamento che nasce da un trattato entrano
a far parte del nostro ordinamento senza che sia necessario una ratifica del parlamento? Perché nel
firmare i Trattati e nel ratificarli gli stati membri hanno accettato la limitazione della propria
sovranità, l’accettazione che la Corte Costituzionale ha votato sull’ART 11 e poi sul nuovo ART 117,
accettazione che il diritto primario dell’UE funziona come diritto sovranazionale, ha una capacità di
porsi nel nostro ordinamento giuridico, è sovraordinato rispetto anche alla nostra Costituzione
secondo l’ART.11 che contiene la limitazione della sovranità italiana, a questo si aggiunge il nuovo
ART.117. Provenendo da un altro ordinamento, una disposizione che prevale sul nostro diritto
interno non funziona nello stesso modo di una norma del diritto interno: poniamo che venga
emanata in Italia una legge che viola una norma del diritto dell’UE, la norma che proviene dall’UE si
impone ma non determina l’abrogazione o l’annullamento della disposizione italiana perché
proviene da un altro ordinamento che non esercita potere legislativo o potere di annullamento
della legge. Il giudice di fronte al quale viene portata una controversia della quale trova
applicazione quella legge italiana e si rende conto che quella legge viola una disposizione dell’UE
applicabile nel caso in specie, il giudice è tenuto a disapplicare la legge italiana e a applicare una
disposizione dell’UE. E dunque disapplicazione, non abrogazione ne annullamento, significa che la
applicazione della stessa supremazia dell’UE è rimandata ai giudici, non funziona se non attraverso
l’opera del giudice a cui è rimessa la disapplicazione delle norme contrastanti.

derivato: diritto che l’Unione è competente ad emanare sulla base di una disposizione del diritto
primario. L’Unione può usare il diritto derivato laddove non possa utilizzare il diritto primario. È il
diritto che deriva dai trattati.
Tutto ciò dipende dalle competenze dell’Unione, l’Unione è competente ad intervenire solo sulle materie
previste dai Trattati (Trattato dell’UE e Trattato sul Funzionamento dell’UE), non può intervenire al di fuori
delle sue competenze. I Trattati distinguono (in particolare quello sul Funzionamento) nettamente le
materie che sono di competenza esclusiva dell’Unione, dalle materie in cui la competenza dell’Unione è
solo sussidiaria. La competenza sussidiaria vuole dire che ci sono materie regolate autonomamente dagli
stati membri, materie nelle quali l’UE interviene con l’obiettivo di armonizzare, a livello dell’Unione fra gli
stati membri, la disciplina di certe materie organizzandole intorno ad alcuni principi condivisi.
Quando la competenza è sussidiaria per lo più si interviene con norme del diritto derivato.
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Tutta la materia che ci interessa si chiama Politica Sociale è materia di competenza sussidiaria, gli atti
emanati hanno particolare caratteristiche.
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La competenza esclusiva dell’Unione per gli atti del diritto derivato hanno un modo si essere, un effetto e
una struttura che è ricollegabile alla competenza esclusiva dell’Unione
Distinguiamo fra i regolamenti e le direttive, per le materia di competenza esclusiva l’Unione interviene per
lo più con i regolamenti, nelle materie di competenza sussidiaria interviene per lo più con le direttive
perché detta le regole alle quali debbono uniformarsi gli stati, non disciplina dunque la materia a cui
devono adeguarsi gli stati. I regolamenti sono atti normativi dell’Unione ad effetto orizzontale diretto (un
atto normativo dell’UE entra direttamente a far parte dell’ordinamento interno dello stato membro, che si
rivolge ed è azionabile in giudizio direttamente dai cittadini anche nei loro rapporti privati). Le direttive
sono atti normativi privi di effetto orizzontale, possono avere effetto diretto, ma è un effetto verticale, la
direttiva vincola gli stati membri ad uniformare il loro diritto trasponendo la direttiva in normativa interna,
non creano norme dell’ordinamento interno quindi può succedere che il cittadino non possa chiedere di
applicare la direttiva al giudice, perché la direttiva obbliga gli stati ma non agisce come se fosse un
regolamento, l’obbligato rimane lo Stato. Si può chiedere l’applicazione della direttiva per cause fra PA e
privati cittadini ma non si applica per le controversie fra privati, se il privato subisce un danno per il fatto
che non può chiedere l’applicazione della direttiva che significa che lo Stato non ha adempiuto agli obblighi
di adeguamento di adeguamento della normativa resta al cittadino una azione contro lo Stato per ottenere
il risarcimento del danno subito (sentenza Francovich).
La trasposizione delle direttive avviene attraverso la Legge Comunitaria, un meccanismo che prevede che il
Parlamento ogni anno emani una legge delega al governo nella quale richiama le regole fondamentali da
stabilire per adeguare il diritto interno alle varie direttive che sono in scadenza (entro il termine fissato per
la trasposizione della direttiva). Il governo emana poi vari decreti legislativi che contengono la trasposizione
delle varie direttive.
L’adempimento dello stato alla direttiva è controllato dagli organi e dalle istituzioni dell’UE: il Consiglio
dell’Unione Europeo che ha potere legislativo ed è composto da un rappresentante di ciascun stato
membro a livello ministeriale che è impegnato all’esercizio delle funzioni del Consiglio (funzione legislativa);
il Parlamento Europeo (eletto con sistema proporzionale). Parlamento e Consiglio adottano i provvedimenti
e gli atti normativi dell’UE.
L’iniziativa legislativa viene da quello che costituisce il Governo dell’UE, la Commissione Europea che ha
iniziativa legislativa, propone gli atti normativi al Parlamento e al Consiglio. La Commissione vigila anche
sull’applicazione del diritto dell’UE negli stati membri e ha potere di azione in giudizio contro gli stati
membri che infrangono il diritto dell’UE. Se uno stato non traspone la direttiva nei tempi previsti o se nel
trasporla ne viola il contenuto, la Commissione può proporre una azione di infrazione ovvero una azione
contro lo stato inadempiente proposta all’ordine giudiziario dell’UE, la Corte di Giustizia dell’UE. Questa è
formata dalla Corte di Giustizia più i tribunali ed è composta da 27 membri, uno per ogni stato membro e
esercita un ruolo fondamentale non solo come corte di unica e ultima istanza ma anche come interprete
del diritto dell’unione attraverso le sue sentenze che hanno efficacia negli stati membri. La Corte interviene
sulla base di due diversi tipi di ricorso:

procedure di ricorso intentate dalla Commissione Europea contro gli stati

ricorso in via pregiudiziale: un ricorso che chiama in causa la Corte di Giustizia chiedendole
l’interpretazione autentica del diritto comunitario. Il giudice nell’applicare una norma deve
decidere se il diritto italiano è conforme o no al diritto comunitario, se la questione implica una
serie di questione interpretative complesse deve rinviare la questione alla Corte di Giustizia e
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attendere il giudizio della Corte. Per fare ciò deve formulare dei quesiti, perché la Corte risponde
solo sui quesiti che le sono stati formulati, la Corte li esamina e risponde concludendo che o il
diritto dell’Unione non osta l’applicazione del diritto italiano o, nel caso contrario, osta
l’applicazione del diritto italiano; in questo caso il giudice a cui viene restituita la causa dovrà fare
applicazione di quanto ha detto la Corte di Giustizia e non applicare il diritto italiano difforme dal
diritto dell’UE. L’obbligo del rinvio pregiudiziale c’è soltanto per il giudice di ultima istanza e questo
ha dato luogo a una nuova giurisprudenza della Corte Costituzionale perché quando i conflitti fra
legge e Costituzione coinvolgono anche il diritto dell’UE, la Corte costituzionale sospende il proprio
giudizio e rinvia alla Corte di Giustizia (in passato la Corte Costituzionale non lo ammetteva
consigliano di evitare il ricorso in via pregiudiziale). [La sentenza è vincolante non solo per il giudice
che ha sollevato il problema, ma anche per i giudici che avranno controversie dello stesso tipo.
L’allargamento a 27 dell’UE ha creato molti problemi, uno è quello della composizione della Corte
che è a 27; normalmente si distingue la Grand Séssion (la Corte al completo) da collegi a numeri
ridotti, le questioni di più grande importanza quelle che coinvolgono davvero i principi dell’Unione
sono decisi dalla Grand Séssion. Tra questi 27 giudici ci sono giudici qualificati e specialisti del diritto
dell’UE e giudici nominati da nuovi entrati dall’UE sulla cui formazione giuridica tout court ci sono
dubbi.]
Quando viene emanata una direttiva dal Consiglio e dal Parlamento dell’UE, queste direttive a volte hanno
contenuto particolare, non parliamo degli articoli ma delle clausole, perché possono essere la stipulazione
di un accordo sindacale stipulato a livello europeo, questo può dare contenuto alla direttiva che viene
emanata con regole formali dal Consiglio e Parlamento. Viene emanata la direttiva e lo Stato ha due\tre
anni per adeguarsi ad adattare il suo diritto interno nel senso di una recezione dei principi della direttiva.
Tutte le direttive specialmente in materia di lavoro contengono una particolare clausola che si chiama
clausola di non regresso: la trasposizione della direttiva comunitaria non può essere l’alibi per peggiorare il
trattamento dei lavoratori che è già contenuto nel diritto interno; non si può approfittare di una direttiva
che tiene conto del modo diverso di essere degli stati membri per peggiorare la condizione di una categoria
di persone. La clausola di non regresso non significa che il legislatore interno non possa modificare in
peggio le proprie leggi, non può approfittarsi della trasposizione della direttiva per fare questo tipo di
operazione.
COSTITUZIONE
Nella nostra costituzione il posto occupato dal lavoro è un posto di primaria importanza, si apre all’ART.1
primo comma con: L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. “Fondata sul lavoro” non è una
espressione retorica, il valore del lavoro è un valore primario per la nostra Costituzione, che non vuol dire
esclusivo, può entrare in bilanciamento con altri valori, ma questa posizione del valore del lavoro nell’art. 1,
l’art. che ci dice cos’è la nostra Repubblica, va tenuto in considerazione perché serve a illuminare un’altra
serie di disposizioni nelle quali rientra la considerazione del lavoro. La nostra Costituzione è una
costituzione rigida, può essere emendata secondo il procedimento dell’art.148 della costituzione
medesima, la prima parte della costituzione (Diritti fondamentali) non può essere emendata.
L’art. 1 serve anche a capire in parte il significato del diritto al lavoro dell’art.4, la prima interpretazione è
lavoro come valore primario del nostro ordinamento. Che significa lavoro? Il lavoro tutelato primariamente
è in primo luogo il lavoro subordinato, il lavoro dei salariati, perché le classi sociali al basso livello di
produzione che assumono questo ruolo e la loro protezione è primaria, ma il lavoro deve essere inteso in
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una accezione più ampia perché il lavoro è un’attività nella quale si realizza la personalità umana, la
persona si realizza attraverso il lavoro, questo lavoro è tutelato dalla Costituzione e può essere lavoro
dipendente, ma non solo, anche autonomo, attività professionale, l’unico limite è rappresentato dalle
attività di tipo imprenditoriale che sono tutelate sotto il profilo della libertà dell’iniziativa economica
privata. L’art.35 della Costituzione ci dice che la repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme come modo
di realizzazione della persona umana.
Il lavoro è un diritto sociale, quindi un diritto fondamentale, fondamentale allo stesso modo per cui lo sono
i diritti civili e politici. Per lungo tempo i diritti sociali sono stati considerati diritti di serie B, ora, finalmente
sono assurti al rango di diritti fondamentali, questo non vuol dire che siano indivisibili e non si possano fare
distinzioni; la maggiore distinzione è quella fra i diritti self-executing (che trovano immediata applicazione,
come i diritti di libertà) da i diritti condizionati ( per realizzare i quali è necessaria una prestazione attiva da
parte dello Stato).
Il diritto al lavoro è un diritto sociale che presenta questa “doppia faccia”, dice l’art.4 comma 1: la
Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo
questo diritto. C’è insieme il diritto self-executing, il diritto di libertà e il diritto al lavoro, la libertà di
lavorare è insieme il ripudio della schiavitù e la libertà di lavoro, che vuol dire anche completa libertà di
circolazione nel territorio dell’Unione Europea per lavoro.
Dice anche un diritto di pretendere dallo Stato condizioni che rendano effettivo questo diritto, è una
questione delicata, in questi giorni se ne sta discutendo molto dopo la dichiarazione di fallimento del
progetto di Pomigliano e Mirafiori di Marchionne, che significa lasciare a casa decine di migliaia di persone.
Che cosa significa diritto al lavoro? Non significa diritto garantito immediatamente, con norma
immediatamente precettiva al proprio posto di lavoro, il contenuto è più debole, significa diritto di
pretendere dallo Stato alcuni comportamenti nella direzione della realizzazione dell’obiettivo della
promozione dell’occupazione. Quello che si può pretendere dallo Stato non è la piena occupazione, ma che
lo Stato metta in movimento la propria macchina per la realizzazione di obiettivi che vadano verso la
realizzazione della massima occupazione possibile: formazione professionale, politiche attive del lavoro
verso nuove occupazioni per chi ha perso il lavoro, misure di inserimento al lavoro. Occorre che lo Stato
risponda alla pretesa dei cittadini di avere un mercato del lavoro che funzioni e che tenda alla massima
occupazione possibile, in questo bisogna tenere conto delle due grandi sacche di disoccupazione e
inoccupazione (scoraggiamento da lavoro), occupazione giovanile e femminile. L’art.4 impegna la
Repubblica a fare politiche giuste perché si rimedi a questo fenomeno devastante dal punto di vista sociale.
L’art.4 secondo comma prevede anche il dovere di lavorare, dovere di ogni cittadino di svolgere secondo le
proprie possibilità un’attività e una funzione che concorra all’accrescimento spirituale della società [?]. Non
significa obbligo al lavoro, che sarebbe schiavitù, è un dovere giuridico e non solo morale perché è scritto in
una norma della Costituzione ma non è sanzionato.
Il controllo di costituzionalità è svolto solo dalla Corte Costituzionale, nel nostro ordinamento non esiste il
controllo di costituzionalità diffuso, il giudice ordinario che riscontra un conflitto non può decidere per conto
proprio, deve sospendere la causa sollevare l’eccezione di costituzionalità, mandarla di fronte alla Corte che
decide esaminando la questione. Se la Corte decide che la legge è in conflitto con la Costituzione annulla
questa disposizione, l’annullamento ha effetto ex tunc, nel senso che viene rimossa questa disposizione
dall’ordinamento. Le sentenze della Corte hanno efficacia generale.
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L’art. 117 della Costituzione è stato riformato con la legge numero 3 del 2001 che ha riformato il Titolo V
della Costituzione, essendo stata approvata a maggioranza è stata sottoposta al referendum confermativo
(in Italia è consentito solo il referendum abrogativo, al referendum confermativo sono sottoposte le
modifiche della Costituzione quando vengano approvate a maggioranza).
Dal punto di vista della ripartizione delle competenze in materia di lavoro fra lo Stato e le Regioni, l’art.117
organizza il rapporto dal punto di vista della competenza legislativa, che vuol dire il potere legislativo, fra lo
Stato e le Regioni secondo 3 categorie:

competenza esclusiva dello Stato:

competenza concorrente dello Stato con le Regioni

competenza esclusiva delle Regioni
In passato la competenza delle Regioni si esercitava sulle materie tassativamente previste dall’art.117, oggi
la competenza delle Regioni, concorrente ed esclusiva è residuale: è diventata tassativa l’elencazione delle
competenze dello Stato. Rientra tra le competenze esclusive dello Stato l’ordinamento civile, il diritto del
lavoro è per la maggior parte rientrante nell’ordinamento civile, competenza legislativa esclusiva dello
Stato che garantisce l’uniformità del diritto del lavoro sul territorio nazionale. Vi è tuttavia competenza
concorrente delle Regioni in materia di tutela e sicurezza del lavoro, mentre competenza esclusiva dello
Stato è la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono
essere garantiti su tutto il territorio nazionale e la previdenza sociale. In altre materie che coinvolgono
materie sociali vi è una concorrenza delle Regioni ma concorre con la competenza dello Stato che fissa i
livelli essenziali delle prestazioni che devono essere uguali per tutti su livello nazionale, poi le Regioni
possono intervenire nel segmento che residua al di là delle prestazioni essenziali.
Tutela e sicurezza del lavoro sono materie di competenza concorrente delle Regioni che la Corte
Costituzionale ha interpretato in maniera molto restrittiva, è stata una preoccupazione della Corte quella di
garantire al massimo livello l’uniformità del diritto del lavoro, preoccupata che specie in periodi di grandi
parole e meno di fatti, di trasformazioni in senso federalista del nostro Stato (cavallo di battaglia della
Lega), si potesse arrivare a una disciplina del lavoro differenziata regione per regione senza garanzia di
diritti che fosse uniforme su territorio nazionale, questo legato all’applicazione del diritto di uguaglianza.
DIRITTO INTERNAZIONALE
Rispetto al diritto dell’UE è diritto che ha una minore rilevanza nella nostra materia, ma ha pur sempre una
qualche importanza. La fonte di diritto internazionale che agisce direttamente nella nostra materia prende
il nome di Convenzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL). Queste convenzioni sono
norme del diritto internazionale convenzionale, cioè sono accordi fra Stati, non sono applicabili
direttamente nell’ordinamento ma abbisognano di una ratifica da parte del parlamento che la renda
esecutiva con legge, la legge di ratifica di un trattato internazionale è una legge di rango superiore rispetto
alla legge ordinario (art.117 cost.). Vi è dunque una organizzazione internazionale che produce convenzioni
in materia di lavoro, questa organizzazione è l’organizzazione più antica, è stata istituita nel 1919 con la
firma del Trattato di Versailles che ha chiuso la I Guerra Mondiale. Questa organizzazione è stata istituita ed
ha sede a Ginevra da allora, è diventata dopo la II Guerra Mondiale quando è stata costituita
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l’organizzazione delle Nazioni Unite la OIL è diventata una agenzia specializzata dell’ONU.
L’OIL ha un organo legislativo, un suo governo e un proprio CdA interno.
L’organo legislativo è l’Assemblea che si chiama Conferenza Internazionale del Lavoro, è composta dagli
stati membri (sono gli stati membri dell’ONU) che sono presenti nell’OIL con una propria delegazione, le
delegazioni sono ripartite (rappresentano i sindacati dei lavoratori, le organizzazioni dei datori di lavoro e i
governi), non rappresentano solo lo Stato con il suo governo come nell’ONU, ma rappresentano anche le
parti sociali.
La Conferenza adotta le convenzioni che devono essere sottoscritte da un numero rilevante di stati,
ciascuno degli stati che sottoscrive una convenzione è poi tenuto a ratificarla all’interno dove può essere
ratificata o no, dipende dal giudizio del Parlamento dello Stato. Ci sono due fenomeni contrapposti nell’OIL:
stati che ratificano tutte le convenzioni e stati che non le ratificano (ad esempio il Regno Unito con Blair).
Il Governo dell’OIL è formato dall’Ufficio Internazionale del Lavoro (Bureau International du Travail – BIT) e
svolge l’importante funzione di monitoraggio sull’applicazione della convenzioni negli stati che le hanno
ratificate, facendo ricerche e mandando suoi inviati.
I contenuti delle convenzioni
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Per quanto riguarda le convenzioni dell’OIL sono atti normativi che provengono dall’Organizzazione che
esprime l’Assemblea, sono trattati internazionali, vengono ratificati dagli Stati ma per entrare a far parte
dell’ordinamento interno devono essere ratificate.
Le convenzioni dell’OIL hanno, dal punto di vista dei loro contenuti fondamentali, una base nella
Dichiarazione di Philadelphia del 1944, strettamente collegata alla Dichiarazione Universale dei Diritti
dell’Uomo adottata dall’ONU nel 1948. I principi fondamentali contenuti nella Dichiarazione di Philadelphia
sono:

Il lavoro non è una merce: a un origine particolare ed ha assunto il significato della non
mercificazione del lavoro, il lavoro è erogazione delle energie umane da parte delle persone sicché
dunque va rispettato come espressione della persona umana, non può essere oggetto di
compravendita perché legato alla persona che lavora e alla sua dignità.

La libertà di espressione e associazione sono fondamentali per il progresso

La povertà in qualunque luogo costituisce un pericolo per la prosperità
I principi che governano l’OIL sono quelli che vengono chiamati i International Labour Standards, il core dei
principi e dei diritti fondamentali che l’OIL persegue con la sua attività, che è una attività normativa ma
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anche di sostegno, di controllo su quanto avviene nel mondo del lavoro dei diversi paesi che appartengono
all’OIL. Questi Principi sono stati rilanciati dall’OIL nel 1998 con la dichiarazione relativa ai principi e ai
diritto fondamentali del lavoro, in questa dichiarazione l’OIL ha condensato il contenuto delle otto
convenzioni fondamentali e ne ha fatto i principi costituzionali dell’OIL, sono considerati generalmente
vincolanti indipendentemente dal fatto che le convenzioni da cui provengono siano state effettivamente
ratificate dagli stati membri (come se fosse diritto internazionale consuetudinario anziché diritto
internazionale convenzionale) perché rispondono ai principi fondamentali di tutela dei diritti umani, dei
diritti civili e diritti politici.
Il problema dell’OIL è il suo peso relativo, vi sono Stati che ratificano e applicano le convenzioni e stati che
non lo fanno. Contro questi fenomeni di non ratifica, ratifica senza applicazione o rifiuto per punti
particolari, non c’è soluzione nel senso che l’OIL non dispone della possibilità di applicare sanzioni. Le
sanzioni efficaci, soprattutto verso i paesi che fanno della sottoprotezione sociale e del lavoro uno
strumento per giocare la loro competitività sul piano dell’economia e del mercato globalizzato, sarebbe
proprio quello di limitare l’accesso a chi non ratifica e non applica le convenzioni dell’OIL alle organizzazioni
del commercio internazionale globalizzato perché questi paesi si verrebbero sbarrata la possibilità di
sviluppo che giocano attraverso la partecipazione al mercato globalizzato, abbassando il costo del lavoro a
causa della sottoprotezione del lavoro. Questi poteri sanzionatori non sono stati conferiti all’OIL perché gli
stati membri non glieli hanno conferiti. La strada da seguire è quella delle regole che si danno le grandi
organizzazioni del commercio internazionale, che inseriscono clausole sociali nei contratti e sviluppano una
specie di diritto a sé nella protezione del lavoro nei paesi sottosviluppati. Questa strada è una strada che
non passa attraverso le norme inderogabili del diritto internazionale, sarebbe meglio avere davvero un
diritto internazionale funzionante.
Nel nostro paese il diritto internazionale è una fonte importante di diritto del lavoro, a volte alcune
convenzioni sono superate dalla nostra legislazione, ma non sempre è così. La loro legge di ratifica va
analizzata con attenzione perché la presunzione di superiorità del diritto interno spesso rende dubbio il
rispetto delle convenzione internazionale.
CONTRATTI COLLETTIVI
Bisogna guardare all’insieme delle regole che governano questa fonte, guardando ai soggetti da cui
promana e guardando la funzione che questa fonte svolge.
Premessa: bisogna considerare preliminarmente il rapporto che si pone fra la fonte legale formale (la legge
e le sue declinazioni) e questa fonte particolare dei contratti collettivi. Nell’ordinamento vigente i contratti
collettivi non sono fonti in senso legale formale, sono contratti e perciò atti di autonomia privata quindi
non hanno efficacia generale come le fonti legali. Si pongono in rapporto alla legge, è un rapporto che è
sempre stato costruito nel tempo come un rapporto gerarchico, supremazia della legge sul contratto
collettivo nell’accezione che la legge è rivolta all’interesse generale mentre il contratto collettivo è rivolto
all’interesse di una parte della popolazione. Questo rapporto gerarchico è anche sorretto dalla
caratteristica della legislazione del lavoro che per lo più contiene norme inderogabili da parte
dell’autonomia privata individuale e collettiva (dei soggetti collettivi –sindacati e organizzazioni dei datori di
lavoro). Questo rapporto gerarchico ha subito una evoluzione nel tempo, in primo luogo il ruolo della legge
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Diritto del lavoro 2012-13 – Cristina Fenoglio
in materia di lavoro si è ristretto, le leggi contengono regole inderogabili ma per molte parti rinviano la
disciplina ai contratti collettivi portandoli dentro una disciplina legale chiamandoli a svolgere un ruolo di
fonte. È un fenomeno di delegificazione, di decentramento della legislazione dalla fonte generale alla fonte
più vicina alla realtà da disciplinare, che rende più flessibili le discipline del lavoro e per ottenere discipline
differenziate in modo significativo fra loro. È comunque il legislatore che decide se e come rinviare alla
contrattazione collettiva ferma restando l’inderogabilità delle norme di carattere generale.
Questa evoluzione del rapporto è una evoluzione che ha interessato tutto il diritto del lavoro negli ultimi
decenni, con andamenti irregolari; una modificazione profonda e particolare potrebbe derivare dalla
applicazione di una disposizione molto recente, si tratta di un “colpo di coda” del ministro del lavoro del
governo Berlusconi caduto nel Novembre del 2011 quando Napolitano ha chiesto a Berlusconi di dimettersi
per dare l’incarico a Mario Monti. L’estate del 2011 è stata tormentata, con lo spread, il rischio Grecia, le
borse a picco e l’impressione generale di quel governo di non essere in grado di fronteggiare questa
situazione. Il governo è stato commissariato dall’UE che aveva imposto il pareggio di bilancio nel 2013 e
l’adozione di una serie di misure scritte nella lettera della BCE, da un questionario di 49 domande mandate
dal Commissario Europeo al nostro governo nelle quali si chiedevano risultati precisi.
Quell’estate sono state emanate due manovre e nella seconda, quella di Agosto, il ministro del lavoro
Sacconi ha infilato una disposizione, l’art.8 del decreto legge 138 2011 convertito nella legge 148 del 2011.
Questo art.8, di cui alcuni partiti hanno chiesto l’abrogazione, prevede che i contratti collettivi cosiddetti di
prossimità (modo di dire che si usa per indicare una cosa prossima, il più vicino possibile) aziendale o
territoriale ha il potere di derogare anche in modo peggiorativo sia al contratto collettivo di superiore
livello, nazionale, sia alla legge in materia di lavoro. Si attribuisce il sovvertimento delle regole fin qui
dettate, i contratti collettivi sulle materie e condizioni previste (che sono talmente dilatate da rendere
impossibile la definizione dei limiti) possono derogare alla legge. Si travolgono i diritti dei lavorati sanciti
dalla legge attraverso un contratto aziendale. Si è scoperto di recente che questa contrattazione in deroga
alla legge si sta diffondendo e nessuno la denuncia. Questi contratti si fanno quando c’è minaccia
dell’occupazione, rischio di chiusura e delocalizzazione dell’attività produttiva.
Il contratto collettivo come fonte
Il contratto collettivo è un contratto, a qualificarlo è l’aggettivo “collettivo” che ha due ragioni:

Collettivo perché sono collettivi i soggetti stipulanti, le organizzazioni sindacali dei lavori e
organizzazione dei datori di lavoro sono le parti dei contratti collettivi. Quando parliamo di contratti
collettivi nazionali aziendali le parti sono i lavoratori dell’azienda e il datore di lavoro che agisce
come parte collettiva.

Collettivo perché c’è un numero indeterminato di destinatari. Se il numero i destinatari fosse
determinato sarebbe un contratto a favore di terzi.
Si tratta di un contratto, quindi di un atto di autoregolamentazione di interessi stipulato da parte di soggetti
contrapposti (datore di lavoro e lavoratori) attraverso chi li rappresenta nella contrattazione. Ha funzione
normativa perché diretto a regolare i rapporti di lavoro fra datori di lavoro e lavoratori rappresentati dai
soggetti stipulanti (numero indeterminato).
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Diritto del lavoro 2012-13 – Cristina Fenoglio
Esempio: organizzazione sindacale nazionale dei lavoratori metalmeccanici e federazione Confindustria
degli imprenditori metalmeccanici; fra questi due soggetti collettivi si stipula il contratto collettivo
nazionale dei metalmeccanici, questo contratto collettivo contiene una serie di clausole la maggior parte
delle quali contiene il trattamento economico e normativo dei lavoratori dipendenti da imprenditori
metalmeccanici. Dunque i destinatari del contratto collettivo sono i datori di lavoro e i lavoratori, tra il
singolo datore di lavoro e il singolo lavoratore vi è un contratto di lavoro. I suoi diritti e i suoi obblighi, il suo
trattamento economico e normativo è disciplinato per alcune cose dalla legge, ma per la maggior parte
(soprattutto il trattamento economico e normativo) è disciplinato dal contratto collettivo. Dunque i
soggetti collettivi hanno stipulato il contratto collettivo per regolare il contenuto dei contratti individuali di
lavoro fra lavoratori e datori di lavoro destinatari di quel contratto collettivo. Per questo parliamo di
funzione normativa, regolano, sono fonti di disciplina dei contratti individuali di lavoro; la legge ovviamente
può regolare la disciplina della materia del lavoro in modo generale ed astratto per questo i contratti
collettivi sono anche fonte di diritto del lavoro.
Regime giuridico del contratto collettivo.
È cambiato nel tempo, a conosciuto fasi diverse. Ha origini recenti e contemporanee perché legata allo
sviluppo industriale e all’organizzazione su base capitalistica del paese; la prima contrattazione collettiva
risale alla fine del secolo XIX, a quell’epoca non c’era praticamente una disciplina e si organizzava “facendo
lo slalom” fra ostacoli giuridici che più o meno superati senza che mai dall’ordinamento venisse un
riconoscimento dei diritti sindacali fondamentali, e quindi di uno spazio sindacale, su cui potesse
liberamente manifestarsi anche la contrattazione collettiva. Tuttavia si affermò largamente dopo l’inizio del
secolo XX, dalla formazione delle grandi organizzazioni sindacali e soprattutto della grande confederazione
generale del lavoro che fu la confederazione più grande del periodo fino alla fine della Prima Guerra
Mondiale. Accanto a questa confederazione, in un regime di libertà non riconosciuta da fonti esplicite ma
implicitamente prevista nell’ambito della libertà di associazione prevista dallo Statuto Albertino, si stava
sviluppando la contrattazione collettiva.
Il quadro giuridico cambiò radicalmente con l’avvento del fascismo, si ebbe una stentata sopravvivenza
delle organizzazioni sindacali dei lavoratori del periodo che va dal 1922 (Marcia su Roma e attribuzione da
parte del re della presidenza del consiglio a Mussolini, il regime parlamentare sopravvisse fino al 1925 e nel
1925 fu soppresso il parlamento a favore del partito unico fascista e della dittatura). Una delle prime leggi
del fascismo fu la legge sindacale n°563, emanata nel 1926, scritta da Alfredo Rocco (a cui si deve il codice
penale ancora vigente seppure largamente modificato nel tempo), è la legge di una dittatura e essendo una
legge espressione di una dittatura è caratterizzata dalla soppressione della libertà ed in particolare della
libertà sindacale, costruzione di un sistema sindacale in senso lato che nulla ha a che fare da quel sistema
sindacale che era nato dalle scelte libere e volontarie dei lavoratori e dei datori di lavoro e che aveva dato
luogo allo sviluppo delle organizzazioni della prima parte del secolo e allo sviluppo della contrattazione
collettiva libera, a sostituzione con un sistema in cui non c’è libertà ed è lo stato che regola tutto.
Per noi è importante ricordare la disciplina a causa di due motivi:

ART.1 delle preleggi in ordine gerarchico sono messe la legge, il regolamento, le norme corporative.
Dunque nella gerarchia delle fonti come era nelle disposizioni preliminari al Codice del 1942
compariva questa fonte del diritto obiettivo, fonte legale e formale: le norme corporative. Che
cos’erano e perché sono state soppresse?
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Diritto del lavoro 2012-13 – Cristina Fenoglio

Il FASCISMO è durato 20 anni, finì il 25 luglio 1943, ma ha avuto ancora una coda nella Repubblica di
Salò negli anni che vanno dal 25 luglio 1943 al 25 aprile 1945. È stato un periodo in cui abbiamo
avuto questa materia regolata da questa legge che ha lasciato delle eredità, nel senso che anche
alcuni concetti con cui noi dobbiamo continuare a fare i conti li ritroviamo in quella legge. Il sistema
sindacale fascista serve dunque a capire alcune cose. L’ordinamento creato da questa legge è stato
soppresso nel 1944, ma qualche stralcio è stato conservato.
Che cosa conteneva questa legge sindacale? La legge sindacale del 1926 era divisa in quattro parti:
associazioni sindacali, contratto collettivo, sciopero e serrata (puniti come reati, vietati così come
era vietata ogni forma di organizzazione autonoma sindacale), istituzione di un giudice speciale del
lavoro. La parte dedicata alle associazioni sindacali fu preceduta da una serie di interventi che
determinarono lo (auto)scioglimento delle organizzazioni sindacali che i lavoratori si erano creati
nei decenni precedenti; vennero costituite come rappresentanti legali unici le associazioni sindacali
che rispondono a dei requisiti di fede nazionale e politica: le associazioni fasciste, che diventano il
sindacato unico in ciascuna categoria predeterminata in ragione dell’attività merceologica con
decreto ministeriale. Il mondo del lavoro viene suddiviso in rigide categorie che corrispondono alle
attività merceologiche dei datori di lavoro. i datori di lavoro appartengono ad una categoria in
ragione della loro attività e i lavoratori appartengono a quella categoria per dipendenza dai datori
di lavoro, per ciascuna categoria c’è un solo sindacato. Queste associazioni sono rappresentanti
legali, sono soggetti di diritto pubblico, hanno personalità giuridica pubblica perché impongono i
risultati della propria attività a tutti gli appartenenti alla categoria e in secondo luogo hanno potere
di imposizione fiscale nei confronti dei loro rappresentati a cui impongono i loro contributi, tasse
che serve a finanziare queste organizzazioni. Hanno lo statuto giuridico di enti pubblici e sono
considerati, per la dottrina del tempo, organi ausiliari dello stato (fanno parte dell’apparato dello
stato). Queste organizzazioni sono i titolari del potere esclusivo di contrattazione collettiva, i
contratti di lavoro collettivo possono essere stipulati solo da questi soggetti. Eventuali contratti
collettivi stipulati da altri soggetti sono nulli secondo questa legge. I contratti collettivi sono
stipulati a livello nazionale di categoria, e sono gli unici previsti. Tutti i contratti aziendali non
possono essere stipulati, perché gli unici soggetti titolari del potere contrattuali sono le
organizzazioni nazionali di rappresentanza dei lavoratori e dei datori di lavoro delle singole
categorie.
I contratti collettivi nazionali di categoria sono efficaci erga omnes: alla cui applicazione non
possono sottrarsi nessun datore di lavoro della categoria e nessun lavoratore della categoria, non
esiste alcuno spazio di contrattazione autonoma. L’efficacia erga omnes, accompagnata
dall’inderogabilità, ha avuto importanza fondamentale durante questo periodo perché la
contrattazione collettiva è stata utilizzata come leva di politica economica, la politica dei redditi,
durante il lungo periodo nel quale gli effetti delle crisi americana del 1929 sono arrivati nel nostro
paese sono stati fronteggiati con due strumenti: l’autarchia e la riduzione dei salari attraverso i
contratti collettivi. Dunque questi ultimi assunsero una importanza fondamentale proprio perché
dotati di efficacia generale e inderogabilità. L’inderogabilità del contratto collettivo è quella regola
che assegna al contratto collettivo una funzione normativa, di regolare il contenuto dei contratti di
lavoro individuali e di regolarlo in modo inderogabile; le parti del contratto individuale (il singolo
datore di lavoro e il singolo lavoratore) essendo destinatari di un contratto collettivo efficace erga
omnes, ed essendo obbligati ad applicarlo, non possono neppure derogarlo: non possono pattuire
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Diritto del lavoro 2012-13 – Cristina Fenoglio
fra di loro delle condizioni diverse da quelle previste dal contratto collettivo. L’inderogabilità la
troviamo enunciata nell’art.2087 del CC *la parte relativa al contratto collettivo della legge del ’26 è
stata poi trascritta nel ’42 nel CC che ha riformulato in alcuni punti tenendo conto di successive
modifiche o degli orientamenti della giurisprudenza] che dice: i contratti individuali di lavoro
appartenenti alle categorie alle quali si riferisce il contratto collettivo devono uniformarsi alle
disposizioni di questo. Dunque non c’è spazio per pattuizioni individuali difformi, questo vuole
anche dire che quando un contratto collettivo viene sostituito da un nuovo contratto collettivo, il
nuovo regola il contenuto dei contratti individuali (affermazione importante per la riduzione dei
salari). Fa eccezione a questa regola dello spazio limitato dell’autonomia individuale solo la
cosiddetta “speciale condizione individuale”, era consentito al datore di lavoro di stipulare una
condizione di miglior favore al lavoratore individuale.
Il contratto collettivo era chiamato norma corporativa perché tutto l’ordinamento sindacale
fascista veniva definito ordinamento corporativo, non bisogna confondere le organizzazioni
sindacali con le corporazioni. Le corporazioni, secondo le idee del periodo, erano organismi nei
quali le associazioni fasciste si riunificavano; alle corporazioni si affidava il compito di emanare delle
normative di carattere generale. In realtà non hanno avuto nessuna importanza e non sono
praticamente esistite, solo negli ultimi anni del regime, quando si diede luogo alla Camera dei Fasci
e delle Corporazioni, si diede loro visibilità attraverso questa organizzazione che sostituiva il
parlamento.
Il fascismo cade con il voto contro Mussolini del Gran Consiglio del fascismo, apologia del Conte Ciano ed
altri il 25 luglio 1943, viene firmato l’armistizio l’8 settembre con Badoglio con gli anglo-americani .
La liberazione del paese da parte dei nuovi alleati avviene da sud verso nord, quando una parte dell’Italia è
già liberata, su richiesta degli Alleati, viene emanato un decreto luogotenenziale nel novembre del 1944 che
si applica soltanto nella parte di Italia liberata; prevede la soppressione dell’ordinamento corporativo, dal
luglio ’43 al novembre ’44 l’ordinamento corporativo era sopravvissuto ma era stata sostituita tutta la
dirigenza con una dirigenza non fascista, ma l’art.43 di questo decreto luogotenenziale mantiene in vita i
contratti collettivi corporativi perché contengono la disciplina del lavoro, se fossero stati soppressi anche
questi i lavoratori sarebbero rimasti privi della disciplina del lavoro che allora era pressoché contenuta nella
contrattazione collettiva. La sostituzione è stata oggetto di un processo intervenuto successivamente.
sempre nel giugno 1944 a Roma alla vigilia della Liberazione venne stipulato il Patto di Roma attraverso il
quale venne ricostituito il grande sindacato dei lavoratori come organizzazione libera e volontaria, nacque
la CGIL (Confederazione Generale Italiana del Lavoro) alla quale aderirono subito milioni di lavoratori, era
una confederazione unitaria, un patto unitario fra forze diverse, fra diverse correnti sindacali espressione di
forze politiche diverse in un momento di forte unità nazionale ancora dal punto di vista della lotta di
liberazione del paese e della ricostruzione del paese. Questa unità sindacale è durata pochissimo perché nel
1948 si è scissa questa confederazione per l’uscita di due componenti che sono andati a costituire una la
CISL (componente cattolica, legata dalla democrazia cristiana), l’altra (socialista laica e repubblicana
liberale, moderatamente riformista) alla UIL.
25\09\2012
Nel 1946 insieme al referendum istituzionale, che ha dato luogo alla nascita della Repubblica Italiana,
furono indette le elezioni dell’Assemblea Costituente. Si istituisce l’Assemblea nel 1946 e il testo della
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Diritto del lavoro 2012-13 – Cristina Fenoglio
costituzione è entrato in vigore il 1 Gennaio del 1948. La Costituzione italiana è una costituzione rigida,
custodita dal capo dello stato e dalla corte costituzionale; è una costituzione democratica perché riconosce
molto i diritti sociali.
Titolo terzo della Costituzione: i rapporti economici
ART 39 (ordinamento sindacale) e ART 40 (diritto di sciopero).
L’art. 39 si compone di quattro commi, di cui trova attuazione nel nostro ordinamento solo il comma primo
perché questo contiene una disposizione immediatamente precettiva la cui applicazione è doverosa e non
richiede l’intervento della legge. Viceversa i commi 2, 3 e 4 dell’art.39 per trovare applicazione
nell’ordinamento richiedono l’intervento della legge. Richiedono cioè che il Parlamento dia attuazione,
quando previsto, mediante l’emanazione della legge prevista dall’art. stesso. Questa legge non è mai stata
emanata, questa è la ragione per la quale queste disposizioni sono vigenti ma non vivono effettivamente
perché mancano di attuazione, le conseguenze della mancata attuazione di questi commi hanno
condizionato il modo di essere del nostro diritto sindacale; diritto sindacale che, fatta eccezione della parte
relativa al settore pubblico che a partire dal 93 ha una sua disciplina legale, è un diritto che vive fuori dalla
legge.
L’intervento di emanazione della legge di attuazione di questi tre commi non c’è stato per ragioni politiche
e contingenti in un primo tempo e per ragioni meno contingenti in un secondo tempo.
Art.39, primo comma: l’organizzazione sindacale è libera (afferma il principio della libertà sindacale con
tutti i suoi contenuti. Nella nostra costituzione il diritto di aggregazione compare nell’art.18 (libertà di
associazione) e nell’art.39 (libertà sindacale e contrattazione collettiva). Nell’art.18 la libertà di associazione
conosce un limite che è quello che dice che le associazioni non devono essere in contrasto con la legge
penale, quindi fini penalmente illeciti non possono essere perseguiti mediante associazioni, allo stesso modo
sono vietate le associazioni segrete e quelle con organizzazioni interne di tipo militare. L’art.39 si differenzia
perché la finalità sindacale è una finalità direttamente riconosciuta non solo come legittima dalla
costituzione, ma come meritevole di tutela costituzionale; questo da una profonda differenza rispetto
all’associazione in generale, perché la finalità sindacale dell’art.39 è una finalità riconosciuta e tutelata
dalla costituzione, per questo una legge che doveva regolare il regolamento giuridico non avrebbe potuto
prevedere controlli amministrativi sulla finalità sindacale).
Secondo comma: ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici
locali o centrali secondo le norme di legge.
Terzo comma: è condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento
interno a base democratica.
Quarto comma: i sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in
proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli
appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.
Il primo comma afferma il principio generale e fondamentale del nostro ordinamento, la libertà sindacale.
Dal secondo comma in poi detta delle regole che debbono disciplinare il modo di essere dell’ordinamento
sindacale, basato sì sulla libertà ma alla quale non è estraneo l’intervento dello stato regolatore che
disciplina. Disciplina con grande cautela: prevedere che i sindacati possano liberamente scegliere se
chiedere riconoscimento giuridico o non chiederlo, la registrazione è appunto la richiesta del
riconoscimento che significa attribuzione della personalità giuridica. Poiché il principio di base è
l’attribuzione della libertà sindacale, e se vi è libertà sindacale i sindacati sono eguali fra loro, allora il diritto
che li regola è il diritto privato; libertà sindacale vuole dire pluralità sindacale, poiché il sindacato è una
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Diritto del lavoro 2012-13 – Cristina Fenoglio
organizzazione alla quale si aderisce liberamente in ragione delle proprie idee politiche o anche
semplicemente per convenienza, vuole dire che i sindacati sono necessariamente plurali perché ogni
lavoratore ha la sua testa e ogni lavoratore deve poter scegliere liberamente da chi farsi rappresentare.
Per il riconoscimento giuridico era prevista una legge apposita per dettare le regole del riconoscimento
stesso, questo perché le regole che vigono per le associazioni in generale non sono regole tagliate per
l’organizzazione sindacale. La Pubblica Amministrazione che concede il riconoscimento effettua un
controllo che è allo stesso tempo un controllo sulle finalità (Art.18) che non devono essere vietate dalla
legge penale e controlla altresì la consistenza patrimoniale perché secondo il diritto delle associazioni
l’associazione riconosciuta ha una autonomia patrimoniale perfetta (dei debiti dell’associazione risponde il
patrimonio dell’associazione con il fondo comune, senza che ci sia responsabilità personale dei dirigenti
dell’associazione, questo vuol dire che per dare la personalità giuridica a garanzia dei terzi creditori occorre
una consistenza di questo fondo che giustifichi il riconoscimento al tipo di attività che l’associazione si
propone di svolgere). Questo tipo di controllo non si può esercitare sul sindacato, secondo la costituzione,
infatti il terzo comma dell’art.39 ci dice che è condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati
sanciscano un ordinamento interno a base democratica. Dunque si prevede una riserva assoluta di legge,
che dovrà intervenire per regolare il riconoscimento giuridico dei sindacati non potrà prevedere i controlli
amministrativi su patrimonio e regolarità, dovrà solo accertare che lo statuto garantisca una democrazia
interna nel sindacato. Democrazia interna vuole dire che devono essere previste regole in materia di
accesso e in materia di esclusione o di libero recesso dell’associato iscritto al sindacato, debbono anche
essere previste regole in materia della nomina dei dirigenti dell’organizzazione sindacale che deve avvenire
attraverso procedure elettorali, che garantiscano i diritti delle minoranze. Il rapporto fra minoranze e
maggioranze deve basarsi sullo statuto e lo statuto deve essere fatto in modo da permettere l’espressione
delle minoranze. Per fare questo c’è bisogno di trasparenza. È una reazione rispetto al passato, nei
sindacati fascisti le nomine dei dirigenti erano nomine di partito, non era prevista nemmeno una
minoranza, in quanto non poteva esistere.
A cosa serve questa registrazione? I sindacati chiederanno la registrazione se vogliono entrare
nel cerchio della previsione dell’art.39 del 4 comma. Il quarto comma dice: i sindacati registrati hanno
personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare
contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il
contratto si riferisce.
la registrazione serve a partecipare ala stipulazione dei contratti collettivi nazionali di categoria ai quali la
costituzione attribuisce efficacia generale erga omnes. Poiché però questi sindacati sono soggetti privati,
questi non possono imporre alcun potere, ma il contratto collettivo stipulato dovrà essere applicato da tutti
i datori di lavoro della categoria iscritti e non iscritti, ai propri dipendenti, vi saranno datori di lavoro che
non hanno aderito ai sindacati e che ciò nonostante si vedranno imposto il contratto collettivo stipulato tra
sindacati che non lo rappresentano. Il nodo teorico è difficile da sciogliere e per scioglierlo il costituente ha
inventato un meccanismo frutto di una lunga e complicata negoziazione in sede di assemblea costituente.
La soluzione è una soluzione di compromesso, non sono i sindacati registrati che stipulano direttamente i
contratti collettivi, questo perché attribuire ai sindacati potere di stipulare direttamente il contratto
collettivo efficace erga omnes avrebbe voluto dire assegnare loro potere di supremazia. Non potendo far
questo, i sindacati registrati, vanno a comporre un organismo negoziale ad hoc, questo si chiama
rappresentanza unitaria ed è composta secondo criterio proporzionale. Ogni sindacato nominerà un
numero di componenti proporzionale al numero dei suoi iscritti, vi sarà quindi una maggioranza
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Diritto del lavoro 2012-13 – Cristina Fenoglio
espressione dei sindacati maggioritari, ma non sarà direttamente il sindacato di maggioranza che imporrà ai
sindacati minoritari il proprio contratto collettivo: questo è stipulato da un tavolo negoziale in cui si
confronteranno l’organizzazione dei datori di lavoro e la rappresentanza unitaria dei sindacati dei
lavoratori.
Una delle ragioni per cui il quarto comma dell’art.39 è rimasto lettera morta è che il sindacato che era
legato all’opposizione (sinistra) era i sindacato maggioritario che non avrebbe dominato la rappresentanza
unitaria in un sistema proporzionale perché la CIGL era notevolmente più estesa. ?
Primo comma dell’art.39: l’organizzazione sindacale è libera. La finalità sindacale è dunque riconosciuta e
tutelata dalla Costituzione, la libertà è libertà di organizzazione. Il termine organizzazione è di ampio
significato: consente all’organizzazione sindacale di avere forme diverse, la forma prevalente è la forma
associativa. In più il fatto che il secondo comma dica “statuto” fa pensare che il costituente abbia scritto
organizzazione ma pensasse associazione, perché sono queste che hanno uno statuto, ma il fatto che il
primo comma dica “organizzazione” consente che nel nostro sistema vivano organizzazioni sindacali che
non hanno forma associativa e che per esempio si costituiscono come organizzazioni spontanee,
espressione di democrazia diretta attraverso assemblee, sono più variabili ma hanno comunque diritto di
esistere perché anch’esse tutelate dalla Costituzione. Il fatto che i commi 2, 3 e 4 non siano stati attuati
significa che le organizzazioni sindacali nel nostro ordinamento sono prive del riconoscimento giuridico,
quindi vivono utilizzando come unica parte giuridica della loro esistenza il riconoscimento costituzionale e
quelle poche norme del CC che regolano le associazioni non riconosciute (art. 36, 37 e 38 CC).
[Gli articoli 36, 37 e 38 del CC prevedono una soggettività limitata delle associazioni non riconosciute e
soprattutto prevedono la responsabilità per i debiti dell’associazione degli organi dirigenti –autonomia
patrimoniale imperfetta; l’associazione non riconosciuta può stare in giudizio.]
Questa pochezza di norme ha fatto si che la giurisprudenza ritenesse di poter applicare nell’ambito delle
organizzazioni sindacali alcune disposizioni del CC in materia di associazioni riconosciute: quelle che
riguardano i diritti dei singoli associati per quello che riguarda l’accesso, il recesso e l’eventuale espulsione.
Questo perché, per quanto non sia attuato il terzo comma dell’art.39, è un principio di libertà sindacale la
garanzia dei diritti di libertà di chi si è iscritto ad un sindacato. Il controllo giudiziale in merito a casi di
espulsione, accesso, recesso è un controllo limitato, è un controllo di rispetto di legalità.
La libertà sindacale è un diritto fondamentale sia individuale sia collettivo.
Ciascun lavoratore è titolare della libertà sindacale e quindi del diritto di aderire ad un sindacato, di
attivarsi per la costituzione di un sindacato, di partecipare alla vita dell’organizzazione sindacale; ma è
anche un diritto di profilo collettivo: il diritto del sindacato di vivere liberamente e di poter svolgere
liberamente la propria attività che coincide con l’attività del sindacato. Questo è il profilo positivo, il profilo
negativo della libertà sindacale è il diritto di non iscriversi e non partecipare. È implicita nel
riconoscimento della libertà sindacale, tuttavia ha stentato ad affermarsi perché non era previsto un
contenuto negativo nell’art.39 e nelle fonti internazionali che tacciono sul punto. Perché questo silenzio?
Era dovuto ad un fatto, nel Regno Unito vi era una lunga tradizione di clausole, attraverso le quali clausole,
concordate tra imprenditori e sindacati, che si chiamano Union Security volte a garantire al sindacato
alcune condizioni, veniva limitata l’occupazione dei lavoratori e l’attribuzione dei benefici contrattuali in
un’azienda allo stipulare un contratto ai soli lavoratori iscritti ad un sindacato. Queste clausole sono la
negazione della libertà sindacale lavorativa, la loro presenza e pratica ha determinato il silenzio delle
convenzioni internazionali sul punto, poi però è intervenuta la Corte di Strasburgo (Corte che tutela i diritti
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Diritto del lavoro 2012-13 – Cristina Fenoglio
fondamentali dell’Uomo, le libertà civili e politiche garantiti dalla convenzione europea dei diritti
dell’uomo). La corte di Strasburgo ha sentenziato che queste clausole sono illecite alla luce della Carta della
Convenzione europea dei diritti umani. Il riconoscimento nel nostro ordinamento della libertà sindacale
negativa è contenuto nello Statuto dei Lavoratori, è che è una legge del 1970 n°300, che contiene una serie
di disposizioni in materia di lavoro. L’art.15 dello SDL è intitolato “Atti discriminatori” dice: è nullo qualsiasi
patto o atto diretto a subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca
a un’associazione sindacale ovvero cessi di farne parte; licenziare un lavoratore, discriminarlo nella
assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti
pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno
sciopero. Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano altresì ai patti o atti diretti a fine di
discriminazione politica o religiosa.
L’art.15 SDL prevede espressamente la libertà sindacale negativa e tutela qualsiasi pregiudizio che il
lavoratore subisca nell’occupazione o nello svolgimento del rapporto di lavoro per il fatto di avere aderito
ad un sindacato o di non aver aderito ad un sindacato. In questo modo è considerato discriminazione il
trattamento pregiudizievole subito in ragione della affiliazione sindacale.
Un completamento rispetto al discorso sulle finalità sindacali, la finalità sindacale è ancora prevista nello
SDL nell’art.17, che dice qualcosa in più. “Sindacati di comodo”: è fatto divieto ai datori di lavoro ed alle
associazioni di datori di lavoro di costituire o sostenere, con mezzi finanziari o altrimenti, associazioni
sindacali di lavoratori. Questi sindacati di comodo nel linguaggio corrente si chiamano sindacati “gialli”, da
Yellow Dogs per esprimere disprezzo verso associazioni che non sono genuina espressione dei lavoratori ma
sono inquinati dal sostegno (diretto o indiretto) finanziario o altrimenti della controparte. Questo vuole dire
anche, implicitamente, che nel nostro ordinamento sono vietati i sindacati “misti”, ovvero formati sia da
lavoratori che da datori di lavoro. Possono esistere organizzazioni che prevedono sia lavoratori che datori di
lavoro ma non possono chiamarsi sindacati e non lo sono.
Come si finanzia un sindacato? Chi si iscrive ad un sindacato paga una quota proporzionale alla propria
capacità economica; i sindacati non hanno a differenza i partiti politici che non dovrebbero avere
finanziamenti pubblici ma hanno i rimborsi elettorali, questi rimborsi sono elevatissimi e sono utilizzabili al
di là delle spese sostenute, pagando anche a volte non solo le spese del partito. I sindacati dei lavoratori non
hanno finanziamento pubblico, ma il finanziamento viene dai loro iscritti. Il contributo viene pagato dal
lavoratore attraverso la tessera del sindacato, questa è un contratto, contraggo un’obbligazione con il
sindacato, l’obbligazione di pagare la mia quota associativa annuale che si chiama contributo sindacale.
Poiché se il sindacato dovesse ricorrere lavoratore per lavoratore per farsi pagare la quota associativa il
finanziamento rischierebbe di raccogliere ben poco, il sistema oggi è regolato solo dal contratto collettivo:
consiste nella firma al datore di lavoro di una delega a trattenere sullo stipendio l’equivalente della quota
associativa, la quale deve essere girata dal datore del lavoro al sindacato beneficiario. Finanziamenti che
non avvengono così possono dar luogo all’applicazione dell’art.17 SDL.
26\09\2012
Come sono organizzati i sindacati
Prendiamo come modello la struttura delle confederazioni sindacali, i 3 maggiori sindacati in Italia, CIGL
CISL UIL e confederazione minore la UGIL (proviene dalla Cisnar, di ispirazione corporativa fascista, quando
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Diritto del lavoro 2012-13 – Cristina Fenoglio
la forza politica finì, anche il sindacato legato al partito finì non potendo sedersi al tavolo delle
contrattazioni dei sindacati). Le tre grandi confederazioni hanno più o meno la stessa struttura interna che
Nazionale: federazione
guardiamo tracciando
due righe:
nazionale di categoria
Regionale
Provinciale
Regionale
Nazionale:
la confederazione
Organizzazione orizzontale del sindacato:
organizzazione intercategoriale
Territoriale
(provinciale)
Organizzazione verticale: organizzazione della
categoria
Nel diritto sindacale vigente, la categoria non può essere predeterminata perché ogni organizzazione
sindacale nasce e si sviluppa per tutelare un interesse collettivo che essa stessa definisce. Il modo
tradizionale di definizione, che oggi è un’auto definizione, della categoria, cioè dell’area di interessi
rappresentati coincide con la tradizione di individuarla nella attività in senso merceologico dell’impresa che
individuano anche l’area di interesse del sindacato. Il sindacato rappresenta cioè gli interessi dei lavoratori
che sono occupati in un settore merceologico, perché individuano interessi comuni che nascono e si
sviluppano in relazione al modo e tipo di produzione e al tipo di organizzazione di quelle imprese.
Questo è il modello più diffuso e il modello classico, ciò non toglie che sia il modello esclusivo perché
coesiste con questo modo di organizzarsi del sindacato di categoria un altro modo di definire la categoria:
gli interessi rappresentati. È un modo che ha origini lontanissime e che resiste, sia pure con profili un po’
diversi, nella situazione attuale, che troviamo largamente presente sia nel settore pubblico, sia nel settore
dei servizi pubblici. Troviamo spesso i sindacati di “mestiere” che definiscono la categoria (area di
rappresentanza) non sulla attività produttiva ma sulla professione dei lavoratori che rappresentano.
I sindacati confederali hanno spesso un’area di rappresentanza larga, basata sul principio della solidarietà
tra lavoratori che fanno mestieri diversi e di composizione dei loro interessi che possono anche essere in
conflitto; i sindacati autonomi o “corporativi” (nel senso del particolarismo nella rappresentanza di
interessi) rappresentano interessi più specifici.
Il contratto collettivo nazionale è stipulato dalla federazione nazionale di categoria; il nome federazione ci
fa capire che è un’associazione complessa, una associazione di associazioni perché raggruppa insieme
questi livelli. Per ogni categoria vi è una federazione nazionale così come vi è un livello provinciale e un
livello regionale.
L’organizzazione orizzontale è quella nella quale si raggruppano i sindacati delle diverse associazioni e delle
diverse categorie, sono i momenti di organizzazione intercategoriale.
Le confederazioni sono il vertice nazionale di un’organizzazione complessa, nella quale confluiscono non
solo le federazioni nazionali delle diverse categorie ma tutti i livelli.
Il livello provinciale nella CGIL è la Camera del Lavoro, è un momento molto importante di aggregazione
insieme delle associazioni e dei lavoratori, questa è la caratteristica delle strutture orizzontali che insieme
raccolgono sia le organizzazioni sia i lavoratori iscritti a quelle organizzazioni.
Il livello territoriale di CISL e UIL si chiama unione. Le camere del lavoro e le unioni fanno anche molte
attività di assistenza dei lavoratori, ad esempio sul piano fiscale, attività complementari rispetto all’attività
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Diritto del lavoro 2012-13 – Cristina Fenoglio
sindacale vera e propria.
Quando parliamo di contrattazione collettiva parliamo sempre di contrattazione verticale, salvo che non si
parli di accordi interfederali perché allora sono le confederazioni che stipulano con la controparte un
accordo. Questi hanno contenuti in genere molto generali.
Le organizzazioni dei datori di lavoro non si chiamano sindacati, hanno storia ed in parte funzione diversa
rispetto ai sindacati; sono più strutture di assistenza del sostegno delle diverse imprese. La più grande è
Confindustria, ma accanto ad essa esiste la Confederazione dell’Industria Medio Piccola, Confcommercio,
Confesercizi, Confesercenti (che ha connotazione più progressista), le organizzazioni del settore
cooperativo (Lega e Confcoperative).
Confindustria è l’organizzazione maggiore, anche per il peso politico che ha. Ha preso l’espressione dei
poteri forti, ha una più limitata organizzazione di categoria. Hanno un livello territoriale (Unione degli
Industriali) e un livello nazionale.
I sindacati sono anche organizzati a livello europeo: esiste, per la parte dei sindacati dei lavoratori, la
confederazione dei sindacati europei e le organizzazioni dei datori di lavoro organizzati a livello europeo; la
loro presenza è importante perché, nelle aziende di dimensione europea, ci devono essere comitati
aziendali europei e la loro disciplina è affidata alla contrattazione di livello europeo. Ma anche alcuni
accordi quadro, che poi vengono recepiti nelle direttive dell’UE, nascono dalla contrattazione di questi
soggetti sindacali europei.
Organizzazione interna
Il rapporto che lega chi si iscrive ad un sindacato con il sindacato stesso.
Serve per avere chiaro come l’attività compiuta dal sindacato serva per avere effetti nella sfera giuridica
dell’iscritto. L’iscrizione ad un sindacato è la stipulazione di un contratto, è un contratto per adesione
perché si sottoscrive un modulo predisposto.
Qual è il contenuto, come possiamo definire questo contratto? Tradizionalmente il contratto che si stipula
viene definito come contratto di mandato perché il suo contenuto consiste nell’attribuire al sindacato un
potere, e si aggiunge “è un mandato con rappresentanza –rappresentanza sindacale” (è un vincolo di
rappresentanza volontaria, collegato a questo contratto); questo per dire che al il sindacato mandatario
attribuisco iscrivendomi anche il potere di rappresentarmi, essenzialmente nell’attività contrattuale e nella
contrattazione. Le conseguenze dell’attribuzione di un potere di rappresentanza sono la produzione degli
effetti degli atti compiuti direttamente in testa al rappresentato. Il rappresentante stipula il contratto che
produce effetti sul rappresentato. Si dice è il mandato a svolgere attività i cui effetti ricadono direttamente
nella sfera giuridica del lavoratore iscritto; è importante tenerlo a mente per capire perché il contratto
collettivo stipulato dal sindacato produce effetti obbligando e conferendo diritti al e sul lavoratore iscritto
(e non). Questo modo di concepire il rapporto fra iscritto e sindacato è un modo un po’ deformato
dall’ottica del diritto privato, siamo nell’ambito delle scelte volontarie (della manifestazione di volontà che
agiscono nell’ambito dei rapporti economici, in senso lato) e l’unico diritto di cui disponiamo per avere
categorie giuridiche di riferimento è il diritto delle obbligazioni e dei contratti. Dunque questa
considerazione vede come motore dell’attività sindacale la scelta individuale del singolo che si iscrive, che
da mandato e il sindacato che agisce come rappresentante. Non descrive tuttavia quale sia davvero il
rapporto fra le parti perché proietta la luce sulla scelta individuale oscurando il momento fondamentale
della contrattazione collettiva che è il momento collettivo; l’interesse per seguire il quale il sindacato si
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Diritto del lavoro 2012-13 – Cristina Fenoglio
costituisce e il sindacato agisce è un interesse collettivo, questo non è una somma di interessi individuali è
una sintesi, la mediazione fra interessi individuali; il sindacato dunque è sì, se noi guardiamo al meccanismo
giuridico per capire perché si producono effetti nella sfera giuridica del singolo, il mandatario del singolo,
ma è portatore di un interesse collettivo proprio che esprime solo l’ente collettivo. Questa costruzione della
rappresentanza sindacale è da correggere alla luce della considerazione della particolarità di questo
soggetto: è un soggetto collettivo, portatore di un proprio interesse (interesse collettivo) nel quale il singolo
si riconosce ma riconosce che questo interesse collettivo non è il suo personale interesse sommato
all’interesse degli altri iscritti, ma è un interesse di sintesi fra altri diversi interessi che convergono e che
sono ridefiniti dal sindacato in quanto ente esponenziale di un interesse collettivo. Non è un interesse
diffuso.
Rappresentatività sindacale
È un concetto diverso rispetto al concetto di rappresentanza sindacale, la rappresentanza è una nozione
modellata sul diritto privato per la quale la volontà contrattuale è espressa da un soggetto diverso (il
sindacato) rispetto al soggetto su cui sono imputati gli effetti di questa attività contrattuale.
La rappresentatività sindacale è un concetto largamente usato anche dalla legge, è in realtà un concetto
che viene dalla sociologia e dalla scienza politica. Il termine vuole dire capacità di rappresentare interessi,
basata non sul mandato del singolo, ma sulla capacità del soggetto collettivo di riscuotere consenso per
quello che fa in una cerchia di soggetti che manifestano il consenso verso il soggetto collettivo che agisce.
Un soggetto è più rappresentativo di un altro se è capace di aggregare attorno a sé maggiore consenso
rispetto all’altro.
Viene dalla scienza politica perché, pensiamo a un partito politico che è una associazione non riconosciuta che ha un
certo numero di iscritti, poniamo che sia un grande partito e che abbia 1 milione di iscritti; rappresenta questo milione
di persone perché sono le persone che iscrivendosi hanno dato mandato al partito politico di rappresentarli
politicamente, quando un partito agisce, non agisce in nome e per conto dei suoi iscritti perché l’elemento a cui fa
riferimento è il consenso di cui gode che si ricava dai voti che il partito ottiene nel momento in cui si presenta in una
competizione elettorale. Questo consenso è calcolato in percentuali sui voti ricevuti e sui sondaggi di opinioni, e ci
dice che un partito politico magari ha 1 milione di iscritti ma raccoglie 9 milioni di voti, ha una rappresentanza di 1
milione, ma una rappresentatività di 9 milioni. Lo stesso tipo di ragionamento è applicabile per i sindacati.
Parliamo di sindacati più o meno rappresentati vivi guardando insieme di due elementi: la consistenza
numerica (numero di iscritti al sindacato che ci da il peso della loro rappresentanza) e il consenso che
riscuotono (rilevabile su dati elettorali che da la rappresentatività).
Il consenso è rilevabile guardando agli scioperi, alla consistenza delle persone che partecipano alla
manifestazione., un sindacato è rappresentativo se in particolari momenti sa aggregare consenso per la sua
attività. È un sindacato rappresentativo quello che partecipa attivamente alla contrattazione collettiva e
quindi gode di credito verso la controparte –se non è rappresentativo i datori di lavoro non hanno interesse
in genere a contrattare con chi non conta niente. Quindi l’accreditamento da parte della controparte è un
indice della rappresentatività del sindacato, così come la sua capacità di aggregare consenso nel conflitto
collettivo.
Questo concetto di rappresentatività sindacale è entrato a far parte dei concetti giuridici, nato come
concetto non giuridico della sociologia e della scienza politica lo è diventato quando è il legislatore che
utilizza questo concetto facendone una categoria giuridica. Nella legge che menziona il sindacato, o il rinvio
alla contrattazione collettiva, il legislatore parla di rappresentatività sindacale e la usa come criterio di
selezione (con finalità selettive).
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Diritto del lavoro 2012-13 – Cristina Fenoglio
I criteri di rappresentatività sono cambiati nel tempo, dobbiamo aggiungere che durante il più recente
sforzo fatto dalle grandi confederazioni sindacali per ritrovare una attività di azione che avevano perduto in
un periodo di scontri feroci fra di loro (che avevano indebolito di molto l’intero ordinamento sindacale) si è
trovato un accordo sulla definizione dei criteri di rappresentatività sindacale. Ma andiamo con ordine.
ORGANIZZAZIONE SINDACALE DEI LUOGHI DI LAVORO
Abbiamo come punto di riferimento la legge, lo SDL legge n°300 del 1970(?) interviene per la prima volta
aprendo nei luoghi di lavoro uno spazio sindacale che non c’era mai stato. Non che i lavoratori non
avessero degli organismi di rappresentanza a livello del luogo di lavoro prima dell’entrata in vigore dello
Statuto, c’erano ed erano regolati da rapporti interconfederali ma mai dalla legge, esistevano le
commissioni interne che erano organismi di rappresentanza dei lavoratori che eleggevano nei luoghi di
lavoro. Non avevano funzione sindacale in senso stretto, nel senso che non avevano potere contrattuale ma
avevano potere solo consultivo (erano organismi parasindacali). Le commissioni interne ebbero fine con le
lotte operaie del 1968-69 che precedono l’entrata in vigore dello SDL, in questi due anni è cambiato il
sistema delle relazioni industriali in Italia sulla base di un movimento nato nel maggio del ’68 in America
nelle Università della California e trasferitosi in Europa nel maggio francese (la rivolta degli studenti
francesi). Da movimento degli studenti diventa direttamente realtà delle fabbriche ed esplose come
movimento operaio e lotta nelle fabbriche. Questi due anni sono stati due anni in cui è cambiato tutto dal
punto di vista delle relazioni industriali, sono cambiati i sindacati perché questo movimento contestava i
grandi sindacati circa la loro burocratizzazione, la loro incapacità ad essere vicini alle rivendicazioni dei
lavoratori, la loro mancata ricezione delle trasformazioni subite dal lavoro in quel periodo. In queste lotte
operaie nacquero nuove forme di rappresentanza dei lavoratori, quelle fatte e costruite spontaneamente
dai lavoratori che costruirono le loro rappresentanze sulla base di un’idea di democrazia diretta usando
l’assemblea, nominando come rappresentanti dei delegati che rispondevano con un mandato chiuso
all’assemblea dei lavoratori che li avevano nominati. Si diffusero questi organismi che diedero luogo alla
formazione di organismi di rappresentanza sempre su base volontaria che presero il nome di Consigli
unitari dei delegati o di Consigli di fabbrica.
In questa situazione difficilmente conoscibile e variabile interviene la legge perché è ormai indispensabile
aprire uno spazio di rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro. Il legislatore, nell’intervenire, detta delle
regole che tengono conto della situazione ancora difficilmente conoscibile, quindi detta regole che hanno
forte significato ma che tengono conto della necessità di non andare contro quello che i lavoratori stanno
sperimentando con la propria capacità e creatività nei luoghi di lavoro (art.19 SDL di contenuto complesso e
ambiguo).
La legge in cui è inserito l’art.19 SDL è una legge fondamentale in materia, non è una legge costituzionale in
senso tecnico, ma è di attuazione dei principi fondamentali della costituzione, ha una storia particolare: fu
voluta dal ministro del lavoro Bromonini (?) socialista che proveniva dalle file del sindacato della CGIL e che
aveva una forte spinta nell’intento di creare una legge sul lavoro dalla parte dei lavoratori (apertura della
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Diritto del lavoro 2012-13 – Cristina Fenoglio
Costituzione ai luoghi di lavoro). Il primo testo dello SDL fu redatto e visto da Giugni e poi elaborato da una
commissione di giuristi. È una legge interessante perché da un lato parla di diritti dei lavoratori ma i diritti
sanciti sono sorretti dalla presenza del sindacato nel luogo di lavoro; fornisce lo strumento per esercitare
un diritto a chi è titolare di quel diritto.
Il libro terzo dello SDL si apre con una disposizione che è quella contenuta nell’art.19.
“Rappresentanze sindacali e aziendali possono essere costituite all’iniziativa dei lavoratori in ogni unità
produttiva”. Per unità produttiva si intende, secondo l’art.35 dello SDL: ”una sede, stabilimento, filiale o
anche reparto autonomo di un’impresa che abbia un numero di addetti superiore a 15”. In ogni impresa o
in ogni parte di essa con più di 15 dipendenti, all’iniziativa dei lavoratori possono essere costituite
rappresentanze sindacali aziendali.
Queste rappresentanze sindacali aziendali sono una manifestazione autonoma dei lavoratori ma qui
interviene la funzione regolatrice della norma di legge: questa libertà non è priva di confine, è contenuta
entro certi limiti, che sono cambiati nel tempo. La formulazione originaria prevedeva certi criteri, nel 1995
un referendum abrogativo ha fatto saltare un pezzo dell’art.19.
alle spalle dell’art.19 c’è un’altra disposizione, ed è l’art.14 dello SDL che dice:”il diritto di costituire
associazioni sindacali, di aderirvi, di svolgere attività sindacale è garantito a tutti i lavoratori all’interno dei
luoghi di lavoro”. Lo spazio sindacale (individuale e collettivo) è aperto dalla legge a tutti i lavoratori in
qualunque luogo di lavoro: traduzione dell’art.39 Cost. esercizio dell’attività sindacale.
Detto questo il legislatore introduce nell’art.19 non una ripetizione dell’art.14, ma la definizione di un
soggetto sindacale particolare che si chiama rappresentanza sindacale aziendale, al quale soggetto la legge
attribuisce determinate prerogative e determinati poteri (poteri di convocare le assemblee, di indire
referendum, diritto \ potere di spazi per le riunioni … art. da 20 a 27 dello SDL). Queste regole si riferiscono
a questi soggetti sindacali, non genericamente alle associazioni sindacali, quindi al di fuori di queste regole
possono esistere soggetti sindacali, ma non hanno lo stesso trattamento, non godono degli stessi poteri.
Perché? Conferendo dei poteri che interferiscono con l’esercizio della attività aziendale (interferiscono
quindi con la libertà dell’imprenditore di iniziativa economica) il legislatore si preoccupa di individuare dei
soggetti idonei, di limitarne il numero in modo tale che il datore che deve sopportare l’esercizio della
libertà sindacale non sia illimitatamente assoggettato. È espressione di un bilanciamento fra libertà di
espressione dell’associazione sindacale tradotto come apertura dello spazio sindacale nel luogo di lavoro e
la libertà dell’iniziativa economica tutelata dall’art.41 della costituzione.
1\10\2012
L’art. 14 dello SDL garantisce a tutti i lavoratori, senza limiti di campo di applicazione, la possibilità di farsi
parte attiva per la costituzione di una propria attività sindacale; tuttavia l’art.19 prevede un soggetto
sindacale specifico che è appunto la rappresentanza sindacale aziendale. Questo specifico soggetto può
essere costituito ma nell’ambito di criteri selettivi posti dalla legge, è specifico perché ad esso e solo ad
esso il legislatore riserva talune prerogative e poteri. Il legislatore ha voluto contenere entro limiti
controllabili la presenza di una organizzazione sindacale nei luoghi di lavoro.
23
Diritto del lavoro 2012-13 – Cristina Fenoglio
Il testo dell’art.19 è cambiato, nel 1970 era stato formulato nel modo che ora vedremo, nel 1995 a seguito
di un referendum popolare si è determinata l’abrogazione di un pezzo dell’articolo. Oggi la formulazione
dell’articolo 19 è molto più piccola e “mutilata” di alcuni criteri selettivi che il legislatore aveva introdotto,
quando guardiamo oggi all’art 19 dobbiamo tener conto dell’attuale formulazione, che è stata rinviata
molto di recente dal Tribunale di Modena alla Corte Costituzionale per sapere se questa formulazione è
ancora conforme al primo comma dell’art.39 Cost.
La formulazione originaria: “Rappresentanze sindacali aziendali possono essere istituite ad iniziativa dei
lavoratori in ogni attività produttiva, nell’ambito (punto di collegamento fra l’iniziativa dei lavoratori e
l’organizzazione sindacale che opera all’esterno del luogo di lavoro)A: delle associazioni aderenti alle
confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale (il primo ambito di riferimento, previsto
dal legislatore del 1970, era rappresentato dai sindacati confederati, cioè quei sindacati che fanno parte di
una organizzazione complessa che si chiama Confederazione; non di una qualunque confederazione, ma di
quelle maggiormente rappresentative sul piano nazionale. Qui la rappresentatività è riferita alla
confederazione, si guarda non al grado di consenso dell’associazione sindacale di livello territoriale o
nazionale di categoria, ma alla confederazione nel suo complesso, sono i grandi sindacati, che hanno una
rappresentatività di tutte le categorie e aggregano il consenso, sia dal punto di vista degli iscritti sia dal
punto di vista della partecipazione sindacale di molti lavoratori. Questo criterio è un criterio di
rappresentatività “storica” e dunque presunta, nel senso che il legislatore presume che le grandi
confederazioni, che hanno una lunga storia e che sono i soggetti più evidenti con ruolo non solo
strettamente sindacale ma ruolo anche più generalmente politico, siano i soggetti che danno affidamento
in ragione della loro forte rappresentatività. Questa maggiore rappresentatività, ancorché espressa in
termini comparativi, non vuole dire “più rappresentativo di un'altra confederazione”, vuole dire
confederazioni molto rappresentative, fortemente rappresentative in base a dato di esperienza storica;
all’epoca il legislatore si riferiva ovviamente a CGIL CISL e UIL. L’intento implicito era quello di escludere
confederazioni minori considerate non sufficientemente rappresentative (CISNAR).
È un criterio molto selettivo perché se fosse stato limitato alla lettera A, tutti i sindacati non confederati
(che non facevano parte di una organizzazione nazionale intercategoriale) sarebbero rimasti fuori dalla
possibilità di essere ambito di riferimento della rappresentanza costituita dai lavoratori).
B: l’iniziativa dei lavoratori nell’ambito di associazioni non affiliate alle predette confederazioni poiché
firmatarie dei contratti collettivi di lavoro nazionali o provinciali applicati nell’unità produttiva (criterio
suppletivo che riempiva il vuoto che l’applicazione della sola lettera -a- avrebbe potuto creare, impedendo
al lavoratore sindacalizzato di costituire la propria rappresentanza sindacale. Anche questo criterio è però
selettivo, perché vi è il requisito, da parte del potere di costituire il sindacato di rappresentanza aziendale,
che il sindacato esterno sia firmatario del contratto collettivo nazionale o provinciale: doveva essere in ogni
caso di dimensione nazionale o provinciale).
Quali sindacati rimanevano senz’altro esclusi dal meccanismo dell’art.19? I sindacati SOLO aziendali sempre
sospettabili di essere dei sindacati “gialli”. È evidente che, la presenza di criteri selettivi che tagliano fuori
dalla possibilità di costituire rappresentanza sindacale aziendale certi sindacati perché sono sindacati solo
aziendali, solleva problemi di costituzionalità, problemi di conflitto dell’art.19 con l’art.39 primo comma
Cost., perché la libertà dell’organizzazione sindacale si può leggere come parità di trattamento fra sindacati,
come non possibilità per la legge di distinguere fra i sindacati scegliendone alcuni ed escludendone altri.
Sulla base di questo ragionamento l’art. 19 è stato più volte rimandato alla Corte Costituzionale per
deciderne la sua conformità all’art.39 Cost. .
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Diritto del lavoro 2012-13 – Cristina Fenoglio
La corte in tutte le sue decisioni fondamentali ha sempre deciso per la conformità dell’art.19 all’art.39 sulla
base di una serie di argomenti che elabora considerando la razionalità e la ragionevolezza di questa
distinzione fra sindacati fatta dal legislatore mediante l’uso dei criteri di rappresentatività (anche la
stipulazione di contratti collettivi di lavoro nazionali o provinciali è un criterio selettivo basato sulla
rappresentatività perché si presume che non possa sedere al tavolo negoziale un sindacato privo di
rappresentatività). La corte ragiona nel senso che è razionale selezionare perché trattandosi di soggetti che
agiscono come contropotere rispetto al datore di lavoro nei luoghi di lavoro, questi non possono che essere
soggetti selezionati e espressione di molti lavoratori perché se si aprissero le porte ad una infinita pluralità
di soggetti il risultato sarebbe il caos per il datore di lavoro (art.41 Cost).
Alla Corte costituzionale pare anche ragionevole giudicare (quando c’è di mezzo il principio di eguaglianza)
sulla base del principio di ragionevolezza e rappresentatività e coerenza nell’ordinamento nel suo
complesso. Ritiene coerente e giustificato con l’ordinamento questo trattamento differenziato.
L’ultima delle sentenze, quella del 1990, arriva 20 anni dopo l’entrata in vigore dello SDL. In questo lungo
arco di tempo vi è stata sicuramente una modificazione all’interno del mondo sindacale, una perdita di
rappresentatività delle grandi confederazioni e una crescita delle organizzazioni di tipo autonomo. Sono
anche periodi in cui si assiste in alcuni settori ad una frammentazione sindacale, una diaspora rispetto alle
grandi organizzazioni, una creazione di organizzazioni minori di tipo autonomo per la tutela di interessi
particolari di minor peso. In questa ultima sentenza in cui la corte afferma ancora la conformità, aggiunge
che il sistema di selezione previsto dall’art.19 è un sistema che necessita di essere riformato. È dunque un
bene che il parlamento tenga conto di quanto è avvenuto e sostituisca quei criteri di rappresentatività
presunta (basata su dati storici che ormai sono invecchiati e privi di riscontri effettivi della realtà) con
sistemi che vadano invece a verificare la rappresentatività effettiva dei sindacati. I criteri selettivi devono
cambiare, perché non reggono più, sono ormai superati dalla realtà e il Parlamento deve adeguare una
norma cruciale come è l’art.19 dello SDL al mutamento della realtà. Suggerisce anche al Parlamento di
inserire delle regole “di tipo elettorale per la verifica dell’effettivo consenso” che i sindacati riescono ad
aggregare (della loro effettiva rappresentatività non più basata su presunzioni di carattere storico ma sulla
verifica tramite lo strumento migliore di espressione a livello politico e sindacale).
La Corte si limita a dire se le leggi sono conformi o non sono conformi alla Costituzione, se non lo sono le
annulla, e fa anche una serie di operazioni creative ma le rinvia con un messaggio al parlamento, il quale
non raccoglie il suggerimento della Corte; viene presentato come proposta di legge ma non succede niente,
le cose si muovono sul fronte sindacale e contemporaneamente si muovono attraverso l’iniziativa dei
sindacati che propongono referendum.
Sono due strade differenti, perché la strada del referendum porta al pronunciamento di tutti i cittadini che
vanno a votare; l’iniziativa coinvolge molte cose eterogenee fra loro, fra queste vi è la
1. richiesta di due referendum:

cancellare sia la lettera A sia la lettera B: ridurre il testo dell’art.19 solo a: “Rappresentanze
sindacali aziendali possono essere istituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni attività produttiva.”

Mantenere il “nell’ambito”, cancellare la lettera A per intero e di conservare la lettera B ma
cancellando il riferimento al carattere nazionale o provinciale del contratto collettivo applicato
nell’unità produttiva. “Rappresentanze sindacali aziendali possono essere istituite ad iniziativa dei
25
Diritto del lavoro 2012-13 – Cristina Fenoglio
lavoratori in ogni attività produttiva, nell’ambito di associazioni poiché firmatarie dei contratti
collettivi di lavoro nazionali o provinciali applicati nell’unità produttiva”.
Il primo referendum non passa, ma il secondo si: viene riscritto l’art.19 dello SDL.
Oggi il testo suona così: “Rappresentanze sindacali e aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei
lavoratori in ogni unità produttiva nell’ambito delle associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti
collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva”. Il testo di per sé è semplice, ma apre una serie di
problemi. Quando un referendum abrogativo passa e riscrive il testo di una legge il risultato deve essere
dichiarato ammissibile dalla Corte Costituzionale: può essere che il risultato dell’espressione popolare
richieda, per entrare in vigore, un intervento del Parlamento che completi e renda coerente questo
risultato con l’ordinamento nel suo complesso. La Corte si pronuncia sul referendum e dice va può entrare
immediatamente in vigore perché coerente con l’ordinamento: i sindacati aziendali ora sono ammessi a
pieno titolo (sdoganamento dei sindacati aziendali).
Qualche giudice solleva anche la questione di costituzionalità dicendo che: poiché il requisito per costituire
la rappresentanza sindacale aziendale deve essere ambito della costituzione della rappresentanza sindacale
aziendale, e l’essere firmatari del contratto collettivo applicato nell’unità produttiva è in sostanza il datore
di lavoro che può accreditare il sindacato nell’ambito del quale si costituisce la rappresentanza sindacale
aziendale. ESEMPIO: vicenda FIAT e l’idea di Marchionne delle nuove relazioni industriali in Italia.
Tutta questa vicenda è causata dall’esclusione della FIOM (sindacato maggioritario) dalla contrattazione
FIAT. La FIOM, sino dal primo accordo di Pomigliano (accordo Fabbrica Italia), poi dall’accordo di Mirafiori e
poi il contratto Auto FIAT (fatto separatamente perché la FIAT non fa più parte di Confindustria per avere la
propria separata e autonoma contrattazione), in tutta questa contrattazione non c’è mai stata, ha
partecipato sì alle trattative, ma non ha mai firmato i contratti per dissensi forti sui contenuti.
La FIOM pur essendo il sindacato maggioritario, con il maggior numero di iscritti nella categoria dei
metalmeccanici e della FIAT, non può essere ambito della costituzione della rappresentanza sindacale
aziendale perché non ha firmato il contratto collettivo. I lavoratori iscritti alla FIOM non possono istituire la
propria rappresentanza sindacale aziendale perché il sindacato non è stato d’accordo sulla firma del
contratto collettivo.
Già nel 1996 il giudice aveva rimandavo la questione alla Corte, dicendo che in questo modo è il datore di
lavoro che si sceglie i sindacati nell’ambito dei quali ammette la costituzione delle rappresentanze sindacali
aziendali, perché il sindacato che non è d’accordo è tagliato fuori. La Corte si era espressa per la conformità
spiegando che la firma del contratto collettivo è un criterio di selettività.
Cosa vuole dire sindacato firmatario del contratto collettivo? Per firmatario si intende non il sindacato che
aderisce successivamente al contratto fatto da altri, ma il sindacato che effettivamente partecipa alla
trattativa e arriva alla stipulazione del contratto; è importante perché nega la rappresentatività alla mera
firma del contratto.
Che tipo di accordo, secondo la Corte, deve essere un vero contratto collettivo? Un contratto collettivo con
i suoi contenuti tipici: trattamento economico e normativo dei lavoratori; anche limitato ad alcuni istituti
contrattuali se il contratto è aziendale, però deve essere un contratto collettivo.
La questione, in ogni caso, è ancora aperta.
2. Iniziativa autonoma delle grandi confederazioni sindacali:è svolta in piena autonomia e con
gli strumenti della contrattazione sindacale. Questa iniziativa sindacale conosce una serie di
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Diritto del lavoro 2012-13 – Cristina Fenoglio
fasi e sbocca nel 1993 nella stipulazione del Protocollo del Luglio 1993, preceduto da un
accordo tripartito in governo-parti sociali (grandi confederazioni sindacali del lavoratori e
grandi confederazioni datoriali dei datori di lavoro); era un periodo di gravissima crisi
economico\finanziaria del paese, alla quale si associava la gravissima crisi politica che si era
aperta con Tangentopoli che portò alla soppressione dei grandi partiti politici e alla
formazione di governi tecnici. Si cominciò nel ’92 con un accordo che soppresse l’indennità
di contingenza, una misura di contenimento del costo del lavoro al fine di ridurre il reddito
dei lavoratori, la massa monetaria e il tasso di inflazione che volava sulle due cifre. A
differenza delle misure assunte nell’ultimo anno prima del governo Berlusconi, poi del
governo Monti per risolvere i problemi, a quel tempo la strada scelta fu quella della
concertazione sociale: l’accordo del governo con le parti sociali, la ricerca del consenso di
chi rappresenta le forze sociali, un accordo del governo con le forze che organizzano la
società. Ridurre il costo dei salari richiedeva il consenso dei sindacati, perché senza quelli
queste misure avrebbero dato luogo all’esplosione del conflitto sociale. I sindacati hanno
giocato una partita decisiva in questo, accordandosi, dando il proprio consenso a queste
misure, imponendo ai propri rappresentati sacrifici molto duri ma nell’interesse generale
del paese che era sull’orlo del baratro. Queste misure consentirono l’apertura di quella
fase che ha portato l’Italia a poter stare nei parametri di Maastricht per l’UE (istituita
proprio nel ’92).
L’accordo del ’92 è stato seguito dal protocollo del Luglio ’93, voluto dal presidente del
consiglio Azeglio Ciampi e Gino Giugni (ministro del lavoro, studioso di diritto del lavoro e
fondatore degli studi moderni del diritto sindacale, padre dello SDL): conteneva una serie
di impegni del governo e accanto a questi una serie di misure di riforma del sistema
contrattuale in modo da consentire, attraverso la dinamica della contrattazione, il recupero
della perdita del potere di acquisto dei salari dei lavoratori. Dentro a questo accordo erano
previsti nuovi soggetti sindacali nei luoghi di lavoro, la disciplina venne completata con
l’accordo interconfederale stipulato con tutte le confederazioni che istituiva questo nuovo
soggetto, la rappresentanza sindacale unitaria. La prima grande differenza rispetto al
soggetto previsto dall’art.19 dello SDL è che, mentre necessariamente quelle previste
dall’art.19 all’interno della stessa unità produttiva erano una pluralità (più rappresentanze
sindacali), perché costituite nell’ambito di diversi sindacati, la rappresentanza sindacale
unitaria voluta dai sindacati è un soggetto unico.
Come si forma questa unità tenuto conto del pluralismo sindacale? Ricorrendo alla
elezione, al meccanismo elettorale. Nell’ambito dei luoghi di lavoro, quando si indice
l’elezione della rappresentanza sindacale unitaria, i vari sindacati presentano delle liste di
lavoratori che sono iscritti al sindacato o ne sono militanti. I lavoratori esprimono le proprie
preferenze votando le liste e i nomi, il risultato sarà la composizione di una rappresentanza
sindacale unitaria della quale faranno parte i lavoratori che hanno avuto il maggior numero
di voti. Il sistema è proporzionale puro.
27
Diritto del lavoro 2012-13 – Cristina Fenoglio
Questa composizione non riguarda l’intera rappresentanza sindacale unitaria, ma i ⅔ di
questa, ⅓ dei componenti della rappresentanza sindacale è di nomina sindacale. Sono i
sindacati esterni che nominano i propri delegati, è una rappresentanza di tipo non
elettorale, ma di tipo associativo: sono soggetti che fanno parte della rappresentanza
unitaria in ragione di un titolo diverso, non perché eletti dagli altri lavoratori ma perché
designati in modi diversi dai sindacati ai quali appartengono. È una composizione mista (nel
settore pubblico la rappresentanza è tutta elettiva), i sindacati hanno voluto riservare a se
stessi una possibilità si interferire nella vota della rappresentanza sindacale unitaria
portando le istanze del sindacato esterno.
Laddove si costituisca la rappresentanza sindacale unitaria questa assume le prerogative proprie
delle rappresentanze sindacali aziendali dell’art.19. Esiste però un problema. Quali sindacati
partecipano alla costituzione delle rappresentanze sindacali unitarie? I sindacati firmatari
dell’accordo interfederale del ’93; i sindacati che hanno successivamente aderito a questo
accordo; i sindacati firmatari del contratto collettivo nazionale di lavoro applicato nell’unità
produttiva (che normalmente coincidono con i primi due); i sindacati che pur non avendo
sottoscritto né l’accordo né il contratto collettivo nazionale, tuttavia aderiscano allo spirito
dell’accordo e raccolgano per la presentazione delle liste un consenso di almeno il 5% dei
lavoratori occupati nell’unità produttiva.
Si applica qui un meccanismo che è tipico del sistema politico per presentare le liste per le
elezioni: la sottoscrizione da una certa quantità di elettori.
02\10\2012
Contratto collettivo
Ne abbiamo già parlato parlando del diritto corporativo, cioè quel diritto fondato sulla legge sindacale
fascista del 1926 che aveva costituito questo ordinamento sindacale corporativo in cui vi era una specifica
disciplina del contratto collettivo di lavoro: era di categoria, inderogabile e con efficacia erga omnes.
L’ordinamento corporativo fu soppresso nel 1944 con decreto legislativo n°369, ma si manteneva in vita
l’art.43: i contratti collettivi corporativi al fine di garantire ai lavoratori trattamenti economici e normativi
minimi. Con l’entrata in vigore della costituzione, malgrado la mancata attuazione dei commi 2,3,4 dell’art.
39, nasce il nuovo sistema sindacale retto sul diritto privato.
I contratti collettivi stipulati dopo il 1944, e in particolare dopo l’entrata in vigore della costituzione,
vengono chiamati “contratti collettivi di diritto comune”. Vuole dire che sono contratti per la disciplina dei
quali, non potendo disporre di una legge speciale che li regoli a causa della mancata applicazione del
secondo comma dell’art.39, vengono disciplinati da un diritto che in realtà non li riguarda (il libro IV e V del
CC), il diritto delle obbligazioni e dei contratti. Il libro IV non riguarda il contratto collettivo perché nella
struttura del CC, il contratto collettivo c’è ma appare nel libro V, come contratto collettivo corporativo. Nel
libro IV si occupa degli altri contratti, e l’applicazione di questo libro per il contratto collettivo rende molto
stretto il diritto privato che si deve applicare, porta verso l’applicazione di una serie di regole
giurisprudenziali che creano un diritto specifico per il contratto collettivo, si sviluppa al di fuori della legge.
28
Diritto del lavoro 2012-13 – Cristina Fenoglio
PILASTRI DELLA TEORIA DEL CONTRATTO COLLETTIVO
Il vincolo di rappresentanza sindacale è il primo pilastro su cui si costruisce la teoria del contratto collettivo.
Concezione della rappresentanza sindacale come rappresentanza volontaria (art.39 primo comma) ci dice
che soggetti collettivi (sindacati e organizzazioni dei datori del lavoro), producono un atto negoziale, un
contratto i cui effetti si producono nella sfera di altri soggetti (i destinatari, datori di lavoro e lavoratori).
Per quanto riguarda la forma, il contratto collettivo ha forma libera (laddove la legge non preveda un
obbligo di forma, non esiste vincolo di forma).
Per l’interpretazione valgono le leggi dell’interpretazione degli altri contratti, con una prevalenza però
dell’interpretazione oggettiva → art. 1362 e seguenti del CC: il contratto si interpreta ricostruendo le
volontà delle parti, la volontà manifestata oggettivata, non i motivi e gli intenti, è quella che risulta dalla
manifestazione contrattuale; nel contratto collettivo si usano molto i criteri di interpretazione oggettiva,
cioè quelli che consentono al giudice di andare oltre l’interpretazione letterale per interpretare il testo del
contratto nel suo complesso, al fine di ricostruire la volontà delle parti al di là di quello che effettivamente
le parti hanno detto, guardando a come questa volontà risulta da un insieme ulteriore di elementi, questo
anche in relazione al fatto che il contratto collettivo si considera un testo inscindibile. L’inscindibilità del
contratto collettivo è una sua caratteristica, bisogna interpretare una clausola con l’altra. Se si deve dire se
il contratto collettivo di categoria attuale è più o meno favorevole del contratto collettivo di categoria
precedente bisogna tenere conto della regola dell’inscindibilità.
Pur essendo contratti, atti di autonomia privata, la recente riforma del diritto processuale civile ha
consentito l’impugnazione direttamente in cassazione dei contratti collettivi sulle controversie sulla validità
dei contratti collettivi, intervenendo su violazione o falsa applicazione delle regole dell’interpretazione.
STRUTTURA DEL CONTRATTO COLLETTIVO
Nel contratto collettivo si distinguono due parti: normativa e obbligatoria.
La parte preponderante che ne è poi il testo è la parte normativa, la parte obbligatoria precede la parte
normativa. Per parte obbligatoria si intende quella parte del contratto collettivo che contiene la disciplina,
cioè le clausole, delle obbligazioni reciproche fra le parti stipulanti; una serie di clausole in cui sono previsti
degli obblighi di comportamento nelle organizzazioni sindacali stipulanti. Alcune di queste clausole hanno
importanza particolare, sono le clausole di tregua sindacale, si distinguono in clausole di raffreddamento e
conciliazione di conflitti collettivi e clausole di pace sindacale.
Le clausole di raffreddamento e conciliazione prevedono che non si possa, da ciascuna delle due parti, dar
luogo ad azione diretta per assunzione di iniziative unilaterali (tipicamente uno sciopero) senza avere
preventivamente esperito una procedura di conciliazione spesso preceduta da un periodo di
raffreddamento del conflitto. È un modo per garantire che il ricorso allo sciopero sia subordinato al
tentativo di evitarlo, lo si proclama quando effettivamente non esistono altre soluzioni pacifiche.
Queste clausole della parte obbligatoria vincolano i soggetti stipulanti ma non vincolano (per quanto
riguarda lo sciopero) i lavoratori: il diritto di sciopero è un diritto fondamentale e individuale che non può
essere negato ai lavoratori.
La parte maggiore del contratto collettivo è la parte normativa, è la parte che contiene la disciplina delle
condizioni di lavoro, i trattamenti minimi economici e normativi; entra a far parte del contenuto dei
contratti individuali di lavoro.
EFFICACIA SOGGETTIVA DEL CONTRATTO COLLETTIVO NEL DIRITTO COMUNE
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Diritto del lavoro 2012-13 – Cristina Fenoglio
Efficacia soggettiva non vuole dire efficacia limitata, ma efficacia che ha il contratto rispetto ai soggetti suoi
destinatari. Il contratto collettivo corporativo aveva una efficacia soggettiva erga omnes, il contratto
collettivo di diritto comune ha efficacia soggettiva limitata perché il pilastro è la rappresentanza volontaria,
quindi produce effetto ed è vincolante nei soli confronti di coloro i quali siano stati rappresentati nella
stipulazione del contratto dalle organizzazioni stipulanti. In realtà l’applicazione dei contratti collettivi, e
dunque la definizione di rappresentanza dei contratti di diritto comune, ha superato i limiti di questa
concezione di rappresentanza volontaria e troviamo nella giurisprudenza una serie di regole dettate per
allargare l’efficacia soggettiva dei contratti collettivi di diritto comune. Sono regole che, così come sono
nate dalla giurisprudenza, così possono esserne abbandonate.
L’efficacia soggettiva del contratto di diritto comune è limitata necessariamente perché l’art. 39, 4° comma
che prevede contratti collettivi con efficacia erga omnes, non è stato attuato e per questo non è possibile
avere contratti collettivi efficaci erga omnes. Per capire meglio perché oggi non ci possano essere contratti
collettivi con efficacia erga omnes bisogna guardare al passato ed in particolare ad una legge nota con il
nome di legge Vigorelli, emanata nel 1959 n°741. È una legge importante, emanata da un governo in
condizioni di emergenza a causa di gravissimi problemi di disoccupazione e di sfruttamento dei lavoratori;
prevedeva l’estensione erga omnes dei contratti collettivi che erano stati stipulati fino alla data dell’entrata
in vigore di questa legge, cioè tutti quei contratti collettivi nazionali che rimandavano ai contratti collettivi
provinciali di categoria per l’adeguamento ai livelli salariali previsti in relazione al diverso costo della vita
della zona del paese (a quell’epoca i salari erano differenziati a seconda della zona di riferimento, a seconda
dei diversi costi della vita (le gabbie salariali, abrogate nel 1968)). La legge del 1959 è una legge delega del
parlamento al governo ad emanare decreti legislativi aventi il seguente contenuto: articolo unico in cui il
governo recepisce l’intero testo del contratto collettivo della categoria e ne estende erga omnes l’efficacia.
I contratti collettivi dopo essere stati depositati presso il ministero del lavoro erano presi dal governo che
ne estendeva erga omnes l’efficacia. Il risultato fu che tutti erano tenuti all’applicazione del contratto
collettivo obbligatoriamente, il meccanismo consentì di avere nel nostro ordinamento i contratti collettivi
erga omnes che mancavano dalla non applicazione dell’art.39. Questo perché l’evasione dai contratti
collettivi era molto frequente, i datori che non applicano i contratti collettivi possono corrispondere ai loro
lavoratori una retribuzione anche molto inferiore a quella prevista dai contratti collettivi, condizioni
normative più pesanti e così via; lavoratori esposti allo sfruttamento dei datori di lavoro che non applicando
i contratti collettivi contrattano le condizioni con i singoli lavoratori che non hanno la forza per rifiutare
condizioni sfavorevoli.
Il tempo previsto era di un anno, al termine di questo il parlamento emanò una leggina di proroga:
consentiva ai sindacati di depositare presso il ministero i nuovi contratti collettivi e al governo di estenderli
erga omnes. Questo fu importante perché c’erano alcune categorie che non avevano avuto il tempo di
depositare il contratto prima dell’entrata in vigore della legge Vigorelli. Questo tentativo di allungamento
dei termini venne censurato dalla corte costituzionale, che stabilì che la legge di proroga era contraria
all’art.39 della costituzione secondo la seguente argomentazione: se il parlamento pone in essere contratti
collettivi erga omnes, questo ha una strada sola per farlo, ovvero applicare l’art. 39 4° comma, siccome con
la legge di proroga il parlamento sta cercando di stabilizzare un sistema di estensione dell’efficacia erga
omnes dei contratti collettivi che è al di fuori di quanto previsto dall’art 39, questo tentativo va respinto.
la corte però si rende conto delle ragioni di emergenza che hanno portato all’emanazione della legge, per
ragioni transitorie di emergenza accetta di tenere in vita questa legge. Al di fuori di questa condizione
transitoria e di emergenza non è possibile, per il parlamento, estendere i contratti collettivi. È su questa
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Diritto del lavoro 2012-13 – Cristina Fenoglio
base che non è stato più possibile avere contratti collettivi con efficacia erga omnes; col passare degli anni i
contratti collettivi estesi dalla legge Vigorelli sono stati sostituiti da nuovi contratti collettivi, ma questi
avevano efficacia non erga omnes.
Il contratto collettivo ha durata triennale, scaduto questo si organizzano le riunioni per stipularne uno
nuovo (questo è occasione di scioperi della categoria per ottenere che nel rinnovo vengano introdotte
condizioni migliori) e il legislatore è consapevole che i contratti scadono perché la parte centrale del
contratto collettivo, la parte salariale, durante il periodo di vigenza del contratto collettivo, perde di valore
in relazione al tasso di inflazione. Il legislatore prevede dei meccanismi per la sostituzione dei contratti
collettivi di efficacia erga omnes con i nuovi contratti collettivi, consapevole di questo fatto. Prevede da un
lato che i contratti collettivi estesi erga omnes con la legge Vigorelli sostituiscono i contratti corporativi
conservati in vita dal 1944. I contratti della legge Vigorelli potranno essere sostituiti da contratti collettivi
aventi la medesima efficacia collettiva erga omnes, quindi o da contratti che saranno estesi con la proroga
della legge o con l’attuazione dell’art.39. Nessuna di queste due strade è stata praticata e praticabile:
comunque l’art.39 non è stato mai attuato e la corte costituzionale impone di non insistere su quel sistema.
La sostituzione fu effettuata con un contratto collettivo di diritto comune, alla condizione però che questo
fosse più favorevole ai lavoratori. Un contratto erga omnes può essere sostituito davvero solo da un
contratto erga omnes, un contratto collettivo di diritto comune lo può sostituire, ma limitatamente alla sua
possibilità di applicazione. La sostituzione prevista riguarda solo quegli imprenditori che sono obbligati
all’applicazione del contratto collettivo, e ne sono obbligati solo su base di scelta volontaria, se i contratti
sono erga omnes la volontà di applicare il contratto non è rilevante, altrimenti è rilevante.
In che modo si estende l’efficacia soggettiva dei contratti collettivi?
Un modo indiretto molto importante è l’uso da parte dei giudici dell’art.36 della costituzione che dice: “il
lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla qualità e quantità del lavoro prestato e
comunque sufficiente a garantire a se stesso e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. I giudici
usano questo perché è una norma immediatamente precettiva (trova applicazione diretta nei rapporti fra
privati). Un contratto individuale di lavoro fra un imprenditore non iscritto e un suo dipendente, che
contenga una retribuzione liberamente pattuita senza vincoli inferiore in modo significativo rispetto alla
retribuzione minima prevista dal contratto collettivo nazionale di categoria, è una retribuzione che secondo
i giudici non risponde ai principi costituzionali; quindi la clausola del contratto individuale è una clausola
nulla, poiché se la clausola è nulla è come se non fosse stata stabilita una retribuzione, il giudice è
autorizzato a determinare egli stesso la retribuzione. In questo modo i giudici usano i contratti collettivi di
diritto comune non applicabili nella specie come parametro di riferimento per la determinazione della
giusta retribuzione. È un modo per allargare l’area di applicabilità l’area del contratto: la parte salaria del
contratto collettivo finisce generalmente per applicarsi al di fuori della efficacia soggettivamente limitata
del contratto di diritto comune.
03\10\2012 APPUNTI SIMONA.
08\10\2012
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Diritto del lavoro 2012-13 – Cristina Fenoglio
Contrattazione collettiva
Quando parliamo di contratto collettivo parliamo del singolo atto giuridico, quando parliamo della
contrattazione parliamo di un fenomeno dinamico e complesso. Teniamo conto che i contratti collettivi
hanno una durata e una scadenza e quindi la dinamica dei contratti collettivi è data essenzialmente dalla
scadenza e dal rinnovo di questi. L’altro aspetto della dinamicità della contrattazione collettiva è la sua
articolazioni su più livelli. Attualmente i livelli sono due:
1. LIVELLO CENTRALE: con il contratto collettivo nazionale di categoria come cardine
2. CONTRATTO COLLETTIVO AZIENDALE
OPPURE
CONTRATTO COLLETTIVO TERRITORIALE: è una contrattazione di piccole imprese che si radunano
in un territorio, che è spesso ristretto, e che contrattano a questo livello un contratto che si
applicherà alle imprese di questo territorio che hanno aderito volontariamente a questa
contrattazione.
Questo è il sistema contenuto nelle discipline più recenti, contenute in accordi interconfederali stipulati fra
il 2009 e il 2011. Nel 2011 si è immesso sul sistema il legislatore con un intervento “a gamba tesa”
sull’autonomia collettiva.
La contrattazione collettiva in Italia è stata centralizzata per lungo tempo, solo negli anni ’60 del XX secolo
si è cominciato a parlare di articolazione contrattuale, che vuole dire l’apertura di uno spazio contrattuale a
livello aziendale. Se ne è cominciato a parlare perché l’Italia ha conosciuto una fase di forte espansione
economica alla fine degli anni ’50 e, in una fase come questa, ci sono aziende molto produttive e aziende
meno produttive; è ovvio che nelle aziende molto produttive i lavoratori e le loro organizzazioni sindacali
premano per la redistribuzione dei profitti a loro vantaggio, c’era dunque una pressione sulla
ricontrattazione salariale a livello aziendale. Si tenta, nella contrattazione collettiva nazionale di quegli anni,
di introdurre una serie di regole che disciplinino il rapporto fra il contratto nazionale e il contratto collettivo
aziendale. Gli imprenditori temevano che, dopo aver chiuso la contrattazione nazionale, il compromesso
raggiunto non avrebbe retto per tutta la durata del rapporto, l’applicazione del nuovo contratto collettivo
deve evitare il verificarsi di nuovi scontri per rinegoziare quello che è stato già definito a livello nazionale. Di
qui l’introduzione di regole che vogliono evitare che le partite chiuse a livello nazionale si riaprano in sede
aziendale. Questo tentativo non ha grande successo, anche perché la situazione economica cambia
rapidamente e la seconda metà degli anni ’60 è caratterizzata dalla presenza della crisi che finirà agli inizi
degli anni ’70. Verso la fine degli anni ’60 tutti i tentativi di dare una regolamentazione al sistema
contrattuale e alla sua tempistica e competenza saltano perché sono anni di grandi trasformazioni e sono
anni in cui la contrattazione aziendale è molto anarchica, è priva di regole, e diventa la contrattazione di
trascinamento della contrattazione nazionale.
Le vicende della contrattazione aziendale sono molto influenzate dalle vicende economiche, il perché è
ovvio.
Emerge, a livello giuridico, un problema quando il legislatore si fa carico di una disciplina oppure quando un
contenzioso finisce davanti ai giudici. Nella fine degli anni ’70 del secolo XX e nel corso degli anni ’80
emergono dei gravi problemi riassumibili sotto il titolo di “rapporti fra contratti collettivi di diverso livello”.
Un CCN di categoria prevede determinati trattamenti economici e normativi dei lavoratori se in un CCA si
inseriscono alcune clausole che modificano il trattamento economico e\o il trattamento normativo in modo
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Diritto del lavoro 2012-13 – Cristina Fenoglio
peggiorativo, può la contrattazione collettiva aziendale peggiorare il CCN applicato nell’ambito di quella
azienda? Arriva di fronte ai giudici questo contenzioso, questi si interrogano sul problema e cominciano a
chiedersi se le rappresentanze sindacali aziendali (i soggetti stipulanti a livello aziendale) con l’appoggio del
sindacato territoriale, abbiano stipulato un contratto derogatorio in peius rispetto al CCN valido o no.
La cassazione dice che c’è un rapporto gerarchico fra la contrattazione collettiva nazionale e quella
aziendale, quindi o la contrattazione collettiva nazionale autorizza queste deroghe oppure queste deroghe
non possono essere stipulate perché non si rispetta la gerarchia. Ma questa tesi non è totalmente
condivisibile perché il CCA è un contratto autonomo rispetto al CCN e i soggetti che lo stipulano sono
soggetti diversi e autonomi. La tesi della gerarchia viene abbandonata perché non ha base, prevalgono altri
modi, escluso che il contratto successivo possa derogare al contratto precedente o sostituire il contratto
precedente, perché siamo di fronte a due fonti diverse, i giudici si muovono su due tesi:

specialità del CCA: si fa applicazione di una regola generale in materia di efficacia delle leggi, la
legge speciale deroga alla legge generale e prevale su questa. Molti giudici dicono che il CCA è
speciale perché più vicino alla realtà da regolare, quindi rispetto al CCN che è il contratto generale,
assume il significato della lex specialis, dunque prevale. Questa regola viene però corretta perché,
se così si dicesse, qualunque cosa il CCA contenesse sarebbe un contratto pienamente valido
perché speciale. Va quindi corretta tenendo conto della sua specialità ma anche della competenza
dei soggetti che hanno stipulato il contratto ↓

competenza a contrattare: quando non ci sono regole che stabiliscono le varie competenze si tratta
di valutare se i soggetti hanno agito nell’ambito del mandato ricevuto dai lavoratori. Questo
mandato non è un mandato stretto, ma di carattere generale, deve rispondere alla tutela
dell’interesse collettivo dei lavoratori, è importante perché laddove di manifesti un aperto dissenso
dei lavoratori su un contratto aziendale questo non si potrà applicare loro, perché quel contratto è
uscito al di fuori del mandato (prima di stipulare un contratto l’RSA e l’RSU devono confrontarsi con
i lavoratori).
Le regole di specialità e competenza dicono che il contratto collettivo aziendale derogatorio in peius
rispetto al contratto aziendale può essere valido se rispetta questi canoni. Ma anche un contratto efficace
nei confronti di tutti i lavoratori occupati nell’azienda? È una domanda a cui rispondere è più difficile,
perché dire che nel nostro ordinamento esiste un contratto dotato di efficacia generale fa subito ricordare
il problema dell’art.39 4° comma. I giudici rispondono affermando che il CCA è un contratto collettivo come
gli altri, ha pari dignità rispetto al CCN, non esiste un rapporto gerarchico fra questi due contratti. Questi
contratti collettivi sono contratti collettivi tendenzialmente efficaci erga omnes i lavoratori occupati
nell’azienda, tutti i lavoratori occupati nell’azienda sono destinatari del CCA; questa efficacia generale va
controllata sotto il profilo del contenuto del contratto collettivo: se il contratto collettivo persegue un
interesse collettivo indivisibile questo si applica a tutti, consenzienti e dissenzienti, perché l’interesse
collettivo non è divisibile a seconda degli interessi particolari. Se si manifesta apertamente un dissenso
forte, bisogna valutare meglio, guardare meglio dentro il contratto, possiamo parlare, nel caso della deroga
in peius, di contratto collettivo aziendale che persegue un interesse collettivo indivisibile quando troviamo
all’interno del contratto un bilanciamento fra l’interesse perseguito e il sacrificio imposto. Se non c’è
questo equilibro, se tutto il contratto è squilibrato in peggio, allora bisogna tenere conto del dissenso
perché manca l’interesse collettivo per pretendere l’applicazione generalizzata del contratto.
33
Diritto del lavoro 2012-13 – Cristina Fenoglio
La strada per costruire qualcosa di più solido la intraprendono le confederazioni sindacali nell’ambito di
quella concertazione sociale che si apre all’inizio degli anni ’90 con una serie di discipline, la più importante
delle quali è quella contenuta nella disciplina dei rapporti di lavoro. è un periodo nel quale la politica ha la
necessità di salvare l’Italia dal disastro, chiama alla responsabilità le organizzazioni sindacali che prendono
sulle proprie spalle il peso di imporre sacrifici molto pesanti ai lavoratori, con una politica di contenimento
salariale e riduzione dei redditi, che viene affrontata con grande responsabilità sia dalle organizzazioni
sindacali sia dai lavoratori.
Viene stipulato il protocollo del luglio del 1993, un accordo triangolare fra il governo e le parti sociali, una
parte molto importante di questo protocollo riguarda la riforma del sistema contrattuale.
Più che di riforma possiamo parlare di prime vere regole del sistema contrattuale perché è un accordo fra le
parti sociali mediato e sostenuto dal governo che si fa parte attiva prendendo su di sé degli impegni.
L’istituzione delle RSU è una parte di questa disciplina, l’altra parte riguarda il rapporto fra contratti
collettivi di diverso livello. Questo rapporto è basato su una regola base: la centralità del contratto
collettivo nazionale di categoria. Ha una sua enorme importanza perché sono già cominciate a circolare
ipotesi di nuova organizzazione del sistema contrattuale che mette ad esempio la contrattazione aziendale
valorizzando la contrattazione nazionale. C’era l’idea che i salari dovessero essere modulati nella loro entità
in ragione del diverso modo di essere delle imprese e dell’economia nelle diverse zone del paese a seconda
dello sviluppo industriale, lasciando agli imprenditori le mani molto libere nella negoziazione, senza i vincoli
rappresentati dal contratto nazionale che sono vincoli di garanzia di standard minimi che devono applicarsi
ovunque. Il sistema risultava flessibile ma disgregato, allora la scelta fu di aggregare il sistema mantenendo
ferme sul territorio nazionale le uniformi garanzie di trattamenti economici e normativi minimi per tutti i
lavoratori. Nel nostro paese non esiste il salario minimo, ogni lavoratore, qualunque sia la forma
contrattuale con cui è stato assunto, ha diritto ha un salario minimo, si considera che ci sia una soglia al
disotto della quale la retribuzione non è conforme alla costituzione; i salari minimi sono stabiliti nei CCN di
categoria, che non hanno efficacia erga omnes. Il sistema è un po’ fallato.
La centralità del CCN, tenuto conto che non ha efficacia erga omnes, ma nei fatti ha applicazione molto
generale, garantisce non il salario minimo ma un sistema di salario minimo. Nel ’93 si ristabilisce anche
questo. Stabilito questo si stabiliscono le regole della contrattazione aziendale, da un lato viene ampliata la
competenza dell’RSU (competenza non esclusiva ma concorrente con quella dei sindacati esterni), dall’altro
si stabiliscono le regole di competenza dell’RSU la quale non può rinegoziare le regole stabilite dal CCN ed
ha uno spazio di contrattazione entro le quali può contrattare. Le deroghe peggiorative non sono previste e
la competenza è limitata per evitare che a livello aziendale si facciano pasticci sul sistema contrattuale.
Queste regole funzionano e tengono insieme il sistema fino a quando non esplodono altri problemi, la
tenuta delle regole è legata al fatto che le condizioni in cui si applicano non subiscano troppe modificazioni.
Le modificazioni intervengono sia a livello economico sia soprattutto politico ad inizio anni 2000, comincia
una forte spinta verso la riforma del sistema contrattuale. Una riforma che, da un lato, tiene conto del fatto
che le regole del ’93 non hanno tenuto perché ci fu scarsa diffusione della contrattazione aziendale, che per
diffondersi ha bisogno di una spinta che viene dalla situazione delle aziende dentro cui si contratta, gli
imprenditori resistono perché non si sentono garantiti del fatto che non si riaprano a livello aziendale le
partite chiuse a livello nazionale; dall’altro lato c’è il fatto che il tessuto industriale italiano è caratterizzato
da un eccezionale nanismo, dove spesso non ci sono sindacali e manca il controllo sindacale
sull’applicazione dei contratti collettivi. Un difetto del protocollo del ’93 è l’aver completamente ignorato il
livello territoriale che comincia a svilupparsi e che da luogo ad una contrattazione a livello territoriale.
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Diritto del lavoro 2012-13 – Cristina Fenoglio
La spinta fondamentale è quella verso la conquista di uno spazio per la contrattazione aziendale che
comprima il livello nazionale e dia la prevalenza alla prima; questa spinta viene da più parti: dalle imprese e
dal sostegno che a livello politico trovano nell’allora ministro del lavoro.
Il primo sbocco di questa vicenda, che è in parte e fortemente centrata sulla centralità della contrattazione
aziendale rispetto alla contrattazione nazionale, è un accordo quadro interconfederale stipulato nel 2009.
Questo accordo è un accordo separato perché la CGIL non firma e dissente su vari punti, perché l’accordo
del 2009 prevede e istituzionalizza le “clausole di uscita”. Sono le clausole legittime contenute nei CCA che
introducono deroghe in peius rispetto al CCN, per questo la CGIL non firma, prevedono che in relazione ad
una serie di circostanze molto ampiamente definite siano pienamente legittime queste clausole di uscita.
Tutto rimane fermo, anche se si creano delle reazioni, perché gli imprenditori sanno che applicare regole di
questo tipo, non condivise dal sindacato maggioritario, mette a rischio perché sono fonte di conflitto e non
servono a chiudere partite ma ad aprirle, soprattutto in una situazione di crisi come questa.
La presenza di un quadro inquietante è di fronte agli occhi, allora i grandi sindacati (CGIL, CISL e UIL) che si
sono profondamente divisi, perché CISL e UIL si sono appiattite sulla linea del governo firmando gli accordi
in ciò spinte anche dalle politiche del ministro del lavoro dell’epoca, si rendono conto che la spaccatura con
la CGIL non porta a nulla di buono. Bisogna ricucire lo strappo.
Un momento forte e importante di unità viene ritrovato con la stipulazione dell’accordo interconfederale
del 28 giugno 2011, questo accordo interconfederale sostituisce in parte l’accordo del 2009 perché non
interviene su tutte le materie regolate dall’accordo del 2009; secondo l’interpretazione corrente l’accordo
del 2009 resta in vigore perché implicitamente confermato dall’accordo del 2011 nelle parti che non sono
state oggetto di modifica; ad esempio, l’accordo del 2009 ha introdotto una modifica importante alla
disciplina della durata dei contratti collettivi che avevano una durata doppia: parte normativa durata
quadriennale, parte economica durata biennale. Perché questa doppia velocità? Perché nel ’92 era stata
soppresso l’automatismo dell’indennità di contingenza (aumento automatico dei salari che veniva
corrisposto semestralmente ai lavoratori sulla base di indici –scala mobile per garantire contro la perdita di
potere dei salari). L’esigenza di garantire i lavoratori contro la perdita del potere di acquisto dei salari resta,
viene accelerata per questo la contrattazione salariale: il CCN dura 4 anni ma la parte salariale si ricontratta
ogni 2 anni. Con l’accordo del 2009 questa doppia velocità viene cancellata e portata tutta a 3 anni, tutto il
contratto dura tre anni. I CCA secondo il protocollo del ’93 duravano 4 anni senza distinzioni, adesso sono
tutti di durata triennale.
Nel 2009 viene soppressa (e non più introdotta nel 2011) l’indennità di vacanza contrattuale (istituto
economico fatto per garantire i lavoratori contro la perdita del potere di acquisto del salario contro
l’eccessivo prolungamento delle trattative per il rinnovo del contratto), decorsi 3 mesi dalla scadenza del
contratto i lavoratori avevano diritto ad una maggiorazione della retribuzione prevista dal contratto
scaduto in una percentuale del 30% rispetto all’aumento del costo della vita calcolato sul tasso di inflazione
programmato (<di quello reale), 50% oltre i 6 mesi.
L’accordo del 2011 è importante per le regole innovative che introduce sotto due profili: riguardanti i CCN e
riguardanti i CCA. Non si occupa dei CCT che sono previsti già nell’accordo del 2009 come livello alternativo
rispetto al CCA.
Il CCN è il contratto al centro del sistema, gerarchicamente sovraordinato rispetto al CCA, il CCA può
disciplinare solo le materie delegate, materie con esplicito rinvio alla contrattazione aziendale, dal CCN. È il
CCN che decide di cosa si deve occupare il CCA: per ciascuna categoria ci saranno delle regole diverse
definite a livello nazionale. La regola veramente innovativa è una regola con la quale le parti cercano di
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Diritto del lavoro 2012-13 – Cristina Fenoglio
mettersi al riparo da una contrattazione collettiva nazionale di categoria separata (CCN di categoria non
sottoscritti dal sindacato maggioritario): non esistono regole per evitare questa situazione, ma viene
stabilita una regola che è mutuata dal sistema pubblico di contrattazione in cui si stabiliscono delle soglie di
rappresentatività per i sindacati per poter accedere alla contrattazione nazionale. Questo fa sì che si formi
un tavolo contrattuale sufficientemente rappresentativo, questo non garantisce che il contratto non sarà
separato ma dà come indicazione una contrattazione possibilmente non separata e garantita contro la
presenza di soggetti sindacali che non danno garanzia di rappresentatività. La soglia minima del 5% della
categoria viene calcolata facendo la media ponderata fra il dato associativo e il totale, in modo di avere un
dato rappresentativo del consenso, si calcola il peso del sindacato che siede al tavolo della contrattazione
collettiva.
Le regole più importanti sono quelle che riguardano la CCA, sulle quali è intervenuto poi il legislatore.
09\10\2012
Per quanto riguarda il problema dell’efficacia del CCA, la giurisprudenza ha risolto la questione
affermandone l’efficacia generale e l’applicabilità a tutti i dipendenti dell’azienda che lo hanno stipulato.
Questo è però collegato alla questione dell’interesse collettivo, il problema dell’efficacia generale del CCA è
un problema che si pone solo quando si presentano patti di minor favore rispetto al CCN, quindi è anche
strettamente connesso al problema del rapporto con il CCN e con la derogabilità in sede aziendale del CCN.
Su questo sono stati fatti due interventi nel 2011.
Le parti sociali hanno stabilito (secondo una preoccupazione, condivisa anche dalla CGIL, che il CCA una
volta stipulato abbia una sua tenuta, cioè chi stipula si impegni a farlo rispettare perché l’esigibilità del
contratto è necessaria), distinguendo a seconda di chi siano i soggetti stipulanti da parte dei lavoratori: RSU
o RSA, tenendo conto che, per quando il modello dell’RSU sia privilegiato dalle rappresentanze sindacali, ci
sono situazioni nelle quali c’è stata un’uscita dal sistema delle RSU e un ritorno al sistema delle RSA.
Se a stipulare è l’RSU il CCA ha efficacia generale, cioè è obbligatorio per tutti i lavoratori che sono
rappresentati dall’RSU e sono tutti i lavoratori dell’azienda perché tutti hanno diritto di voto. Il CCA che
abbia il consenso della maggioranza dell’RSU ha efficacia generale, perché l’RSU è un organo collegiale su
base collettiva che rappresenta tutti i lavoratori, al cui interno c’è una maggioranza e una minoranza.
Se a stipulare sono le RSA le cose cambiano perché le RSA non sono elettive, sono una pluralità costituita
da diverse sigle sindacali e bisogna garantire che chi stipula il CCA rappresenti la maggioranza dei lavoratori
sindacalizzati. Si guarda al fatto che a stipulare il CCA siano le RSA che, in base al pagamento dei contributi
sindacali, risultano maggioritarie nell’ambito dell’azienda. La garanzia che le RSA maggioritarie esprimano il
consenso della maggioranza dei lavoratori non c’è, per questo le parti sociali hanno previsto un
meccanismo di verifica del consenso: un referendum dei lavoratori, il referendum è valido solo se partecipa
al voto una percentuale di lavoratori. Se ha esito negativo l’accordo non si stipula perché manca il consenso
dei lavoratori.
Per quanto riguarda i rapporti fra contratti collettivi di diverso livello: nell’accordo del 2009 erano presenti
le clausole di uscita, rispetto a questo l’accordo del 2011 innova molto, pur conservandole, però queste
sono previste solo con un duplice meccanismo:
ORDINARIO: la clausola si trova nell’ambito di uno spazio delegato dal CCN ed è formulata in questo modo:
“i CCA possono attivare strumenti di articolazione contrattuale mirati ad assicurare la capacità di aderire
alle esigenze degli specifici contesti produttivi. I CCA possono pertanto definire, anche in via sperimentale e
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Diritto del lavoro 2012-13 – Cristina Fenoglio
temporanea, specifiche intese modificative delle regolamentazioni contenute nei CCN di lavoro nei limiti e
con le procedure previsti dagli stessi CCN”. La prima condizione è che il CCN regola, come procedure e con
la definizione degli oggetti, la possibilità di accordi in deroga aziendale. “Dove questo non sia presto nei
contratti collettivi e nel periodo transitorio in attesa dei nuovi contratti, i CCA conclusi con le rappresentanze
sindacali operanti in azienda, d’intesa con l’organizzazione territoriale di categoria, espressione delle
confederazioni sindacali firmatarie del presente accordo (l’RSU o l’RSA d’intesa con sindacati aderenti
esterni e le confederazioni firmatarie dell’accordo –CGIL CISL UIL) possono prevedere queste specifiche
intese modificative al fine di gestire situazioni di crisi o in presenza di investimenti significativi per favorire lo
sviluppo economico ed occupazionale dell’impresa e le intese possono avere riferimento agli istituti del CCN
che disciplina la prestazione lavorativa, gli orari, l’organizzazione del lavoro. Le intese modificative esplicano
l’efficacia generale come disciplinata nel precedente accordo” *o maggioranza dell’RSU o RSA maggioritarie
costituite con l’accordo dei sindacati esterni (CGIL CISL UIL) e con possibile referendum di verifica del
consenso dell’interesse dei lavoratori sull’accordo+.
Le clausole di uscita rimangono, ma in uno spazio più contenuto, nell’ambito del CCN e in mancanza o in
attesa di uno spazio aperto dove però si individua la finalizzazione di queste clausole e anche l’oggetto,
ambedue previsti con una certa notevole larghezza.
Il legislatore è intervenuto su questo nell’agosto 2011, alla fine del governo Berlusconi; nella manovra di
Ferragosto il ministro del lavoro Sacconi assesta un colpo che è stato già rinviato alla corte costituzionale
per problemi di conflitto Stato-regioni e per problemi di applicazione.
L’art. 8 della legge 148 del 2011 ha un duplice contenuto: efficacia generale dei CCA di prossimità (è strano
perché una cosa è che le parti si accordino per garantire l’efficacia generale, un’altra è che lo stabilisca una
legge perché per dare efficacia generale ad un contratto collettivo bisogna fare i conti con l’art.39 4°
comma).
I CCP (CCA o CCT più vicini alla realtà da regolare) non solo hanno efficacia generale, ma possono derogare
ai CCN e alla legge. Il diritto del lavoro è costituito per lo più di norme inderogabili e sono queste che
conferiscono deroghe al contratto collettivo, non viceversa.
Art. 8: “I contratti collettivi di lavoro sottoscritti a livello aziendale o territoriale da associazioni dei
lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, o territoriale, possono realizzare
specifiche intese con efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati a condizione di essere sottoscritte
sulla base di un criterio maggioritario relativo alle predette rappresentanze sindacali”.
Non esplicita il criterio maggioritario.
Le intese sono finalizzate alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’adozione di
forme di partecipazione dei lavoratori, al lavoro regolare, agli incrementi di salario …
Non c’è nulla che resti fuori da questa elencazione, c’è la possibilità di derogare su tutti questi argomenti.
Nel comma 2 dello stesso art.8 si specificano meglio queste materie elencando tutta una serie di ipotesi; tra
queste quella che ha suscitato maggiore scandalo è quella relativa a talune discipline inderogabili. Le
materie su cui è possibile la deroga alla legge, fatto salvo il diritto comunitario e internazionale e i principi
costituzionali, sono le stesse materie che vengono sotto specificate per gli accordi derogatori rispetto al
CCN; entro queste materie si prevede la derogabilità della disciplina dei licenziamenti.
Il contratto di lavoro
Ci occupiamo adesso dei contratti di lavoro individuali, tenendo conto della pluralità delle fonti trattate fin
qui. È importante fare un salto indietro nel tempo per capire il contratto di lavoro moderno.
37
Diritto del lavoro 2012-13 – Cristina Fenoglio
Il diritto del lavoro è una materia a formazione alluvionale, nel senso che è fatta di una stratificazione,
niente viene mai completamente rimosso, molto si aggiunge e va ad insediarsi su quello che si era
depositato in precedenza. Il risultato è una difficoltà crescente a riconoscere quale sia il diritto vigente. Per
questo è importante conoscerne la storia.
Le origini della materia diritto del lavoro risalgono al secolo XIX e nel secolo XX si sviluppa davvero. Conosce
nella seconda metà del secolo XX punti alti di sviluppo, ma dall’inizio del secolo XXI si hanno complicazioni e
stratificazioni spesso contraddittorie. Il diritto del contratto di lavoro si colloca nell’ultimo ventennio del XIX
secolo perché strettamente legato alla nascita e alla organizzazione del lavoro intorno alle industrie
(industrializzazione), questo fenomeno non ha disciplina, esistono solamente le negoziazioni fra le parti e
da qui si ha la nascita del DDL. Il primo nucleo è la legislazione sociale, ovvero quelle leggi che intervengono
per regolare gli aspetti più preoccupanti del lavoro (tutela della salute dei minori e delle donne, legge sul
lavoro dei fanciulli, delle donne e della maternità, assicurazioni obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro),
sono le prime leggi che si prendono carico di limitare il potere del datore di lavoro di utilizzare la forza
lavoro più fragile. In Italia la legislazione sociale era moto carente e mancava una disciplina legale del
contratto di lavoro; il codice civile del 1865 prevedeva le teorie del contratto di lavoro ed erano le norme
sulla abrogazione che distinguevano fra la locazione dell’opera e la locazione delle opere.
Lo schema della locazione delle opere, definita come lo scambio fra le prestazioni di un soggetto e la
mercede pattuita, vede il datore di lavoro appropriarsi delle prestazioni di un prestatore di lavoro
assumendosi il rischio del rendimento, il prestatore che è locatario delle sue opere si vincola a mettere le
proprie energie a disposizione del locatore contro compenso.
Si distingue da questa locazione quella della locazione dell’opera, definita come lo scambio dell’opus
promessa e il compenso, che matura solo quando l’opera è realizzata. Il rischio connesso al risultato
dell’opera è un rischio che assume il prestatore dell’opera.
iò che distingue il locatore delle opere dal locatore d’opera è che il primo presta le opere
all’altrui servizio, mentre il locatore dell’opera è autonomo.
Lo schema della locazione delle opere ci rappresenta un lavoratore come se fosse il
proprietario di un appartamento\opere\energie lavorative che mette a disposizione dietro
compenso. Questo schema è stato usato a lungo, prevalse quello della locazione sulla base
del quale il fondatore del DDL ha costruito il contratto di lavoro subordinato.
C’è un punto di passaggio molto importante nella costruzione del DDL, che proprio Varassi
(che ha scritto una monografia sul DDL) fa emergere (anche se proviene da uno studioso
tedesco): la connessione imprescindibile fra la prestazione di lavoro come messa a
disposizione del locatario di energie lavorative con la persona del lavoratore. La prestazione è
personale. Il rapporto obbligatorio che nasce fra il datore di lavoro (locatario) e un locatore di
prestazione di lavoro ha fonte nel contratto dove è implicata la persona del lavoratore perché
non sono separabili le energie lavorative dal corpo e dalla mente da cui promanano. Fortifica
anche il fatto che il lavoro non sia una merce (ritroviamo questa convinzione nel trattato di
Versailles, negli atti costitutivi dell’organizzazione internazionale del lavoro e nella
convenzione di Philadelphia): il lavoro deriva da una persona, che come tale deve essere
trattata.
Fino al CC del 1942 mancava una disciplina del contratto di lavoro, esisteva una disciplina
particolare, contenuta in una legge ancora vigente della quale spesso ci si dimentica: la legge
sull’impiego privato, contenuta nel regio decreto legge n°1425 del 1924. Fu emanata
dopo la fine della prima Guerra Mondiale per dare una risposta politica a un grande problema
sociale creato con la fine della guerra stessa: congelamento del debito pubblico e aumento del
38
Diritto del lavoro 2012-13 – Cristina Fenoglio
tasso di inflazione. Il congelamento del debito pubblico provocò una sorta di proletarizzazione
del ceto medio che aveva nell’investimento nei titoli di Stato la propria garanzia sui risparmi e
un po’ di benessere, perché li trasformò in carta straccia, privò uno strato sociale di un
investimento considerato sicuro. L’aumento del tasso di inflazione provocò un abbassamento
del valore reale dei salari. A questo si aggiunse l’enorme problema dei reduci di guerra, che
tornavano dal fronte e non c’era occupazione per loro; questa massa di disoccupati e il ceto
medio impoverito rende la situazione sociale esplosiva nel biennio ’19-’20 e apre la strada per
l’avvento del fascismo nel nostro paese.
Il problema era anche un problema politico, la necessità di ridare una identità al ceto medio,
agli impiegati, si pose come un problema politico al quale dare risposta: la legge sull’impiego
privato fu una risposta in termini di status, accompagnata da alcune garanzie per la disciplina
dei loro rapporti di lavoro e di impiego tracciando una distinzione netta fra lavoro impiegatizio e
lavoro operaio.
Questa legge sull’impiego privato contiene la prima struttura della disciplina del rapporto di
lavoro subordinato. Il lavoro operaio rimaneva privo di disciplina, questa, durante il periodo
fascista, sulla base delle dichiarazioni della carta del lavoro, era prevista che fosse affidata ai
contratti collettivi di categoria e in questa disciplina del contratto di lavoro operaio si
applicassero per quanto compatibili gli istituti base della disciplina del lavoro impiegatizio: una
certa costruzione della disciplina del contratto di lavoro in modo differenziato, sulla base di
una qualche omogeneità fra lavoro impiegatizio e lavoro operaio fu fatta con la contrattazione
collettiva corporativa, la riunificazione si ebbe solo con il CC dove si mantiene la distinzione fra
impiegati e operai ma il contratto di lavoro è lo stesso, la disciplina è unitaria.
10\10\2012
Disciplina del contratto di lavoro subordinato
Nella legge sull’impiego privato troviamo alcune nozioni importanti per il concetto di lavoro
subordinato. La legge identificava uno status sociale dettando la prima disciplina giuridica del
rapporto di lavoro ovvero del rapporto di impiego.
È importante sottolineare due cose della legge sull’impiego privato:
traccia una distinzione fra impiegati e operai
nasce il contratto di lavoro impiegatizio e si abbandona lo schema di locazione delle opere,
si creano regole specifiche su un contratto la cui causa non è più il tipo della causa (la
locazione), ma una causa tipica (del contratto di lavoro) di scambio fra prestazione
lavorativa e una retribuzione. È un contratto di scambio a titolo oneroso. Il contratto di
lavoro è caratterizzato dal lavoro subordinato e dalla onerosità.
Questi due punti danno la definizione di un tipo contrattuale: contratto di lavoro impiegatizio,
che assume una certa autonomia rispetto allo schema contrattuale di partenza che era lo
schema della locazione delle opere.
Come si definisce questo contratto di impiego privato nella legge del ’24?
Art.1: È impiegato privato colui il quale venga assunto a svolgere nell’azienda a tempo
normalmente indeterminato attività professionale con funzione di collaborazione tanto di
concetto che di ordine con esclusione pertanto di una prestazione che sia semplicemente di
manodopera. (vedi testo su AW)
Questa è la definizione di impiegato assunto (dunque viene stipulato un contratto) per
svolgere una prestazione di lavoro definita in termini di collaborazione sia di concetto che di
ordine con esclusione della mera prestazione di manodopera. La legge distingue le prestazioni
intellettuali da quelle manuali, questa distinzione era già vecchia quando era stata scritta, la
giurisprudenza nell’interpretare l’art.1 della legge aveva subito individuato la debolezza di
questa, tenuto conto che erano definiti come impiegati d’ordine persone che avevano compiti
di scarso contenuto intellettuale. La giurisprudenza mette l’accento sull’individuazione della
fattispecie di impiegato privato nella collaborazione: l’impiegato è colui il quale viene assunto
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Diritto del lavoro 2012-13 – Cristina Fenoglio
per integrarsi nell’organizzazione del datore di lavoro, partecipando a questa attività; ciò che
distingue davvero è il carattere autonomo nella esecuzione della prestazione da parte
dell’impiegato che è superiore a quella dell’operaio. L’impiegato collabora nell’organizzazione
mantenendo un margine di autonomia che è dettato dalla componente intellettuale. L’operaio
dunque non è assunto per collaborare nell’organizzazione, non ha autonomia e ha un lavoro
meramente esecutivo in cui la componente manuale è maggioritaria. Con l’evolversi del tempo
la componente manuale è andata svanendo.
In ogni caso, sia l’impiegato sia l’operaio sono lavoratori subordinati assunti alle dipendenze
del datore di lavoro.
Questo diventa più chiaro quando, finalmente, si avrà la nozione di subordinazione nell’art.
2094 del CC.
Con l’art.2094 si chiude un’epoca: cessa la divisione fra lavoro operaio e lavoro impiegatizio e
cessa anche l’esclusione del lavoro operaio dalla disciplina legale attraverso una operazione
di disciplina unitaria (che può applicarsi a tutti i livelli di impiego aziendale) che detta le regole
per il contratto di lavoro e per la sua base, la subordinazione. Questo non vuol dire che nel
codice non si distingua fra diverse categorie di lavoratori: questo implica che vi siano discipline
differenziate a seconda del livello (dirigenti, quadri, impiegati, operai –art.2095) benché si parli
in generale di lavoratori.
L’art.2084 porta all’unificazione della subordinazione e anche alla istituzione di un nuovo tipo
contrattuale, definito come contratto di lavoro subordinato. Quando parliamo di tipo
contrattuale alludiamo all’elemento fondamentale del contratto, la causa.
Nel nostro ordinamento esistono i contratti nominati e i contratti innominati (art.1922): i
contratti innominati sono riconosciuti nell’ordinamento se le parti perseguono interessi
meritevoli di tutela. Un contratto è nominato quando il legislatore prevede la causa del
contratto alla quale lega una certa disciplina di quel contratto, la causa è il tipo contrattuale,
questo tipo contrattuale viene espresso come “nomen iuris”.
Con l’art.2094 si nomina il contratto di lavoro subordinato. È un contratto di scambio a titolo
oneroso in cui costituisce un elemento importante la considerazione del carattere personale
del prestazione di lavoro, di quella che suole chiamarsi l’implicazione della persona nel
contratto di lavoro. Il lavoro è erogazione di energie personali, una componente della
personalità, dunque il fatto che sia una persona ad obbligare se stessa è un elemento che
richiede una grande considerazione. L’altro elemento che caratterizza il contratto di lavoro
rispetto ad altri contratti di scambio a titolo oneroso è la differenza, lo squilibrio che esiste fra
le due parti: esiste, nel contratto di lavoro, una parte con potere contrattuale di forza (il datore
di lavoro). Il diritto del lavoro serve per riequilibrare lo squilibrio contrattuale dotando il
lavoratore di una serie di diritti che sono anche limiti al potere del datore di lavoro e per dare
diritti al lavoratore che costituiscano tutela della sua persona implicata nel rapporto di lavoro.
LA SUBORDINAZIONE
È il nucleo attorno al quale ruota la disciplina del contratto di lavoro subordinato.
Ma prima una considerazione sull’art.2094 che riguarda fenomeni recenti: le varie fasce di
disoccupati e la qualità del lavoro che va via via decrescendo. Il contratto di lavoro dovrebbe
essere il contratto di lavoro subordinato, ma l’assunzione a tempo indeterminato è diventata
un miraggio.
Si trova una espansione molto significativa del lavoro autonomo, prestato in condizioni di
subordinazione economica però giuridicamente non lavoro subordinato. Il contratto di lavoro
“normale”, quello a tempo indeterminato, costa di più rispetto alle altre forme di assunzione, e
ha due tipi di costi diversi: economici (dipendono dal peso dei contributi e oneri sociali, fiscali.
Sono i contributi che il datore di lavoro paga per la protezione dei lavoratori dai rischi
professionali) e normativi.
Art.2094: dei collaboratori dell’imprenditore “è prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga
mediante retribuzione a collaborare nell’impresa prestando il proprio lavoro intellettuale o
40 Diritto del lavoro 2012-13 – Cristina Fenoglio
manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”.
Il lavoro subordinato è un contratto regolato nell’impresa, l’imprenditore è il datore di lavoro
per eccellenza, tuttavia questa disciplina si applica anche al di fuori dell’impresa con dei limiti
della compatibilità della disciplina del lavoro dell’impresa con le caratteristiche di una
organizzazione non imprenditoriale (ES: il lavoro domestico è un contratto di lavoro
subordinato, soggetto alle regole del lavoro subordinato. Ma la specialità dell’ambiente di
lavoro fa si che al lavoratore domestico non si applichino una serie di regole di discipline del
lavoro dell’impresa, con il risultato che il lavoratore domestico è meno tutelato di quanto non
sia il lavoratore dell’impresa).
Il lavoro nell’impresa è il modello, ricondotto all’art.2094, del tipo contrattuale di contratto di
lavoro subordinato, ne contiene la definizione e per capirla bisogna fare riferimento all’altro
tipo contrattuale che rappresenta questa dicotomia del mondo del lavoro: il contratto di lavoro
autonomo, che il nostro CC definisce ancora contratto d’opera. Il lavoratore autonomo si
impegna a compiere una determinata opera attraverso un contratto di scambio a titolo oneroso
in condizioni diverse rispetto a quelle che caratterizzano la prestazione di lavoro subordinato.
Art.2222, contratto d’opera: “quando una persona si obbliga a compiere, verso un
corrispettivo, un’opera o servizio con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di
subordinazione nei confronti del committente, si applicano le norme di questo capo.”
I contratti di lavoro nominati, nel nostro ordinamento, sono due: il contratto di lavoro
subordinato e il contratto di lavoro autonomo.
Il contratto di lavoro autonomo è caratterizzato da due elementi:
la mancanza del vincolo di subordinazione
la caratteristica del tipo di impegno che si assume: realizzare un’opera o un servizio.
L’art.2094, per quanto sia la disposizione alla quale colleghiamo la presenza nel nostro
ordinamento del tipo contrattuale nominato “contratto di lavoro subordinato”, non è intitolato
così ma “prestatore di lavoro subordinato”. Definisce indirettamente il contratto definendo la
figura del prestatore di lavoro subordinato, e del lavoratore subordinato, attraverso questa
definizione definisce la causa del contratto e ilo suo elemento qualificatore: la presenza del
vincolo di subordinazione.
Chi è il lavoratore subordinato? Chi si obbliga mediante retribuzione, da questo capiamo che
c’è presenza di un contratto.
Come ci si obbliga, quali sono le fonti delle obbligazioni? Attraverso contratto, fatti illeciti,
legge. Quindi chi si obbliga mediante retribuzione vuole dire che stipula un contratto di
scambio a prestazioni corrispettive, è disegnata la corrispettività e lo scambio della
prestazione di lavoro contro retribuzione. La retribuzione è il compenso del lavoratore
subordinato, quando si parla di lavoro autonomo si parla di compenso.
A che cosa si obbliga il prestatore di lavoro, qual è la prestazione dedotta in contratto? È
definita dall’art. come la collaborazione nell’impresa, questo riecheggia l’art.1 della legge
sull’impiego privato, in modo funzionale alle esigenze dell’organizzazione di lavoro a
collaborare, a integrarsi nella organizzazione prestando le proprie energie lavorative.
La Cassazione, per definire questo concetto, dice che la nozione giuridica di subordinazione
consiste nell’assoggettamento della prestazione lavorativa. Il potere del datore di lavoro di
disporre secondo le mutevoli esigenze di tempo e di luogo e di determinare le modalità con
l’imposizione di istruzioni e decisioni alla quali il lavoratore è obbligato a mantenersi nella
permanenza dell’obbligazione del medesimo di mantenere nel tempo la messa a disposizione
delle proprie energie.
Collaborare nell’impresa, nell’organizzazione, per il datore di lavoro vuole dire mettere le
proprie energie lavorative a disposizione di questa organizzazione perché possano essere
organizzate esse do un fattore della produzione che il datore di lavoro organizza insieme agli
altri mezzi materiali e non per la realizzazione degli obiettivi. Vuole dire anche che nella
erogazione delle energie lavorative rispetto all’organizzazione di lavoro ci può essere una
41 Diritto del lavoro 2012-13 – Cristina Fenoglio
diversa componente di autonomia del prestatore di lavoro nell’eseguire la propria prestazione
perché la collaborazione richiesta può essere di diverso tipo.
Art.2094: (…) collaborare nell’impresa prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle
dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore. Il CC distingue ancora fra lavoro intellettuale
e lavoro manuale, li distingue ma li unifica: il lavoratore subordinato è sia portatore di lavoro
intellettuale, sia prestatore di lavoro manuale. Tutti sono lavoratori subordinati, e in questo sta
l’unificazione della subordinazione, ma il contenuto della subordinazione varia in ragione della
diversa collocazione della prestazione del lavoratore.
Punto centrale è il fatto che la prestazione di lavoro, a contenuto variabile, più o meno
intensamente collaborativa, più o meno autonoma, avviene alle dipendenze e sotto la
direzione del datore di lavoro. Queste sono le due espressioni sulle quali gli interpreti hanno
lavorato di più per dirci qual è il contenuto del vincolo di subordinazione.
Il concetto di subordinazione è un concetto giuridico ma non economico, il lavoratore
subordinato è un lavoratore economicamente dipendente e dal rapporto di lavoro dipendono le
possibilità di vita. La dipendenza economica però non è ancora definizione del concetto di
subordinazione.
Le due espressioni “dipendenza e direzione” vanno interpretate alla luce del modo di essere
diverso della prestazione di lavoro a seconda del suo contenuto (maggior contenuto
intellettuale e autonomia nelle decisioni o maggior contenuto manuale), ma anche alla luce del
fatto che il lavoro si svolga all’interno dell’organizzazione del luogo di lavoro fisico del datore di
lavoro o al di fuori (lavoro a domicilio e telelavoro).
Secondo la giurisprudenza l’elemento davvero centrale della definizione di subordinazione è
dato dalle espressioni dipendenza e subordinazione che traduce come il lavoro etero diretto: il
lavoro del lavoratore non è da lui diretto, ma è diretto dal datore di lavoro, si svolge dunque
secondo le direttive e gli ordini impartiti dal datore di lavoro. Queste direttive devono essere
specifiche, ma la specificità è molto variabile in ragione della autonomia del prestatore di
lavoro; maggiore è il livello professionale della prestazione, meno stringenti sono le direttive
impartite.
Un elemento (su cui la giurisprudenza gioca di più) che ci dice etero direzione della
prestazione è la presenza del potere disciplinare del datore di lavoro: potere di infliggere
sanzioni al lavoratore che non adempie correttamente la propria prestazione lavorativa, può
regolare l’adempimento con regole disciplinari e sanzionare le infrazioni. Questo potere è
anche quello di conformare la prestazione lavorativa alle regole da lui dettate per la
realizzazione del lavoro. I giudici danno, alla presenza del potere disciplinare, un ruolo molto
importante alla definizione del vincolo di subordinazione perché questa è la cosa che lo
descrive meglio: dovere di adempiere seguendo delle regole e rischiare di essere sanzionati
per non averle osservate.
Ricapitolando: è un contratto che racchiude una figura contrattuale unitaria di lavoro
subordinato alla quale si giustappone il contratto di lavoro autonomo, due tipi diversi e
incomunicabili.
Il contratto di lavoro subordinato è un contratto di scambio a prestazioni corrispettive a titolo
oneroso, caratterizzato dal vincolo di subordinazione; la subordinazione, definita dall’art.2094
in termini di collaborazione nell’impresa, la collaborazione avviene però alle dipendenze e
sotto la direzione del datore; la dipendenza non è economica ma giuridica e la direzione è da
intendersi come la etero direzione.
Quando ricorre tutto questo? Per capirlo i giudici si sono confrontati guardando a situazioni
incerte, nelle quali non si stabilisce bene la distinzione fra lavoro coordinato e autonomo.
I giudici utilizzano, per decidere se il lavoro è subordinato o autonomo, una serie di indici della
subordinazione (indizi della presenza del vincolo di subordinazione), nessuno di questi indici è
di per sé sufficiente, ma il concorso di una serie di elementi indirizza verso la ricostruzione del
vincolo di subordinazione, nel senso della presenza dell’etero direzione.
42 Diritto del lavoro 2012-13 – Cristina Fenoglio
Sono indici dell’assoggettamento del lavoratore al potere dell’imprenditore, accanto alla
presenza del lavoratore nell’organizzazione e nel luogo di lavoro: la presenza di un orario di
lavoro determinato, la ricezione di una serie di ordini su come eseguire la prestazione, la
retribuzione a scadenza e importo fissi …
Altre regole sono fissate dalla giurisprudenza e servono ad allargare la sfera di efficacia del
contratto collettivo.
15\10\2012 APPUNTI SIMONA
16\10\2012
Dicotomia fra autonomia e subordinazione: fattispecie della
collaborazione coordinata e continuativa, il lavoro a progetto
Il lavoro a progetto è una fattispecie che si colloca nel lavoro autonomo.
Finora abbiamo parlato di lavoro subordinato, abbiamo dato per scontato il riferimento al
modello di lavoratore standard. La partizione fra autonomia e subordinazione è una partizione
netta, ma non chiara. È netta perché le discipline applicabili ai lavoratori subordinati sono
diverse a quelle che si applicano ai lavoratori non subordinati. L’art.2094 da accesso a tutte le
tutele riconosciute dal diritto del lavoro mentre quei diritti non sono riconosciuti all’autonomia
se non nelle misure e nei modi che tratteremo oggi.
Abbiamo anche visto che le forme di lavoro autonomo, sono spesso usate per eludere la
disciplina laburistica, per far fronte all’uso massiccio e fuorviante del lavoro autonomo il
legislatore è intervenuto in diversi modi. Uno di questi è la legge 92 del 2012 (legge Fornero).
La legge 92, 2012 interviene senza disegnare tuttavia una riforma strutturale dell’autonomia e
della subordinazione del lavoro, interviene a valle sulla frammentazione del mercato del
lavoro. Si vuole riportare all’uso corretto i contratti di lavoro non subordinato. A fronte di questi
atteggiamenti repressivi negli ultimi decenni è stata imboccata una strada diversa, per tutelare
il lavoro in tutte le sue forme (come dice l’art.35 Cost):
allargamento dell’area protetta dal DDL: troviamo l’idea di creare una nozione allargata di
subordinazione , in modo da poter ricomprendere nelle tutele del lavoro subordinato
anche una parte del lavoro autonomo. Allargando la nozione si estenderebbero anche
le tutele.
OPPURE mantenere definita la nozione di subordinazione ma estendere
selettivamente alcune tutele del lavoro subordinato ai lavoratori non subordinati ma
aventi determinate caratteristiche.
Superare l’attuale dicotomia con una tutela comune per tutti i lavoratori che non operano in
una qualche condizione di subordinazione e poi aggiungere le tutele per i lavoratori in
condizione di subordinazione. Il rischio è che si riducano le tutele per tutti.
Non c’è traccia, nella legge Fornero , di questi progetti, non c’è traccia dell’idea di fare del
contratto unico l’unica via di accesso al mondo del lavoro.
È stato fatto un intervento di manutenzione rispetto alle più importanti recenti modifiche
intervenute nella disciplina dei rapporti di lavoro nel mercato del lavoro: decreto 277 del 2006
che aveva frammentato ulteriormente il tipo contrattuale del lavoro subordinato (?).
La riforma ha inciso sull’uso di alcuni tipi contrattuali nell’area dell’autonomia, in particolare le
collaborazioni continuative e coordinate e il lavoro a progetto.
COLLABORAZIONI COORDINATE E CONTINUATIVE
Sono la forma di lavoro autonoma che ha visto l’intervento del legislatore nel tempo.
Si inquadrano nella fattispecie del lavoro parasubordinato che è una espressione creata negli anni ’70,
se ne cominciò a parlare perché da allora cominciava ad esserci un massiccio ricorso alle CCC al di fuori
dal loro campo tipico di applicazione.
La definizione la troviamo oggi nell’art. 409 del codice di procedura civile, hanno avuto rilievo anche
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Diritto del lavoro 2012-13 – Cristina Fenoglio
nella parte storica del diritto sindacale: legge Vigorelli che aveva previsto l’applicazione erga omnes dei
contratti collettivi e l’applicazione erga omnes degli accordi economici collettivi, un tipo di accordo che
regolavano già dagli anni ’50 rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, si trattava di
lavoratori che non erano subordinati ma che evidentemente il legislatore aveva considerato
meritevoli.
La nozione di CCC la troviamo nell’art.409 cod. proc. civ., così modificato dalla legge di riforma di
processo del lavoro del 1973 ha individuato una categoria di CCC ai quali si applica il rito del lavoro.
Individua e fa l’elencazione dei soggetti destinatari del rito in materia di controversie nel mondo del
lavoro.
Al punto 3 vengono citati “altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera
continuativa e coordinata prevalentemente personale anche se non a carattere subordinato”.
Le uniche discipline applicabili erano queste, poi sono state introdotte norme di previdenza sociale
obbligatorie con anche il fine di rendere più costoso questo tipo di lavoro per avvicinarlo al costo del
lavoro subordinato. Allora nel 1995 è stata introdotta questa aliquota obbligatoria originariamente
fissata al 10%, e poi progressivamente crescente fino all’idea di arrivare a una aliquota superiore al
30%.
Restava il problema di come collocare i contratti dell’art.409 nella partizione autonomia o
subordinazione.
Sono contratti di lavoro autonomo ma con determinate caratteristiche che li differenziano rispetto a
quelli standard:
• collaborazione: si concreta in una prestazione d’opera continuativa e coordinata.
• Continuativa nel senso della reiterazione della prestazione (escludiamo quindi una prestazione
occasionale), può essere un’unica opera ma che richiede un impegno costante.
• È continuativa se è coordinata con altre prestazioni e con l’amministrazione dell’azienda.
• Collaborazioni che sono prevalentemente personali rispetto al lavoro che possa essere prestato da
altri soggetti collaboratori e rispetto agli altri fattori utilizzati per porre in essere la prestazione.
È quindi una situazione in cui il soggetto opera in modo autonomo, seppure all’altrui servizio,
coordinandosi con un committente; opera in regime di monocommittenza, statisticamente.
Questa figura è rimasta immutata, fronte della crescita dell’uso delle CCC quali sono stati gli interventi
del legislatore?
Decreto 276 del 2003: sulla scia della legge delega del ’63 si è fatto un tentativo di ricondurre le CCC
all’uso più corretto. Gli art da 61 a 69 del decreto hanno disegnato una nuova figura di CCC, il lavoro a
progetto. La legge 92 del 2012 ha cercato di limitare ancora l’abuso delle CCC.
Il campo di applicazione del lavoro a progetto si trova nell’art.61, cominciamo da ciò che non è lavoro a
progetto: “ferma restando la disciplina degli agenti e rappresentanti di commercio, le prestazioni
occasionali, le professioni intellettuali per le quali sia richiesta l’iscrizione obbligatoria ad un albo
professionale [escluse dalla disciplina quelle attività che siano strettamente la realizzazione di una attività
regolamentare], gli amministratori di società, i pensionati (scelta del legislatore), coloro che traggono utilità
delle discipline sportive riconosciute dal CONI, la P.A. , alcuni lavoratori dei call CENTER”.
Al di fuori di queste ipotesi qual è la regola dell’art.61, qual è il tipo contrattuale? Al di fuori dell’art.61
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Diritto del lavoro 2012-13 – Cristina Fenoglio
il rapporto di CCC deve essere riconducibile ad uno o più progetti specifici determinati dal
committente e gestiti autonomamente dal collaboratore. L’idea è quella di ricondurre tutte le CCC ad
un progetto specifico, si tratta di una attività comunque di lavoro autonomo perché si dice che il
progetto è determinato dal committente, ma gestito autonomamente dal lavoratore.
Come opera il lavoro a progetto? Il progetto deve essere funzionalmente collegato ad un determinato
risultato finale. Il lavoratore svolgerà la sua attività in modo autonomo ma nel rispetto del
coordinamento con l’organizzazione del committente. Le misure di coordinamento non possono essere
tali da pregiudicare l’autonomia del lavoratore.
Oggi il lavoro a progetto deve essere riconducibile ad uno o più progetti specifici, nella stesura
originale del decreto il riferimento era più ampio e ambiguo: uno o più progetti o programmi di lavoro
o fasi; questo aveva creato molte incertezze che la giurisprudenza ha cercato di risolvere, oggi abbiamo
una definizione chiara.
Il progetto deve essere ANCHE collegato funzionalmente ad un risultato e non può consistere in una
mera riproposizione dell’oggetto sociale commissionato dal committente o l’esecuzione di compiti
meramente esecutivi. Con la legge 92 si voleva porre rimedio all’abuso del lavoro a progetto come
lavoro subordinato, questo perché erano arrivati molti contenziosi davanti ai giudici di lavoratori
assunti a progetto, il quale progetto coincideva di fatto con l’attività dell’impresa (mera riproduzione
dell’oggetto sociale). Bisogna evitare l’oggetto troppo generale, l’oggetto deve essere specifico,
altrimenti è un abuso riconducibile al lavoro subordinato.
CALL CENTER: l’uso del contratto a progetto in questo ambito è stato molto massiccio, ci sono stati
interventi amministrativi con alcune circolare per indicare il miglior uso ma non sempre sono state
coerenti fra loro. Progressivamente nel tempo si è così delineata una distinzione fra lavoro in bound
(ricezione di telefonate, in cui la persona lavorava senza autonomia nel progetto) e lavoro out bound.
Nel lavoro out bound si era arrivati ad individuare la possibilità che questo potesse essere un genuino
contratto a progetto quando al lavoratore era riconosciuto un obiettivo ma aveva un certo spazio di
autonomia.
A fronte dell’enorme numero di lavoratori e di contenziosi si sono fatti numerosi accordi collettivi
definendo un percorso di regolarizzazione e assumendo progressivamente part-time i lavoratori.
Cosa c’è nella legge Fornero ed in altri interventi? Il legislatore, nella legge 183 del 2010 ha previsto
che, nel rifiuto di un contratto part-time , la vicenda si chiuda con la risoluzione del rapporto e con la
corresponsione al lavoratore di una indennità compresa fra 2.5 a 6 mensilità. Questa sorta di sanatoria
è stata dichiarata di dubbia legittimità dalla corte costituzionale.
Nel decreto sviluppo (legge 184 del 2012, successivo alla legge Fornero) è stata introdotta la possibilità
di stipulare contratti di collaborazione a progetto, sulla base di un corrispettivo definito dalla CCN, per
attività realizzate attraverso call center out bound; questo tipo di attività che può non avere specifico
progetto può essere comunque qualificato come lavoro a progetto: è un tipo particolare di lavoro a
progetto in cui si applica una disciplina particolare. Questo perché non essendoci progetto specifico
non dovrebbe essere lavoro a progetto, è un lavoro a progetto atipico. In generale la legge vieta
qualunque tipo di lavoro a progetto atipico. L’oggetto del contratto è la realizzazione di un risultato
specifico e il riferimento al risultato serve a far sì che il progetto sia specifico e a rafforzare il carattere
autonomo della prestazione. In realtà l’oggetto del contratto è una attività svolta in modo autonomo
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Diritto del lavoro 2012-13 – Cristina Fenoglio
per realizzare un certo risultato: è una collaborazione continuata e continuativa, che dura nel tempo.
Progetto e risultato sono due concetti diversi: il progetto richiede anche collaborazione e
coordinamento anche temporale, quindi una interazione con il committente molto più forte rispetto a
quella di qualunque lavoratore autonomo; la continuità in termini di durata rileva proprio l’impegno
costante del lavoratore a progetto di collaborare coordinandosi con il committente per realizzare
insieme un risultato che abbia un oggetto determinabile.
Quindi le CCC devono essere riconducibili ad un progetto, da ciò il divieto di collaborazioni a progetto
atipiche. Se manca il progetto il legislatore ha previsto che il rapporto di CCC instaurato senza
l’individuazione di uno specifico progetto (da art.61 1° comma) è considerato rapporto di lavoro
subordinato a tempo indeterminato dall’inizio del rapporto lavorativo.
La mancanza del progetto quindi determina la riqualificazione del rapporto: si tratta però di una
traduzione legale assoluta, per questo si sono sollevati dubbi di costituzionalità da una parte della
dottrina, in quanto il legislatore così facendo può imporre tipi contrattuali (presunzione assoluta di
subordinazione), ma la legge Fornero ha ribadito la presunzione assoluta.
Ci possono essere anche altre ipotesi: il progetto c’è ma le modalità di svolgimento concreto del
rapporto di lavoro abbiano presentato di fatto tutte le caratteristiche tipiche della subordinazione. Se
quel rapporto ha tutte le caratteristiche del rapporto di lavoro subordinato questo si trasforma in un
rapporto di lavoro subordinato corrispondente alla tipologia negoziale di fatto negoziata fra le parti. Si
trasforma da quando il rapporto non ha più riflesso il contenuto del progetto, e ha assunto le
caratteristiche di un rapporto di lavoro subordinato.
Un’altra ipotesi, aggiunta dalla legge Fornero: una CCC nella quale l’attività svolta si sia svolta con
modalità analoghe a quella svolta da quella dei lavoratori dipendenti nell’impresa committente. Fa
riferimento all’esperienza del lavoratori assunti a progetto che lavoravano fianco a fianco ai lavoratori
subordinati: reprimere le ipotersi di lavoro a progetto che vengono realizzate con modalità analoghe a
quelle dei lavoratori subordinati all’interno della stessa azienda. In questo caso il contratto sarà
considerato un rapporto di lavoro subordinato ma, a differenza della presunzione assoluta trattata
prima, questa è una presunzione relativa perché il legislatore afferma la possibilità del committente di
fornire prova contraria.
Resta anche la possibilità di mantenere la qualifica di lavoro a progetto quando si tratti di prestazioni di
elevata professionalità che possono essere individuate dai contratti collettivi stipulati dalle
organizzazioni sindacali (…)
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