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La mia Cicci da quaggiù (nell’ambito del concorso “Correva l’anno 2019”) di Pierluigi Marinelli Correva l’anno 2019 e nel mondo rimanevano solo due automobili. La mia e quella di un tizio che abitava vicino alle Montagne Rocciose. Ci scambiavamo messaggi crittografati sullo stato delle nostre vecchie e amate scatole di metallo e sui metodi che usavamo per nasconderle. La sua vecchia Mustang rossa se la passava benone, anche se ogni tanto tossiva. Cambiava riparo in continuazione per evitare che quelli del governo la trovassero e la distruggessero. Le strade erano ormai in disuso e gli creavano qualche problema di spostamento. Da un po’ di tempo l’aveva ricoverata in un vecchio bunker abbandonato dai militari. Ci arrivava con la skycar di notte per accudire e coccolare la sua Daisy. Lo credeva un posto sicuro. Per me la situazione era un po’ più complicata. Non vivendo in un paese con grandi spazi mi dovevo accontentare di capannoni industriali e scuola abbandonate per nascondere la mia “Cinquecento L”. I nascondigli erano sempre troppo vicini alle case e alto il rischio di venire scoperti. C’era sempre qualcuno che poteva vederci e fare la spia. Per fortuna la gente, all’epoca, guardava solo in cielo. C’era già parecchio traffico all’epoca. Ogni più piccolo incidente lassù era un problema. A volte si trasformavano in incidenti terrestri quando i mezzi cadendo giù saltavano le reti di protezione e costringevano la gente ad abbassare lo sguardo. La dovevo spostare. Per troppo tempo mi ero fidato della vecchia scuola del quartiere. Alla fine qualcuno ci sarebbe potuto andare a dormire e scoprirla. Per non parlare dei cacciatori di souvenir. Erano capaci di vendere al Museo della Meccanica Terrestre anche falsi viti d’auto, pezzi di moto o di biciclette per guadagnare i premi esagerati che il governo prometteva. Ma io non mi potevo permettere di separarmi dalla Cicci. Era stata la prima auto di mio padre e la mia. Per me sarebbe stata anche l’ultima. Presi la skymoto per far prima. Atterrai alla stazione sospesa “Via Lattea” e scesi a terra con l’ascensore veloce. Salutai gli altri passeggeri stringendomi il giubbotto spaziale; all’interno dell’imbottitura una sofisticata tanica ermetica conteneva benzina. Se ne trovava poca, ma il mercato nero era vivace. Più che per qualche motozappa e trattore, che da qualche parte ci doveva essere ancora, era per sniffarla. La buona vecchia benzina che ci inebriava al distributore. Che ci faceva scendere dall’auto prima ancora di papà. Poi l’odore è cambiato con l’arrivo di quella verde. Sgradevole. Per non parlare di quella eco. Puzzava come un pesce morto lasciato al sole per una settimana. Ora c’è la pillolina di combustibile nucleare. Beato l’inventore! E’ l’uomo più ricco del mondo. Anche se ha speso una fortuna per pagare gli scagnozzi che danno la caccia ai motori terrestri. Delatori e agenti del suo governo incaricati di far piazza pulita. All’epoca aveva quasi terminato la sua caccia. Di automobili ne erano rimaste due. Anzi una, perché promise che l’ultima avrebbe avuto notorietà spaziale. Sarebbe stata istallata in una teca sopra una colonna nella piazza della capitale. Per essere ammirata come retaggio del passato. Per non farci prendere, io e l’americano, ci scambiavamo messaggi crittografati per mezzo di piccioni supersonici. Anche se io e, sono sicuro allo stesso modo lui, mettevo delle spie elettroniche nei messaggi. Affinché registrassero le coordinate di dove si trovava quando li riceveva. Non si può mai sapere… M’incamminai verso la scuola. A quell’ora erano tutti in casa o in qualche bar a un chilometro di altezza a festeggiare qualcosa. La strada era buia. I lampioni non servivano più. Ognuno atterrava sotto casa con il suo mezzo volante oppure lo lasciava al parcheggio celeste e prendeva l’autobus volante con ascensore rapido. Non si camminava più. Non ci s’incontrava più nelle piazze, ormai ridotte a campi di erbacce. Non c’erano più bambini che giocano a palla o che andavano in bicicletta nelle strade. Era tutto spostato lassù. Lassù dove finiscono i grattacieli. Quei pochi resistenti che si ostinavano a vivere quaggiù furono sottoposti a ogni genere di angherie. I negozi prima incentivati a trasferirsi e poi costretti. Anche le scuole erano state spostate. Quaggiù rimaneva poco o nulla. Solo grandi impianti inutilizzati come lo stadio, la piscina comunale e il cimitero. Tutto trasferito lassù. Il cancello della scuola era accostato come il solito. Accesi la torcia e attraversai il cortile dirigendomi verso la palestra. La Cicci l’avevo sepolta sotto i materassi che una volta usavamo per proteggerci dalle cadute saltando sul cavallo senza maniglie. La porta della palestra era incastrata per la deformazione del legno. Faticai un po’ ad aprirla. Entrai e indirizzai il fascio luminoso verso la montagna che nascondeva il mio tesoro nel preciso istante che la palestra s’illuminò. Mi ritrovai circondato dagli agenti governativi. Ma non volevano me. Volevano la mia auto. Lo sapevano, i bastardi, e mi aspettavano per costringermi a lasciare la Cicci alle loro amorevoli cure. Ebbi un dolore al petto. Poi sentii il cuore esplodere. Non potevano portarmela via. Non volevo che facesse quella brutta fine. Mi buttai in ginocchio in mezzo alla palestra e congiunsi le mani. “Vi prego no! Non fatelo. Vi prego”. Un piccione ultrasonico entrò da una finestra in alto e atterrò ai miei piedi. Sfilai la scheda dalla fessura. La inserii nell’orologio lettore e guardai l’ufficiale che mi venne incontro sorridendo. Interpretai il gesto come un permesso e lessi. “Ieri sera ho perduto Daisy. E’ stata una bella amicizia e una gara leale. A te l’onore”. Guardai l’ufficiale asciugandomi le lacrime e poi gli dissi: “Mi avete fatto prendere uno spavento. Pensavo che foste qui per distruggerla”. Oggi, passati molti anni, con i piedi piantati in terra e lo sguardo verso la teca che custodisce la mia Cicci, a mille metri d’altezza, ripenso a quelle parole. “A te l’onore”. Una gara leale, diceva. Alla fine ti ho beccato con la tua piccola Daisy, stronzetto!