Il Pd si divide sul referendum, ma in tv già invita all
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Il Pd si divide sul referendum, ma in tv già invita all
CON IN MOVIMENTO + EURO 1,00 CON LE MONDE DIPLOMATIQUE + EURO 2,00 Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1, Aut. GIPA/C/RM/23/2013 ANNO XLVI . N. 75 . MERCOLEDÌ 30 MARZO 2016 EURO 1,50 TRIVELLE PROPOSTA AI CANDIDATI Il Pd si divide sul referendum, ma in tv già invita all’astensione L a minoranza Pd non si è ancora rassegnata. «Siamo ancora in tempo per cambiare rotta, la prossima direzione è il 4 aprile, l’astensione al referendum sulle trivelle è la negazione dei principi del Pd», dice il capofila dei bersaniani Roberto Speranza. Nel frattempo nel vuoto dell’informazione tv sono partite le tribune politiche Rai, e i rappresentanti del partito sono già andati a chiedere agli elettori di disertare le urne. Lo faranno ancora oggi e venerdì, prima che la posizione ufficiale del partito venga ratificata in un voto. E Renzi fa campagna contro il referendum dagli Usa. FABOZZI |PAGINA 4 Per la Costituzione contro le trivelle Valentino Parlato N 17 APRILE |PAGINA 5 FCA |PAGINA 4 Gianfranco Ganau, dem della Sardegna: «È in gioco la politica energetica nazionale» Insieme quadri e tute blu. Il leader della Fim Bentivogli lancia il «sindacato Renzi» COSTANTINO COSSU ANTONIO SCIOTTO «Non è stato un caso isolato e sul suo viso abbiamo visto il male del mondo». Il dolore della madre e del padre di Giulio Regeni nella sala stampa del Senato. Dopo l’ennesimo depistaggio, chiedono risposte dal Cairo e da Roma. Con loro il presidente della Commissione per i diritti umani Luigi Manconi: «L’Italia richiami l’ambasciatore e dichiari l’Egitto paese non sicuro» PAGINE 2, 3 LA CONFERENZA STAMPA DELLA FAMIGLIA REGENI AL SENATO /LAPRESSE I testimoni REPORTAGE DA IZMIR | PAGINA 8 ATTENTATI A BRUXELLES | PAGINA 6 INTERVISTA A SILVIA FEDERICI «La caccia alle streghe è una guerra di classe» Polemiche sugli errori. Il freelance rilasciato: «Io sono contro l’Isis» ANNA CURCIO l PAGINA 10 STRAGE DI LAHORE | PAGINA 7 RADICALISMO DI PACE Abdul Ghaffar Khan il Gandhi islamico EMANUELE GIORDANA l PAGINA 16 Turchia-Europa, business profughi senza fine C’è chi è disposto a vendere un rene pur di mettere la famiglia su un barcone. E se salta il passaggio verso la Grecia si apriranno nuove rotte 200 arresti, tra le vittime cristiane tanti i musulmani GIAPPONE | PAGINA 7 Elmetto al premier Abe Tokyo può intervenire militarmente all’estero BIANI ella attuale confusione mi sembra utile, necessario, avanzare una proposta chiara e netta. La mia proposta è che i nostri candidati alle prossime elezioni amministrative siano quei candidati di sinistra e centro-sinistra che si impegneranno, pubblicamente e chiaramente, a votare contro il referendum costituzionale, che demolisce i fondamenti della nostra democrazia sanciti dalla Costituzione. Questa dovrebbe essere la discriminante per eleggere sindaci e consiglieri. Nessuno può dire che tra le elezioni amministrative di giugno e il referendum di ottobre non ci sia rapporto. La connessione mi sembra ovvia: le elezioni decideranno chi governerà il territorio e il referendum esalterà al massimo il potere generale di chi è al governo, anche nelle amministrazioni locali. La democrazia e le opposizioni saranno messe in un angolo anche nei comuni, nelle province e nelle regioni. Contro questo referendum incostituzionale - che mette tra i rifiuti i principi democratici della nostra Costituzione definiti nei tempi buoni della nostra storia nazionale - sono già scesi in campo politici e intellettuali di indiscusso livello firmando un appello del quale mi pare opportuno riportare alcuni passaggi per i nostri lettori: «… Il risultato è prevedibile: sono ridotte le autonomie locali e regionali, l’iniziativa legislativa passa decisamente dal Parlamento al governo, in contraddizione con il carattere parlamentare della nostra Repubblica, e per di più il governo non sarà più l’espressione di una maggioranza del paese. Già l’attuale parlamento è stato eletto con una legge elettorale definita Porcellum. Ancora di più in futuro: con la nuova legge elettorale (Italicum) – risultato di forzature parlamentari e di voti di fiducia – una minoranza, grazie ad un abnorme premio di maggioranza e al ballottaggio, si impadronirà alla Camera di 340 seggi su 630. Ridotto a un’ombra il Senato, il Presidente del consiglio avrà il dominio incontrastato sui deputati in pratica da lui stesso nominati. Gli organi di garanzia (Presidente della Repubblica, Corte Costituzionale, Consiglio superiore della magistratura) ne usciranno ridimensionati, o peggio subalterni. Se questa revisione costituzionale sarà definitivamente approvata la Repubblica democratica nata dalla Resistenza ne risulterà stravolta in profondità». CONTINUA |PAGINA 4 pagina 2 il manifesto MERCOLEDÌ 30 MARZO 2016 I TESTIMONI Italia • Dopo l’ultimo depistaggio servito da Ghaffar, la famiglia Regeni trova il coraggio di parlare e avverte: «Il 5 aprile ci aspettiamo un gesto forte dal governo italiano» Dolore in pubblico «Verità su Giulio» Senza sviluppi «mostreremo le immagini di nostro figlio torturato, come altri egiziani». Luigi Manconi: «L’Egitto va dichiarato Paese non sicuro, e l’ambasciatore richiamato» REAZIONI Fratoianni, Si «Risposte urgenti» «I l male subito due volte: quello fisico, terribile, mortale; e quello morale, devastante, per una verità che non arriva e per una giustizia lenta. - ha detto dopo la conferenza stampa della famiglia Regeni Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana- Una giustizia troppo più lenta della velocità del cuore e della mente di due genitori che devono già fare una fatica enorme ad accettare ciò che è accaduto. Accettare che un figlio è stato torturato fino alla morte. Ecco perché servono risposte urgenti, concrete e immediate. Da parte dell'Egitto, certamente, e da parte del governo italiano, che deve fare qualunque cosa per ottenere verità e giustizia. Qualunque cosa conclude Fratoianni - anche ritirare immediatamente l'ambasciatore italiano al Cairo, perché c'è l'intero popolo italiano che vuole la verità e i responsabili, e non intende farsi prendere per i fondelli da quel regime». Gli fa eco Pier Ferdinando Casini, presidente della Commissione Affari Esteri del Senato «L'Italia sta aiutando l'Egitto nella cooperazione economica e commerciale, siamo impegnati insieme a loro nella lotta al terrorismo e proprio per questo siamo indisponibili a verità di comodo su Giulio Regeni. Fino ad ora hanno balbettato; hanno pensato di propinarci, anche con qualche goffa ricostruzione, una storia che non stava in piedi. Adesso il nostro spingere nella direzione della verità non può che andare di pari passo con l'interesse egiziano». Tutto il mondo guarda all’Egitto, ha specificato, «e anche per questo devono capire che questa vicenda non può essere in alcun modo minimizzata». Eleonora Martini ROMA Q uando nella notte tra il 24 e il 25 marzo hanno appreso che «la più cupa delle previsioni si era puntualmente avverata», e che l’ennesimo, incredibile depistaggio era stato servito «su un vassoio d’argento», assunto come «verità» ufficiale direttamente dal ministro dell’Interno egiziano Ghaffar, la famiglia Regeni ha deciso di fare il passo che non aveva mai fatto finora. Di presentarsi in pubblico con lo striscione giallo di Amnesty «Verità per Giulio Regeni» e parlare direttamente ai giornalisti, senza più la mediazione del governo Renzi, pur pagandone un prezzo altissimo. «Rinnoviamo il nostro dolore» che però a questo punto è «un dolore necessario», anche perché «ciò che è successo a Giulio in Egitto non è un caso isolato». Paola Deffendi ha «bloccato le lacrime» e con lucidità, insieme al marito Claudio Regeni, racconta del figlio e di quella verità che «pressioni» esterne vorrebbero silenziare. Lo fanno rivolgendosi ai media di mezzo mondo convocati nella sala Nassirya del Senato, insieme al presidente della Commissione per i diritti umani Luigi Manconi, alla loro avvocata Alessandra Ballerini e al portavoce di Amnesty international Italia Riccardo Noury. L’impressione è che confidino ancora nelle istituzioni italiane, in particolare nella procura di Roma, e nella loro capacità di ottenere una reale collaborazione da parte delle autorità cairote, ma che pongano un limite alla paziente ed estenuante attesa. Quando tra pochi giorni gli inquirenti dei due Paesi si incontreranno di nuovo a Roma, «cosa porteranno gli egiziani?», chiede Paola Deffendi. I documenti che il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone aspetta da un paio di mesi - richiesta rinnovata anche dall’avvocata Ballerini e dal collega egiziano, in modo da aumentare la pressione - o una nuova versione-farsa? «Se il 5 aprile sarà una giornata vuota, confidiamo in una risposta forte del nostro Governo. Forte, ma molto forte. È dal 25 gennaio che attendiamo una risposta su Giulio». Altrimenti, spiegano i Regeni, si spingeranno sulla stessa strada intrapresa da Ilaria Cucchi e mostreranno al mondo le foto del corpo martoriato del giovane ricercatore. «Se non l’abbiamo fatto finora - aggiunge l’avv. Ballerini - è solo perché la mobilitazione e la protesta generale hanno fatto fare un mezzo passo indietro all’Egitto». Esporranno le foto di Giulio torturato «come un partigiano dai nazifascisti», solo che «lui non era un giornalista e non era una spia, era solo un ragazzo che studiava». «Torturato come un egiziano», massacrato perché «forse le idee di mio figlio non piacevano». Mostreranno non più quel «bel viso sempre sorridente, con uno sguardo e una postura aperta», come era aperta la sua mente, ma l’immagine dell’obitorio, come è stato «restituito dall’Egitto», di quell’uomo «completamente diverso» sul quale «si era riversato tutto il male del mondo», «e noi ci chiediamo ancora perché». Di quel «viso che era diventato piccolo piccolo», nel quale «l’unica cosa che ho veramente ritrovato di lui, ma proprio l’unica, è stata la punta del naso». Un particolare che fa impressio- L’ULTIMO DEPISTAGGIO DEL CAIRO ne, ma non è l’unico. Paola Deffendi racconta infatti che non furono loro ad effettuare il riconoscimento di Giulio all’obitorio del Cairo, al contrario di quanto sostenuto dalle autorità e dai media di entrambi i Paesi finora. Non lo videro prima che i medici egiziani effettuassero l’autopsia, ma solo quando il corpo rientrò a Roma per il secondo esame. «In Egitto ci avevano consigliato di non vederlo, e noi avevamo anche accettato, perché eravamo talmente fuori, credetemi, da pensare che forse sì, era meglio ricordarlo come era prima». Non solo. La scomparsa di Giulio non venne pubblicizzata, come accade di solito e come avrebbero voluto fare i suoi amici convinti che avrebbero potuto salvarlo con la campagna «Where is Giulio?» lanciata e immediatamente interrotta, perché nel Paese di Al Sisi, "amico" di Matteo Renzi, «ci hanno spiegato - ha ribadito l’avvocata Ballerini - che c’è una procedura informale diversa per i cittadini italiani», anche per fare in modo che un eventuale «fermo si possa trasformare in arresto formale». In sostanza, fin dal primo momento si agì sotto l’impulso di forti pressioni, anche se probabilmente in buona fede, almeno da parte italiana. Ieri pomeriggio, prima della conferenza stampa, i Regeni hanno proceduto, presso la procura di Roma, al riconoscimento degli oggetti fatti rinvenire in uno dei covi dei presunti "banditi" uccisi dalle forze dell’ordine egiziane e fotografati dal ministero degli Interni di Ghaffar. «Tranne i documenti e forse uno dei due portafogli, nessuno di quegli oggetti che servivano a costruire un’immagine ignobile di Giulio, appartiene a lui», riferisce l’avvocata Ballerini. D’altronde, anche se Giulio viveva da anni lontano da casa, «avevamo un rapporto strettissimo, profondo, una relazione simile a quella che hanno gli aborigeni a distanza», racconta ancora la madre. Per questo «sappiamo che Giulio non lavorava né ha mai prestato i suoi studi ai servizi segreti», anche «con tutto il rispetto per il ruolo dell’intelligence». «Non aveva un conto corrente da spia e conduceva una vita molto sobria. Sul suo conto c’erano 850 euro, e tanti ce ne sono ancora. Nessun prelievo successivo a quello del 15 gennaio». Il che mostra ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, che la pista della banda che rapinava stranieri non sta in piedi. È vero invece che «in Egitto nel 2015 ci sono stati 1676 casi di tortura di cui 500 terminati con la morte del torturato, e nei primi due mesi del 2016 sono già 88 le persone torturate di cui 8 morti», riferisce Noury. E allora, il 5 aprile la famiglia Regeni non si aspetta «proprio la verità» ma neppure un’altra giornata persa. A questo punto non è escluso che la campagna «Verità per Giulio Regeni» sposi la proposta lanciata ieri dal senatore Luigi Manconi, secondo il quale il governo dovrebbe «porre la questione del richiamo - non del ritiro - del nostro ambasciatore per consultazioni. Un gesto non solo simbolico per far comprendere come il nostro Paese considera il caso discriminante per mantenere buone relazioni con il Cairo». «Penso sia necessario considerare la revisione delle relazioni diplomatico-consolari tra i due Paesi - ha aggiunto Manconi - mettendo in conto l’urgenza e l’ineludibilità di altri atti concreti da parte dell’Unità di crisi della Farnesina, che sulla scorta di quanto accaduto dovrebbe dichiarare l’Egitto Paese non sicuro». Giulio Regeni non c’è più, lui che, come dice in conclusione sua madre, «avrebbe potuto dare una mano al mondo». «Però - aggiunge Paola Deffendi - ora noi siamo qui a parlare di tortura e a parlare di Egitto, e prima non se ne parlava». L’ultima domanda la pone lei: quello di Al Sisi «è un Paese sicuro?». il manifesto MERCOLEDÌ 30 MARZO 2016 pagina 3 I TESTIMONI Egitto • Entrato il 3% in meno di «pedaggio» rispetto al 2015: per costo assai elevato, instabilità del Sinai in parte controllato dall’Isis, crollo del prezzo del petrolio CIPRO · Dirotta un aereo Egypt Air con 81 persone. Arrestato ma «non è un terrorista» DA SINISTRA, GIULIO REGENI. RENZI RICEVE A ROMA AL-SISI. FOTO GRANDE, I GENITORI DI GIULIO, PAOLA DEFFENDI E CLAUDIO IERI CON LUIGI MANCONI. FOTO LAPRESSE «Non è un terrorista, è un idiota», avrebbe detto un funzionario egiziano a proposito del dirottare del velivolo dell’Egypt Air, che ieri ha obbligato il pilota ad atterrare a Cipro. Il ministro egiziano dell’Aviazione civile Sherif Fathi ha detto di aver dubitato sin dall’inizio che il dirottamento dell'Airbus 320 dell'EgyptAir fosse un’azione terroristica. Intervistato dalla televisione di Stato egiziana, il neo ministro ha detto che il sequestratore aveva mostrato di muoversi in modo «non professionale» e le telefonate che aveva fatto a bordo dell’aereo avevano evidenziato che l’uomo avesse problemi personali e di tipo psichico. «Tuttavia abbiamo dovuto gestire la situazione come una minaccia alla sicurezza e lavorare come se lui avesse davvero una bomba, in modo da garantire la sicurezza delle persone a bordo», ha spiegato Fathi. «Ora l’aeroporto di Laranca è chiuso e quando riaprirà andremo lì per riportare a casa i passeggeri egiziani e aiutare gli stranieri a rientrare», ha aggiunto. I testimoni - compreso un italiano hanno raccontato degli attimi di tensione, sottolineando tuttavia la natura bizzarra del dirottamento, con tanto di selfie da parte del protagonista. Il dirottatore, identificato con il nome di Seif Eldin Mustafa, egiziano, si è arreso alle autorità dopo essere uscito dall’aereo con le mani in alto ed è stato arrestato. Il velivolo era partito ieri mattina da Alessandria d’Egitto con 81 cittadini a bordo, ma era stato costretto ad atterrare a Larnaca (Cipro). Pochi minuti prima dell'arresto del dirottatore, un corrispondente della tv di Stato egiziana aveva riferito di un «accordo tra l’Egitto e Cipro» sull’invio di un «aereo militare C-130» con a bordo «forze speciali». Durante le ore di paura, il dirottatore avrebbe chiesto di parlare con la ex moglie. IL CAIRO · Forti segnali negativi per il regime militare: il raddoppio della via d’acqua di Suez non funziona Al Sisi in crisi affonda nel Canale Michele Giorgio A bdel Fattah Al Sisi con il raddoppio parziale del Canale di Suez aveva sognato di passare alla storia, proprio come era avvenuto al suo illustre predecessore Gamal Abdel Nasser che, nazionalizzando lo strategico passaggio tra Mar Mediterraneo e Mar Rosso, costrinse alla resa le potenze coloniali. Al Sisi lascerà la sua impronta, ma solo per aver instaurato un regime brutale, persino più oppressivo di quello di guidato per 30 anni da Hosni Mubarak. Non certo per aver dato una vita migliore e dignitosa agli egiziani. Il raddoppio del canale di Suez (avvenuto l’anno scorso) che, attraverso il passaggio giornaliero di quasi cento navi, doveva moltiplicare gli introiti, si è rivelato molto deludente rispetto alle ambizioni del rais egiziano. Gli ultimi dati disponibili dicono nelle casse egiziane è entrato il 3% in meno rispetto all’anno precedente. Il costo elevato del pedaggio a Suez, l’instabilità del Sinai in parte controllato da «Wilayat Sina» (Isis) e, più di tutto, il crollo del prezzo del petrolio, spingono tante compagnie marittime ad ordinare ai comandanti di mer- cantili e portacontainer di circumnavigare l’Africa lungo la rotta del capo di Buona Speranza. Un salto all’indietro nel tempo, a prima dell’apertura del canale nel 1869. SeaIntel Maritime Analysis, che segue i flussi commerciali via mare, Il Cairo/RIYADH INVESTE DOPO AVER FINANZIATO IL GOLPE CONTRO LA FRATELLANZA po “Sinai Province”, legato allo Stato Islamico. L’attentato sarebbe stato sferrato da un kamikaze con un camion-bomba e sarebbe seguito ad un assalto che ha permesso ai miliziani di confiscare armi. E se la penisola del Sinai resta sotto stato di emergenza, il resto del paese vive quotidianamente nella morsa della censura e della repressione. guerra contro lo Yemen, nella repressioNelle scorse settimane le luci si erano acne dei movimenti islamisti legati alla Fracese sulle proteste dei medici egiziani, apertellanza, nelle politiche contro la Striscia ta sfida al regime che dal golpe del 2013 ha di Gaza governata da Hamas e nella battavietato manifestazioni di piazza: a metà febglia per salvare i proventi del petrolio, il braio 4mila dottori hanno preso parte ai cui prezzo è in caduta libera. sit-in e le riunioni organizzate dal sindacaNon è un caso che il denaro proposto sato di riferimento per combattere le violenze della polizia contro gli staff ospedalieri. Chiedevano le dimissioni del ministro della Sanità, dopo il pestaggio di due dottori dell’ospedale cariota di Matariya all’inizio di gennaio da parte della polizia: i due medici, Ahmed Abdullah e Moamen Abdel-Azzem, si erano rifiutati di contraffare un referto e sono stati arrestati, dopo le botte. Dopo un mese la IL CAIRO, PROTESTA DEI MEDICI CONTRO LA REPRESSIONE E LA TORTURA LAPRESSE situazione non è cambiata e sono tornati a protestare conrà investito in Sinai, zona calda di attentati tro «una violenza cronica», chiedendo ine scontri contro gruppi armati islamisti, la chieste contro i poliziotti responsabili delle minaccia che serve ad al-Sisi per stringere aggressioni. Il giorno dopo, il 21 marzo la morsa all’interno e all’esterno. Il giorno scorso, il Ministero dell’Interno ha convoprima dell’annuncio del miliardo e mezzo cato due dottori, ufficiosamente, per regiin più, l’ultimo episodio: 15 poliziotti sono strare le loro testimonianze e decidere se stati uccisi nell’attacco del checkpoint proseguire nelle indagini contro i poliziotti. al-Safa ad al-Arish, poi rivendicato dal grup- Soccorso al generale-presidente: 1,5 miliardi di dollari dai Saud Chiara Cruciati I l modello Al-Sisi ha ormai plasmato il volto dell’Egitto: a cinque anni dalla caduta di Mubarak e di una rivoluzione popolare che ha fatto storia, il paese è stato ridotto all’ombra di se stesso. Preda di un terrorismo che più che islamista è di Stato. Il generale-presidente ha un obiettivo: far tornare il Cairo il centro decisionale della politica araba. Per farlo infiamma la guerra civile libica con il sostegno indefesso al general Haftar, capo delle forze armate del governo di Tobruk, sfrutta l’emergenza Isis per ottenere aiuti militari e pulirsi la coscienza fuori, sventola sotto il naso dell’Europa le ricchezze energetiche del paese. E rafforza i legami con il Golfo: l’Arabia Saudita, la stessa che ha finanziato il colpo di Stato anti-Fratelli Musulmani, oggi investe in Egitto ingenti somme. Il 20 marzo scorso il paese nordafricano ha fatto sapere di aver ricevuto un’altra offerta: 1.5 miliardi di dollari per sostenere economicamente i progetti di sviluppo nella penisola del Sinai. Tra i progetti ci sarà la costruzione di un’università, di zone agricole e zone residenziali. Una somma consistente che si aggiunge agli 8 miliardi messi sul tavolo a dicembre per investimenti da portare avanti nei prossimi 5 anni e l’accordo per fornire al Cairo greggio nello stesso quinquennio. Così la longa manus saudita si prende l’Egitto, schiacciato dalla crisi economica, e l’intero pacchetto: sostegno nella sto avrà cento milioni di abitanti. A tenere in affanno al Sisi e il suo entourage è anche la sofferenza del turismo, tra le voci principali per le casse statali, figlia della instabilità e della violenza. Già prima del sanguinoso colpo di stato che ha deposto il presidente Mohammed Morsi nel 2013 e della feroce repressione della Fratellanza Islamica, il "Washington Institute" aveva calcolato in 2,5 miliardi di dollari le perdite del turismo. Poi è giunto il colpo durissimo dell’attentato dell’Isis, lo scorso novembre, a un aereo della Metrojet decollato da Sharm el Sheikh in cui hanno perduto la vita oltre 200 turisti russi. In questo clima è utopistico pensare IL CAIRO, IL GENERALE PRESIDENTE AL-SISI FOTO LAPRESSE che possa avere successo il piano quinquennale che punta ad riferisce che nell’ultimo trimestre raggiungere venti milioni di presendel 2015 decine di mercantili di ze turistiche e 26 miliardi di dollari grosso tonnellaggio che dall’Asia naentro il 2020. vigavano verso l’Europa hanno scelCerto al Sisi punta anche allo to di non passare per Suez approfitsfruttamento, assieme alla italiana tando del calo del prezzo del petroEni, dell’enorme giacimento di gas lio del 70%. Tenendo presente che scoperto davanti alle sue coste. Tutle navi commerciali di grandi ditavia che questa risorsa finirà per rimensioni quasi sempre hanno bisovelarsi un tesoro per l’Egitto è ancogno di pagare anche un pilota ad ra da dimostrare. Per ora mancano i hoc per attraversare il canale e che fondi per dare una risposta a decine devono versare un pedaggio all’Egitdi milioni di egiziani che non hanto che varia dai 250.000 a 465.000 no un lavoro o sono sottopagati e dollari, il costo totale di un viaggio, riescono a malapena a sopravvivecarburante incluso, supera i 700.000 dollari. Passare per il capo di Buona Speranza comporta un I portacontainer viaggio più lungo di almeno 10 giorni e un consumo extra di carburane i mercantili tornano te di 328.000 dollari ma, tirate le a circumnavigare somme, alla fine del viaggio le compagnie registrano un risparmio di olil continente africano tre 300.000 dollari. come prima del 1869 Il canale resta il passaggio preferito per l’8% del traffico commerciale re. L’aiuto esterno è fondamentale mondiale e l’Egitto, comunque sia, per tenere a galla il regime ma i i nel 2015 ha incassato da Suez 5.36 sauditi, generosi finanziatori di al Similiardi di dollari. Eppure il sogno si, che hanno puntellato l’econodi al Sisi è già svanito. Il raddoppio mia egiziana dopo il colpo di stato del canale, costato ben otto miliardi del 2013 (Riyadh da sempre guarda di dollari (pagati tutti dal popolo egicon sospetto ai Fratelli Musulmaziano) potrà rivelarsi una miniera ni), non appaiono più disposti a red’oro solo se il prezzo del petrolio galare o a investire i loro miliardi di tornerà oltre i 70 dollari al barile. dollari senza una sicura contropartiUna possibilità lontana di fronte ta politica. Il Cairo pur aderendo alall’abbondanza del greggio sul merle alleanze e alle iniziative proposte cato mondiale causata dall’eccesso dalla monarchia sunnita contro di produzione e dalla recessione l’Iran e i suoi alleati, negli ultimi economica. Per il presidente egiziatempi ha migliorato i rapporti con no è un colpo duro che rallenta piaDamasco nemica di Riyadh. I saudini di sviluppo, anche edilizio, che ti perciò hanno fatto sapere che la dovrebbero alleggerire la disoccupapromessa di investimenti per otto zione (nel 2015 era intorno al miliardi di dollari e di forniture di 14-15%), la conseguenza più grave petrolio a costo stracciato, sarà della crisi dell’economia egiziana mantenuta solo se l’Egitto seguirà che non cresce quanto dovrebbe senza esitare la linea dettata da re per creare un numero sufficiente di Salman. posti di lavoro in un Paese che pre- pagina 4 il manifesto MERCOLEDÌ 30 MARZO 2016 POLITICA Trivelle • Il premier fa propaganda dagli Usa: un mondo solo di energie rinnovabili è un sogno. Wwf e Greenpeace: il suo governo favorisce le fonti fossili Il Pd è già in tv per l’astensi astensi Andrea Fabozzi ROMA L’ identità del partito. La minoranza interna attacca la decisione del Pd di schierarsi per l’astensione al referendum sulle trivellazioni richiamando i tratti originari del partito. «Partecipare al referendum del 17 aprile e votare parla all’identità costitutiva del Pd», dice il senatore bersaniano Miguel Gotor. «Pd è simbolo di partecipazione democratica e di assunzione di responsabilità, l’astensione è la negazione di questi principi», scrive su facebook il capofila della minoranza, Roberto Speranza. La replica del fronte renziano attinge alle stesse munizioni. Ma anche al lavoro di archivio del comitato per il non voto «Ottimisti e razionali» che da giorni sta richiamando un precedente scomodo per gli ex democratici di sinistra. Ernesto Carbone, deputato calabrese fedelissimo del segretario Pd, rimanda su twitter un vecchio manifesto dei Ds che invita all’astensione in occasione del referendum sull’articolo 18 del 2003: «Non votare un referendum inutile è un diritto di tutti». Nella memoria della rete si può trovare anche di più, dall’annuncio di D’Alema che diserterà quel referendum alle argomentazioni di Bersani, nella stessa occasione: «Il non voto è una scelta consapevole, questo referendum è percepito come non utile». «Inutile» è la stessa espressione richiamata da Renzi per augurarsi il fallimento del prossimo referendum. È vero che quel partito di 13 anni fa (segretario Fassino, oggi renzianissimo) è lo stesso che al successivo referendum sulla procreazione assistita attaccò i vescovi e lo schieramento cattolico per la propaganda pro astensione, ma il precedente dell’articolo 18 (il referendum era stato proposto per estenderlo, oggi com’è noto il diritto al reintegro nel posto di lavoro è stato sostanzialmente abolito per legge) è un colpo basso per i bersaniani. Che infatti rispondono debolmente: «Basta nascondersi dietro un passato di cui nessuno più neanche si ricorda», dice Davide Zoggia; «ciò che era sbagliato nel 2003 lo è anche oggi», dice Nico Stumpo. Mentre le polemiche vanno avanti, però, il partito del presidente del Consiglio ha già cominciato a fare la sua atti- La minoranza interna chiede di correggere la posizione sul referendum nella (ancora lontana) prossima direzione: «Possiamo cambiare rotta». Ma da ieri i rappresentanti del partito sono nelle tribune politiche Rai e stanno invitano gli elettori a non votare AL CENTRO, TRIVELLE AL LARGO DI RAVENNA NELL’ADRIATICO FOTO DINO FRACCHIA va campagna per l’astensione. Ieri è partito il ciclo delle tribune politiche sulla Rai previste dalla delibera della commissione di vigilanza, e la responsabile ambiente del Pd Chiara Braga si è seduta accanto al rappresentante dei «circoli ambiente e cultura rurale» per invitare all’astensione: «È una scelta costituzionalmente fondata che esprime dissenso verso un referendum fuorviante». L’Agcom ha recentemente fotografato il pochissismo spazio dato dai telegiornali pubblici e privati al referendum, e per chi spera nella vittoria degli astensionisti non può esserci aiuto migliore. Ma anche nei pochi spazi previsti troveremo quasi sempre il Pd, favorito dall’essere l’unico partito ad aver scelto l’astensione. Su tredici tribune politiche da qui al 15 aprile, i democratici saranno presenti in nove, tre delle quali (ieri, oggi e dopodomani) andranno in onda prima della riunione della direzione in teoria dedicata a scegliere la posizione ufficiale del Pd rispetto al referendum. Alla quale guarda ancora Speranza: «Mancano sei giorni, siamo ancora in tempo per cambiare rotta». La scelta dell’astensione non è stata annunciata pubblicamente dal partito, si è dovuto leggerla a tarda sera giorni fa sul sito dell’Agcom. Poi i due vice segretari Guerini e Serracchiani l’hanno presentata come una loro autonoma decisione (la prima?) per evitare il coinvolgimento formale del segretario e capo del governo. La direzione del 21 marzo avrebbe dovuto «ratificare» la scelta: «Vedremo chi ha in numeri per utilizzare il simbolo del Pd», disse Serracchiani. Lo si può certo immaginare, ma non lo si è potuto vedere e contare perché la direzione fu annullata all’ultimo momento in segno di lutto per l’incidente in Catalogna costato la vita a sette studentesse italiane. La prossima direzione ci sarà solo lunedì 4 aprile, tredici giorni prima del voto. Nel frattempo Matteo Renzi ha preso al volo l’occasione del viaggio negli Stati uniti - in Nevada, per inaugurare un impianto Enel per la produzione di energia da fonti rinnovabili - per attaccare, senza citarlo, il referendum. «Un mondo che va avanti solo per rinnovabili per il momento è un sogno - ha scritto - il petrolio e il gas naturale serviranno ancora a lungo, non sprecare ciò che abbiamo è il primo comanda- mento per tutti noi». Gli hanno risposto i portavoce italiani del Wwf e di Greenpeace, ricordando come il governo Renzi abbia «tagliato retroattivamente gli incentivi al fotovoltaico» e, al contrario, «aumentato gli incentivi ai combustibili fossili». Fca / SIGLA UNICA NEI SOGNI DI MARCHIONNE E DEL PREMIER. LA CORSA DEL LEADER FIM AL TRONO CISL Tute blu e quadri marciano insieme Bentivogli lancia il «sindacato Renzi» Antonio Sciotto P er commentare l’intesa siglata ieri alcuni hanno scomodato addirittura la Marcia dei Quarantamila del 1980, ma certo il contesto è molto diverso: sia dal punto di vista sindacale, che rispetto al ruolo che la Fca (già Fiat) gioca nel nostro Paese. Sempre forte simbolicamente, ma non più centrale come 35 anni fa. L’accordo tra tute blu e impiegati della Fim Cisl con l’AQCF (Associazione quadri e professional) non è però da prendere sottogamba perché scompagina il quadro delle relazioni industriali (oggi piuttosto faticose su tanti fronti) e marcia nella direzione di quel "sindacato unico" più volte evocato non solo da Sergio Marchionne ma anche dal premier Matteo Renzi. Basta modello «antagonista», spiega la stessa Fim, sì alla «partecipazione economica» e alla «unità contrattuale», anche trasversale (coinvolgendo cioè gli apparati manageriali). Un modo per mettere in soffitta il "modello Fiom"? Sicuramente la Fim Cisl, già piuttosto forte nella Fca dopo l’ultimo contratto separato, adesso si rafforza ancora di più. Con il segretario Marco Bentivogli, che al momento, con più di un jolly, gioca partite parallele su tavoli diversi. E che molti danno, sempre più spesso, in lizza per la poltrona di numero uno Cisl, al posto di Annamaria Furlan: non alla naturale scadenza (nel 2018), ma addirittura per una sostituzione in corsa. L’accordo siglato ieri permette ai delegati delle due sigle sindacali di poter condividere d’ora in poi alcuni servizi, le convenzioni, e la formazione: un modo per creare quel "punto di vista comune", prima di tutto sull’azienda, ma poi su un piano più generale. Vince lo sguardo made in Usa, tanto caro a Marchionne, come dice lo stesso Bentivogli, che in una nota spiega di aver «imparato la lezione americana»: «UAW nella vi- cenda Chrysler, con un tasso di sindacalizzazione più basso ha potuto giocare un ruolo più incisivo, nella prima fase; lo stesso vale per l’esperienza tedesca e nord-europea. Troppe sigle e troppe federazioni agevolano il corporativismo e l’autoreferenzialità. Sette sindacati in Fiat Fca sono un elemento di indebolimento utile solo a moltiplicare agibilità e incarichi. Dove si pratica la partecipazione ci sono 1 o al massimo 2 sindacati». «La Fim - spiegano gli stessi metalmeccanici Cisl - è prima nel gruppo Fiat e CNH Industrial come numero di iscritti (23,1%). Seguono Uilm (22,2%), Fismic (17,8%), AQCF (17,8%), Fiom (15,3%) e UGLM (3,9%)». La somma dei due nuovi alleati sfonderebbe insomma quota 40%. Se la partita del sindacato unico non è andata in porto con le altre sigle - tentativi sono stati fatti con la Uilm, ma anche con il Fismic di Roberto Di Maulo - la scelta di legarsi ai quadri potrebbe rivelarsi MARCO BENTIVOGLI, SEGRETARIO FIM CISL ancora più innovativa, e per questo premiare la Fim: visto soprattutto che Fca non è più dentro Federmeccanica, segue dinamiche contrattuali tutte proprie, e quindi un asse privilegiato con Marchionne non è da sottovalutare. L’altra partita - in questo caso unitaria con Fiom e Uilm - è quella con Federmeccanica per il rinnovo del contratto nazionale. Se la Fiom decide di non commentare (abbiamo interpellato il responsabile Auto), è la Uilm a bocciare l’intesa tra la Fim e l’AQCF, spiegando che non ha alcun senso sindacale riunire insie- me gli interessi di tute blu e impiegati con quelli dei quadri. «Qualche anno fa l’idea del sindacato unico l’aveva lanciata lo stesso Marchionne, e poi Di Maulo e Bentivogli l’avevano ripresa spiega al manifesto Rocco Palombella, segretario generale Uilm Io l’ho sempre rifiutata: noi siamo per il modello plurale». «Con Fim e Uilm possiamo pure litigare - prosegue il leader dei metalmeccanici Uil - ma abbiamo storia e obiettivi comuni. Prendiamo ad esempio la genesi di un sindacato come il Fismic: è un caso unico, è stata accompagnata dalla Fiat. E gli stessi quadri sono organizzati per esclusiva volontà aziendale: hanno una visione corporativa, mentre noi puntiamo a tutelare la generalità dei lavoratori». Palombella spera adesso che il quadro compatto che si era creato sul contratto Fca «non si rompa: ma è chiaro che non si può vedere l’epilogo di questa nuova strana alleanza». Quanto alla Fiom, «io continuo a invitare Maurizio (Landini, ndr) a entrare nell’unico contratto esistente, il nostro, e a lavorare con noi per migliorarlo. Solo prendendosi le sue responsabilità, la Fiom potrà incidere: non basta restare fuori per esorcizzare». DALLA PRIMA Valentino Parlato Un No e un Sì per scegliere i candidati Per tutto questo mi pare necessario che tutti i candidati democratici alle prossime amministrative di giugno prossimo si impegnino pubblicamente fin da ora a votare no al referendum costituzionale proposto dal governo del rottamatore Matteo Renzi. E noi voteremo per questi. Quindi la nostra campagna per il NO a questo assurdo referendum deve partire già oggi mobilitandoci già alle amministrative. Più sindaci dichiaratamente contrari al referendum saranno eletti alle amministrative di giugno e più la campagna per il No al referendum di ottobre sarà rafforzata. P.S. L’impegno dei sindaci è importante. E l’esempio dei 12 sindaci della costiera amalfitana che si sono espressi per il Si al referendum del prossimo 17 aprile per bloccare le trivelle è da seguire. il manifesto MERCOLEDÌ 30 MARZO 2016 pagina 5 POLITICA 17 aprile • «Mi sembra un errore grave dire ai cittadini che non bisogna andare a votare» GIANFRANCO GANAU Gianfranco Ganau, Pd, fra i promotori della consultazione: «Va definita una politica energetica nazionale che sposti risorse sulle rinnovabili» ione «Un sì per rispettare gli accordi di Parigi» Intervista al presidente del consiglio regionale sardo Costantino Cossu I n Sardegna la campagna per il sì al voto del 17 aprile vede in prima linea il consiglio regionale, che il 23 settembre scorso ha approvato due mozioni e gli ordini del giorno con i quali è stata attivata la procedura per rendere possibile il referendum. «Chiediamo - dice il presidente del consiglio Gianfranco Ganau di ripristinare le date di scadenza delle concessioni, ma vogliamo che sia chiaro che c’è un significato politico più ampio». Ganau, Pd, è tra i primi promotori della raccolta di firme per la consultazione popolare, e anche da sindaco di Sassari ha sempre tenuto una posizione di tutela delle coste dell’isola messe a rischio dai progetti di perforazione dei fondali marini alla ricerca di gas e petrolio. Qual è il segno politico del refe- rendum? L’ambiente è un nodo strategico primario. Lo è in Sardegna, dove è una risorsa fondamentale per la definizione di un modello economico alternativo a quello della grande industria chimica, che nella nostra regione è giunto ormai al capolinea. Dopo aver detto per decenni sempre ‘sì’ al petrolchimico, con risultati spesso discutibili, ora non possiamo condizionare le scelte di un settore per noi vitale, come il turismo, agli interessi dei petrolieri che vogliono avere mano libera sui nostri fondali. Ma oltre l’orizzonte regionale, che pure è decisivo per noi, c’è anche un orizzonte più vasto, che è quello della politica energetica nazionale e della coerenza di questa politica rispetto agli impegni presi dal nostro paese in sede internazionale. Non si possono sottoscrivere accordi come quelli Comunali/ IL TENTATIVO DI CONVINCERE BERLUSCONI A MOLLARE BERTOLASO Il miraggio del grande centro all’ombra del Cupolone. Casini in pressing per Marchini Andrea Colombo B ei tempi quando un Neri Marcorè alle prime armi imitava Pier Casini e la sua libidine per un «grande centro» capace di controbilanciare l’onnipotenza di Arcore per poi allearcisi condizionandolo. Quasi 20 anni più tardi, dopo una lunga pausa in panchina, il Pier è di nuovo in campo e ancora una volta col miraggio del «grande centro». Ma stavolta l’ex alleato-rivale, ormai quasi in stracci, dovrebbe esserne parte integrante. Un centro tale da riunire le mille schegge dell’antico centrodestra non lepenizzate per poi trattare, ma da posizioni forti, con i lepenizzati in questione. Questo è l’obiettivo finale dell’intenso lavorio diplomatico grazie al quale il redivivo spera di far convergere su Alfio Marchini ciò che resta dell’armata berlusconiana, sacrificando Bertolaso. L’intesa dovrebbe essere il primo passo verso la sempiterna «riunificazione dei moderati». Bertolaso, per la verità, giura di non avere la minima intenzione di fare passi indietro, anche se invia bigliettini dolci al belloccio: «Io e lui siamo gli unici a parlare dei problemi dei romani. E’ bene vedere se con Marchini sono possibili sinergie». Per inciso, la ricetta dell’ex capo della Protezione civile per «i romani» è bonificare il Tevere, renderlo balneabile e riempirlo di stabilimenti. Un lavoretto che al confronto Ercole a Frigia si riposava. Per tornare all’auspicata «sinergia», si tratterebbe, per Marchini, di accontentarsi del posto eminente di gran visir. «Se Marchini è disponibile a darmi una mano con ruolo diverso da quello di sindaco io sono ben contento». Il bello è che proprio lo stesso disegno, a parti rovesciate, hanno in mente i numerosi tifosi di Marchini annidati nel cuore dello stato maggiore berlusconiano e di fatto concordi con il bel Pier. Anche se non lo confesserebbero mai pubblicamente, sono in molti gli azzurri tentati dal cambio di cavallo. I romani, Tajani e Giro, la pensano così e il primo lo nasconde meno del secondo. Sarebbero orientati al medesimo modo i fedelissimi che contano davvero, Gianni Letta e soprattutto Confalonieri. Silvio no. Lui in Bertolaso ci crede e a tutt’oggi non ha intenzione di mollarlo. Però mai dire mai, tant’è vero che in privato alcuni degli ufficiali più vicini al capo esitano: «Berlusconi deciso a sostenere Bertolaso a tutti i costi? Insomma... Fino a un certo punto». Quel «certo punto» ha una definizione precisa: sondaggi. Sono loro che, impietosi, profetizzano il disastro per il candidato di Arcore. Nella migliore delle ipotesi Bertolaso sta 7 punti e passa sotto Meloni, anche se batte Marchini di misura. Il peggio è che non ne azzecca una. Quando si misura coi programmi finisce a promettere la resurrezione del biondo Tevere. Quando fa l’amabile, confessa che la moglie «potrebbe votare per Giachetti». Il cambio di cavallo sarebbe nell’ordine delle cose. Comprendere la resistenza di Berlusconi non è di conseguenza facile. Almeno in parte, tiene su Bertolaso per evitare una frattura nel partito altrimenti quasi certa. Se i centristi e l’azienda gli suggeriscono di portare acqua al mulino stanco di Marchini, l’intero gruppo dirigente del nord è di parere opposto. Se cade Bertolaso, i voti azzurri devono rimpolpare Giorgia. Giovanni Toti lo dice apertamente: «Bertolaso è il nostro candidato, se resta in campo Fi lo sosterrà fino in fondo. Ove si ritirasse, l’unica scelta sarebbe andare sulla Meloni». E’ probabile che evitare uno scontro interno che dilanierebbe quel che resta del partito azzurro sia una delle ragioni che spingono Berlusconi a resistere sul cavallo che sembra al momento il più perdente. L’altra possibilità è quella di cui si dice certa Giorgia Meloni: «Berlusconi vuole solo farmi perdere, ma se decide di perdere con Bertolaso non è più il leader del centrodestra. Un accordo tra Bertolaso, che io prenderei come city manager, e Marchini sarebbe un nuovo Nazareno». I leghisti sono più secchi: «Bertolaso è la prova che il Nazareno c’è ancora». Come finirà a Roma non si sa. Il nuovo centrodestra, invece, pare proprio già finito. definiti recentemente a Parigi alla Conferenza mondiale sul clima e poi consentire alle grandi compagnie di ottenere concessioni di sfruttamento dei giacimenti italiani senza scadenza. Non si può far decidere ai petrolieri quando e quanto prelevare. C’è chi in questi giorni agita lo spettro della perdita di posti di lavoro. E’ un problema che viene sollevato in maniera strumentale. Si crea un allarmismo del tutto ingiustificato. Se il sì vince, infatti, le piattaforme attualmente esistenti non saranno per forza smantellate. Saranno solamente ripristinate le date di scadenza delle concessioni, che non sono di breve periodo: si va dai dieci ai quindici anni. Durante i quali è sperabile che venga definita una politica energetica nazionale che sposti risorse - investimenti e occupazione - verso i settori delle energie rinnovabili, coerentemente agli impegni presi a Parigi. Questo è il futuro, in questa direzione bisogna andare. E sull’invito all’astensione che viene dalla segreteria nazionale del suo partito? Non mi stupisco che dentro un grande partito come il Pd anche sulla questione delle trivelle ci sia dibattito e si esprimano posizioni differenziate. Rientra nella normalità. Capisco che in Sardegna, ad esempio, ci possano essere dirigenti che si sentono più vicini alle posizioni della segreteria e altri che hanno una sensibilità, diciamo così, pro industria. Ma non è questo il punto. Il punto è che non si può schierare tutto il Pd per l’astensione. Chi è per il no lo dica, altrettanto chi è per il sì. Argomentando, possibilmente, le due diverse scelte. Ma dire ai cittadini che non bisogna andare a votare mi sembra un errore grave. La partecipazione a scelte decisive per l’intera collettività nazionale, attraverso uno strumento di larga consultazione popolare come il referendum, non può essere vista come un rischio o, ancora peggio, come una minaccia. Il Pd, ma tutte le forze politiche in Italia, hanno un problema serio di rapporto con i cittadini. Dare indicazione di astenersi al referendum del 17 aprile non mi sembra che aiuti nessuno a risolverlo, questo problema. L’informazione ha fatto tutto ciò che doveva fare sul referendum? Lo ripeto: il referendum ha un significato politico generale. Si deve decidere se sulle politiche energetiche nazionali dobbiamo andare avanti o tornare indietro. I media devono capire la portata della posta in gioco. Per questo mi associo all’appello di quanti in queste ore stanno sollecitando una maggiore informazione sul quesito abrogativo del 17 aprile. Il voto è una buona occasione per chiedere che le politiche energetiche nazionali siano sostenibili. NAPOLI De Magistris a Renzi «Giù le mani dalla città» «S ignor presidente del Consiglio, se pensa di mettere le mani sulla città lei sarà respinto, come è capitato anche ad altri, con fermezza e risolutezza». Così il sindaco di Napoli Luigi de Magistris conclude la sua video-risposta a Renzi, che ha accusato il comune di aver ritardato l’azione del governo per riqualificare Bagnoli e annunciato che sabato sarà in città. Il sindaco ribatte: «A Bagnoli c’è stato uno sperpero di denaro pubblico incredibile, un disastro ambientale e i principali responsabili di quello scempio appartengono al suo partito». E attacca: «A Napoli funziona così, ogni 5 anni si vota e il popolo elegge un sindaco. Non funziona che si diventa presidente del Consiglio con una manovra di palazzo... che si prova a governare facendo accordi con persone condannate in primo grado per corruzione... che si salvano le banche a danno dei risparmiatori». Dialogo sì, conclude, ma «nel rispetto della Costituzione e della democrazia». CAMPIDOGLIO A Roma 100 banchetti per Fassina sindaco S i candida o non si candida? Questa mattina l’ex sindaco di Roma Ignazio Marino potrebbe rompere gli indugi - in occasione della presentazione del suo libro alla Stampa estera - ma anche no. In ogni caso Stefano Fassina non aspetta le prossime mosse del chirurgo per annunciare che venerdì 2 e sabato 3 aprile a Roma saranno allestiti oltre 100 banchetti per la presentazione della sua candidatura a sindaco della Capitale e del programma elettorale costruito insieme alla coalizione politica, sociale e civica che lo sostiene. Nell’occasione Fassina «incontrerà le cittadine e i cittadini per illustrare i punti del programma per Roma e spiegare le ragioni di questa iniziativa politica», annuncia il comitato per Fassina sindaco di Roma. MILANO Cappato: «Mi candido per i referendum» I l consigliere comunale dei Radicali Marco Cappato annuncia la presentazione di una lista e la sua candidatura a sindaco di Milano, lamentando «il sabotaggio dei referendum propositivi» sulla messa a disposizione di 25mila nuovi alloggi in edilizia sociale senza consumo di suolo; la riapertura dei Navigli; una nuova linea del metrò, l’allargamento di Area C; l’ampliamento degli spazi verdi e la destinazione a parco del 50% dei grandi interventi urbanistici. Dopo 275 giorni dal deposito delle prime mille firme, «il Comitato - dice Cappato - non ha ancora ricevuto il via libera per la raccolta. Solo una grande mobilitazione istituzionale e politica potrebbe consentire di mettere al sicuro i referendum prima del deposito delle liste per le elezioni». Insomma, se uno degli attuali candidati sosterrà i referendum radicali, la lista potrebbe non essere collegata a Cappato come candidato sindaco. pagina 6 il manifesto MERCOLEDÌ 30 MARZO 2016 OMISSIONE COMPIUTA BELGIO · Ancora polemiche sugli errori dell’intelligence. Il freelance rilasciato: «Sono anti-Isis» Bruxelles-Parigi, due anni di jihadismo L’AEROPORTO DI ZAVENTEM, A UNA SETTIMANA DALL’ATTENTATO, A DESTRA HOOLIGAN NEONAZISTI IN PIAZZA A BRUXELLES LAPRESSE A. Mas. BRUXELLES E ra stato lasciato scorrere come poco più che un comune fatto di cronaca, l’attentato al Museo ebraico di Bruxelles, il 24 maggio del 2014 nel centralissimo quartiere dei Sablon. Tra le viuzze, le belle piazzette e i locali di questa sorta di Trastevere in salsa belga, un uomo aveva parcheggiato un’Audi nera in doppia fila, era entrato all’interno e aveva cominciato a sparare. Poi era fuggito lasciando a terra, uccisi, un dipendente belga del museo, una volontaria francese e una coppia di turisti israeliani cinquantenni. Era la vigilia delle elezioni europee e la notizia non rimase a lungo sulle prime pagine dei giornali e nei titoli dei tg. Le autorità lo qualificarono subito come un «atto antisemita» e una settimana dopo nella stazione ferroviaria di Saint Charles fu fermato un ventinovenne franco-tunisino, Mehdi Nemmouche, pro- Le prove generali con l’attentato al Museo ebraico del 2014, alla vigilia delle elezioni europee veniente da Roubaix, città deindustrializzata del nord della Francia dove il 20 per cento della popolazione è di religione musulmana (ma con forti politiche di integrazione) e con gravi problemi sociali: oltre la metà della popolazione vive sotto la soglia della povertà e il tasso di disoccupazione è al 22 per cento. Nemmouche era finito in carcere per una rapina nel 2006, lì si era radicalizzato e, una volta uscito, nel 2013 se n’era andato a combattere in Siria. Al momento dell’arresto, gli erano stati trovati addosso il kalashnikov e la pistola utilizzati nell’attacco al Museo ebraico. Solo ora emergono i legami con la cellula jihadista degli attentati di Parigi e Bruxelles. Nemmouche era legato ad Abdelhamid Abaaoud, considerato la mente degli attentati di Parigi e il New York Times, citando fonti di intelligence e giudiziarie europee e statunitensi, scrive che l’attacco fu organizzato per «testare» la capacità di reazione delle forze di sicurezza belghe. Che non fu granché, visto che il museo era sostanzialmente incustodito, nonostante rappresentasse un potenziale bersaglio di azioni terroristiche, e l’attentatore solitario poté con tutta calma arrivare in auto, rimontare a bordo dopo la strage e tornarsene in Francia senza che nessuno lo fermasse. Missione compiuta, per gli jihadisti belgi, che in due anni avrebbero poi avuto tutto il tempo di fare anche altri «test», anche se non è chiaro quali, prima di organizzare gli ultimi attentati, che sarebbero potuti essere ancora più devastanti se la cellula non avesse deciso di anticipare tutto per «vendicare l’arresto di Abdeslam Salah». Tra gli attentatori di Bruxelles non ci sarebbe Faiçal Cheffou, il giornalista free lance arretato con l’accusa di essere «il terzo uomo» dell’attentato all’aeroporto e poi rilasciato. Cheffou si è detto completamente innocente, aggiungendo di essere contro l'Isis e assicurando di non aver alcun legame con gli attentatori, ha spiegato il suo avvocato Olivier Martins. Alla base dell’errore giudiziario ci sarebbe il riconoscimento del tassista Cheffou ha pure anche di aver reclutato aspiranti jihadisti nel parco Maximilien a Bruxelles, dove vivono in alloggi di fortuna centinaia di migranti (due anni fa vi arrivò pure la Carovana no border di attivisti e richiedenti asilo da tutta Europa). Il sindaco di Bruxelles Yvan Mayeur aveva emesso una diffida nei suoi confronti a settembre, impedendogli di entrare nel parco e ancora ieri ha insistito, definendolo «un agitatore» e un «potenziale reclutatore di jihadisti». Secondo il suo legale, Cheffou avrebbe un alibi per le ore degli attentati, verificabile pure dai tabulati telefonici. Ma le polemiche sugli errori dell’intelligence belga non si placano. Il ministro della Giustizia olandese, Ard van der Steur, ieri ha detto davanti al Parlamento de L’Aja che l’Fbi aveva trasmesso alla polizia olandese informazioni sui precedenti criminali ed estremisti dei fratelli Ibrahim e Khalid El Bakraoui, i kamikaze dell’aeroporto di Bruxelles, il 16 marzo, sei giorni prima degli attentati. Il giorno dopo le informazioni sarebbero state girate alla polizia belga, che però ha smentito l’accaduto, confermando solo un incontro e alcune «comunicazioni» dopo sull’operazione anti-jihadisti di Forest. Intanto, un consigliere comunale socialista di Molenbeek, Jamal Ikazban, ha denunciato il fatto che domenica sera sms di propaganda jihadista sarebbero stati inviati a diversi giovani del luogo. Il messaggio, proveniente da un numero di una carta prepagata irrintracciabile, fotografato e pubblicato su Twitter dal politico, recitava in francese: «Fratelli miei, perché non unirsi a noi per combattere gli occidentali? Fate le scelte giuste nella vostra vita». ULTRADESTRA · Pronti a marciare su Molenbeek Nuovo fenomeno hooligan, casual e islamofobo Guido Caldiron L’ appuntamento è fissato per il prossimo sabato pomeriggio nella piazza principale di Molenbeek con uno slogan che per una zona dove vivono diverse decine di migliaia di musulmani si presta a inevitabili, e voluti, fraintendimenti provocatori: «Fuori gli islamisti dall’Europa!». Génération Identitaire, la formazione più consistente dell’estrema destra francese, che a Bruxelles è legata al gruppo Nation più volte coinvolto in aggressioni ai danni di migranti e clochard, ha lanciato via social un appello «alla gioventù europea» per una manifestazione nel quartiere presentato come «il simbolo di una guerra che non si combatte a Palmira o Mosul, ma tra le mura di casa nostra». Dopo aver scandalosamente consentito che il giorno di Pasqua poco più di 400 hooligan marciassero fino al cuore di Bruxelles per minacciare e aggredire i partecipanti a una manifestazione per la solidarietà e contro il terrorismo cui prendevano parte anche molte famiglie musulmane, le autorità annunciano ora che «nessun raduno estremista sarà consentito sabato a Molenbeek». Più probabile che in luogo della «grande manifestazione europea» annunciata ci sia un’iniziativa numericamente non troppo rilevante ma dagli esiti impre- Dalla Francia la chiamata alla «gioventù europea», le autorità belghe vietano il raduno INTERNET · L’Fbi ha forzato un iPhone di un terrorista ucciso senza l’aiuto di Apple La vittoria dei cybersmanettoni BenOld I l «Federal Bureau of Investigation» ha vinto il braccio di ferro con la Apple. Il contenzioso è nato recentemente con la richiesta della Fbi alla società della mela morsicata di avere le informazioni necessarie per «entrare» nella memoria dell’iPhone di uno dei terroristi che a San Bernardino hanno compiuto, in nome della jihad, un’azione dove sono morti diciannove cittadini statunitensi. Il terrorista è rimasto ucciso nel conflitto a fuoco con la polizia, ma la Fbi è convinta che le informazioni potevano risultare utili per smantellare la «rete» di combattenti islamici presenti in California. La richiesta è stata respinta con una solenne presa di posizione di Tim Cook in favore della privacy degli utenti possessori di dispositivi Apple. Una volta appreso il rifiuto, la Fbi si è rivolta alla magistratura per imporre ad Apple di fornire le chiavi per aggirare i sistemi di sicurezza. In fondo, per la Fbi la rinuncia alla privacy di un uomo morto era il prezzo minimo da pagare per garantire la sicurezza nazionale. Ieri, infine, l’annuncio che la Fbi è riuscita ad accedere alle informazioni memorizzate sull’iPhone senza l’aiuto di Ap- ple. Immediata la reazione di Tim Cook, che vuol sapere come l’ente investigativo sia riuscito a violare la sicurezza dello smartphone. In ballo, per l’amministratore delegato della Apple, è la sicurezza di tutti i possessori di iPhone. Nel frattempo il tam tam della Rete ha fatto rimbalzare di nodo in nodo l’ipotesi che la Fbi abbia assoldato un hacker (o più hacker) per forzare i sistemi di sicurezza. Non sarebbe infatti la prima volta che la Fbi assolda Hacker assoldati dagli investigatori federali o consulenza di società israeliana hacker per compiere operazioni di cyberpolizia. Altrettanto accreditata è l’ipotesi che tra gli «smanettoni» della Fbi ci sono tecnici molto qualificati che non hanno nulla da invidiare al «virtuosismo della programmazione» di molti hacker. D’altronde la possibilità che un investigatore della Fbi potesse «violare» l’iPhone senza nessun aiuto da parte della Apple era stata prospettata da Edward Snowden, l’ex-consulente informatico della National Security Agency che ha denunciato i sistemi di intercettazione delle comunicazioni in Rete da parte dei servizi di intelligence Usa. Ma altrettanto accreditata è l’ipotesi che dietro la forzatura dell’iPhone ci sia la società israeliana Cellebrite, da tempo usata dalla Fbi come «consulente» in cybersicurezza. Il braccio di ferro attorno all’iPhone del terrorista ha visto scendere in campo molte delle teste d’uovo della Silicon Valley. Google, Facebook, Twitter, Amazon si sono schierati con Apple. Allo stesso tempo tutte le associazioni che contano sui diritti civili dentro e fuori la Rete hanno espresso la loro solidarietà e vicinanza alla Apple. In una miscellanea di difesa dei diritti individuali e di libertà delle imprese da qualsiasi ingerenza statale, la questione della privacy è uno dei temi considerati fondamentali negli Stati Uniti. E in sua difesa si è costituita una «coalizione» a geometria variabile di attivismo civico, imprenditoria 2.0 e mediattivismo radicale. Meno indagato è il fatto che la privacy è ormai un fiorente business per imprese che sviluppano software per cancellare ogni «traccia» delle operazioni on line per chi è disposto a paga- vedibili dato il contesto già carico di tensioni in cui si inserisce. Del resto, i gruppi dell’estrema destra puntano tutto sull’ipotesi che le nostre società implodano in una sorta di guerra di civiltà a bassa intensità. Ciò che si è visto nelle strade di Bruxelles: i supporter razzisti di diverse squadre del campionato belga riuniti per l’occasione sotto la sigla di Casuals Against Terrorism, dove il casuals sta per lo stile meno appariscente adottato per sfuggire ai controlli anti-hooligan intorno agli stadi, con contorno di passamontagna, fumogeni e saluti fascisti, e gli slogan «siamo a casa nostra», «we are the belgian hooligans» (in inglese) e «fotti l’Isis», evoca da questo punto di vista un fenomeno che sta emergendo in tutto il nord Europa. Vale a dire il tentativo di una nuova politicizzazione del mondo hooligan, dopo l’importante investimento in questo senso operato dalla destra radicale tra gli anni Ottanta e Novanta, stavolta in senso smaccatamente anti-musulmano. Il primo segnale in questa direzione è arrivato non a caso dalla Gran Bretagna, dove il razzismo e la violenza scacciate manu militari dalla Premier league hanno da tempo conquistato le serie minori e perfino i campionati amatoriali. Fin dal 2009 la English Defence League, che ha riunito soprattutto tifosi di estrema destra delle squadre più note, ma anche delle équipe di provincia, ha definito la rotta organizzando manifestazioni nei quartieri dell’emigrazione musulmana a cui hanno preso parte anche migliaia di persone. Nel 2010, a Bradford, uno di questi raduni si è concluso con ore di scontri con la polizia e i giovani pakistani locali. L’Edl non si è limitata a condurre una campagna sistematica contro i musulmani in patria, ma ha sostenuto anche la formazione di simili movimenti in altri paesi, come la Dutch Defence League sorta ad Amsterdam e che appoggia esplicitamente Geert Wilders, il leader xenofobo e anti-islamico alleato in Europa di Le Pen e Salvini. Un gruppo analogo, la Ligue française de défense o Ligue 732 è nato tra i supporter del Paris Saint Germain. Il paese dove questa tendenza è però emersa negli ultimi anni, mentre il peso dell’Edl diminuiva nel Regno Unito anche a causa di conflitti interni, è la Germania, dove il cosiddetto circuito degli HoGeSa, «hooligan contro i salafiti», ha per molti versi anticipato l’arrivo sulla scena di Pegida, di cui ha finito per diventare poi una delle componenti «non ufficiali». Numerosi i casi di manifestazioni violente organizzate da questo network a Colonia, Amburgo e Hannover negli ultimi tre anni. re parcelle salatisssime, come documentato dal giornalista e studioso Jan Robinson nel volume I giustizieri della rete (Codice edizioni). In ogni caso, sia che sia un diritto da acquistare sul mercato che un argomento caldo di una «guerra culturale», dietro il tema della privacy si staglia il settore dei Big Data, cioè della raccolta, elaborazione e vendita di informazioni individuali in una società dove la connessione alla Rete è diventata una costante nelle vite di uomini e donne. La posta in gioco è dunque chi eserciterà la sovranità sui Big data. La decisione della Fbi segnala il fatto che gli Stati Uniti vogliono far parte, a pari titolo delle imprese private, della governance della «società del controllo». il manifesto MERCOLEDÌ 30 MARZO 2016 pagina 7 INTERNAZIONALE GIAPPONE · Approvate le leggi per la sicurezza, via libera ai soldati di Tokyo all’estero Abe può mettersi l’elmetto Marco Zappa T okyo potrà inviare più agevolmente truppe all’estero. Le nuove leggi per la sicurezza nazionale che rinforzano la cooperazione militare internazionale del Giappone sono entrate ufficialmente in vigore ieri, 29 marzo. I provvedimenti giungono a sei mesi di distanza dalla loro approvazione parlamentare, avvenuta tra le polemiche e le proteste popolari, a settembre 2015. La nuova legislazione permetterà al governo giapponese di inviare i soldati all’estero in caso di chiara minaccia alla sicurezza nazionale giapponese e a tutela del diritto all’autodifesa collettiva sancito dalle Nazioni unite. I militari giapponesi avranno anche più libertà d’azione in caso di scontri a fuoco con forze nemiche che coinvolgano direttamente cittadini giapponesi o truppe di paesi alleati. Si tratta del più importante cambiamento nell’atteggiamento strategico del Giappone dal dopoguerra. È anche una importante vittoria politica del primo ministro Shinzo Abe che dal 2012 cerca di rilanciare il paese anche in politica internazionale. Da una parte c’è la lunga battaglia di Tokyo per modificare il proprio status all’interno delle Nazioni unite. A ottobre 2015, il Giappone è stato eletto per l’undicesima volta a un seggio temporaneo. Ma la leadership politica punta a ottenere al più presto un seggio permanente. Dall’altra gli asset- Il provvedimento cancella il pacifismo di stato giapponese, sancito nell’articolo 9 della costituzione ti strategici regionali, in un’area del mondo, l’Asia Pacifico, sempre più coinvolta in una nuova corsa agli armamenti. Secondo uno studio del Peace Research Institute di Stoccolma, dal 2011 al 2015 la regione è al centro del mercato globale delle armi con il 46 per cento del totale degli acquisti mondiali. A fine 2015, anche Tokyo ha approvato un budget da record per la difesa da circa 42 milioni di dollari. Dalla fine del 2013 il governo di Tokyo guidato dal conservatore Abe ha orientato le proprie politiche verso il comparto sicurezza, dando l’ok alla creazione di un Consiglio di sicurezza nazionale su modello americano. Ad aprile 2015, durante una visita di una delegazione del governo di Tokyo a Washington, vengono concordate tra i due governi nuove linee guida sulla cooperazione di difesa tra Giappone e Stati uniti. Al centro di queste, un ruolo accresciuto per il Giappone nell’ambito degli accordi di cooperazione di difesa siglati nell’immediato dopoguerra. A distanza di poche settima- REPUBBLICA CECA · Incontro con il presidente Zeman Xi Jinping a Praga, accordi investimenti e soft power LE PROTESTE CONTRO LA LEGGE SULLA SICUREZZA IN GIAPPONE NEL 2015, A DESTRA XI A PRAGA /LAPRESSE ne, le nuove leggi di sicurezza nazionale approdano in parlamento. La discussione politica si fa accesa e decine di migliaia di persone, proprio in un periodo coincidente con il 70esimo anniversario della fine della Seconda guerra mondiale in Asia, scendono in piazza in tutto il Giappone contro le politiche di difesa del governo Abe. Queste - stando alle accuse delle opposizioni ma anche di categorie sociali come costituzionalisti e avvocati - vanno a calpestare il pacifismo di stato giapponese, sancito nell’articolo 9 della costituzione postbellica. Le nuove leggi rischiano, questa l’accusa, di trascinare il paese in nuove guerre americane come capitato in Iraq e Afghanistan all’inizio dei 2000. La larga maggioranza di cui il partito liberal-democratico, la prima forza politica nazionale, gode in entrambi i rami del parlamento ha reso però reso possibile il definitivo via libera alle nuove misure lo scorso settembre. Ieri il primo ministro Shinzo Abe è tornato a difendere con forza i provvedimenti. «Il contesto di sicurezza intorno al nostro paese è sempre più serio», ha spiegato il premier nipponico in conferenza stampa con chiaro riferimento al test nucleare del- lo scorso gennaio e ai recenti lanci di missili a corto e lungo raggio da parte della Corea del Nord. «Nessun paese nel mondo può proteggersi da solo», ha aggiunto Abe. Anche se apprezzato dagli Stati uniti, il nuovo atteggiamento di difesa del Giappone suscita timori soprattutto in Cina e Corea del Sud. La mossa di Abe potrebbe infatti minare la stabilità della regione. Forse anche in previsione di ciò, Tokyo ha da poco nominato un nuovo ambasciatore a Pechino, Yutaka Yokoi, studioso di Cina e perciò definito della «scuola cinese» della diplomazia giapponese, già in passato console a Shanghai, mentre è prevista una missione del ministro degli Esteri Fumio Kishida in Cina entro la primavera. Jakub Hornacek PRAGA Q uella del presidente cinese Xi Jinping a Praga è una visita storica. In questa occasione sarà firmato il Memorandum di cooperazione strategica, che la Cina ha già stretto con altri stati europei come la Francia e la Gran Bretagna. La Repubblica Ceca sarà il primo paese dell’Europa orientale a stabilire un livello di partnership privilegiato con la Cina. Nell’accordo ci sono alcuni punti salienti come il riconoscimento dell’indivisibilità della Cina, mentre i diplomatici cechi hanno dovuto respingere alcune richieste cinesi. Tra i punti scartati, secondo alcune indiscrezioni, c’era il riconoscimento della Repubblica Popolare come economia di mercato. L’avvicinamento dei due Paesi è in corso da diversi anni. Il principale propulsore di questo indirizzo geopolitico è il presidente ceco Milos Zeman, che fu l’unico capo di stato dell’Unione europea a partecipare al- PAKISTAN · L’obiettivo del gruppo Ja: accreditarsi come nuova forza sullo scenario locale Lahore, dopo la strage 200 arresti Emanuele Giordana L’ attentatore suicida che domenica ha seminato la morte nell’affollato parco di Gulshan-e-Iqbal a Lahore ha un nome e un profilo. La polizia ci sarebbe arrivata ieri sulla base di un identikit che aveva messo fuori causa il primo nome - Muhammad Yousuf di Muzafargarh- saltato fuori da una certa d’identità trovata sul posto. Ma la conferma arriva direttamente dal gruppo scissionista dei talebani pachistani che ha rivendicato la strage – Jamaatul Ahrar – che ha reso nota identità e fattezze del giovane Salahuddin Khorasani, un ragazzo tra i 20 e i 25 anni di cui Ja ha diffuso una foto che corrisponde all’identikit degli inquirenti. La polizia pachistana ha già arrestato 200 sospetti negli ambienti radicali e dice di tenere sotto stretto controllo le madrase dell’area con un’operazione che però ha «carattere nazionale». La caccia all’uomo prosegue per individuare chi ha aiutato il suicida e chi ha preparato l’attacco nel quale sono morte 72 persone e altre 300 sono state ferite. Tra loro, donne e bambini in gran parte cristiani (il target della strage rivendicata da Ja) ma ovviamente anche musulmani in un parco pubblico sempre affollato nei giorni di festa. I terroristi, che fanno parte di un gruppo che si è scisso dal Teherk Taleban Pakistan (Ttp), il cartello jihadista nato nel 2007, hanno colpito i cristiani ma l’operazione potrebbe in realtà avere tutt’altro obiettivo: dar forza al neonato gruppo terrorista – che sembra abbia aderito al progetto di Daesh – per accreditarlo sia come nuova forza sullo scenario locale, sia come possibile nuova cupola del cartello talebano pachistano in seria difficoltà tra scissioni e litigi interni. Difficoltà aumentata dall’operativo Zarb e Azb, offensiva militare lanciata nell’estate 2014 dall’esercito guidato dal generale Raheel Sharif, l’uomo che tutti indicano come il vero artefice di quanto avviene in Pakistan dove al governo, formalmente, ci sono i civili. L’operativo Zarb e Azb ha i suoi lati oscuri: a dicembre, a 18 mesi dal suo inizio, Raheel ha fatto il punto e sciorinato i successi di un’operazione che ha impegnato circa 30mila soldati Bilancio delle vittime: 72 morti e 300 feriti. Tra loro non solo cristiani ma anche tanti musulmani col sostegno dell’aviazione. Secondo i militari 3.400 terroristi sarebbero stati uccisi in 837 nascondigli distrutti con 13,200 operazioni mirate. I morti tra i soldati erano 488 (Pakistan Army, Frontier Corps (FC) e Sindh Rangers) con 1.914 i feriti. Quanto alla giustizia, erano in funzione 11 corti militari autorizzate dopo l’inizio dell’operativo e che possono condannare a morte perché Islamabad ha sospeso la moratoria. Alcuni dei detenuti condannati sono già stati impiccati. L’esercito ha sostenuto che in Waziri- stan non ci sono state vittime civili (!) ma, a parte l’apodittica certezza, non ci sono né dati né stime indipendenti perché l’area è vietata ai reporter. Quanto agli sfollati, secondo la stampa locale erano - nel luglio del 2014 a un anno cioè dall’inizio dell’operazione - circa un milione (oltre 80mila famiglie) con una discreta discrepanza tra quel numero e la popolazione attiva del Waziristan (la zona target) che è tra le 4 e le 500mila persone. L’esercito assicurava anche che entro il 2015 tutti i rimpatri nei luoghi di origine sarebbero stati completati anche perché per l’esercito gli sfollati ammontavano nel dicembre scorso a soli 300mila. Numeri che non tornano. Il rischio è adesso che la mano diventi troppo pesante grazie al consenso che si forma appena i talebani compiono i loro efferati attentati. L’esercito ha usato caccia bombardieri, fa uso di corti speciali, può comminare la pena capitale ma nello stesso tempo è impossibile verificare cosa accade degli sfollati, quante sono le vittime civili, in che condizioni si può tornare a casa. L’emergenza talebana del resto fa porre poche domande. Né ne hanno fatte l’Unione europea o gli Stati uniti ai quali va imputato il capitolo droni, un’arma usata per uccisioni mirate sulle quali non si hanno dati certi (vedi il caso dell’italiano Giovanni Lo Porto ucciso in Pakistan da un drone). E se viene ignorato ciò che fanno i militari, poca attenzione viene anche dedicata alla società civile pachistana che in molte occasioni – dall’attentato a Malala fino alla manifestazioni che seguono alle stragi- si è mobilitata per dimostrare la totale distanza dalle strategie islamiste. la parata organizzata l’anno scorso a Pechino in ricorrenza della fine della Seconda Guerra Mondiale nel Pacifico. «La visita segna un nuovo inizio, in quanto i rapporti tra la Cina e i precedenti governi cechi erano pessimi - ha dichiarato Zeman alla vigilia dell’arrivo di Xi Jinping alla televisione cinese Cctv - I governi precedenti erano sotto l’influenza degli Stati uniti e dell’Unione europea. Ora siamo nuovamente un Paese indipendente con una politica estera autonoma corrispondente ai nostri interessi nazionali». L’indirizzo espresso dal presidente ceco è stato - in qualche modo - accettato anche dal governo e dalla destra euroscettica, che vede in Pechino una possibile, per quanto aleatoria, alternativa all’odiata Bruxelles. Nel Paese non mancano però dissensi espressi soprattutto dai sostenitori dell’autonomia del Tibet e dagli attivisti per i diritti umani. All’arrivo di Xi si sono registrate in città scaramucce tra i critici e i cinesi festeggianti la visita del proprio numero uno. La visita di Xi Jinping si porta dietro anche le inevitabili attese di investimenti cinesi. La Cina ha scoperto piuttosto di recente la Repubblica Ceca e i primi investimenti di qualche spessore sono arrivati solo nella seconda metà dell’anno scorso. L’investitore più attivo è stata fin’ora la compagnia Cefc, che ha fatto acquisizioni per circa 800 milioni di euro. Gli investimenti hanno riguardato soprattutto operazioni finanziarie e acquisizioni simboliche, come per esempio quella dello storico club di calcio della capitale Slavia Praga. A godere di maggiori benefici dall’arrivo del capitale cinese in Repubblica Ceca è stata una schiera trasversale di imprenditori nei media, oligarchi e lobbisti, che si sono visti arrivare in tasca una valanga di denaro fresco. Gli investimenti nelle attività produttive si fermano per ora a circa 50 milioni di euro. È chiaro che queste acquisizioni fungono anche da strumenta di persuasione verso una fascia di imprenditori, che hanno grande influenza nella politica locali. Alcuni sinologi cechi hanno anche avvertito che la compagnia Cefc potrebbe essere nell’orbita dei servizi segreti cinesi, un fatto decisamente smentito dal factotum ceco della società e presidente della Camera di Commercio Ceco-Cinese Jaroslav Tvrdik. «Cefc è una normale compagnia commerciale privata», ha dichiarato Tvrdik al quotidiano Lidove Noviny. Allo stato attuale i dirigenti cinesi considerano la Repubblica Ceca uno dei Paesi dell’Ue più aperti e amici nei confronti della Repubblica Popolare. Certamente il paese del centro Europa è appetibile per la sua posizione geografica di potenziale hub centro-europeo della Nuova via della Seta, che in Europa dovrebbe sbarcare nel porto del Pireo, risalire i Balcani e raggiungere i ghiotti mercati dell’Europa centrale e settentrionale tramite nuove infrastrutture ferroviarie e fluviali. Allo stesso tempo la dirigenza della Repubblica Popolare tenta di non dipendere da un solo paese nelle sue strategie. Accordi simili alla partnership strategica con la Repubblica Ceca sono stati infatti offerti ad altri Paesi dell’area, ad esempio la Polonia. L’esclusività di rapporti con la Cina, in cui si cullano molti politici cechi, potrebbe diventare presto un’illusione. pagina 8 il manifesto MERCOLEDÌ 30 MARZO 2016 ARRESTIAMO UMANI GRECIA Sovraffollamento, rischio emergenza negli hotspot Carlo Lania I l parlamento greco si prepara ad esaminare il disegno di legge messo a punto dal governo che dichiara la Turchia Paese terzo sicuro. Si tratta di uno dei passaggi necessari per dare attuazione all’accordo del 18 marzo scorso tra Unione europea e Ankara che consentirà di rispedire oltre il mar Egeo i migranti arrivati sulle isole greche a partire dal 20 marzo scorso, giorno dell’entrata in vigore dell’intesa (altro passaggio fondamentale sarà probabilmente l’esame dell’accordo stesso da parte dei parlamenti degli Stati membri). L’approvazione del disegno di legge dovrebbe segnare l’avvio ufficiale all’operazione voluta da Bruxelles per fermare gli arrivi in Europa di quanti fuggono dalla guerra, anche se si tratterà di una partenza solo formale. Nei fatti, è molto probabile che ancora per molte settimane nessuno dei profughi e dei migranti economici arrivati a Lesbo, Chios, Kos o in un’altra isola dell’Egeo venga riportato a forza in Turchia. Almeno se verranno rispettate le convenzioni internazionali. Le richieste di asilo devono infatti essere esaminate individualmente e in caso di risposta negativa è prevista la possibilità di fare ricorso. Tutte procedure che richiedono tempo, anche se Bruxelles preme in tutti i modi per velocizzarle al massimo. Fino a oggi infatti, nonostante gli appelli di Frontex agli Stati europei perché mettano a disposizione di Atene almeno 1.500 tra poliziotti e funzionari addetti all’esame delle richieste di asilo, a vagliare le domande dei rifugiati ci sono solo una ventina di funzionari greci. Conseguenza di questo stato di cose è che presto gli hotspot allestiti sulle isole saranno sovraffollati. Gli sbarchi in Grecia continuano infatti a essere numerosi, anche se inferiori rispetto ai numeri registrati fino a qualche mese fa. Dopo una flessione iniziale nei giorni successivi alla firma dell’accordo con Ankara - e dovuta probabilmente al maltempo che ha reso difficile la traversata dell’Egeo - gli arrivi sembrano essere di nuovo in salita. Più di 700 solo ieri a Lesbo, che rischiano adesso di far scattare l’emergenza a Moria, uno dei due hotspot dell’isola nel quale già ieri si contavano oltre 2.000 uomini, donne e bambini mentre ne potrebbe ospitare al massimo 1.500. Persone che che contrariamente a quanto accadeva fino al 20 marzo ora non possono uscire dalla struttura (un ex carcere trasformato prima in centro di accoglienza e poi in hotspot), cosa che ha provocato la reazione dell’Unhcr e Medici senza frontiere che per protesta hanno sospeso alcune delle loro attività pur mantenendo una presenza quotidiana all’interno del centro. Ma il pericolo è che vengano violati anche altri diritti riconosciuti internazionalmente. «Per essere rimandati in Turchia i migranti devono poter contare sulla protezione internazionale e questa non è garantita a iracheni e afghani» spiega Michele Telaro, responsabile a Lesbo per Msf. La Turchia applica infatti la convenzione di Ginevra limitatamente ad alcune aree geografiche. «Questo significa che in Turchia gode di protezione internazionale chi fugge da fatti accaduti in Europa, ma non iracheni e afghani». Perché questo avvenga sarebbe necessario che Ankara modificasse le sue leggi cosa che, seppure avvenisse, richiederebbe ulteriore tempo. Con i migranti sempre prigionieri negli hotspot, l’accordo potrebbe così trasformarsi in un boomerang per Bruxelles. Nella città turca bagnata dall’Egeo i trafficanti non sono turbati dagli effetti dell’accordo tra Ue e Ankara sul loro business. Se il passaggio verso le isole greche saltasse, nuove rotte si aprirebbero verso l’Italia. E c’è chi vende un rene per mettere la famiglia su un gommone Izmir, borsa nera dei m Emanuele Confortin IZMIR (SMIRNE) B asmane è un vecchio quartiere residenziale di Smirne, la terza città turca per dimensioni, bagnata dalle acque del Mare Egeo. Qui, tra i vicoli scoscesi in cui si susseguono barbieri, ristoranti e fumose sale da tè, a un centinaio di metri dal capolinea ferroviario e dalla locale stazione di polizia, si trova il centro nodale del traffico di esseri umani diretti alle vicine isole di Lesbo e Chios, quindi in Europa. Per rendere l’idea, Basmane è simile a una borsa finanziaria, ma al posto di titoli e azioni viene negoziato il valore della vita umana. La domanda è composta da decine, centinaia di migliaia di rifugiati, soprattutto siriani, in fuga da guerre e persecuzioni, che vogliono "passare" dall’altra parte. Pacchetti tutto incluso L’offerta è nelle mani di trafficanti in grado di fornire pacchetti all inclusive, vale a dire protezione, trasporti interni, vitto, alloggio, infine un pass verso le isole egee. «Per l’attraversata su gommone il prezzo varia dagli 800 ai 1600 euro a seconda della stagione», spiega Jameh, 31 anni ex dipendente delle Nazioni unite a Damasco, incontrato in una tavola calda gestita da siriani, al cui esterno campeggia un’insegna rossa in arabo. Nella zona vivono migliaia di siriani, «per gli esercizi come il mio è una grande opportunità» sussurra il titolare turco. Jameh aveva un lavoro e una posizione nella capitale siriana, ma tutto è venuto meno con la guerra civile, cui è seguita la chiamata alle armi nell’esercito di Bashar al-Assad, da lui disertata: «Non potevo accettare di combattere e puntare le armi contro un essere umano». Ora la prospettiva per il traditore del regime è un lavoro in nero e sottopagato a Istanbul, do- ve a breve si trasferirà con la moglie, perché «da quelle parti è più facile, ci sono più fabbriche». Diversa la prospettiva per quattro giovani, anche loro siriani, incontrati su Fevzi Pasha boulevard, il lungo viale che collega le ombre di Basmane al luccicante kordon, il lungomare costellato di locali alla moda. Portano borse da calcio riempite con i pochi averi, uno di loro regge sulla testa un sacco della spazzatura chiuso con cura per non bagnare l’interno. Sono diretti alla piazza della stazione ferroviaria, ai ristoranti in cui si consuma l’ultimo pasto prima di salire su un furgone diretto verso le cittadine costiere. Malgrado l’accordo Ue-Turchia, il business degli attraversamenti non è stato decapitato, ma solo rallentato. All’indomani del 20 marzo, giorno di entrata in vigore del deal, qualcuno ha commentato con ottimismo l’azzeramento improvviso degli attraversamenti. Colpa della lontanan- za, o questione di pochi rudimenti in materia di navigazione, ma non serve essere gente di mare per capire che il vento della scorsa settimana avrebbe reso impossibile ogni tentativo di passaggio. Ad ogni modo, se sulla costa tira buona aria per la politica, i ragazzi di Fevzi Pasha suggeriscono la ripresa dei passaggi, al pari del meteo in miglioramento, dei trafficanti alla ricerca di clienti, e dei giubbotti di salvataggio arancioni, ancora in bella mostra all’esterno dei negozi. Poi ci sono loro, gli habitué della "borsa" di Izmir, commercianti, pensionati, disoccupati che negli ultimi anni hanno visto crescere sotto i loro occhi un business valutato tra i 3 e i 6 miliardi di dollari. «Non si possono fermare, ci sono troppi soldi in ballo», assicurano uno dopo l’altro. Nell’area residenziale aggrappata sulle pendici del Monte Pagus, sopra Basmane, decine di mi- gliaia di siriani vivono stipati in vecchie case e appartamenti sfitti da anni, pagati quanto un loft con vista sull’Egeo. «Le case si riconoscono dalle antenne satellitari installate, sono quelli che scelgono di rimanere, per ora», spiega un fruttivendolo indicando i tetti nei paraggi. Di giorno questi vicoli restano deserti. «I siriani escono dopo il tramonto, a migliaia» assicura Fuat Gurgun, turco-albanese con un passato in Italia, responsabile di una pelletteria nei paraggi. Rifugiati e turchi qui condividono povertà e degrado. «Spesso in una famiglia di 6-8 persone c’è uno solo che lavora, in nero e sottopagato per giunta», spiega Chris Dowling, 28enne di Venezia, in Turchia dal 2014 e da tre mesi volontario al Kapilar, organizzazione impegnata nell’integrazione delle minoranze curde del Sudest, dei Rom e della comunità siriana stanziale. Malgrado il governo turco stia favorendo il rilascio ai siriani del kimlik, carta di identità che rico- nosce lo status di ospite permanente e l’accesso a servizi e lavoro, i rifugiati continuano ad essere sfruttati. «Lavorano in nero, 12 ore al giorno per 6 giorni la settimana, soprattutto nel comparto tessile - continua il volontario - ma percepiscono poco più di 800 lire turche al mese, rispetto al salario minimo di 1300 lire». Poco o nulla se 400 lire vanno per l’affitto di un seminterrato ammuffito e col resto devono mangiare in 6. Peggio di così... Le cose però possono andare anche peggio. Diverse ragazze siriane sono state costrette a vendersi per strada, a prezzi ben più bassi delle tariffe imposte nei bordelli funzionanti a lato della ferrovia. Una scelta estrema, ma necessaria per raccogliere la somma con cui pagare la tratta sull’Egeo. Altri prestano servizio per i trafficanti, come procacciatori di clienti a il manifesto MERCOLEDÌ 30 MARZO 2016 pagina 9 ARRESTIAMO UMANI PARIGI · Concerto improvvisato allenta per un giorno la tensione tra chi fugge dalla Jungle di Calais Campo profughi in movimento Marino Ficco PARIGI U migranti commissione. C’è poi chi arriva addirittura a vendere un rene nel mercato nero degli organi. Strada scelta nei mesi scorsi da un padre di famiglia, per garantire ai suoi un posto in gommone. L’uomo è poi stato medicato da un medico tedesco dopo lo sbarco a Chios. Malgrado a Basmane tutto indichi la ripresa degli attraversamenti malgrado l’accordo di Bruxelles, servirà tempo per attribuire eventuali colpe e meriti. Di concreto c’è stato l’aumento delle forze di polizia schierate lungo la costa, al pari delle imbarcazioni turche e greche di ronda sulle acque dell’Egeo. Quindi prudenza d’obbligo per i trafficanti, ma il restyling del business è già chiaro: tratte più lunghe (Italia e costa ateniese), più costose e pericolose, su imbarcazioni più grandi. Del resto il mercato esiste, e a pagare il conto sono sempre gli stessi, rifugiati e migranti. scita del metrò Stalingrad di Parigi. Mais c’est quoi ça? esclama un signore che fino a un attimo prima era immerso in un’intensa conversazione telefonica. Decine di uomini, donne e bambini sono sdraiati a terra su dei materassi. Alcuni giocano a carte. C’è chi fuma. Uno ci prova con una volontaria della Caritas. Un bimbo abbozza un sorriso mentre la mamma gli tende un biscotto. Una tenda verde e una arancio. Sudiciume, spazzatura, umidità, puzza. E la musica di Aster Aweke. Da un angolo riparato dalla pioggia con un telone di plastica verde, rie- cheggiano le parole dell’ultimo successo della cantante etiope. D’un tratto il silenzio, si provano gli ultimi accordi e il concerto ha inizio. Bastano un basso, una chitarra elettrica e un microfono per mettere in movimento quest’umanità abbandonata a se stessa. Sorrisi si alternano ad applausi. Tutti vogliono filmare questa parentesi di umanità per condividerla su Facebook. Ci sono almeno un centinaio di persone. In totale hanno a disposizione 4 bagni chimici e nessuno passa a raccogliere i rifiuti, che si accumulano. «Adesso c’è poca gente ma di notte dormono fino a 500 persone» ci dice Marie-Laure, una signora che abita nel quartiere e che viene a dare una mano quando ha un attimo libero. Siamo nel nuovo campo di migranti a Parigi. Per il momento le autorità lo tollerano ma le associazioni che difendono i diritti dei migranti temono che sia smantellato presto. Esattamente un anno fa la prefettura di Parigi cominciava una politica di smantellamento di tutti i campi che si erano formati in città. Prima fu sgomberato lo squat de La Chapelle, poi fu la volta del liceo occupato Jean Quarré ed infine Austerlitz e Saint Ouen. Uomini, donne e bambini erano stati ridistribuiti in centri d’accoglienza sparsi per tutta la Francia. «Mi avevano mandato a Verdun – dice Omar, un giovane paki- Satira/CANZONCINA SUL SULTANO DIVENTA UN CASO DIPLOMATICO FAMIGLIA DI PROFUGHI SIRIANI SULLA COSTA TURCA PRESSO IZMIR, IN ATTESA DEL "PASSAGGIO" VERSO LE VICINE ISOLE GRECHE /FOTO REUTERS IN ALTO A DESTRA MINI-CONCERTO NEL NUOVO CAMPO PROFUGHI DI PARIGI /FOTO MARINO FICCO IN BASSO CARICATURA DI ERDOGAN IN UN CORTEO KURDO /FOTO LAPRESSE La furia censoria di Erdogan emigra in Germania. Che imbarazzo a Berlino Marco Bascetta L’ avversione del Sultano di Ankara per la libertà di stampa è cosa nota. Ma fino a oggi il governo turco non aveva ancora avanzato la pretesa di estendere la censura fuori dai confini del paese, fino nel cuore di quell’Europa nella quale la Turchia aspira ad entrare. Sarà perché ospita la più grande comunità turca del Vecchio continente, sarà perché Berlino si propone di guidare la politica migratoria europea, è proprio la Germania il primo bersaglio della furia censoria di Erdogan in versione sovranazionale. La storia ha inizio il 17 marzo scorso, ma precipita in questi giorni. E ha al suo centro la satira, sempre più spesso nell’occhio del ciclone. In quella data l’emittente Ndr manda in onda nel suo magazine extra 3 una canzoncina sul Sultano che mette insieme la sua mania di grandezza, la repressione del dissenso, l’attacco alla libertà di stampa, l’ambigua gestione della guerra in Siria. Non manca, nel video, l’immagine di una misera tenda bianca, piantata nel bel mezzo di un deserto, con sovraimpresso il prezzo: 6 miliardi di euro, quanto Ankara esige per "sistemare" i profughi diretti in Europa, togliendo, in un modo o nell’altro, le castagne dal fuoco ad Angela Merkel. La canzoncina stile Walt Disney, della durata di due minuti, si intitola Erdowie, Erdowo, Erdogan, (Erdocome, Erdodove, Erdogan) e ha mandato su tutte le furie il governo turco. Il quale ha convocato l’ambasciatore tedesco ad Ankara Martin Erdmann (che già aveva irritato le autorità turche pre- senziando al processo contro i due giornalisti di Cumhuriyet accusati di spionaggio) perché trasmetta al suo governo la pretesa turca di censurare lo spot. Sull’episodio Berlino mantiene un imbarazzato silenzio. E la cosa innervosisce parecchio la stampa tedesca che riferisce con grandissimo risalto l’intera faccenda. Il silenzio della Cancelleria induce immediatamente il sospetto che il governo tedesco si sia messo nella spiacevole condizione di farsi ricattare da Ankara, la quale già al vertice di Bruxelles aveva messo in chiaro come il suo intervento nella "crisi dei migranti" non sarebbe stato a basso costo e non solo in termini finanziari. Ma ora che vedono messe in questione le proprie prerogative i media insorgono all’unisono. E si chiedono quanto sia sensato affidarsi alla megalomania di un autocrate ossessionato dalla sua "lesa maestà" su una questione delicata come quella dei rifugiati, che si vorrebbero rispedire in un paese nel quale lo stato di diritto appare sempre più pericolante. Puntare tutto sull’accordo con la Turchia si sta rivelando un grande azzardo. Certo, l’improntitudine di Erdogan è in questo caso talmente evidente da consentire a Berlino di cavarsela con qualche affermazione generica sulla tradizione liberale europea. Che, in ogni caso, non si è ancora ascoltata. Ma il segnale sulla natura poco presentabile dell’interlocutore turco, sull’imbarazzo o il cinismo del governo tedesco è arrivato forte e chiaro. Intanto la canzoncina imperversa sulla rete sospinta da quella stupidità del potere che della satira è da sempre il principale nutrimento. stano – ma non c’era nessuno della mia comunità e non parlo ancora francese». Molti di loro sono stati mandati in località remote dove possono godere di una buona assistenza materiale ma non hanno la possibilità di frequentare le loro comunità. Nelle ultime settimane è cominciato l’abbattimento della Jungle di Calais, il più grande campo profughi europeo dopo Idomeni, in Grecia. A causa dell’aumento degli attacchi xenofobi e con il peggiorare delle condizioni nella Jungle, a centinaia si sono rimessi in marcia verso il campo di Grande-Synthe, Dunkuerque, il Belgio o Parigi. «Ma perché Parigi?» chiediamo ad Assan, 32enne di Aleppo: «A Calais nelle ultime settimane la polizia è diventata sempre più violenta e poi non si riesce più a passare la Manica verso l’Inghilterra; sono tornato a Parigi perché ho deciso di depositare una domanda d’asilo in Francia. Qui potrò continuare a frequentare molti amici e connazionali». È il momento di Alpha Blondy e dell’afroreggae. Gli etiopi danzano muovendo le spalle di lato, verso l’alto e in basso. I bimbi sorridono. Fateh batte il ritmo coi piedi mentre filma tutto per mostrarlo ai suoi amici che arriveranno più tardi. Un signore sulla quarantina, francese e molto ben vestito, cerca di comunicare con un bambi- Nella nuova tendopoli, per ora tollerata dalle autorità, la voce di Aster Aweke a pasquetta riesce a sconfiggere la paura no eritreo. Gli offre delle caramelle e un orsacchiotto. Il bimbo è felice e sorride. Poi comincia ad accarezzarlo e a quel punto interviene la madre, fino ad allora appartata poco lontano. Prende in braccio il figlio, lancia un’occhiata chiara ed espressiva nei confronti dell’uomo e se ne va. Sono accampati per comunità. Da un lato i sudanesi. Abdullah e molti di loro vengono dal Darfur, regione che ci evoca un conflitto di cui tanto si parla ma dimenticato e sconosciuto. All’altra estremità ci sono afghani e pakistani. Al centro ci sono etiopi ed eritrei. Molti sono i bimbi. Le loro storie sono sempre le stesse. Le loro richieste pure: un po’ di pace ed una vita migliore. «Se davvero ci tenessero ai loro bambini potrebbero fare una domanda d’asilo in Francia e gli troveremmo una sistemazione» risponde un poliziotto a un’attivista che si lamenta del fatto che lo Stato tolleri che dei bimbi passino le giornate in condizioni simili, al freddo, senza riparo, sdraiati su un materassino, avvolti in coperte e pile, circondati dai rifiuti. «Non fanno la domanda in Francia perché parlano inglese e hanno dei parenti in un altro paese» controbatte l’attivista. «Che ricorderanno della loro infanzia questi bambini? E che adolescenza difficile per questi ragazzini afghani, che futuro avranno?» si domanda Xavier, un pensionato che è stato attratto dalla musica uscendo dal metrò. «Alla tv vedo centinaia di attivisti e giornalisti prendere d’assalto Idomeni, Calais, le isole della Grecia e il porto del Pireo; perché nessuno viene qui?» si domanda sua moglie. Dopo qualche tuono e un po’ di grandine esce un grande arcobaleno. Una ragazza racconta a due bimbi afghani la tradizione secondo cui dove finisce un arcobaleno è posto un pentolone pieno d’oro custodito da uno gnomo cattivo. Poi si rivolge a me aggiungendo: «Anche noi occidentali siamo come lo gnomo cattivo che non permette a tutti di beneficiare equamente dei beni comuni, dell’oro del pentolone...». I due bimbi si guardano negli occhi, si scambiano un sorriso complice, si prendono per mano e cominciano a correre. Hanno deciso di non arrendersi. pagina 10 il manifesto MERCOLEDÌ 30 MARZO 2016 CULTURE TEMPI PRESENTI Anna Curcio S tudiosa e militante femminista, fra le protagoniste negli anni Settanta della campagna internazionale Salario al lavoro domestico, Silvia Federici ha una convinzione: «le idee politiche sono radicate nella produzione letteraria e filosofica». Per questo nel volume che in questi giorni presenta in Italia, La tempesta di Shakespeare fa da sfondo al suo lavoro sulla transizione capitalista e la caccia alle streghe; ciò perché «Calibano e la strega sono la coppia fatale, metafora di due momenti centrali dell’accumulazione originaria che non compaiono in Marx. Calibano è al contempo il colonizzato nel Nuovo Mondo espressione anche della colonizzazione interiore che interessa le aree dove sorge il capitalismo e insieme il corpo del proletario. Soggetto coloniale e corpo bruto che deve essere plasmato e disciplinato». Se è l’interesse per la letteratura che ti porta a riflettere sulla figura di Calibano qual è il contesto politico e di elaborazione teorica in cui la tua elaborazione matura? La ricerca comincia all’interno della campagna Salario al lavoro domestico, insieme a Leopolda Fortunato con cui pubblicammo nel 1984 Il grande Calibano. Volevamo Anatomia politica dell’oppressione Un’intervista con la filosofa e attivista femminista Silvia Federici, in questi giorni in Italia per presentare il suo ultimo volume che ripercorre i temi della riproduzione, del corpo e della violenza capitalista Saggi / «CALIBANO E LA STREGA» DI SILVIA FEDERICI PER MIMESIS I colpevoli roghi della storia europea decostruiti dalle lotte delle donne furono proibite e la sessualità collettiva al centro della viome le recinzioni ta sociale nel medioevo diespropriarono i venne «incontro politico sovcontadini dalle versivo» del sabba. Le nuove terre comunali, così la caccoordinate della femminilicia alle streghe espropriò le tà si orienteranno allora tra donne dal proprio corpo, li«lavoro di servizio all’uomo berato, a funzionare come e all’attività produttiva», mouna macchina per la produnogamia e una nuova concezione della forza-lavoro». zione della famiglia «con il Questa in sintesi l’ipotesi temarito sovrano e la moglie orica che Silvia Federici prosuddita del suo potere», pone in Calibano e la strega. mentre il corpo della donna Le donne, il corpo e l’accudiventava macchina della rimulazione originaria, edizioproduzione. In questo senne riveduta e aggiornata di so, la caccia alle streghe è soIl grande Calibano – classico prattutto «lotta contro il cordel femminismo marxista po ribelle»: il tentativo mesUna lettura dell’accumulazione che Federici scrisse con Leoso in atto da chiesa e stato originaria di Marx, per riscoprirne poldina Fortunati negli anni per trasformare le capacità Ottanta – finalmente anche dell’individuo in forza-lavocentralità e tuttavia parzialità. in traduzione italiana (Autoro; cosa che mistificherà, da E la narrazione politica della caccia nomedia 2014, ora Mimesis, lì in avanti, il lavoro orientapp. 234, euro 30,00). Ripento alla riproduzione come alle streghe come «guerra di classe» sare lo sviluppo del capitalidestino biologico. Il corpo – smo da un punto di vista femminista, seguita alla Peste Nera europea. Allo l’utero in particolare – si fa dunque considerando cioè l’accumulazione e stesso tempo, intreccia i destini delle «macchina da lavoro»: bestia mostruoriproduzione della forza-lavoro. Non streghe in Europa a quello dei sudditi sa da disciplinare da una parte, invosolo dunque accumulazione di «lavocoloniali nel Nuovo Mondo, insistenlucro e «contenitore» della forza-lavoro morto» come beni espropriati con do sui processi di inferiorizzazione e ro dall’altra, salendo alla ribalta del la recinzione delle terre o attraverso sulla costruzione di gerarchie razziali pensiero politico del tempo (da Hobla razzia coloniale che Marx consideche accompagnano l’espansione colobes a Descartes) come prerequisito ra, seppur con peso tra loro differenniale. per l’accumulazione capitalistica. te, ma anche accumulazione di «lavoL’accumulazione capitalistica che Non sorprenderà allora che ogni pratiro vivo» sotto forma di esseri umani, Federici marxianamente indaga è soca abortiva o contraccettiva sia stata resi disponibili allo sfruttamento dal prattutto «di differenze», di ineguacondannata come maleficio, così le controllo esercitato sul corpo delle glianze e gerarchie costruite sul terredonne espulse da quelle attività come donne. no del genere e della razza; processi l’ostetricia o la medicina che avevano Nell’assumere il proletariato indudi segmentazione sociale costitutivi fin lì esercitato sulla base di saperi trastriale salariato quale protagonista del dominio di classe. Per questo la mandati nel tempo. dell’accumulazione originaria Marx femminista non ha dubbi: la caccia alUna vera e propria «politica del corha perso di vista le profonde trasforle streghe è «guerra di classe portata po» sottolinea Federici, in cui il corpo mazioni che il capitalismo ha introavanti con altri mezzi». non è fattore biologico né il «soggetto dotto nella riproduzione della forDue secoli di «terrorismo di stato», universale, astratto, asessuato» della za-lavoro e nella posizione sociale deltra il XVI e il XVII secolo, avrebbero Storia della sessualità di Foucault, prele donne. Intorno a questa ipotesi Fedunque insegnato agli uomini a temecisa, bensì è un corpo situato, denso derici intreccia la trama, spesso taciure il potere delle donne, soprattutto il di «rapporti sociali» (non solo di «prata, delle lotte che hanno accompagnacontrollo esercitato sulla funzione ritiche discorsive») fonte di sfruttamento la transizione al capitalismo. Così produttiva. Mentre la donna «prodotto e alienazione e al contempo spazio donne, contadini, piccoli artigiani e ta» come essere sui generis, «lussuriodi resistenza. E nella misura in cui, covagabondi, perlopiù cancellati dalla sa e incapace di governarsi» fu sottome Federici tra altri sottolinea, l’accustoria, assurgono in Calibano e la streposta al controllo maschile. Federici mulazione originaria è un processo ga a veri protagonisti. Ripercorrendo ribadisce così il carattere artificiale che si ripete in ogni fase dello svilupla storia della caccia alle streghe nel dei ruoli sessuali nella società capitalipo capitalistico e dentro le sue crisi, il Medioevo, il volume evidenzia i prostica. La stessa sessualità femminile corpo e le attività legate alla riproducessi di criminalizzazione e degradavenne sanzionata, criminalizzando zione restano oggi, come agli albori zione sociale che colpirono le donne, quelle attività non orientate alla prodel capitalismo, un campo di battail loro lavoro, i loro saperi e pratiche creazione e al sostegno della famiglia; glia. E qui si rintraccia l’estrema attuaall’indomani della crisi demografica la prostituzione, la nudità e le danze lità di Calibano e la strega. A. C. «C rintracciare le radici della discriminazione sessuale a partire dal posizionamento delle donne all’interno del lavoro di riproduzione; un lavoro che è pilastro dell’organizzazione capitalistica ma escluso dalla produzione di salariato. Intendevamo quindi dimostrare, in contrasto tanto con il femminismo che vedeva il lavoro domestico come PICCOLA, A DESTRA, UN RITRATTO DI SILVIA FEDERICI. GRANDE, UNA INSTALLAZIONE FOTOGRAFICA DI JANIETA EYRE attività precapitalistica che esclude le donne dalla lotta contro il capitale quanto con quelle letture libertarie che vedevano la casa e la famiglia come aree libere dai rapporti capitalistici, che si trattava di una costruzione specifica imposta dallo stato e dalle classi dominanti. Non un’attività naturale né un lavoro d’amore ma è un’attività funzionale al mercato del lavoro e alla riproduzione della forza-lavoro, di cui abbiamo voluto fornire una documentazione storica. Per altri versi, si trattava di applicare, in un momento storico segnato da lotte operaie e soprattutto anticoloniali, la lezione del movimento femminista: non si comprende cosa è il capitalismo se non si guarda al processo di riproduzione della forza lavoro. Così ho ripercorso a ritroso la storia del capitalismo fino al medioevo, rintracciando le ragioni storiche e la logica che ha animato la transizione, a cominciare dal suo rapporto con la riproduzione. Io ho amato molto Marx , ritengo indispensabile il suo lavoro ma ho sviluppato un atteggiamento critico rispetto alle ipotesi sull’accumulazione originaria, perché ha l’occhio puntato sulla fabbrica, sulla produzione delle merci, mentre manca un discorso sulla riproduzione. Ho invece verificato che tra il Cinquecento e il Seicento la produzione delle merci per il mercato e la riproduzione della forza lavo- il manifesto MERCOLEDÌ 30 MARZO 2016 pagina 11 CULTURE ro, strettamente lagate nell’economia feudale di sussistenza, si separano, diventando ciascuna portatrice di uno specifico rapporto sociale. La riproduzione si femminilizza, la produzione per il mercato di maschilizza e configurandosi come rapporto salariato sarà l’unica ad essere riconosciuta come lavoro. Anche nel tuo lavoro dunque, come in Marx, il salario gioca un ruolo dirimente nell’organizzazione e gerarchizzazione del lavoro. In particolare nel libro ricorri alla categoria di «patriarcato del salario», dove indiscutibilmente classe e genere si articolano insieme. Di cosa si tratta? È il comando dei salariati sui non salariati che accompagna l’invisibilizzazione del proletariato femminile e la naturalizzazione della riproduzione. Con il passaggio al capitalismo cambiano anche i rapporti patriarcali. Restano le tradizionali differenze di potere tra uomini e donne ma assumono basi diverse: il salario diventa lo strumento che costruisce e garantisce la subordinazione delle donne: ciò che ora conferisce al maschio il potere di comandare il lavoro della donna. Se prima la donna e il suo lavoro dipendevano direttamente dal signore feudale ora il capitale e lo stato, dietro al ricatto dell’amore e della vicinanza nella famiglia, delegano al lavoratore salariato il comando sul lavoro della donna. E, come con il servo, la frusta diventa lo strumento di garanzia del comando: dove mancano gli incentivi economici è la violenza che prevale come metodo di disciplina. Più complessivamente, possiamo dire che la stessa separazione tra produzione e riproduzione ha richiesto un massiccio ricorso alla violenza; ne è prova la caccia alle streghe che, analizzando la cosiddetta accumulazione originaria dal punto di vista della riproduzione, individui come dispositivo imprescindibile per imporre le trasformazioni necessarie a una nuova organizzazione del lavoro … Guardare alla transizione dal punto di vista della riproduzione ha permesso di decifrare la caccia alle streghe, svelando il significato intrinseco di accuse tanto fantasiose quanto assurde, mosse contro le donne da un’intera comunità di uomini politici che sembravano colti da un processo di follia collettiva. Tutt’altro che irrazionali, invece, quelle accuse puntavano a creare un nuovo modello di femminilità e nuovi comportamenti sociali più congeniali alla disciplina capitalistica del lavoro salariato. La caccia alle streghe colpisce innanzitutto la solidarietà alla base del mondo medievale e mette al bando l’aiuto reciproco. Non a caso si stava affermando l’ottica protestante con la sua etica del lavoro e della responsabilità individuale. Anche le forme di carità e il mutualismo tipiche del villaggio medievale vengono bandite. Così, spesso, la stre- ga è la donna anziana espropriata dei mezzi per la sua sussistenza che manda improperi contro chi le rifiuta la carità o se scoperta a rubare. Altre streghe sono donne che hanno relazioni extramatrimoniale ora sanzionate a salvaguardia dei rapporti di genere dentro la famiglia, mentre la stessa sessualità femminile viene criminalizzata come forza pericolosa che può minare i rapporti di classe (nel caso della serva che si unisce con il padrone) e l’etica di un lavoro che diventa sempre più uniforme e regolato. Le accuse di infanticidio possono invece essere lette a partire dalla grande fame di lavoro del tempo che avvia, come anche Marx scrive, un vero e proprio processo di accumulazione di proletariato. Anche se poi Marx non vede l’interesse del capitalismo per il corpo della donna come macchina di riproduzione, produttore di forza-lavoro e nuovi lavoratori. Analoga matrice ha la persecuzione delle donne che praticano l’aborto (fin lì tollerato) o la diffusione di informazioni sulla contraccezione, sull’uso delle erbe e delle piante mediche nonché la messa al bando dei saperi di levatrici e medicotte che avevano fin lì goduto di un indiscusso potere sociali. Più in generale, allora, guardare al capitalismo dal punto di vista della riproduzione ha permesso di leggere a fondo i processi per l’affermazione del capitalismo; cosa che torna oggi utilissima mentre assistiamo a un nuovo processo di accumulazione, iniziato intorno alla fine degli anni Settanta come risposta alla stagione di lotte del decennio precedente. Veniamo allora al presente, quali processi di «enclosures» in questa rinnovata fase di accumulazione interessano le donne, il loro corpo e la sfera della riproduzione? Stiamo assistendo a una massiccia riorganizzazione del lavoro di riproduzione e a un nuovo intervento dello stato sul corpo delle donne, in forme diverse, anche contraddittorie. Oggi la situazione è inversa rispetto al 16° secolo, con oltre due milioni di lavoratori che si sono riversati sul mercato del lavoro globale a seguito della ristrutturazione produttiva e dei programmi di aggiustamento strutturale. E, l’intervento dello stato sul corpo delle donne si differenzia. In alcuni casi si proibisce l’aborto o si cerca di limitarlo, in altri le donne vengono sterilizzate. È il caso, negli Usa, delle cosiddette donne del welfare o delle afroamericane all’interno del sistema carcerario o ancora delle donne nei paesi del cosiddetto Terzo Mondo in un processo di sterilizzazione con una forte connotazione politica, ovvero come limite alla crescita di una popolazione che si era rivelata estremamente combattiva nelle lotte anticoloniali oppure potenzialmente pronta a rilanciare la lotta come ad esempio nell’America latina degli anni Novanta. Oggi dunque, lo stato e il capitale intrevengono arrogandosi il diritto di decidere chi può e chi non può riprodursi, chi può nascere e chi no. Contemporaneamente le donne sono state incentivate a mettere sul mercato non solo la loro sessualità ma anche la funzione generativa, come nel caso della maternità surrogata che ha aperto in Itala un acceso dibattito. Il movimento femminista nella sua gran parte, e ad eccezione delle frange più emancipazioniste, ha condannato la surrogacy come istituzionalizzazione delle gerarchie di classe, una forma di alienazione a cui le donne si sottopongono a causa della loro mancanza di risorse; e al contempo uno strumento per rilanciare una figura della donna come vaso da fiori, una donna passiva, donna utero. Io non parlerei di libertà di scelta sul proprio corpo, perché l’unica libertà che il capitale dà alle donne rispetto al corpo è venderlo. Pensando dunque al dibattito italiano credo che vadano distinti i piani: una cosa è il diritto delle coppie omosessuali ad avere dei figli che è una battaglia sui diritti soggettivi, altro è la surrogacy, un processo perverso che degrada la donna. Una forma peculiare di schiavitù. La mercificazione completa della vita e del corpo della donna, la sua sottrazione ed esproprio. Cosa che esplicita tutta la violenza del capitalismo e ci rimanda indiscutibilmente alla cosiddetta accumulazione originaria. THRILLER · «È così che si uccide» di Mirko Zilahy, uscito per Longanesi La città eterna trasfigurata in un set di Edgar Allan Poe Mauro Trotta L Roma, colpita da pioggia incessante e avvolta in atmosfere cupissime, diventa il set seriale di efferati delitti. E la trama del libro assume risvolti psicoanalitici, tra rimozioni e «ombre» a prima sensazione che si prova dopo aver letto il libro di esordio di Mirko Zilahy, intitolato È così che si uccide (Longanesi, pp. 411, euro 16,40) è che una Roma così non si era mai vista. Una Roma da sempre associata al suo clima mite, al sole, al caldo, per tutti i diciannove giorni in cui si svolgono gli avvenimenti narrati, è flagellata ininterrottamente dalla pioggia. Quasi come se una vicenda così oscura come quella narrata in questo thriller, avesse bisogno di un tale scenario cupo e inusuale. Uno scenario che sembra rispecchiare l’interiorità dei personaggi principali, le loro paure, le loro angosce, il loro dolore. Una situazione che se da un lato sembra richiamare opere letterarie e cinematografiche di grande successo - Blade runner in primis - fa venire in mente in realtà un piccolo capolavoro della letteratura italiana, Malacqua di Nicola Pugliese. Qui è un’altra città da sempre sinonimo di sole e bel tempo, ovvero Napoli, che mostra il su lato oscuro e magico durante quattro giorni di pioggia ininterrotta. Ma la Roma narrata da Zilahy risulta inconsueta non solo per il clima, ma anche per il contrasto che presenta tra le sue architetture più note, antiche o barocche, e i suoi luoghi di archeologia industriale. Scavi archeologici, l’ex mattatoio, il Gazometro saranno gli scenari degli efferati delitti al centro del romanzo. E acquisteranno una dimensione terrificante, esemIL GAZOMETRO DI ROMA plificata magistralmente dalla to a Quantico in crimini seriali – viene visione del Colosseo e del Gazometro, chiamato a indagare su di un serial kilpercepiti quasi come immensi mostri ler che sta terrorizzando la città. Ma se che si stagliano nella cupa atmosfera, lo sviluppo della storia, il succedersi deriecheggiando in qualche modo l’atmogli omicidi, lo scenario retrostante sono sfera della Londra Vittoriana o di alcuni tutti elementi tipici di questo genere di racconti di Edgar Allan Poe. racconto, altri fattori risultano davvero La storia raccontata, a prima vista, risinconsueti. Innanzi tutto la stessa figupecchia tutti i crismi del thriller. Il comra dell’investigatore, il quale, dopo aver missario Enrico Mancini, unico profiler perso la moglie a causa di un cancro, della questura romana – si è specializza- non sopporta più la vista dei cadaveri, l’odore di morte, le porte chiuse. E che ha bisogno di indossare sempre un paio di guanti, quasi a rimarcare la volontà di separazione dal mondo esterno. Mancini, poi, sta seguendo un’altra indagine a cui tiene molto e non vuole trovarsi assolutamente coinvolto in quella che fin dal principio sente come una storia di omicidi seriali. C’è poi il rapporto che si instaurerà un po’ alla volta col killer, non a caso chiamato «l’Ombra». Una strana relazione fondata su di un dolore profondo e che più che ricalcare gli schemi tradizionali sembra richiamarsi alla psicologia junghiana, suggerendo quasi che l’assassino incarni la parte oscura dell’inconscio del commissario o, forse, che entrambi gli antagonisti siano proiezioni delle profondità della psiche dell’autore. Del resto se c’è Jung nel romanzo non manca neppure Freud: Caterina De Marchi, una componente della squadra di Mancini, si troverà a rivivere la scena rimossa all’origine della sua incontrollabile paura per i topi. Caratterizzato da una scrittura avvincente, all’interno della quale l’autore riesce ad integrare magistralmente registri medi ed alti, da livelli di suspence elevati – il libro si legge davvero tutto d’un fiato – da elementi di denuncia sociale e politica (si affrontano argomenti quali la sanità, le scorie delle centrali nucleari, la vita dei Rom) quello che più sembra caratterizzare maggiormente il romanzo di Mirko Zilahy è la sua capacità di essere letto a vari livelli, di mostrare, secondo il punto di vista in cui si pone il lettore elementi e temi differenti. Come se si trattasse di una complessa anamorfosi ,ovvero una di quelle «immagini distorte, mostruose e indecifrabili che, se viste da un certo punto dello spazio o riflesse con accorgimenti vari, si ricompongono, si rettificano, infine svelano figure a prima vista non percepibili». SAGGI · «Epico Caotico. Videogiochi e altre mitologie tecnologiche» di Giuseppe Frazzetto Il selfie? Documenta il dubbio di non esserci autoprodotte si spiega dunque alla luce di un interrogativo radicale, il selfie documenta «il dubbio di non esserci». È anche sul fondamento di tale dubbio che il più pervasivo e mascherato dei videogiochi, Facebook, è «il karaoke della vita - in primo luogo della vita regolata dai media, o dalla mediatizzazione della vita. Milioni e milioni di pro- lo strumento di un controllo pervasivo il cui fine è coincidere con il soggetto e il ensare le tecnologie come qualcosuo tempo di vita. Il biopotere, infatti, sa di neutro significa non com«non si limita a dettare norme e divieti prendere la loro natura. Pensare per regolare momenti specifici della vita la tecnica come un evento soltanto tec(rituali, situazioni di passaggio, punizionico vuol dire non pensare il presente e ni, ecc.), bensì orienta e ordina la vita nella storia. Lo mostrano anche i videogiola sua interezza. La vita così risulta il camchi. Sì, i passatempi che dalle vecchie po d’una mobilitazione totalizzante». console hardware degli anni Settanta Come il mito è al di fuori della possibilità sumer che canticchiano improvvisando sono transitati al software che riempie di controllo del singolo, così «l’esperienza immediatamente sui temi della loro vita qualunque cellulare. Questi passatemdel non capire e del non riuscire è parte inmediatica, capace di fagocitare anche i pi costituiscono in realtà una metamortegrante del nostro rapporto con le macfatterelli della vita effettiva del Singolo». I fosi e un’epifania del mito. chine Rispetto al digitale quasi tutti siavideogiochi, i social network e le ’altre miVideogiochi e nuovi media inmo nella condizione di chi sa legcarnano fenomeni e dinamiche gere senza sapere scrivere. O, tropTutti i nuovi media che riguardano l’identità del sogpo spesso, di chi viene pensato incarnano fenomeni e dinamiche getto, il biopotere che lo deterpensando di pensare». mina, la libertà e il tempo; sono L’epico caotico - splendido titolo che riguardano l’identità «’centauri digitali’: entità ibride di questo libro - è dunque il fenodi ogni soggetto, il biopotere uomo/macchina, come quelle meno della visibilità totale attuainvocate dai Futuristi». Anche a che lo determina, la libertà e il tempo lizzato dai miliardi di immagini questo legame tra videogiochi e che i prosumer creano e pubblicafilosofia è dedicato Epico Caotico. Videno sulla Rete, dal profluvio di selfie, dallo tologie tecnologiche’ rappresentano una ogiochi e altre mitologie tecnologiche di sconfinato numeri di messaggi e testi che compensazione esistenziale per ciò che Giuseppe Frazzetto (Fausto Lupetti edihanno sempre al centro un Io evidentenon si è - per quel dubbio di non esserci tore, pp. 240, euro 14,50). mente pornografico, nel significato che e una «ristrutturazione del tempo» che si Nei videogiochi la soggettività è insieBaudrillard ha dato a questo termine: abita e nel quale si consiste. Sono il temme intensificata e dissolta, intensifica«Pornografia è far vedere quanto non si po, non sono un passatempo. O almeno ta anche perché dissolta. Il Singolo dipoteva vedere. Pornografia sarebbe cioè tendono a diventarlo senza lasciar nulla venta playformer, diventa personagl’illimitato svelamento, il ’far luce’ illumifuori di sé. Essi, infatti, sembrano «reclagio, protagonista e guida degli eventi. nistico, la modernità». mare tutto il tempo a disposizione L’elaborazione della sua soggettività atUna modernità ipertecnologica e proprio dell’utente» mediante una profonda «altetraverso il metamedium avviene però per questo reincantata e mitologica. razione del rapporto fra tempo dell’intratin modo simile all’elaborazione del lutUna modernità che sta dappertutto e da tenimento e tempo complessivo della vito, all’interno del quale «tutto obbliga a nessuna parte, sempre connessa e semta». La struttura mitica dei videogiochi essere Singoli (= speciali) e tutto impepre solitaria. È la modernità del Soggetto consiste anche nella temporalità che li indisce di esserlo. In ogni caso, di certo servile e disperante che si crede però litesse e che creano, fatta di ricorsività e di assume un valore particolare il punto bero e appagato. Un vortice di contraddiripetizioni. di vista di ognuno dei Singoli, dei Singozioni che il libro di Frazzetto descrive Social network, strumenti informatici, celli qualunque». La bulimia di immagini con suggestivo rigore. lulari, costituiscono il campo d’azione e Alberto Giovanni Biuso P pagina 12 il manifesto MERCOLEDÌ 30 MARZO 2016 VISIONI , Note sparse • Giorgio Canali insieme ai Rossofuoco ha appena pubblicato un cd dove recupera brani di altri autori e gruppi spesso poco noti, conosciuti nel corso della carriera INCONTRI · In «Perle ai porci» le firme di Faust’0, Luc Orient e Macromeo Gioielli rubati, il suono ruvido dell’underground Marco De Vidi G iorgio Canali è un pezzo di storia del rock italiano. Fonico, produttore, musicista passato per una band simbolo degli anni Ottanta come i Cccp (e per le sue successive reincarnazioni, Csi e Pgr, partecipando poi alla reunion dei Csi del 2013, dove mancava Giovanni Lindo Ferretti «sostituito» alla voce da Angela Baraldi, ha dato poi il via a una carriera da solista che da anni lo porta ad attraversare la penisola, accompagnato come sempre dalla band Rossofuoco. Canali, che a quasi 60 anni continua a macinare chilometri e concerti, non ha mai smesso di farsi «Scelgo in base alle emozioni che mi trasmettono i testi, e a quel punto la musica passa in secondo piano» ispirare da quanto incontrava nel mondo underground e, abilissimo nell’attività di scouting, ha aiutato più di un gruppo a crescere (è lui il produttore di album d’esordio di gruppi come i Verdena o Le luci della centrale elettrica). Il nuovo lavoroPerle per porci - appena pubblicato dall’etichetta Woodworm - rispecchia esattamente questo spirito. Canali riprende tredici brani di altri autori e gruppi spesso sconosciuti, incontrati in tanti anni di carriera, reinterprentandoli con il suono grezzo e secco tipico dei Rossofuoco, perché non se ne perda traccia. «Quest’album è in gestazione da trent’anni ormai» - racconta Canali, «mi capitava di scoprire delle cose molto belle, che però poi venivano inghiottite dal nulla, perché sono canzoni sconosciute non solo al grande pubblico, ma anche a quanti mi seguono. Mi dicevo sempre che era un peccato: una canzone che mi emoziona in questo modo tanto da farmi desiderare di averla composta io stesso, si perdesse in questo modo. Negli anni me le sono annotate, poi è arrivata l’occasione giusta: avevamo un album da preparare e i brani inediti non ancora pronti. Così con il mio’ «archivio» siamo andati in studio e in pochissimo tempo, due o tre giorni di registrazione più una settimana per produzione, il disco era pronto. Il suono è quello dei Rossofuoco, inconfondibile, privo di fronzoli. Ti accorgi che non sono brani nostri da un particolare: qui non senti una parolaccia... (ride, ndr)». La cernita finale delle canzoni in scaletta è particolare, molto legata all’aspetto affettivo, e con scelte a volte inaspettate. «Semplicemente, quando ascolto una cosa mi devo emozionare» spiega Canali, «ed è quanto è successo quando ho ascoltato per la prima volta queste tracce. È importante ciò che le parole mi trasmettono, quasi uno schiaffo alla mia anima. E a quel punto della musica mi interessa relativamente.. Sono testi molto lontani dal mio stile, certo, ma mi trasmettono moltissimo. C’è un pezzo come Tutto è così semplice, del cantautore Macromeo, diventerà anche il primo video quando lo gireremo nei prossimi giorni. Mi ha colpito per la sua serenità, per la semplicità, è molto ottimista e sognante. Io nono così nella vita reale, ma mi piacerebbe esserlo talvolta...». C’è un brano cui sei particolarmente legato? «Di sicuro Storie di ieri, di De Gregori. Erano quarant’anni che volevo farne una cover, poi l’occasione è capitata grazie a Sei pezzi facili, una rassegna organizzata dal Kilowatt Festival di Arezzo, in cui mi hanno chiesto di interpretare sei pezzi altrui. Uno di quelli era appunto Storie di ieri, che da quel momento ho continuato a suonare live da solo e che in quest’album ho suonato con i Rossofuoco, ispirati dallo stile di Bob Dylan, di cui so che De Gregori è un grande fan. È stato divertente». La raccolta alterna composizioni di autori più conosciuti, come Faust’O e Finardi, oppure dell’amica Angela Baraldi, a altre di gruppi ormai dimenticati come i Plasticost o i Luc Orient. Ma anche brani che hanno fatto la storia, come Recall dei Frigidaire Tango. «Steve Dal Col, che era il chitarrista dei Frigidaire Tango, ora suona anche con i Rossofuoco. Mi ricordo che una decina d’anni fa avevano pubblicato un cofanetto con tutta la loro produzione e lui me l’ha regalato. Quando ho inserito nel lettore il cd The cock mi ricordo di aver pianto. Lo avevo in cassetta all’epoca della sua uscita e lo ascoltavo un’infinità di volte. Ritrovarmi a riascoltarli dopo così tanto tempo è stato come fare un viaggio incredibile. E poi Recall dovrebbe essere l’inno della new wave italiana, è assolutamente splendido». «OFF THE WALL» CON IL DOC DI SPIKE LEE Michael Jackson tra Africa e Studio 54 Stefano Crippa D ei disagi esistenziali, le bizzarrie, gli interventi estetici e gli scandali di un bimbo mai cresciuto che di lì a pochi anni lo travolgeranno, nel documentario di Spike Lee che accompagna la nuova edizione di Off the Wall, il primo passo nel mondo della discografia adulta di Jacko, non c’è traccia. E non sorprende, perché la supervisione della famiglia dietro ogni pubblicazione del catalogo milionario della pop star morta nel 2009, edulcora ogni minimo tentativo di andare oltre una mera agiografia. Ma se si guardano sotto un aspetto strettamente storico e musicale, i novanta minuti del filmato realizzato dal regista di Jungle fever sono una miniera di informazioni infinite intorno alla realizzazione di un disco che, sotto molti punti di vista è un album innovatore del mondo r’n’b più di quanto abbia fatto il successore, Thriller, con i suoi folli record di vendita su scala mondiale. Perché se Thriller (1982) e poi Bad (1987) sono pensati per conquistare una platea globale, riuscendo mirabilmente a tenere in equilibrio sofisticate aperture stilistiche e inevitabili concessioni commerciali, il primo vero progetto di Michael Jackson dopo gli anni insieme ai fratelli e a vacui dischetti incisi nel periodo dell’adolescenza con la Motown, appare quello dell’affrancamento definitivo dalla family e la dimostrazione tangibile del talento di un genio, disposto a rischiare. I dieci pezzi che compongono l’album - prodotto come i due successivi da Quincy Jone che Michael aveva conosciuto sul set di The wiz, il rifacimento «black» del Mago di Oz - contengono infatti una quantità di spunti, idee e arrangiamenti lussureggianti, da renderlo a trentasette anni di diPiù di «Thriller» stanza ancora un banco di prova fondamentale per geè l’album che segna nerazioni di artisti come la carriera di Jacko, Pharrell Williams, The Weekend, Bruno Mars o la rinascita dell’r’n’b Mark Ronson che a quei suodopo gli anni «disco» ni e quelle ritmiche si sono pesantemente ispirati. Off the wall esce nell’anno che segna l’apice e la repentina caduta della disco music, ponendosi come obiettivo una sorta di rifondazione del genere su basi r’n’b. E basta l’intro pulsante di basso e batteria di Don’t Stop Till You Get Enough, il singhiozzo liberatorio di Michael a far capire che l’obiettivo è raggiunto. Dieci canzoni suonate dai migliori musicisti sulla piazza (Steve Porcaro, Greg Phillinganes, George Duke), firmate oltre che dallo stesso Jackson da Stevie Wonder, Paul Mc Cartney, Rod Temperton, dove r’n’b, funk e pop si fondono alla perfezione insieme a strati di archi e fiati che non appesantiscono mai l’ascolto e risultano - trentasette anni e 18 milioni di copie vendute dopo - incredibilmente freschi. Come se la magia dello Studio 54 si fondesse con Mamma Africa. MARTA SUI TUBI · Il riconoscibile pedigree della band nel nuovo lavoro «Lostileostile» Oltre il giro di do, la tecnica è puro rock’n’roll Luca Pakarov S ono loro e non sono loro allo stesso tempo. Perché scrivere definizioni di Marta sui Tubi è pressoché impossibile, per fortuna. A conferma di ciò ecco arrivare Lostileostile (Antenna Music Factory), un disco che ha il pedigree nella propulsione ma che vive un presente di storie e di attimi liberatori. In confronto a Cinque, la luna e le spine, il sound e i testi sono più spessi e duri, è un lavoro molto articolato. A parlarne è il frontman Giovanni Gulino, che una volta in un’intervista ha detto che «la tecnica non è importante, importante è l’empatia». Ma qui di tecnica sembra essercene parecchia: «La tecnica fa parte del nostro dna, non ci piace fare il classico giro di do. Inoltre in tre devi avere un sound più robusto, a meno che non pensi di fare qualcosa di acustico e scarno». È un po’ quello che la band ha fatto agli esordi. «Sì, in questi mesi invece ci siamo chiusi in sala prove e, senza tanti ragionamenti, abbiamo pensato solo a divertirci facendo quello che ci veniva spontaneo. Ed erano musiche con una certa spinta ritmica». In alcune canzoni, come Da dannato o Rock and roipnol, tornano alla memoria gli Area. «Ce lo dicono da sempre anche se gli Area li ho scoperti dopo che ho cominciato a fare dischi… Però lo prendo come un complimento». Il confronto con l’altro è uno dei temi al centro di Lostileostile: «Ogni volta che ci interfacciamo con una persona nuova, si modi- «Il confronto è al centro di molti pezzi, quando ci troviamo davanti a una persona nuova, cambiamo» fica la percezione di noi stessi e del mondo circostante. Quando ho di fronte qualcuno che ha qualcosa da darmi, io stesso cambio. È un concetto che ho messo a fuoco nella canzone Un pizzico di te. In ogni traccia c’è il confronto, che può essere con la vita in Niente in cambio, con la morte in La calligrafia di Pietro o nel rapporto con un amico raccontato in Amico pazzo». Nei testi citazioni ecumeniche: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Ma se il MARTA SUI TUBI prossimo tuo non ti ama o, peggio, tu non ami abbastanza te stesso? Nella mente restano impressi gli attentati di Bruxelles… «Sia chiaro, non sono uno studioso di politica internazionale e parlo da cittadino, ma stiamo subendo le conseguenze di tante scelte fatte male verso chi è stato depredato senza ritegno. Ovvio, questo non giustifica nulla, tantomeno la violenza». Torniamo al quotidiano, le piccole storie nel disco diventano importanti, sem- bra un’agenda di appunti: «Sono un accumulatore seriale di pensieri e di momenti, nel mio telefono ho segnato pagine di libri che non scriverò mai. Sono mie piccole verità messe da parte. Per questo disco però non ho attinto volutamente da quel materiale, volevo i testi più diretti possibile, mi sono chiuso in soffitta con la penna e ho scritto cercando di interpretare ciò che la musica mi suggeriva. Poi si lavora con gli altri del gruppo, ognuno apporta o si oppone a qualcosa e, non a caso, è stato scritto e registrato in quattro mesi, pur avendo al principio poco materiale». Sorprende la capacità di rapportarsi con tanti spunti e materiali in tempi brevi: «Abbiamo cambiato l’approccio alla composizione con una sala prove tutta per noi, proprio per concentrarci totalmente sul lavoro». Il disco è stato realizzato grazie a un crowdfunding, portato a buon fine con l’apporto fondamentale dei fan: «È una naturale conseguenza del rapporto che abbiamo creato con i fan, molti dei miei amici li ho conosciuti perché si sono presentati ai concerti magari dieci anni fa ed ora sono persone con cui mi sento quotidianamente. Il crowdfunding è un modo per concretizzare questo tipo di rapporto. I fan di una band possono sostituire un’etichetta discografica, alla fine sono sempre loro quelli che pagano e una band come la nostra, che gira da più di dieci anni, si sa gestire da sola. Lavoriamo con altri tipi di strutture, come la distribuzione e il publishing, ma fanno tutte capo a noi». Dopo il disco arriva la controprova, il concerto dal vivo: «Lasciamo sempre un certo margine di atipicità alle serate. Sicuramente sarà un live d’impatto, con vecchie canzoni che negli ultimi anni non siamo riusciti a inserire, forse il più r’n’r che abbiamo portato in giro». il manifesto MERCOLEDÌ 30 MARZO 2016 pagina 13 VISIONI WOODY ALLEN «Café Society» di Woody Allen sarà il film d'apertura del 69/o Festival di Cannes. Il film sarà proiettato mercoledì 11 maggio al Grand Théatre Lumière in Sélezione ufficiale, ma fuori concorso. Il film racconta di un giovane che va a Hollywood negli anni Trenta nella speranza di lavorare nel cinema, ma si innamora e si ritrova coinvolto nella Café Society che segna quell'epoca. GILLES LAURENT Tra le vittime degli attentati di Bruxelles, anche il documentarista belga Gilles Laurent. Lo rende noto il Centro Video di Bruxelles. Laurent aveva da poco terminato il montaggio di «La terra abbandonata», il suo primo documentario incentrato sui danni subiti dal territorio intorno alla centrale di Fukushima dopo il disastro nucleare di cinque anni fa. ATLETI RUSSI DURANTE UNA COMPETIZIONE SPORT · Chiesta la riabilitazione di Viktor Chegin Lettera aperta a Putin da parte degli atleti russi Nicola Sellitti DUE SCATTI DI LETIZIA BATTAGLIA ESPOSTI ALLA ZISA DI PALERMO INTERVISTA · Letizia Battaglia e la personale antologica alla Zisa Dentro Palermo, una città raccontata in bianco e nero Manuela De Leonardis ROMA I n un momento di pausa, prima dell’incontro romano che si è tenuto a Villa Medici nell’ambito de I giovedì della Villa-Questions d’Art, Letizia Battaglia (Palermo 1935) accende una sigaretta e sfoglia il catalogo della personale Anthologia in corso allo ZAC - Cantieri Culturali alla Zisa a Palermo (fino all’8 maggio). Ma, come prima cosa, si sfoga: «Non ne posso più. Faccio fotografia e vivo da militante contro la mafia, non mi faccio corrompere e pubblico le foto dei mafiosi perché è giusto pubblicarle, ma non sono la Battaglia contro la mafia! Fotografo anche altro, come mia figlia Patrizia mentre partorisce. Gli omicidi sono solo una parte della nostra vita a Palermo». Proprio alla sua città è dedicato il Centro Internazionale di Fotografia che sarà inaugurato a breve. «Tre anni fa chiesi a Orlando di far restaurare due padiglioni della Zisa. Il mio progetto è quello di fare un «Non sono la ’battaglia contro la mafia’, fotografo anche altro, gli omicidi sono solo una parte della città» centro con due gallerie, una con i grandi fotografi internazionali e l’altra per i giovani emergenti. Ma più che altro si tratta dell’archivio della città di Palermo. Vorrei ricostruire fotograficamente questa Palermo un po’ devastata e sgangherata. Sarà un luogo di grandi meeting tra chi ama la fotografia, ma anche la poesia, la musica, scrittura, l’arte contemporanea». Ci sono stati dei momenti in cui hai scelto di non fotografare, come quando furono assassinati Chinnici e Falcone… Abbiamo avuto paura, la tensione era alta. Non era possibile accettare tutte quelle morti e violenze. Una bomba scoppiava da una parte, un incendio dall’altra. Tutte intimidazioni mafiose. Quando ci chiamarono alle 8 del mattino perché era successo qualcosa da qualche parte, io dissi che non ci sarei andata. Era Rocco Chinnici. Ci andò Franco Zecchin, che era il mio compagno, e fece anche delle belle foto. Oggi sono pentita di non aver fotografato, perché era giusto che facessi quelle foto e le mostrassi. Però non ce la feci. Era umano. Noi fotografi eravamo sempre pronti a correre con la macchina fotografica e non potevamo nasconderci, diversamente dal giornalista che può scrivere quattro cose e perdersi in mezzo alla folla. Qualche volta dovevamo «sflashare», perché di notte non si vedeva. Io il flash l’ho usato pochissimo, ma qualche volta era necessario. Poi, dopo Chinnici mi bloccai per sempre con Falcone. Quando la televisione disse che era successo qualcosa sull’autostrada, sembrava che si trattasse del giudice Falcone, mi sentii morire dentro. Penso che sia stato allora che non ho più accettato di incontrare la morte violenta. La scelta del bianco e nero dipen- de dal fatto che fotografavi prevalentemente per un quotidiano? No, perché allora L’Espresso o Panorama chiedevano sempre foto a colori, ma io non ho mai amato il colore. Specialmente quando fotografavo i morti. Ancora oggi il solo pensare al rosso del sangue mi fa star male. Penso che il bianco e nero sia più silenzioso, solenne, rispettoso. Anche quando guardo la fotografia degli altri cerco il bianco e nero. È un gusto artistico, del mezzo, del risultato. Nei primissimi anni ’70 la fotografia è stato un mezzo per conoscerti… Sì. Ho iniziato a fotografare Milano, nel 1971, per guadagnarmi il pane. Fin da bambina sognavo di di- HOLLYWOOD · Morta l’attrice Patty Duke Il nome forse non è immediatamente riconoscibile, ma il volto e la sua interpretazione nel ruolo della giovane donna nata cieca, sorda e muta al fianco di Anne Bancroft in «Anna dei Miracoli», è rimasto impresso al pubblico di tutto il mondo. A 69 anni è morta Patty Duke, l'attrice americana che proprio con quel ruolo ottenne nel 1963 un Oscar come migliore attrice non protagonista. Aveva anche recitato in «La valle delle bambole», «My Sweet Charlie» e per il «Patty Duke Show» andato in onda sulla tv americana dal 1963 al 1966 e in cui aveva interpretato due ruoli contemporaneamente, quello di una normale teenager americana, Patty Lane, e quello della identica cuginetta in versione britannica, Cathy Lane. In «Anna dei Miracoli» Patty era stata affiancata da Anne Bancroft nel ruolo dell'istitutrice Annie Sullivan che riesce a far parlare la ragazzina: la parte fece vincere alla Bancroft l'Oscar come migliore protagonista. Patty era appena sedicenne e il suo fu il primo Academy Award della storia ad essere conferito a un minorenne. Dopo quel successo, nel 1969 ottenne un altro premio, il Golden Globe, per «Me, Natalie», un film che segnò anche il debutto sul grande schermo per Al Pacino. Il privato della Duke è stato particolarmente turbolento, tra ripetute depressioni, tentativi di suicidio, matrimoni e divorzi. ventare scrittrice, per cui il giornalismo era una cosa naturale. Però, quando portavo da freelance un’idea, un articolo, mi dicevano sempre «e le fotografie?». Allora una mia amica mi regalò una macchinetta e iniziai a fotografare. Ma già allora era un mezzo che non conoscevo, anzi non lo conosco neanche oggi! Ho sempre fotografato quasi per miracolo. Non ho mai capito le tecniche, però sapevo quelle quattro cose che mi sono servite. Ho avuto la fortuna, ad esempio, di andare a cercare Pier Paolo Pasolini di cui ho una ventina di fotografie, che ora sono nella sua casa. Ma la passione è venuta dopo, a Palermo. Quando fui chiamata dal mio giornale - L’Ora con cui già collaboravo. All’epoca, comunque, non pensavo che fosse un mezzo psicoanalitico. Lo penso oggi di allora. So che c’erano delle spinte molto forti verso le donne, le bambine. Non mi veniva di fotografare gli uomini, i politici. Mi venivano male, sfocati, brutti. Non sono mai stata lesbica, ho sempre avuto compagni uomini che ho amato, però nella fotografia avevo bisogno di fotografare le donne, perché fotografavo me stessa. Con la fotografia ho tentato di esprimere me stessa. Certo, quando mi mandavano a fotografare il morto ammazzato, mentre lo fotografavo avevo un dolore e una tensione di donna, che è diverso da quella degli uomini. Mi ricordo io e Franco Zecchin. Lui era fermo fermo, freddo freddo. Mi dicevo, «ma questo non scatta, ma che fa?». Io, invece, bisticciavo con i poliziotti per passare... Poi, quando tornavamo, lui aveva tante bellissime fotografie, io avevo le mie, ognuno fotografava in modo e con risultati diversi. Magari dei miei 18 scatti, 15 erano una schifezza, altri così, poi finalmente c’era una foto buona. Per me fotografare è stato il lavoro più bello del mondo! U na lettera aperta a Vladimir Putin per riabilitare il guru della marcia, radiato a vita dallo sport per le sostanze dopanti somministrate ai suoi atleti. Con la bufera del doping di Stato che incendia ancora una volta il controverso rapporto tra la Russia e il resto delle federazioni occidentali dopo il recente scandalo Meldonium, il farmaco proibito che ha messo nei guai la superstar del tennis Maria Sharapova e altri campioni che difficilmente sfileranno nella cerimonia d’apertura dei Giochi olimpici di Rio de Janeiro, tra pochi mesi. Quattro atleti russi – ancora anonimi ma che pare siano saliti sul podio almeno una volta ai Giochi olimpici, due dei quali sono stati privati degli allori perché risultati positivi a controlli antidoping - hanno chiesto al presidente della Federazione Russa di riabilitare il nome, la reputazione di Viktor Chegin, il plenipotenziario dell’atletica russa, il nemico numero uno al momento della Wada, agenzia mondiale antidoping e dell’agenzia antidoping russa (Rusada), radiato per la somministrazione di sostanza proibite ai suoi atleti. In particolare, Chegin oltre a essere uno degli allenatori più vincenti nella storia recente dell’atletica leggera, sarebbe la mente del centro tecnico di Saransk, la casa del doping finanziata dallo Stato e completamente messa nelle sue mani (porta il suo nome) che avrebbe prodotto la benzina truccata per i successi – tanti - degli atleti da lui seguiti nell’atletica leggera. E per questo motivo da tempo erano sulle sue tracce sia la federazione internazionale di atletica leggera, la Iaaf, che la Wada. I suoi ragazzi hanno portato a casa tre ori nelle ultime tre 50 km di marcia alle Olimpiadi. Ma negli ultimi anni proprio i marciatori russi sono risultati positivi ai test antidoping, con Tas e Iaaf che qualche giorno fa sfilavano la medaglia della 50 km di marcia con record olimpico a Sergei Kirdyapkin, squalificato per doping, tre anni e tre mesi, nel gennaio dell’anno scorso. E lo stesso provvedimento è stao preso per Yuliya Zaripova, che ha perduto la medaglia d’oro nei tremila siepi vinta a Londra 2012 e il titolo mondiale sulla stessa distanza dell’anno precedente e per Olga Kaniskina, argento nella 20 km sempre ai Giochi londinesi. La squalifica a vita per il direttore del centro tecnico russo era quindi attesa, senza dimenticare che il 15 luglio 2015 sei atleti seguiti da Chegin risultavano positivi all’Epo, Soldi e «amor patrio», per salvare il guru della marcia, radiato dalla federazione dopo scandalo doping 31 in totale sino a quel momento. Chegin si dimetteva il giorno successivo dalla guida del centro di Saransk e la federazione russa, per ridimensionare il caso divenuto mediatico, vietava agli atleti di continuare a lavorare con lui, con marciatori non iscritti alle gare internazionali – Mondiali di Pechino inclusi – sino al termine di un’indagine interna. E ora siamo al bando a vita per Chegin, secondo gli olimpionici «un gran professionista e un vero patriota della Grande Russia» con la squalifica imposta da Wada e Rusada che sarebbe arrivata a causa delle pressioni politiche dell’Occidente. Insomma, una parte dello sport russo alza un muro, fa capire di sentirsi vittima di una congiura, di un sistema che avrebbe colpito in particolare l’atletica della Federazione, a pochi mesi dalle Olimpiadi di Rio de Janeiro. E cerca sponda in Putin, che aveva agitato l’esistenza di una spectre occidentale ai danni dello sport russo, idea sostenuta anche da campionesse come Elena Isinbayeva (salto in alto, titoli olimpici e mondiali) dopo la richiesta della restituzione delle medaglie mondiali e olimpiche vinte dagli atleti della Federazione negli ultimi sette anni da parte di varie federazioni. Insomma, una sceneggiatura che si ripete, un remake dell’Occidente contro Unione Sovietica dei primi anni Ottanta, nell’era dei boicottaggi. Nonostante questo gli atleti russi saranno a Rio, l’atletica sarà decimata ma presente, gli sponsor pagano tanto e subito e attendono cascate di dollari dalle Olimpiadi brasiliane. pagina 14 il manifesto MERCOLEDÌ 30 MARZO 2016 COMMUNITY RI-MEDIAMO – I «marò» Oltretevere Vincenzo Vita I EMILIA ROMAGNA l gruppo di inchiesta «Spotlight» del Boston Globe, reso celebre dall’omonimo film vincitore (tra gli altri premi) dell’Oscar 2016 e del Pulitzer del 2003, indagò sullo scandalo della pedofilia e delle molestie sessuali nella Chiesa della città dell’East Coast (e non solo). E, in tal modo, scoperchiò un vero e proprio sistema di sopraffazione e di potere criminale, fin lì insabbiato e coperto da mille complicità. Accade, oggi, che due bravi giornalisti come Emiliano Fittipaldi e Gianluigi Nuzzi, “rei” di aver scritto due libri, «Avarizia» e «Via Crucis»(2015), rischiano seriamente il carcere. Due inchieste coerenti con la deontologia della professione: scavare sotto la coltre del fariseismo, cercare senza sosta la verità. Testi pieni di notizie documentate e inquietanti: gli enormi buchi neri della gestione delle finanze della Chiesa, l’oscura faccenda degli introiti inerenti alle cause di santificazione divenute un cinico business, gli affari immobiliari con relativi scandali, i conti segreti dello Ior, gli alloggi principeschi dei reverendissimi cardinali, i privilegi smisurati e l’utilizzo per fini ultronei dei contributi dei fedeli. Al riguardo, Fittipaldi accende i riflettori sul caso dell’ospedale pediatrico di Roma Bambin Gesù, dalle cui casse rimpinguate dai credenti (dai cittadini, dunque) sarebbero stati tratti 200.000 euro per ristrutturare l’appartamento di Tarcisio Bertone. Così il centro dermatologico Idi, finito nel (dis)onore della cronaca giudiziaria. E poi la curiosa sorte della commissione di inchiesta istituita proprio per fare luce sul disastro economico e incappata nella imprevedibile telenovela che ha visto protagonisti il coordinatore della struttura monsignor Vallejo Balda e Francesca Chaouqui, coppia perfetta per alimentare un bel gossip da telenovela. Nuzzi sottolinea le anomalie del caso. Proprio il sacerdote dell’Opus Dei è una delle fonti dei due volumi, sospetto che l’interessato ha tentato di capovolgere con l’accusa (già ritrattata) di violenza ai suoi danni. Ed eccoci al procedimento giudiziario, un colpo al cuore sferrato a ogni principio democratico. Infatti, nello stato pontificio è ancora in vigore il codice penale dell’allora ministro Zanardelli del 1889, recepito dai Patti Lateranensi del 1929. L’addebito mosso a Nuzzi e Fittipaldi è la «violazione del segreto di stato», con la pena del carcere fino a otto anni, da scontare nella malaugurata ipotesi in Italia, sempre per le intese bilaterali tra le istituzioni italiane e quelle della Chiesa cattolica. Il processo – dalle garanzie assai approssimative - riprenderà il prossimo 6 aprile, con l’interrogatorio di tre dei cinque imputati, cui seguiranno le testimonianze. È una vicenda clamorosa, che mette in questione la stessa sovranità nazionale. Che non vale solo quando, anche giustamente, si conduce un braccio di ferro con l’India per riavere i marò considerati da quel paese di propria spettanza giudiziale. Ma allora perché finora non vi è stata alcuna iniziativa del governo, salvo una criptica dichiarazione del ministro Alfano? Non è stato convocato, a quanto risulta, neppure l’ambasciatore presso la Santa Sede. Quest’ultimo andrebbe ritirato, fino ad avvenuto chiarimento sul carattere delle accuse. E sì, perché la presunta violazione del segreto di stato si chiama libertà di espressione. Come è stato chiarito nell’efficace conferenza stampa con gli autori promossa mercoledì 16 marzo dai parlamentari Pippo Civati e Andrea Maestri. È un incubo, che poco si addice all’illuminato magistero dell’attuale Papa di Roma. – «Non è questione di sistema per il problema mondiale della droga, solo di risorse»: ecco la conclusione della Commissione delle Droghe Narcotiche (Cnd), in vista di Ungass. Ma che cos’è di preciso «il problema mondiale della droga»? Significa che i prezzi sono troppo alti, che la qualità è bassa e la distribuzione è lenta? Oppure che perseguire l’astinenza con la forza ha causato spargimento di sangue e repressione? E’ un riconoscimento dell’errore di base, stante che nelle società capitalistiche spingere nella clandestinità beni di consumo si traduce in economie parallele e in incubazione di criminalità organizzata? Oppure che l’utilizzo del sistema penale per fini di salute pubblica conduce a incarcerazioni di massa? I tassi di omicidio sospinti dal narcotraffico in Messico, Guatemala o Giamaica sono parte del Giovedì 31 marzo, ore 17 MORANDI, DIPINGO Conferenza a cura di Maria Cristina Bandera sulla figura di Giorgio Morandi. Un incontro in cui si affronterà il suo personale rapporto tra la pratica incisoria e quella pittorica, a partire dall’esame delle sue acqueforti della collezione di Luciana Tabarroni. Ingresso con biglietto della Pinacoteca, fino ad esaurimento posti. Pinacoteca Nazionale di Bologna, via Belle Arti 56, Bologna Sabato 2 aprile CREATIVITÀ Uno sguardo sul sistema della creatività contemporanea italiana e un focus sulla creatività emergente. Energia, processualità e partecipazione, un evento culturale senza precedenti per Parma: mostre disseminate in tutta la città, conferenze, workshop e circuiti off per rigenerare una grande tradizione culturale, far vivere in modo nuovo gli spazi espositivi e coinvolgere attivamente tutta la cittadinanza. 45 giorni di installazioni, fotografia, architettura e design, videoarte, realtà aumentata, food design, musica: l’Arte al servizio della città e del territorio, l’Arte come strumento di crescita e trasformazione sociale. Luoghi vari, info: [email protected], www.parma360festival.it Parma LAZIO Mercoledì 30 marzo, ore 19 ONE SHOT BAND Presentazione del libro «One Shot Band», gruppi, artisti, visionari e sognatori con idee (spesso) geniali e un solo disco alle spalle di Paolo Gresta. Insieme all’autore interviene Vincenzo Martorella Libreria Altroquando, via del Governo Vecchio, 82, Roma Giovedì 31 marzo, ore 15 MESSICO Una conferenza sulla civiltà del Messico pre ispanico, nell’ambito del ciclo di conferenze tenute dall'archeologo Leonardo L?pezLuján dell'Instituto Nacional de Antroplogia e Historia, Museo del Templo Mayor. L'incontro dal titolo «La visión del tiempo y del espacio en la antigua ciudad de Teotihuacan» è promosso nell'ambito delle attività del dottorato di ricerca in Storia, Antropologia, Religioni e degli insegnamenti di Urbanistica antica e Storia delle religioni. L'iniziativa, che rientra negli accordi di cooperazione tra la Sapienza e gli enti di ricerca archeologica e antropologica del Messico (Unam e Inah), è dedicato alla concezione del tempo e dello spazio a Teotihuacan, il centro urbano la cui civiltà ebbe larga influenza in tutto il Messico centrale un millennio prima dell'egemonia degli Aztechi. Aula di paleografia - edificio di Lettere, p.le A. Moro, 5, Roma LOMBARDIA Milano 30 marzo ALIDA VALLI Fino al 17 aprile Fondazione Cineteca Italiana presenta «Alida Valli, la diva», una rassegna cinematografica che ripercorre la carriera cinematografica della divina attrice italiana, a dieci anni dalla sua scomparsa, partendo da uno dei suoi primi film, Il feroce saladino di Mario Bonnard, fino al thriller soprannaturale del maestro del giallo Dario Argento, Suspiria. Info e calendario proiezioni: [email protected] oppure cliccare sul sito www.cinetecamilano.it, tel. 0287242114 MIC - Museo Interattivo del Cinema, v.le F. Testi, 121, Milano Tutti gli appuntamenti: [email protected] le lettere – L’Eni «perseguita» i defunti Sono un testimone diretto, con prove alla mano, dell’invasività iniqua e immorale dell’«Eni Divisione Gas & Power» non solo in vita, ma anche post mortem. Mio padre è deceduto il 19 gennaio 2015. Il 30 gennaio 2015 gli operatori di Eni Divisione Gas & Power hanno effettuato il distacco della fornitura e hanno apposto il sigillo al contatore dopo aver rilevato la lettura finale di «57» metri cubi. Fino ad allora mio padre non solo aveva pagato tutto, ma aveva pagato di più (77 mc) di quanto effettivamente consumato per due motivi: 1) perché stava in una casa di cura e la sua casa non era abitata; 2) perché l’Eni Gas, incurante a volte delle letture, mandava bollette non in base ai consumi storici dell'utente, ma in base a «una stima di consumo basata su valori standard nazionali» (risposta data da Eni Gas & Power a reclamo inviato nel 2013). La cosa incredibile succede dopo oltre un anno dal distacco della fornitura: si fa viva con un figlio del defunto un'agenzia di recupero crediti che, su incarico di Eni, esige il pagamento di 2 bollette insolute, di cui una emessa ad agosto 2015 (7 mesi dopo il decesso dell'utente e cessazione del servizio) e l’altra emessa a novembre 2015 (10 mesi dopo). Non ricevendo i pagamenti, anche perché la casa disabitata era in vendita, l’Eni Gas ha affidato a una società di recupero credito le bollette «insolute». L’ufficio riscossione crediti ha cominciato così a tempestare di telefonate il figlio in questione, rimasto di stucco nell’apprendere che il proprio defunto padre continuasse a consumare gas domestico. Finalmente da una chiamata al Numero Verde viene fuori che l’Eni Gas ha registrato la chiusura della fornitura e la lettura finale, ma non ha completato l’iter di cessazione e, invece di rimborsare i consumi pagati in eccesso, ha continuato a mandare bollette «post mortem». Morale della favola? In Italia succedono cose dell’altro mondo e viene da chiedersi: quanti casi del genere esistono in Italia? Quanti cittadini anziani inermi si vedono recapitare bollette selvagge da Eni divisione Gas & Power? E quanti defunti, dall’aldilà, assistono impotenti al fango gettato sulla loro memoria dalle diverse Società di distribuzione di Energia e/o da Equitalia e/o esattori similari? Mi sono limitato a raccontare pubblicamente questa singola storia sperando possa servire alle Autorità di controllo degli enti di distribuzione di energia per far cessare eventuali vessazioni come questa ai danni di altri cittadini. Domenico Ciardulli INVIATE I VOSTRI COMMENTI SU: www.ilmanifesto.info [email protected] Brutte coop a Roma La cooperativa edile Deposito locomotive Roma San Lorenzo è in liquidazione coatta così come tantissime coop. associate alla Lega nazionale delle Cooperative. I soci prenotatari di case e prestatori sociali hanno visto tutti i loro risparmi di una vita volatizzati. È il crollo dei valori etici del mondo cooperativo. Decine di migliaia di operai, impiegati, pensionati di quel mondo di sinistra che per generazioni hanno riposto i loro risparmi nelle cooperative sono disperati per sentirsi truffati dei loro ideali e dei loro risparmi. Il crollo delle cooperative è diffuso in tutta Italia, soprattutto nelle regioni di più antica tradizione cooperativa: Emilia Romagna, Friuli, Toscana e noi a Roma: la nostra era la più antica cooperativa a Roma fondata nel 1964 da ferrovieri comunisti e socialisti, ha costruito 1600 case per ceti popolari ed era un grande punto di riferimento per la sinistra romana. Abbiamo denunciato alla Procura di Roma la sottrazione di tre milioni di euro dei nostri risparmi volatizzati con la responsabilità diretta dei dirigenti della Deposito locomotive Roma San lorenzo che, tra l’altro, hanno intrattenuto a nostra insaputa rapporti di vendita a prezzi stracciati di nostre abitazioni con Salvatore Buzzi di Mafia Capitale. Non sono esenti le responsabilità della Lega nazionale delle Cooperative diretta per dieci anni dall’attuale ministro Poletti per mancati controlli sulla sua associata e del ministero dello Sviluppo Economico per la stessa ragione. I parlamentari di governo e di opposizione non ci sentono, vedono, parlano. È un’altra solitudine degli italiani reali. Ci stiamo organizzando e ci faremo sentire in piazza e alle urne. Sebastiano Gernone Deposito locomotive Roma San Lorenzo Addio a Enrico Maltini Addio a Enrico Maltini, militante anarchico che dal 1969 ha dato un contributo rilevante alla battaglia per la verità su piazza Fontana e che ha dedicato gli ultimi anni della sua vita a «Pinelli, la finestra è ancora aperta» (coautore l’avvocato Gabriele Fuga) libro di prossima uscita per le edizioni Colibrì. Ciao Enrico, ci mancheranno la tua determinazione e la tua gentilezza. Frank Cimini Dalla padella alla brace Si può senz’altro affermare che per quanto riguarda la manutenzione delle case di edilizia popolare a Roma, gli inquilini sono passati dalla padella alla brace. La padella era la Romeo Gestioni, la brace l’attuale inesistente Ufficio del Comune che si dovrebbe occupare della manutenzione. E’ accaduto questo: la Romeo Gestioni si occupava sia della gestione amministrativa e contabile, nella sostanza riscuotere dagli inquilini il canone d’affitto e gli oneri accessori, sia della manutenzione delle case. Per la manu- tenzione la Romeo Gestioni, ci faceva disperare, ma dopo molto insistenza nel telefonare, inviare fax, lettere raccomandate, qualche risultato si otteneva. Adesso il Comune, dopo aver tolto l’appalto alla Romeo, ha pensato bene di affidare subito l’incarico per la gestione contabile ad altra società, la Prelios Integra. Ha pensato bene, vale a dire, a riscuotere come sempre il canone d’affitto e oneri accessori dagli inquilini. E per la manutenzione? E che importanza ha la manutenzione? Se ne occupa direttamente il Comune. Così è stato detto agli inquilini. Vale a dire: se ne occupa direttamente la brace, per tornare alla metafora. Sì, perché se prima l’insistenza nelle richieste alla Romeo Gestioni, otteneva qualche risultato, adesso il risultato è pari a zero. Il Comune, padrone di casa, deve essere in tutt’altre faccende affaccendato. Delle disinfestazioni contro zanzare e scarafaggi, invece, si è sempre occupato, l’Ufficio Tecnico del IV Municipio. Altra padella, stando sempre alla metafora, diventata adesso brace per solidarietà con gli altri Uffici del Comune. E così, gli inquilini di via A. Mammucari, sono tormentati da zanzare e scarafaggi d’estate e d’inverno, tutto l’anno. Inquilini delle case popolari, Roma FUORILUOGO Onu e la droga, il sistema tutela se stesso Axel Klein problema? O lo è l’intreccio di guerra e droga in Afghanistan e in Colombia? E che dire del problema della corruzione globale? La riunione della Cnd della scorsa settimana a Vienna ha avuto il compito di preparare la Sessione Speciale sulle droghe dell’Assemblea Generale Onu di aprile. Lì i politici hanno la possibilità di verificare che, nonostante i loro sforzi, i consumi globali sono in ascesa, le produzioni di coca e di cannabis sono più alte che mai, e che laboratori chimici clandestini immettono tutti gli anni sul mercato nuove sostanze psicoattive. Tanto è com- La lettera plesso il problema che bisogna trovare una soluzione globale: da qui l’urgenza di un documento unanime. Ma portare tutti a tagliare il traguardo significa riconfermare principi come «un mondo libero dall’abuso di droga», proprio quando la legalizzazione della marijuana sta diventando una realtà in alcuni stati membri delle Nazioni Unite. I leader di Messico, Brasile, Nigeria e Grecia hanno invocato la normalizzazione delle «droghe» oggi proibite, proprio per prevenire la violenza. L’Uruguay è stato il primo stato a legalizzare la cannabis, proprio per combattere il narcotraffico. Ma il prezzo dell’unanimità è di regredire alla mediana, al «risoluto impegno alla riduzione della domanda, alla riduzione dell’offerta e alla cooperazione internazionale». Questi solenni proclami sono necessari, apparentemente, per tenere a bordo i paesi conservatori, come l’Arabia Saudita, Singapore e il Kazakhstan. Può il prezzo dell’unanimità consistere nel supporto alle tattiche brutalmente repressive di regimi autoritari? L’Onu è l’assise per le buone pratiche a sostegno del benessere e dei diritti umani: rimpiazzate – constatiamo- da più prag- matiche preoccupazioni di mantenimento del sistema di controllo antidroga. Perciò, la risoluzione «riafferma» e «sottolinea» gli impegni delle tre Convenzioni sulle droghe, sì che ogni «guerriero della droga» possa avvolgersi nella bandiera dell’Onu. Non solo vanno avanti come al solito, guardano anche al proprio business. Per prima cosa, i rappresentanti concordano nel «conferire adeguate risorse» alla riduzione dell’offerta e della domanda e «per assistere i paesi in via di sviluppo». Poi si identificano i beneficiari di queste elargizioni, iniziando dall’ospite: si Imposizioni a scuola Ho raccolto una ultima, ignorata lamentela da parte di una madre per la diffusa pratica del «segno di croce», imposta al figlio, prima della refezione, dalle insegnanti di una scuola statale dell’Infanzia leccese. In passato in un locale asilo comunale dopo analogo dissenso, da parte di genitori, fu investito l’Ufficio Legale per appianare la questione. Fu individuata una geniale soluzione, forse in analogia al principio della scelta facoltativa dell’ora di religione, in base alla quale, in mancanza di attività alternativa, l’alunno può allontanarsi dall’aula. Per il piccolo infatti fu disposto che prima del pasto venisse allontanato dalla mensa per rientrarvi subito dopo l’eseguito «rito». In Italia ci si comporta ancora come se la religione fosse obbligatoria, in quanto religione di Stato, in violazione del supremo principio costituzionale della laicità e del carattere aconfessionale delle istituzioni. Specialmente nelle scuole, tempio delle culture, non possono perpetuarsi preferenze o risalto esclusivo di una di esse, con simboli, riti, pratiche e precetti, passati per tradizione, peraltro non unica, liberamente seguite e coltivabili nella società. Giacomo Grippa Lecce – «riafferma» il ruolo principale della Cnd, e i ruoli «prescritti dai trattati» dell’Ufficio per la Droga e il Crimine (Unodc) come l’entità guida del sistema Onu, così come i ruoli, prescritti dai trattati, del «International Narcotic Control Board» (Incb) e della Oms. Dopo aver assicurato gli interessi del sistema stesso, il documento raccomanda di indirizzare risorse per i trattamenti sanitari e per la repressione penale. Invece di confrontarsi con l’evidenza, la riunione Cnd ha riconfermato precedenti asserzioni non verificate, a sostegno di principi «sacri» e di interessi professionali. Se Ungass andrà allo stesso modo, un decennio di riforma della politica della droga sarà sprecato. * Direttore della rivista «Drugs and Alcohol Today». Il documento della Cnd su www.fuoriluogo.it il manifesto MERCOLEDÌ 30 MARZO 2016 pagina 15 COMMUNITY Il futuro nero dell’auto e la sfida possibile L o scandalo delle emissioni truccate del gruppo Volkswagen ha scosso l’automotive, e su di esso si è rivolta l’attenzione dei media. Tuttavia per comprendere cosa bolle in pentola in un settore che continua a rappresentare nel bene e nel male una quota estremamente rilevante della produzione industriale, è bene aver presente che esso è da tempo interessato da un processo di ristrutturazione. Assisteremo in tempi relativamente brevi ad una riconfigurazione della geografia internazionale della produzione di automotive. L’incentivo al cambiamento tecnologico, dettato dalle politiche ambientali europee e statunitensi, conduce ad un’evoluzione qualitativa e quantitativa della produzione di automobili e del trasporto in generale. Le implicazioni sociali, economiche, industriali e ambientali saranno in grado di configurare un nuovo paradigma tecno-economico. Sono queste alcune delle tesi principali di una recente ricerca alla quale abbiamo contribuito. Il lavoro curato dall’associazione Està (A. Di Stefano e M. Lepratti), e sollecitato dalla Fiom-Cgil Lombardia, sarà presento a Milano l’1 aprile al Palazzo della Regione Lombardia. Emergono due traiettorie di sviluppo fondamentali: 1) il consolidamento di grandi oligopoli sovranazionali; 2) la rivoluzione tecnologica legata alla green economy. Ragioniamo allora sulle relazioni tra oligopolio e progresso tecnico - a partire dalle categorie proposte da Paolo Sylos Labini in un suo famoso saggio: gli interventi normativi volti a promuovere una nuova mobilità sostenibile, innanzitutto in termini ambientali, svolgono esattamente la funzione di stimolo necessaria affinché possa divenire massimamente profittevole l’adozione delle innovazioni. Questo processo potrà a sua volta fungere da stimolo per consolidare altre traiettorie di ricerca e sviluppo in grado di dettare le condizioni per un’ulteriore evoluzione nella struttura del settore. Occorre sottolineare che solo le imprese più grandi possono applicare quei metodi tecnici e organizzativi in grado di realizzare le economie di scala necessarie a contenere i costi di produzione e il finanziamento dell’attività di ricerca e sviluppo. I vantaggi competitivi che così si configurano – e che in parte derivano dalle strategie messe in atto nei decenni precedenti – si traducono nella possibilità di esercitare un potere di mercato sui prezzi, sui costi dei fattori di produzione e sulle stesse innovazioni tecnologiche. Le barriere all'entrata che in tal modo emergono, sono legate alla discontinuità con cui si presentano le innovazioni tecnologiche. Da qui deriva la tendenza crescente alla concentrazione delle industrie che caratterizza il settore. Tra il 2007 e il 2014 la produzione automotive passa da 73.237.724 a 90.015.919 unità, con una crescita del 30%. Il risultato è eclatante se consideriamo che la produzione industriale dei paesi Ocse è aumentata solo del 2,6%, ma è coerente con la crescita della produzione industriale mondiale del 20% (Banca Mondiale). Tra il 2000 e il 2014 la produzione cinese di automobili passa dal 3,5% al 26,4% di quella mondiale. Oggi la dimensione minima di produzione del settore automobilistico per competere oscilla tra i 5 e i 7 milioni di pezzi. L’Italia nel 2014 ne ha realizzati 700mila ENRICO BAJ DÉCERVELAGE Stefano Lucarelli, Roberto Romano Assieme a Stati Uniti, Giappone e Germania, la Cina si candida a dettare le condizioni di sviluppo del settore. In Europa, la Germania ha assorbito gran parte della produzione: dal 1999 al 2014 la produzione tedesca passa dal 33,6% al 44,3% totale; quella francese si dimezza, mentre l’Italia scompare dai radar. In questo contesto, il futuro industriale italiano è marginale. Alle attuali condizioni di mercato, la dimensione minima di produzione per competere oscilla tra i 5-7 milioni di pezzi. L'Italia nel 2014 realizza poco meno di 700 mila unità, un livello che inibisce qualsiasi dinamica di struttura (no- MILANO Basilio Rizzo, il nome per uscire dall’angolo e allargare il campo Emilio Molinari nostante le auto a metano e i veicoli commerciali tengano). Un buon parametro per valutare l’innovazione è l’analisi dei brevetti di settore. Nel periodo 2012-2014 l’Italia ha depositato un numero di brevetti, riguardante il settore dei trasporti, di circa 300 unità per ciascuno dei tre anni presi in considerazione; la Germania ha depositato un numero di brevetti costante, ma intorno a ben altri valori (2000 unità); la Francia, invece, è lineare con i suoi 800 brevetti, dopo un periodo di stasi. L’aspetto importante è la correlazione tra spese in Ricerca e Sviluppo e brevetti. L’esigua entità degli investimenti italiani rispecchia i modesti risultati ottenuti dal settore auto, mentre più importanti e significativi sono i risultati ottenuti dal comparto della componentistica. Fortunatamente la componentistica italiana non ha rincorso fuori dai confini patri Fca--Fiat. L'auto elettrica, i nuovi materiali, l’aerodinamica, le trasmissioni, le batterie, la componentistica ad alta efficienza, il recupero di energia, rappresentano ambiti in cui le ricerche italiane sono significative. Tuttavia occorre un contesto politico e industriale adeguato. Il settore della componentistica è in grado di agganciare la filiera lunga della produzione? Sarà in grado di anticipare la domanda di beni ad alta tecnologia che si prospetta, per produrre le automobili del futuro? La sfida principale consiste nel conciliare mobilità e fluidità nei trasporti con soluzioni innovative, accessibili, inclusive e sicure, utilizzando le tecnologie ICT e tutte le innovazioni che migliorano l’intera filiera produttiva. Non sarà dunque la domanda di automobili, intese come beni finali di consumo, a rappresentare un’opportunità su cui rafforzare il settore manifatturiero nazionale. Occorre invece concentrarsi sul settore della componentistica. Quest’ultimo è caratterizzato da una domanda particolare, la cui variazione non è causata principalmente dalla variazione del livello dei prezzi. Ci troviamo pertanto dinanzi ad un settore in cui la competitività viene per lo più a giocarsi sulla qualità e la durabilità del prodotto. Per queste ragioni la politica industriale sottesa al consolidamento del settore della componentistica non può declinarsi solo sulla riduzione del costo del lavoro. I beni e i servizi forniti dalle imprese del settore contribuiscono ad innovare i beni capitali che sono poi impiegati nella produzione di automobili. Ma c’è di più: l’evoluzione delle modalità con cui vengono combinati i fattori della produzione nell’automotive dipende dagli output messi a disposizione dal settore della componentistica. Pertanto la sfida che interessa il settore è molto complessa: esso concorre a modificare la qualità e la quantità dei beni capitali da cui dipendono la qualità e la quantità dei beni finali, in questo caso delle automobili. E dinanzi alla complessità la programmazione può rappresentare una soluzione intelligente, se non si vuole subire il peso dell’incertezza e della dipendenza dai sistemi nazionali e transnazionali di innovazione che hanno già avviato una propria programmazione. F orse sarebbe bene che a Milano il popolo di sinistra facesse un po’ di "unitaria autocoscienza" e ripartisse dalla realtà politica e dalle ragioni profonde di un voto non tanto contro Sala, ma che dia corpo politico ad una alternativa al disegno renziano. Non demonizzo Sala come persona, ma è difficile negare che la sua candidatura, fotocopia di quella di Parisi, riporti a galla quel grumo di interessi trasversali, mai spariti ma solo messi in sonno, che hanno piegato e eroso la legalità a Milano per decenni e ritornati visibili con Expo e lo saranno ancor più nel dopo Expo. Difficile negare che a Milano, più d’ogni altra città, il voto a Sala porti il segno del Partito della Nazione e della riforma costituzionale, che lascia alla destra estrema il compito di raccogliere tutto il disagio sociale provocato dalle politiche liberiste, per tradurlo in rotture e cattiverie. Un voto che anticipa e si salda con lo scontro referendario prossimo e che dovrebbe interrogarci sugli ostacoli che stanno nelle nostre teste, le nostre paure indotte dal voto utile e nelle nostre appartenenze. Perché a Milano siamo divisi solo perché qualcuno pensa si possano fermare i disegni di Renzi agendo dall’interno del Pd o delle coalizioni con il Pd, quando a ciò non crede più nemmeno Bersani? Perché a Milano dobbiamo ancora sentirci dire che occorre votare Sala altrimenti vince la destra, problema che non esiste in un’elezione amministrativa? E’ devastante, chi lo pensa dovrebbe sentirsi vincolato anche nel referendum sulla costituzione e la democrazia. Perché a Milano tutti dovremmo votare Sala altrimenti si diventa di "Sinistra Sinistra"? Questo termine è un perverso meccanismo che rischia di chiudere tutti i candidati in una gabbia e lo si scongiura rimettendo la realtà e l’unità al primo posto. Gherardo Colombo si è ritirato perché, credo, si sia sentito spinto in questa gabbia. Ora c’è Basilio Rizzo. E a chi ha sottoscritto la candidatura di Basilio sta stretta questa gabbia. E lo sta ancora di più a chi, come Nando Della Chiesa o Gianni Barbacetto ne hanno fatto gli elogi. E al sottoscritto che da tempo trova stretta persino la nozione di sinistra e ritrova le proprie idee nell’Enciclica del Papa e nel movimento promosso da Varufakis, pensa che abbiamo poco tempo per cambiare e perciò dobbiamo parlare a tutti e su contenuti e diritti universali che riguardano la vita di tutti. Quando dico che occorre tornare alla realtà anche quando si valuta un candidato intendo dire che Basilio Rizzo lo conoscono tutti a Milano. Tutti possono valutare il suo operato e questo non è un limite ma una virtù, una garanzia. Tutti, avversari compresi, stimano la persona indipendente, libera da appartenenze. Ha animato la critica ad Expo ed è stato un fermo garante della legalità, della democrazia, delle regole del consiglio comunale e sopratutto è stato un punto di riferimento per i diritti sociali. Forse non si è nuovi, forse si viene dal passato, ma c’è anche un passato onorevole da rivendicare, c’è anche un sapere accumulato che è un valore per una intera collettività e le ragioni dell’appartenenza non dovrebbero mai avere il sopravvento sulle ragioni morali, della legalità. Spero che il buon senso ci guidi e ci unisca. il manifesto DIR. RESPONSABILE Norma Rangeri CONDIRETTORE Tommaso Di Francesco DESK Matteo Bartocci, Marco Boccitto, Micaela Bongi, Massimo Giannetti, Giulia Sbarigia CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE Benedetto Vecchi (presidente), Matteo Bartocci, Norma Rangeri, Silvana Silvestri il nuovo manifesto società coop editrice REDAZIONE, AMMINISTRAZIONE, 00153 Roma via A. Bargoni 8 FAX 06 68719573, TEL. 06 687191 E-MAIL REDAZIONE [email protected] E-MAIL AMMINISTRAZIONE [email protected] SITO WEB: www.ilmanifesto.info iscritto al n.13812 del registro stampa del tribunale di Roma autorizzazione a giornale murale registro tribunale di Roma n.13812 ilmanifesto fruisce dei contributi statali diretti di cui alla legge 07-08-1990 n.250 Pubblicazione a stampa: ISSN 0025-2158 Pubblicazione online: ISSN 2465-0870 ABBONAMENTI POSTALI PER L’ITALIA annuo 320e semestrale 165e versamento con bonifico bancario presso Banca Etica intestato a “il nuovo manifesto società coop editrice” via A. Bargoni 8, 00153 Roma IBAN: IT 30 P 05018 03200 000000153228 COPIE ARRETRATE 06/39745482 [email protected] STAMPA RCS Produzioni Spa via A. Ciamarra 351/353, Roma - RCS Produzioni Milano Spa via R. Luxemburg 2, Pessano con Bornago (MI) CONCESSIONARIA ESCLUSIVA PUBBLICITÀ poster pubblicità srl E-MAIL [email protected] SEDE LEGALE, DIR. GEN. via A. 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Un simbolo nel mirino del potere coloniale allora e dei talebani oggi Emanuele Giordana N egli anni Quaranta non a tutti era piaciuta la decisione dell’Indian National Congress di accettare il piano di Londra che divideva in due il Raj britannico. Un colosso che, nel 1947, si sarebbe risvegliato da un parto gemellare che faceva della Perla d’oriente della corona i due stati liberi di India e Pakistan. A Ovest del Raj, un signore alto e risoluto che era stato come Gandhi e forse più di Gandhi, contrario alla Partition, la commentò così rivolgendosi all’Inc che non lo aveva nemmeno consultato: «Ci avete gettato in pasto ai lupi». Chi erano i lupi? Tanti e di diversa forma. Ieri come oggi. Abdul Ghaffar Khan era un leader politico della provincia più occidentale dell’Impero, al confine con l’Afghanistan. Era un musulmano convinto e convinto che l’islam fosse una religione di pace. Ed era Il Gandhi DELL’ISLAM NEW DELHI, 1947: ABDUL GHAFFAR KHAN CON IL MAHATMA GANDHI DURANTE UNA PREGHIERA PUBBLICA. QUI SOTTO UNA MARCIA DA PESHAWAR A KABUL ORGANIZZATA DA GHAFFAR KHAN AI TEMPI DEL MOVIMENTO KHILAFAT. A SINISTRA A PASSEGGIO CON NEHRU E SARDAR PATEL (SUL RISCIÓ) NEL 1946 PER SAPERNE DI PIÙ Da leggere: Eknath Easwaran, Badshah Khan, il Gandhi musulmano, trad. Lorenzo Armando, Sonda, Torino 1990 pp. 250 Da vedere: Teri C. McLuhan, Frontier Gandhi Badshah Khan a torch for peace (Canada) 2009 anche donne, ndr), era dedito alla riforma sociale e intendeva porre fine al regime britannico con mezzi nonviolenti. Fu per molti anni un fedele compagno di lotta di Gandhi e ancora oggi viene ricordato come il «Gandhi della frontiera». Una minaccia per molti un pukthun, membro di una comunità di milioni di uomini, dediti all’agricoltura e alla pastorizia, che il righello coloniale di Sir Mortimer Durand, delegato dal viceré del Raj, aveva diviso in due nel 1893: i pathan in quello che sarebbe poi diventato nel 1947 il Pakistan e i pashtun, come vengono chiamati in Afghanistan. Pukhtun, pathan, pashtun La storia delle due comunità, legate da vincoli di parentela o da antichi codici etici e di convivenza, era stata dunque definitivamente separata alla fine dell’Ottocento anche se ha conservato un’unità di fondo che dura ancora oggi. E che spiega in parte perché la "guerra afgana" si combatta in realtà soprattutto a cavallo della Durand Line e nelle zone limitrofe. C’è molto dunque che lega il passato al presente. E c’è un episodio recente che richiama quella storia lontana e Abdul Ghaffar Khan, uno dei suoi principali protagonisti. Il 20 gennaio di quest’anno, un gruppo di guerriglieri talebani (talebani pachistani da non confondere coi gemelli oltre frontiera) fa irruzione nell’università Bacha Khan di Charsadda nella provincia di Khyber Pakhtunkhwa. Fa strage di studenti e insegnanti mentre corpo docente e allievi stanno proprio commemorando la morte di Bacha Khan che altri non è se non Abdul Ghaffar, na- to nel 1890 e deceduto il 20 gennaio del 1988 in piena guerra afgana (quella contro l’Urss). Il suo profilo è tale che – dicono le cronache – quel giorno le armi tacciono. Sia nelle file mujahedin, sia tra i soldati dell’Armata rossa. Ma il giorno della strage di Charsadda sono pochi a mettere in relazione l’assalto con la cerimonia. Eppure la scelta appare evidente. Perché? Chi era Bacha Khan o Badshah Khan, detto anche «il Gandhi della Frontiera»? La scrittrice Pakistan Kamila Shamsie ha ricordato sul Guardian che «...la sua filosofia della non-violenza ha una forte radice nel pashtunwali - il codice etico dei pashtun - e nell’Islam» e che il successo della diffusione della sua filosofia contraddice la vulgata per cui pashtun e musulmani sono violenti e amano le armi. Kamila stabilisce un nesso evidente tra l’attacco di musulmani violenti a una scuola intitolata a uno dei primi assertori della non violenza come arma politica. Una missione e un messaggio che, dagli anni Trenta, contagerà l’intera provincia patana e metterà in seria difficoltà gli inglesi. Spiega Thomas Michel, islamologo gesuita che lo ha ricordato sulla rivista Mosaico di pace: «Nel 1929 fondò un movimento nonviolento denominato Khudai Khidmatgar, «i servi di Dio». Il movimento, che raggiunse i 100mila adepti (tra loro Le sue esortazioni alla trasformazione sociale, a una distribuzione equa delle terre e all’armonia religiosa erano considerate una minaccia dal Raj britannico oltre che da alcuni politici, leader religiosi e proprietari terrieri locali, e Abdul Ghaffar riuscì a sopravvivere a due tentativi di omicidio e a più di 30 anni di prigionia». Per lo storico Marshall Hodgson «...l’espressione pratica più piena del gandhismo in tutta l’India ebbe luogo tra le tribù afghane lungo la frontiera nord-occidentale... gli appartenenti a queste tribù, noti per le loro faide e le loro razzie, furono conquistati alla causa di un programma attivo e quasi universale di autoriforma sociale. Le faide familiari furono eliminate, e fu imposta la disciplina in nome del Servizio di Dio». Aggiunge Amitabh Pal del magazine Progressive: «I britannici trattarono Ghaffar Khan e il suo movimento con una barbarie che non infliggevano ad altri aderenti della nonviolenza in India». Basta con il giogo coloniale La nascita del movimento avviene in un momento particolare della storia del Raj. Gli indiani, hindu e musulmani, vogliono togliersi di dosso un giogo coloniale che dura da secoli. La corona fa alcune concessioni ma i pathan erano stati esclusi, dal responsabile regionale britannico Roos-Keppel. A suo dire, riporta sir Olaf Caroe in The Pathans, questa gente «...non era pronta per quel che a livello popolare era chiama- to governo responsabile» e che avrebbe dovuto dare (in parte) l’India agli indiani con la riforma Montagu–Chelmsford del 1918 che, l’anno dopo, doveva trasformarsi nel Government of India Act, la legge sull’autogoverno. Di fatto i pathan si trovavano rappresentati a Delhi da due delegati non eletti ma "nominati". E di fatto la provincia della Frontiera del Nord-Ovest, come è stata chiamata sino a tempi recenti, doveva servire da bastione di difesa dei confini del Raj e dunque le riforme potevano aspettare. Non di meno le cose andavano avanti anche in quell’area remota così che si formò un’organizzazione politica in cui emersero due personaggi noti come i «fratelli Khan»: Khan Sahib, un medico che aveva sposato un’inglese e lavorava per l’Indian Medical Service e suo fratello minore, Abdul Ghaffar Khan. Se il primo era un modernista che non disdegnava di lavorare per il governo coloniale, il secondo capiva l’inglese ma non lo parlava, così come preferiva gli abiti tradizionali a quelli d’importazione. Un vero pathan dall’eloquio affascinante che finì per conquistare – si direbbe oggi – il cuore e le menti di quelle genti. Pashtunistan, una terra per tutti Bacha Khan, che in gioventù aveva aderito al movimento «Khilafat» (in difesa del califfo turco), diventa rapidamente uno dei consiglieri di Gandhi e, come lui, un fiero oppositore della divisione dell’India su basi confessionali (dopo la nascita del Pakistan si avvicinerà anche al Partito socialista e ai partiti non confessionali Azad e Awami). Ma quando diventa chiaro che la Partition è inevitabile, Bacha Khan lavora all’idea che le terre dei pashtun-pathan siano riunite in un Pashtunistan o Pathanistan indipendente. Le sue amicizie nazionaliste e in seguito l’idea del Pashtunistan, ma soprattutto la lotta anti britannica e le idee sulla riforma agraria, lo rendono inviso ai funzionari britannici e ai possidenti terrieri. E quando crea i Khudai Khidmatgar - detti anche surkh poshan o camicie rosse – è la goccia che fa traboccare il vaso. Meno noto del Mahatma, il Gandhi della Frontiera non è da meno e i britannici lo sanno e lo temono: entra ed esce di prigione, viene mandato in esilio, il suo movimento viene preso di mira dalla polizia coloniale e dagli stessi musulmani indiani favorevoli alla nascita del Pakistan (che dopo il ’47 metterà fuori legge le camicie rosse). La repressione è violenta: nel 1930, dopo che Bacha Khan viene arrestato, un’enorme folla di sostenitori si raduna al Kissa Kwhani Bazar. La polizia coloniale fa fuoco e i morti sono centinaia. La mattanza si arresta solo dopo che alcuni fucilieri indiani si rifiutano di sparare. La negazione dello stereotipo Dentro e fuori dal suo Paese (è a Jalalabad in Afghanistan che si svolgeranno i suoi funerali cui partecipano 200mila persone e lo stesso capo di Stato afgano Najibullah), perseguitato e offeso spesso dai suoi correligionari, Bacha Khan è esattamente la negazione dello stereotipo violento appiccicato ai pashtun (da cui provengono i talebani), ai musulmani e al Corano stesso. Bacha Khan lo citava per corroborare le sue tesi e, sure alla mano, lo interpretava in modo diverso da come oggi fanno altri: «Musulmano è colui che non ferisce mai nessuno né con parole né con azioni e lavora invece per il benessere e la felicità delle creature di Dio. La fede in Dio è amore del proprio compagno». Anche gli attentatori di Charsadda non lo hanno dimenticato.