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Cina: c’era una volta l’Impero celeste del low cost
Le tante anime
di Taiwan
di Simone
Pieranni
Taipei è ordinata e pulita, molto distante dalla
confusione delle città cinesi. Templi il cui odore di incenso riempie le strade, aderenti al Falun Gong – il gruppo considerato illegale in Cina – che compiono esercizi per strada, caratte-
DOSSIER
S
i dice da tempo che Taiwan sia in profonda recessione economica, situazione che sembra avere cambiato per sempre i rapporti tra l’isola considerata ribelle da Pechino e la Grande Cina, così vigorosa e imponente nella sua crescita. L’ago della bilancia
mondiale si sta spostando a Oriente e Taiwan rappresenta una sorta di caso paradigmatico: da sempre non immune all’influenza americana, anche per l’accordo che
obbligherebbe gli Usa a intervenire militarmente in seguito a un attacco cinese, retaggio da Guerra fredda, Taiwan sta ormai per spostarsi all’interno della borsa della
spesa cinese. È un segno dei tempi che cambiano, della
capacità del soft power cinese e delle difficoltà degli Stati Uniti nel continente asiatico. Un avvicinamento, quello cinese, che tutti gli osservatori cercano di sottolineare per la sua valenza economica: se Pechino spinge per
una prossima riunificazione sul modello di Hong Kong,
Taiwan tenta di circoscrivere l’avvicinamento al solo settore economico, senza affrettare passi politici, considerati ancora prematuri.
ri non semplificati, un memoriale dedicato a
Chiang Kai Shek in cui la storia è vista dalla
parte di chi ha perso. Il Partito comunista cinese non è mai menzionato nel Museo di storia
nazionale, tra le macchine lussuose usate dal
generale e le foto in cui è ritratto insieme a quei
leader che riconobbero Taiwan. I cinesi chiacchierano e guardano stupiti i documenti e l'immensa statua di Chiang Kai Shek, al termine
delle infinite scale che portano al monumenS. Pieranni
to. Un altro mito che la Cina si appresta a fare
crollare. Pechino, ormai, è sempre più vicina.
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Cina: c’era una volta l’Impero celeste del low cost
Del resto solo nel 2009 – per la prima volta dal 1949 –
i leader dei due Paesi si sono incontrati a Pechino, a seguito di un anno vissuto pericolosamente tra visite sull’isola da parte del Dalai Lama e di Rebya Kadeer, considerata la leader del movimento indipendentista uiguro.
Prima di quella data a Taiwan c’erano i democratici al
potere, assestati su posizioni indipendentiste: solo con
la vittoria del 2008 del Kuomintang, guidato da Ma Yingjeou, tutto è cambiato. Pechino ha approfittato della svolta taiwanese, di segno maggiormente nazionalista, verso
posizioni filocinesi, attraverso un accordo economico
che inaugura una nuova stagione dei rapporti tra i due
Paesi. Un avvicinamento al ricco gigante d’Asia sancito
dalle recenti elezioni del novembre 2010 in cinque città
che – anche se di stretta misura – hanno visto il via libera popolare alla scelta del Kuomintang.
Il 29 giugno 2010 era stato infatti firmato l’Ecfa, Eco-
nomic Cooperation Framework Agreement, un accordo
economico che abbassa le tariffe degli scambi commerciali tra i due Paesi, dando vita ad un’area di libero scambio che ricorda molto da vicino le politiche cinesi già attuate precedentemente per le zone economiche speciali
o per Hong Kong. Le elezioni di midterm hanno dato
slancio agli accordi: è del 21 dicembre la firma di un nuovo patto tra Cina e Taiwan relativo a una cooperazione
su temi inerenti la salute. Si tratta di mosse economiche
e culturali il cui impatto finisce per ripercuotersi sulla
politica e sulla società taiwanese, polarizzata tra favorevoli e contrari.
Gli “indipendentisti”
N
el mercato notturno più grande di Taipei, tra migliaia di bancarelle, tofu di ogni tipo (data l’alta
percentuale di buddhisti Taiwan è una sorta di
paradiso per i vegetariani) e una folla di gente che occupa ogni angolo di strada calpestabile, alcuni ragazzi, attivisti del Democratic Progressive Party, l’opposizione
taiwanese, volantinano e regalano pacchetti di fazzoletti di carta con, in bella vista, il volto di Tsai Ing-wen, la
leader del partito. «Non siamo cinesi – specificano – e ad
esempio non sputiamo, non abbiamo un solo partito e
siamo democratici».
Li seguiamo nella loro attività militante: molte persone si fermano, discutono, altre scuotono la testa e affermano di essere a favore del Kuomintang. Molti gli insulti anticinesi. «I nazionalisti hanno venduto Taiwan alla
Cina», affermano i ragazzi, spietati contro l’Ecfa: « È un
modo come un altro per mettersi nelle mani della Cina e
garantire ai ricchi taiwanesi i propri affari».
DOSSIER
Shane Lee, professore della Chang Jung Christian University di Taipei, prova a spiegare le ragioni del malcontento dei democratici rispetto alla nuova piega presa dalle relazioni tra Pechino e Taipei: «L’accordo non favorisce la nostra industria, la disoccupazione salirà e il gap
tra i ricchi e i poveri aumenterà. I ricchi diventeranno
sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Speriamo che il nostro governo cambierà questo approccio di
estrema dipendenza dalla Cina. Siamo preoccupati perché ormai conosciamo i cinesi: attraverso l’economia cercheranno di stringere intorno al nostro collo il nodo politico, finendo per farci perdere le conquiste democratiche della nostra storia. La gente è preoccupata di questo
avvicinamento, del resto la Cina non è mai stata gentile
con noi e siamo in crisi economica. Secondo i sondaggi
la maggioranza è favorevole alla vicinanza alla Cina per
questioni economiche e militari, in modo che non ci sia
pericolo di missili, è questa la preoccupazione principale. Taiwan militarmente è debole, questo lo sanno tutti e
tale aspetto rimane una delle principali preoccupazioni
della popolazione».
I “pratici”
S
econdo l’opinione di Chung-chian Teng, professore e dean della facoltà di Relazioni internazionali e diplomatiche della National Chengchi
University di Taipei, i taiwanesi, invece, non sarebbero
preoccupati per le valenze politiche dell’accordo, quanto piuttosto per quelle economiche: «La gente – specifica il preside in un’ampia sala della propria facoltà, sulle
colline di Taipei – guarda al portafoglio». In questo senso l’Ecfa sembrerebbe la soluzione di tutti i mali, non facendo altro che sancire dei rapporti economici ormai di
lunga data, significando il cambiamento delle politiche
economiche taiwanesi e cinesi: «L’Ecfa è molto importante per lo sviluppo economico di Taiwan: d’altronde le
nostre relazioni con la Cina sono molto intense. Molti taiwanesi hanno fatto sostanziali investimenti in Cina, questa cooperazione esiste già da tempo attraverso la produzione di beni che poi la Cina esporta in altri mercati, penso a quelli europei e statunitensi. Molti studiosi hanno
analizzato questa cooperazione. Noi siamo per l’integrazione economica, guardando un po’ a quanto accaduto
all’Unione Europea. Più in là si parlerà di integrazione
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I “favorevoli”
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politica, adesso non è ancora il momento giusto. Come
hanno sostenuto i politici locali, l’integrazione politica
sarà una questione che dovrà essere gestita dalle prossime generazioni. Parliamo dei prossimi venti o trent’anni».
Da docente e preside di facoltà il suo sguardo sulle
nuove generazioni getta una luce possibilista anche circa i rapporti tra i due Paesi, in grado di andare al di là dei
soli aspetti economici: «Le nuove generazioni non hanno vissuto il gelo e il dramma delle relazioni da Guerra
fredda tra Cina e Taiwan: ci sono moltissimi studenti cinesi a Taipei ed è molto dura distinguere oggi tra un cinese e un taiwanese. In passato era facile. Senza parlare
del turismo: ormai sono tantissimi i cinesi che vengono
a Taiwan. È naturale che le cose debbano cambiare».
Una modifica dei rapporti politici che, secondo
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Chung-chian Teng, ha bisogno di piccoli passi da parte
della Cina. Il dean a questo proposito, è ottimista: «La Cina deve fare qualcosa in termini di riforme politiche, per
avere un’apertura politica con Taiwan. Wen Jiabao ha
specificato la necessità di cambiamenti politici, è un segnale importante per noi. Taiwan ha già scelto questa
strada di riforme da tempo, in modo graduale. In pochi
ci credevano, ma oggi tutti sono abituati alla democrazia.
I leader della quinta generazione cinese vengono tutti
da un’educazione svoltasi in Occidente e quindi c’è la
speranza che qualcosa cambierà. Il Partito comunista del
resto ospita spesso incontri e lezioni con professori e intellettuali: il dibattito è aperto, non hanno molte alternative, del resto. Quando ci saranno questi cambiamenti, si
potrà aprire una strada al dialogo anche politico. Per ora
è prematuro».
un Yang-Ming è un ex giornalista, ora vicepresidente della Cross-Strait Interflow Prospect Foundation, un think tank che esamina le relazioni tra
Cina e Taiwan. La sua è la posizione di chi ha lavorato all’accordo, un’analisi da “dietro le quinte” che svela le ragioni politiche delle mosse di Taipei: «L’Ecfa è importante per entrambi, ma ognuno ha le sue interpretazioni. Pechino crede che questo sia il momento per andare verso
un’intensificazione dei rapporti con Taiwan: l’Ecfa è il
primo passo, verso altri che hanno in mente. Noi diciamo un’altra cosa: vediamo come funziona, come la gente reagirà, se, soprattutto, risolleverà la nostra economia.
Noi non possiamo andare veloce, non quanto la Cina, e
la nostra parola d’ordine è “stabilità”. Anche perché, ora
come ora, la posizione del nostro presidente è debole: Ma
Ying-jeou paga la crisi e l’Ecfa è una prima risposta».
C’è quindi un dilemma possibile, una doppia interpretazione del medesimo accordo: «Pechino è sincera nel
suo approccio e vede l’Ecfa come il primo passo verso
una potenziale riunificazione politica e pacifica, su questo non ci sono dubbi, la loro strada è quella. Noi però
siamo stati molto chiari: non abbiamo alcuna intenzione
di parlare di politica con loro. Noi vogliamo solo un approccio economico, perché è l’unica cosa che ci interessa per fare ricrescere la nostra economia. È ovvio che
l’Ecfa, pur essendo un accordo economico, segna una
svolta politica. Vedremo nel 2012: se Ma rivincerà le ele-
DOSSIER
zioni si passerà al secondo punto, ovvero un accordo militare, come la Cina ha già con India e altri Paesi. Nell’ultimo viaggio che ho fatto in Europa sono stato a Cipro,
proprio per studiare questo tipo di situazioni».
C’è da chiedersi, specie per uno come Sun Yang-Ming,
molto vicino ai teorici americani nell’approccio a Taiwan, cosa pensino gli Stati Uniti dell’accordo economico: «Gli americani sono estasiati dall’Ecfa!», dice ridendo. «Erano terrorizzati dal Partito democratico e dai loro continui balletti e sparate mediatiche contro la Cina.
Per loro era un problema. Anche con gli Usa noi siamo
stati chiari: l’Ecfa non è un passo verso la riunificazione
politica, siamo stati onesti e abbiamo specificato tutto
quanto vogliamo fare».
È la verità? «Sinceramente: una eventuale unificazione politica non è un’opzione valida in questo momento
dal nostro punto di vista. Alla popolazione di Taiwan ormai non interessa più essere indipendente o essere considerata cinese: vogliono solo vivere in pace e in una situazione economica tranquilla. Vogliono controllare il
proprio portafoglio e sentirlo pieno. La gente di Taiwan
del resto non può essere spinta a una unificazione quando per cinquant’anni abbiamo detto peste e corna dei cinesi, sarebbe assurdo. Dopo un lavaggio del cervello del
genere, c’è bisogno di almeno una generazione, prima
che alcuni discorsi possano essere intavolati. Dobbiamo
andarci cauti e prima di tutto garantire la ricchezza alla
popolazione».
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