PDF di iS Magazine n°3 in versione da 9/10 pollici

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PDF di iS Magazine n°3 in versione da 9/10 pollici
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IMPARARE SEMPRE
Sui banchi,
nel web
U
n lettore che decidesse di attraversare questo terzo numero di iS affidandosi
innanzitutto alle immagini, ai titoli e agli occhielli, potrebbe porsi una
domanda: sono la stessa scuola quella immortalata in Foto di classe,
lo straordinario reportage di Julian Germain - così familiare a tutti noi,
indiscutibile e quasi senza tempo - e quella di Mirandola, che reagisce al terremoto
inventandosi una nuova didattica in nuovi spazi; o quella di Radio Rinascita,
Radioimmaginaria, Radio Kreattiva, che accanto a banchi e lavagne offre console,
cuffie, sintetizzatori; o quella di BergamoScienza, che scommette su studenti e insegnanti capaci di parlare di scienza al territorio. È ancora una classe quella
“capovolta”, la flipped classroom in cui l’apprendimento incomincia a casa e la vera
“lezione” è un’esperienza di laboratorio, di creatività e di immaginazione?
Sì, è la stessa scuola. Perché ciò che accomuna tutte queste dimensioni è l’esperienza
- unica, irripetibile, e per chi la sa amare anche magica – della scommessa della
formazione. Nel presentare iS, ci eravamo presi l’impegno di andare al di là dei luoghi
comuni e delle deprecazioni, pur spesso giuste, che marcano il discorso pubblico sulla
scuola. È quello che abbiamo cercato di fare anche in questo numero, raccontando
la ricchezza delle molte “scuole” che ci circondano e la condizione giovanile con
uno sguardo che vuole essere plurale e aperto. Si dice talora che un elemento
contraddistingue l’attuale generazione di giovani: il fatto di avere dinanzi a sé un futuro
peggiore di quello dei loro padri. È così? Giovani senza futuro o giovani “in cerca di
futuro”, come suggerisce il titolo del nostro Dossier?
Tutti lamentiamo, e giustamente, la scarsità degli investimenti pubblici nella scuola
e nella formazione. Ma anche qui, la ricerca internazionale The Learning Curve
condotta da Pearson ci dice con molta nettezza una cosa importante e troppo spesso
sottovalutata: che il vero fattore decisivo e critico, nel determinare il rendimento di
un sistema scolastico, è il supporto della società civile alla scuola, e in particolare la
considerazione e il rispetto sociali di cui godono i docenti. Dunque, non si tratta solo
di inserire poste in un bilancio, ma di consapevolezza culturale e di progettualità civile.
L’editore
Imparare è un verbo ricco di significati.
Imparare vuol dire migliorarsi,
crescere, vivere senza barriere.
Non solo a scuola ma ovunque,
e a qualunque età.
> SAPERI
> FORMAZIONE
> AGGIORNAMENTO
> COMPETENZE
> CITTADINANZA
Il nostro sogno?
Un mondo dove la scuola
sia di nuovo considerata maestra,
perché i buoni insegnanti
aiutano a crescere.
> INTERCULTURALITÀ
> IDENTITÀ
> COLLABORAZIONE
> DIALOGO
> RICERCA
> PROGETTAZIONE
> VALUTAZIONE
> INNOVAZIONE
> TECNOLOGIE
> LINGUAGGI
Unagenerazioneincerca
difuturo:formazioneevalori
peraffrontarelacrisi
Un mondo dove anche chi è adulto
possa continuare a imparare
per realizzare i propri desideri.
nelDossier
Noi di Pearson ci crediamo.
A questo lavoriamo.
direzione
Massimo Esposti
Rivista aperiodica distribuita gratuitamente
nelle scuole, pubblicata da Pearson Italia S.p.A.
comitato editoriale
Marika De Acetis
Luciano Greco
Elena Grossi
Marina Loffi Randolin
Paolo Magliocco
Valentina Murelli
Si autorizza la riproduzione dell’opera purché
parziale e a uso non commerciale.
grafica
Antonella Regina
ricerca iconografica
Cecilia Lazzeri
correzione bozze
Federico Manicone
immagine di copertina
© Rene Mansi/Getty Images
L’editore è a disposizione degli aventi diritto
per eventuali non volute omissioni in merito
a riproduzioni grafiche e fotografiche inserite
in questo numero.
iS è un marchio di proprietà di Pearson Italia S.p.A.
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sommario
IMPARARE SEMPRE
Portfolio
6
Intervista
Shirin Ebadi
La mia vita tra violenza
e giustizia
Il premio Nobel per la Pace che
ha posto al centro della propria
vita la lotta per i diritti civili
e la democrazia
di Farian Sabahi
Julian Germain
Foto con classe
L’arte dei ritratti per scoprire il mondo
attraverso le scuole e gli occhi
degli studenti di ogni Paese
di Valentina Murelli
12
Esperienze: la scuola si confronta
Dialogo
La conoscenza ai tempi di Internet
Il filosofo Maurizio Ferraris incontra
Juan Carlos De Martin, ingegnere
di Marika De Acetis
Il sapere antisismico
Il caso di Mirandola: reinventare la scuola dopo
il terremoto e trasformare l’emergenza
in un’opportunità
di Valentina Murelli
32
L’unione fa la scienza
23
Quando gli studenti diventano divulgatori:
il caso del festival della scienza di Bergamo
di Eleonora Viganò
Esperienze: la scuola si racconta
Streaming, podcast e fantasia
38
Le web radio: piccole emittenti scolastiche che raccontano il mondo con le parole
dei ragazzi di Davide Coero Borga
La scuola senza confini
La scuola materna Diana di Reggio Emilia, un caso italiano di successo studiato in
tutto il mondo di Donato Ramani
3
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sommario
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La generazione in cerca del futuro
Otto riflessioni su problemi e opportunità che la crisi economica
ha posto sul tavolo dei giovani
ECONOMIA > pag. 50
I giovani, centri di gravità di Luigi Campiglio
FILOSOFIA > pag. 56
Senza vera formazione non c’è nemmeno futuro di Carlo Sini
DEMOGRAFIA > pag. 61
Il peso del domani di Alessandro Rosina
DEMOGRAFIA > pag. 65
Né sui libri né al lavoro. Ritratto dei NEET, categoria sospesa di Silvia Paris
ECONOMIA > pag. 68
Tra precarietà e risposte fuori dal coro di Andrea Fumagalli
ECONOMIA
> pag. 74
Tre miti giovanili da sfatare, intervista a Stefano Zamagni di Paolo Magliocco
ANTROPOLOGIA > pag. 80
Immaginare il futuro per costruirlo di Sara Zambotti
PSICOLOGIA
Alla ricerca di un nuovo umanesimo di Gustavo Pietropolli Charmet
> pag. 84
Dossier
Benchmark
L’importanza del confronto
Le ricerche mensili del
programma PISA: uno studente
straniero affronta gli stessi
problemi in tutto il mondo?
di Stefano Glenzer
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89
Eppur si muove
I semi della legalità
Formazione e cultura: così i ragazzi lavorano
con l’associazione Libera per contrastare la mafia
di Simona Regina
iS continua:
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Sperimentare la pace attraverso il teatro
Il Teatro Arcobaleno, un progetto interculturale
per dimostrare che la pace in Palestina è possibile
di Silvia Paris
IMPARARE SEMPRE
Esperienze: oltre la scuola
sommario
Il successo nelle mani
La didattica “capovolta”
Focus Tech
Multimediale e nuove modalità didattiche:
studiare a casa, esercitarsi a scuola
di Fabio Serenelli
Studiare e lavorare nell’eccellenza italiana:
le iniziative di Altagamma
di Marina Loffi Randolin
102
Cittadinanza
106
Uguali ma diverse
Quando la cittadinanza
diventa una questione
di genere
di Franca Bimbi
111
Laboratorio Pearson
Metti la scuola al centro del mondo
Il progetto The Learning Curve di Pearson confronta per la prima volta
i sistemi educativi di oltre 50 Paesi nel mondo
di Riccardo Oldani
A che punto è l’Italia
I punti di forza e le debolezze del sistema formativo italiano che emergono
dal confronto internazionale del progetto The Learning Curve
di Riccardo Oldani
La formula della buona istruzione
I fattori chiave della formazione in un mondo in cui il baricentro
si sta spostando verso l’Oriente
di Donato Ramani
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PORTFOLIO
Il carcere
che custodisce
l'antico sapere
Opera, Milano
Seghetti, lime, pialle, sgorbie,
scalpelli, morsetti, righe e squadre,
legni; e poi più di settecento ore
di formazione a fianco di maestri
liutai di Cremona, dove il violino
è nato oltre quattro secoli fa su
impulso di famiglie di artigiani che
si chiamavano Stradivari, Amati,
Guarneri del Gesù. Novelli Mastro
Geppetto – come dice uno di loro sono a oggi otto detenuti del grande
Reclusorio di Opera, presso Milano,
che dal 2010 animano il Laboratorio
di Liuteria della prigione, gestito dalla
Cooperativa sociale Opera in Fiore.
Altri dieci hanno avviato l’anno
scorso un analogo itinerario. Davvero
è una scommessa vinta quella della
casa di pena lombarda: mettere
in piedi un’attività di altissimo
livello nonostante la concorrenza
sul mercato di strumenti fabbricati
serialmente in Cina; proporre
l’apprendimento di un mestiere
raffinato e di un impegno duro
che richiede pazienza, precisione,
perseveranza. Gli esiti sono andati
al di là dell’immaginabile; i carcerati
ci hanno messo l’anima e ne sono
stati ricompensati, per la passione
che ne è nata, perché l’iniziativa si
sostiene economicamente, perché i
violini usciti dalle loro mani hanno
risuonato in concerto, anche tra
le mura del penitenziario.
Foto: Matteo Bazzi/Ansa
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PORTFOLIO
« Vamos a ver el
Biblioburros!»
La Gloria, Colombia
Luis Soriano, insegnante alle
scuole elementari, ha due validi
e insoliti assistenti: Alfa e Beto.
Si tratta di due muli che lo aiutano
a portare i libri nell’entroterra
colombiano durante i fine settimana,
per raggiungere quei bambini che non
possono andare a scuola. Padre di tre
figli, Soriano ha raccolto migliaia di
libri che conserva in casa in alte pile.
Di volta in volta, sceglie quelli più
appropriati da portare in giro: favole
per i bambini più piccoli e romanzi
per gli adulti, che distribuisce
e legge ad alta voce nei sabati e
nelle domeniche che passa con la
gente della provincia Magdalena,
insegnando anche a leggere e
scrivere. Non si accontenta di quello
che trova: scrive a scrittori e poeti più
famosi chiedendo loro di inviargli le
ultime opere. Con il suo Biblioburros,
letteralmente “libreria a dorso di
muli”, raggiunge da oltre dieci anni i
paesi delle zone di montagna, isolate
e devastate dalla guerriglia. Per lui i
libri sono anche un modo per creare
una connessione tra la sua gente e il
resto del mondo.
Foto: Scott Dalton/The New York Times/
Contrasto
Guarda il video del Biblioburros
http://link.pearson.it/2E0E3CE5
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PORTFOLIO
I VIDEOGIOCHI
PER IMPARARE
A USARE IL PC
Atene, Grecia
Si possono trasformare i tanto
vituperati videogiochi in uno
strumento per far apprendere
qualcosa a bambini e ragazzi?
La strada più battuta è quella
di proporre videogiochi educativi.
Stavros Messinis ne sta tentando
un'altra: usare le battaglie tra mostri
e alieni come stimolo per indurre
i giovani a imparare a programmare,
a capire e utilizzare la lingua dei
computer anziché usarli passivamente
ignorando il modo in cui è scritto un
software. Nella Grecia così duramente
colpita dalla crisi, Messinis e altri
soci hanno aperto CoLab, che è anche
uno spazio di lavoro condiviso,
dove ciascuno può sviluppare un
proprio progetto, lavorando fianco a
fianco con persone che condividono i
medesimi problemi e i medesimi sogni.
Una delle iniziative di CoLab è stata
la realizzazione di workshop
e corsi per bambini, possibilmente
accompagnati da genitori
(come si vede in questa foto;
Messinis è in basso a destra): nel giro
di una mattina i ragazzini passano
dal saper scrivere i comandi per
muovere un animaletto sullo schermo
alla creazione di un vero e proprio
videogioco personale, inventato da
loro. Il linguaggio di programmazione,
estremamente semplice, si chiama
Scratch ed è stato messo a punto
al MIT, il Massachusetts Institute
of Technology, uno dei santuari
dell'innovazione tecnologica.
Foto: Francesco Anselmi/Contrasto
INTERVISTA
La mia vita
tra Violenza
e Giustizia
Foto: Saul Loeb/AFP/Getty Images
di Farian Sabahi
intervista
IMPARARE SEMPRE
Il Premio Nobel per la Pace Shirin Ebadi è cresciuta
nell’Iran dello scià, poi in quello degli ayatollah,
infine ha scelto l’esilio. Non ha mai smesso di
lottare per il rispetto della giustizia e dei diritti
umani, ma anche di amare il suo Paese.
«La famiglia è ciò che più ha contato nella mia
formazione»
L
a famiglia, la religione, la scuola, la
cultura, ma anche la politica e l'amore per la propria patria. Il Premio Nobel per la Pace Shirin Ebadi racconta
in questa intervista a Farian Sabahi, grande
esperta del mondo islamico, l'avventura della
sua formazione e della sua vita, chiusa, come
dice il titolo della sua autobiografia,"tra rivoluzione e speranza". Ebadi è cresciuta tra
l'Iran dello scià e quello della rivoluzione
khomeinista, lontana da entrambi questi
modelli e tuttavia profondamente radicata
nel proprio Paese, al quale non smette mai
di pensare e per il quale continua a lottare
anche ora dall'esilio volontario che ha scelto dopo l'elezione del presidente Mahmud
Ahmadinejad. Nel 2003 il Comitato per il
Nobel l'ha scelta “per il suo impegno nella
difesa dei diritti umani e a favore della democrazia". è stata la prima donna iraniana e
la prima musulmana a ricevere il Nobel per la
Pace. Magistrato, costretta a lasciare il proprio incarico dopo la rivoluzione degli ayatollah, giurista, avvocato, scrittrice, Ebadi è
pacifista e battagliera e guarda alla realtà
con sguardo lucido e disincantato, ancorata sempre al principio della legalità e della
difesa dei diritti. Un dato colpisce nel suo
percorso esistenziale: la capacità di usare le
circostanze, spesso avverse, per una costante, progressiva presa di coscienza personale.
In altri termini, farsene modificare senza esserne piegati, apprendere dentro la loro concretezza ad approfondire e mantenere vive
le ragioni di una responsabilità assunta: a
partire dal contesto familiare, all'università,
alla carriera da magistrato, all'obbligato mutamento di rotta (e di mestiere).
Leggendo l'incipit della sua auto- •Nella pagina accanto,
biografia, in cui racconta le rea- Shirin Ebadi autografa un
suo libro durante uno dei
zioni della nonna e del resto della
suoi impegni pubblici per
la difesa dei diritti umani.
famiglia in occasione del colpo di
Foto: Saul Loeb/AFP/Getty Images
Stato organizzato dalla Cia contro
il premier Mossadeq, che nel 1951 In questa pagina,
aveva osato nazionalizzare il petrolio le manifestazioni del 1979
che portarono alla caduta
iraniano, sembra che la politica non
dello scià e all'ascesa
dell'ayatollah Khomeini.
abbia avuto un ruolo, se non marFoto: Gamma-Keystone
ginale, nella sua infanzia e adolescenza. A conti fatti, quanto conta
la politica nella sua formazione?
Mio padre era uno dei sostenitori di Mossadeq e con il golpe del 28 mordad (19 agosto
1953, ndr) perse il lavoro. Venne così meno il
reddito principale della famiglia, e sentimmo
tutto il peso di quell'evento politico. Al tempo dello scià ave“La fede e il senso
re punti di vista diversi poteva
del dovere fanno parte
avere conseguenze disastrose:
della mia cultura”
le autorità non ti permettevano
di continuare gli studi e trovare
lavoro, ti creavano tantissime difficoltà e,
proprio per questo, mio padre non aveva piacere che i suoi figli fossero in qualche misura
coinvolti in politica.
Da bambina, la sua vita era condizionata dai problemi di salute della
mamma. Lei scrive che fu la paura
che lei morisse a risvegliare in lei
la spiritualità. Ma sono tante altre le cose che lei ha imparato in
famiglia, senza accorgersi di vivere in un ambiente speciale. Perché,
col senno di poi, la sua famiglia è
stata tanto importante per la sua
formazione?
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intervista
Quando sei bambino non ti rendi conto che le
famiglie sono diverse l'una dall'altra. Quando sono diventata grande, ho capito che mio
padre era un intellettuale, aveva la mente
aperta e cresceva noi figlie come il maschio,
senza fare differenze di genere. Percepii un
divario tra i miei genitori e quelli degli altri. Anche perché i miei genitori si amavano
tantissimo e quel sentimento era diverso da
quello che univa tante altre coppie.
La religione ha avuto un qualche
ruolo, positivo o negativo, nella sua
formazione?
La fede è parte della cultura, ma la cultura
della mia famiglia era fatta anche di senso
del dovere. Così era mio padre, così sono
io, così sono i miei fratelli. La religione e il
senso del dovere fanno parte
della mia cultura, dei principi
appresi in famiglia. Lasciate
“Per i miei genitori
che vi racconti un aneddoto:
l'obiettivo era ottenere
il primo anno di lavoro, apper noi figli la
pena diventata giudice, avrei
formazione migliore”
voluto andare in vacanza
con la famiglia nel mese di
agosto. Ma il mio superiore
non era d'accordo e mi chiese di prendere le
ferie a settembre, perché avevo appena preso servizio. Ero molto arrabbiata, tornata a
casa raccontai quanto successo. Mio padre
difese il mio superiore, dicendo che per anni
lui non aveva preso ferie e, se il mio lavoro
era necessario, dovevo restare al mio posto.
Che mestiere esercitava suo padre?
Mio padre era un consulente giuridico, a
capo dell'ufficio che registrava le aziende.
Lei è una donna particolare. Che
cosa ha contato di più nella sua
formazione?
Il fattore che ha pesato maggiormente nella mia formazione è stata la famiglia. Sono
nata e cresciuta in una famiglia musulmana
praticante. Ma i miei genitori, che erano degli intellettuali, decisero di iscriverci in una
scuola zoroastriana, perché a quel tempo era
l'istituto migliore. Per i miei genitori, musulmani, l'obiettivo era ottenere per i figli la
formazione migliore, anche se la scuola dove
andavamo apparteneva a una minoranza
religiosa. Questo era così importante nella
mia vita che mi sono sempre battuta per le
minoranze religiose e oggi difendo la minoranza bahai, che nella Repubblica islamica
non difende nessuno perché prendere le loro
parti comporta un costo non indifferente.
Più in generale, quali sono le cose
importanti nella formazione di una
persona, a tutti i livelli, maschio o
femmina che sia? A parte la famiglia, quali ingredienti sono importanti per la crescita di un bambino?
Ho un nipote di nove mesi, si chiama Radin e vive a Boston. Credo che l'ingrediente
più importante per la sua formazione sia
l'amore, perché se i bambini crescono con
l'amore sono loro stessi a trovare la strada.
Dopo tre, quattro anni vissuti all'estero, cambiando completamente
ambiente, si è modificato il suo
giudizio sulle cose che più hanno
contato nella sua formazione?
Non credo di essere cambiata, lavoro solo
di più, perché nel mio Paese la situazione
continua a peggiorare.
Nel 1964 lo scià aveva espulso
l’ayatollah Khomeini che aveva
osato protestare contro una serie
di misure prese dalla monarchia:
quali sono le sue memorie di allora?
Ricordo come la gente andò a manifestare
per strada, tra loro c'erano alcuni sostenitori di Khomeini. Si sparava per strada, le
vie erano piene di poliziotti. Le mie sono
memorie confuse, risalgono all'adolescenza. L'unico ricordo nitido è di una mattina di
scuola, alle superiori: la porta dell'istituto
era chiusa, pensai di aver fatto tardi, anche
se in genere il portone rimaneva sempre
aperto, bussai e il bidello mi aprì subito dicendo che, a causa dei disordini, il preside
temeva che ci potessero essere problemi
anche per noi studenti.
Il 1965, quando lei si iscrisse a
legge e iniziò a frequentare l'università, fu un anno di svolta, perché cominciò a frequentare l'ambiente intellettuale dell'ateneo di
intervista
IMPARARE SEMPRE
Teheran. La situazione era tesa, ma
per lei la politica interna era una
materia nuova. Quali conseguenze
ebbe quella tensione sui suoi studi?
Quando mi iscrissi all'università dar contro
allo scià era di moda ed era percepito in
modo positivo, perché tutti gli intellettuali
si vantavano di essere contro la monarchia.
Contestare era un modo di esprimersi, ma
aveva dei limiti, nel senso che in prima battuta i giovani e gli intellettuali contestavano le autorità e, solo in seconda battuta,
cercavano di motivare questo loro atteggiamento.
Com’erano i suoi compagni di corso,
e in quale misura vi siete influenzati l’un l’altro?
Di molti di loro ho un buon ricordo. Con i
compagni delle elementari, delle medie,
delle superiori e dell'università ho mantenuto i rapporti, continuando a frequentarci,
nel corso degli anni.
Nel marzo del 1970, a poco più di
vent'anni, lei intraprese la carriera
di magistrato. Giovanissima, perché il sistema giuridico iraniano
non stabiliva un'età minima per
ricoprire quella posizione. L’anno
dopo, nel 1971, lo scià organizzò
a Persepolis celebrazioni grandiose
per festeggiare i 2500 anni della
monarchia, tessendo una continuità
tra la dinastia Pahlavi e l'impero achemenide di Ciro il Grande.
Tracciando un confronto con i programmi scolastici della Repubblica
islamica, quanto hanno imparato a
scuola le sue figlie dell’antico impero persiano?
Purtroppo dopo la Rivoluzione islamica
del 1979 le autorità hanno cercato di affermare che la storia dell'Iran inizia con la
conversione all'Islam, nel VII secolo dell'era
volgare, e hanno cercato di celare il passato preislamico. Quando quel passato viene
nominato, lo si fa sottotono.
In una limpida e gelida mattina
della primavera 1975, un giovane
ingegnere di nome Javad Tavassolian entrò nell'aula di tribunale che
lei presiedeva e le si avvicinò con
il pretesto di chiedere il suo parere
su alcune questioni legali. Javad
aveva trentatré anni, lei ventotto. Dopo tanti anni di matrimonio, come pensa di essere riuscita
a conciliare il suo carattere forte
e indipendente con le esigenze di
compromesso di ogni unione?
Nella vita famigliare mi sono sempre comportata come una moglie e una madre
tradizionale: ho sempre cucinato, mi sono
sempre occupata delle bambine, sia quando
erano piccole sia nel loro percorso scolastico. In questo senso, sono stata una donna
tradizionale. Anni fa, mentre preparavo loro
dei panini, mio marito mi fece notare che
ormai erano adulte e potevano farseli da
sole, ma io insistei: per me era importante
che le mie figlie sapessero di avere una madre, anche da grandi.
•L'incontro negli Stati Uniti tra
Shirin Ebadi e il Dalai Lama
Tenzin Gyatso, Premio Nobel
per la Pace nel 1989.
Foto: Taylor Hill/Getty Images
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intervista
La lunga strada dei diritti umani:
la fotografia di Amnesty International del 2011
> Nel 2011 la libertà di espressione ha subito restrizioni in almeno 91 Paesi. Ciò nonostante ci
sono state molte manifestazioni e Internet è stato utilizzato per chiedere democrazia, libertà e
giustizia. Molti governi hanno risposto con la violenza: in almeno 101 Paesi si è fatto ricorso a
torture e maltrattamenti.
> Secondo l’Onu almeno 55 gruppi armati e forze governative arruolano bambini come soldati
o ausiliari.
> In 21 dei 198 Paesi del mondo sono state eseguite condanne a morte. Meno di un terzo
rispetto a 10 anni fa.
> Almeno 18.750 persone erano nei bracci della morte alla fine del 2011. Esecuzioni pubbliche
hanno avuto luogo in Iran, Corea del Nord, Arabia Saudita e Somalia.
> In Asia la libertà di espressione ha subito restrizioni; poeti, giornalisti, blogger e oppositori sono
stati ridotti al silenzio, l’uso di Internet è stato sottoposto a forti controlli.
> In Egitto, Libia e Tunisia, migliaia di prigionieri politici sono stati rilasciati e la libertà di
espressione è stata ampliata. Tuttavia, sono proseguite le violazioni che avevano luogo sotto
i precedenti regimi, come la tortura e l’uso eccessivo della forza contro i manifestanti e le
restrizioni alla libertà di parola.
> I difensori dei diritti umani in America Latina e nei Caraibi hanno subito minacce, intimidazioni
e attacchi mortali.
> In Medio Oriente e Africa del Nord la radicata discriminazione contro donne, minoranze e
migranti resta diffusa. Sono aumentate le esecuzioni capitali, in particolare in Iraq, Arabia
Saudita, Iran e Yemen.
La rivoluzione del 1979 e le tante
aspettative, deluse. La Repubblica
islamica vieta alle donne di ricoprire la carica di giudice: com’è riuscita a cambiare mestiere, e che
cosa ha dovuto imparare per passare dalla magistratura alla professione di avvocato?
Secondo le leggi in vigore in Iran, quando
completi la Facoltà di Giurisprudenza puoi
diventare sia avvocato sia giudice. Per diventare avvocato devi seguire un praticantato di
diciotto mesi. Se invece sei stato giudice per
cinque anni, non devi fare pratica ma puoi
diventare subito avvocato. Nel mio caso,
ero stata giudice per parecchio tempo, ma
le autorità della Repubblica islamica non mi
permisero di esercitare la professione di avvocato perché avevo osato criticare le nuove
leggi entrate in vigore dopo la Rivoluzione.
Ho dovuto aspettare sette anni prima di poter esercitare l'avvocatura!
Qual è la violenza più grande che
abbia dovuto subire?
Più di tutte, a colpirmi è stata la violenza delle leggi approvate dalla Repubblica
islamica dopo la Rivoluzione del 1979. Noi
intervista
IMPARARE SEMPRE
donne abbiamo combattuto per cacciare lo
scià, ma pochi mesi dopo il cambio di regime
abbiamo perso tutti i nostri diritti. Quando
lessi per la prima volta queste leggi discriminatorie pensai di non aver capito; dopo
una seconda lettura ipotizzai che ci fosse un
errore; alla terza mi arrabbiai tantissimo e
mi colse un'emicrania terribile. Da quel momento, ogni volta che mi irrito mi viene un
fortissimo mal di testa.
Lei è stata premiata con il Nobel per
il suo impegno "per i diritti umani,
per la democrazia e soprattutto per
le donne e i bambini". Pensa che,
a parte le dichiarazioni di principio,
l'Occidente sia davvero sensibile a
questi temi?
Non ne sono sicura fino in fondo, ma credo che
dobbiamo continuare a parlare di questi temi.
Nei dieci anni trascorsi dal suo Nobel lei si è impegnata molto, anche
nella campagna di Science for Peace del professor Veronesi e in tante
altre iniziative. Quale risposta sente
a questi temi? Qualcosa sta veramente cambiando?
Sì, qualcosa sta cambiando, ma negli ultimi
tempi si è parlato troppo del controverso programma nucleare iraniano, delle sanzioni e
dell'embargo internazionale, dimenticando il
rispetto dei diritti umani, troppo spesso violati.
Lei è un ex magistrato e una donna
di legge. Si può dire che il suo sia
un impegno per l'affermazione della giustizia? E quale significato dà a
questa parola?
Non si può spiegare che cosa è la giustizia, bisogna sentirla. I giuristi sostengono
che quando una persona reclama giustizia,
la deve ottenere. Dovremmo porci un'altra
domanda: che cosa è un tuo diritto? Come
viene formulato? Molto dipende da chi reclama i diritti, perché qualcuno chiede poco,
e qualcuno chiede troppo.
La giustizia si può insegnare?
Si possono insegnare i percorsi per giungere alla giustizia. La giustizia ha un valore molto alto. Arrivare alla giustizia forse
non è possibile, è un obiettivo irraggiun-
gibile nel senso pieno del
termine. Per esempio, se
una persona uccide, intenzionalmente, un'altra persona, può essere condannata fino a quindici anni di
carcere. Questa è giustizia?
Secondo alcuni sì. Ma se
questa persona ha figli, è
giustizia mettere in carcere
il padre tanto a lungo?
Lei parla molto delle sue esperienze in
patria e della situazione del suo Paese. Pensa di essere
capita? L'Occidente
ha gli strumenti per
comprendere le vicende degli altri?
Spero capiscano, davvero! Qualche volta, parlando
con i mezzi di comunicazione occidentali, mi rendo
conto che la rappresentazione delle donne iraniane
ha ben poco a che vedere con la realtà: ci
raffigurano come analfabete, pensano che
parliamo arabo! Gli occidentali non sempre
hanno un'immagine corretta dell'Iran. Dopo
il 2009, e la durissima repressione nei confronti degli attivisti del movimento verde
scaturito all'indomani dei brogli elettorali, ho
cominciato a scrivere un libro. Sono le mie
memorie, in cui racconto i miei dieci anni
dopo il Nobel, soffermandomi sui cambia•••
menti dell'Iran in questi ultimi tempi.
> L'autobiografia scritta da Shirin Ebadi in
occasione del conferimento del Premio
Nobel (in inglese)
www.nobelprize.org/nobel_prizes/peace/
laureates/2003/ebadi-autobio.html
> Il sito di Human Rights Watch,
osservatorio internazionale sulla
situazione dei diritti umani www.hrw.org/
> Il sito di Amnesty International www.amnesty.org/
•L'Iran oggi: una manifestazione
anti Usa davanti all'ex
ambasciata statunitense nel
novembre 2012.
Foto: Atta Kenare/AFP/ Getty Images
Il video del discorso
di Shirin Ebadi per il conferimento
del Premio Nobel (in inglese)
http://link.pearson.it/B7076D5F
17
IINTERVISTA
Fotocon
Julian Germain ha girato tutto il mondo scattando ritratti dei ragazzi
nelle loro aule, dal Minnesota al Qatar, dalla Russia al Bangladesh.
«Ho scoperto che la scuola occupa pochissimo spazio nelle arti
intervista
IMPARARE SEMPRE
di Valentina Murelli
Classe
di Valentina Murelli
visive, nonostante la sua importanza» racconta. Ma questo viaggio
alla scoperta del pianeta scuola gli ha svelato anche come
la fotografia possa parlare del futuro, anziché immortalare il passato
19
20
intervista
N
egli anni Ottanta il fotografo
inglese Julian Germain cominciò a lavorare a un progetto
sul declino industriale del Galles del Sud, zona di miniere e acciaierie in
dismissione, poi culminato nel suo primo
libro, Steel Works. Mentre rifletteva sul
destino di lavoratori e famiglie, cominciò
a chiedersi quale sarebbe stato il futuro
scolastico dei bambini, della cui educazione nessuno fino a quel momento si era
preoccupato, visto che il lavoro era comunque assicurato. L'idea di un progetto
sulla scuola nacque allora nella mente di
Germain, per poi risvegliarsi nel 2004, il
primo giorno di scuola della figlia. «Non
mettevo piede in un'aula dal 1979 e solo in
quel momento ho realizzato che da adulti
tendiamo a dimenticare quello che abbia-
mo vissuto a scuola, che pure è il luogo
dove per anni abbiamo passato la maggior
parte del nostro tempo» racconta il fotografo. Che si è anche trovato a pensare
quanto sia strano che, nonostante l'importanza della scuola nella vita di ciascuno e per la società, essa occupi pochissimo spazio nelle arti visive.
Da queste considerazioni è nato un progetto che ha portato Germain a realizzare
oltre 450 ritratti di classi (tutte di scuole
pubbliche, da quelle d'infanzia alle superiori) in 20 Paesi del mondo. «Un viaggio
un po' casuale, sull'onda delle occasioni
che si presentavano. Non scientifico, ma
artistico» precisa. Il risultato di questo lavoro è ora raccolto in un libro intitolato
Classroom Portraits, edito nel Regno Uni-
intervista
IMPARARE SEMPRE
to da Prestel: una serie di intriganti ritratti da osservare con attenzione, perdendosi
nelle espressioni intense di ragazze e ragazzi e nella miriade di dettagli del loro
ambiente. "Foto di classe", già, ma forse
sarebbe più corretto parlare di "foto con
classe". Perché nelle immagini scolastiche
tradizionali ci sono gli studenti, ma manca
il loro ambiente quotidiano: le fotografie
sono scattate in genere in palestra oppure nell'atrio. «Io invece ho scelto di ritrarre tutta la classe e proprio in momenti
di attività» afferma Germain. In pratica,
il fotografo entrava in aula durante una
lezione, spiegava il suo progetto e poi cominciava ad allestire il set, in modo che i
ragazzi prendessero confidenza con la sua
presenza. Nell'ultimo quarto d'ora, infine,
aiutava gli studenti a sistemarsi in modo
che ciascuno fosse ben visibile nell'inquadratura. «Alla fine, chiedevo loro di tenersi
pronti per lo scatto e di guardare in camera» racconta.
Il risultato - una lunga sequenza di occhi
che scrutano l'osservatore, quasi mai timidi ma consapevoli e letteralmente spalancati sul futuro - intrappola. «La fotografia
per natura congela il passato. In questo
caso, però, le immagini non possono che
parlare di futuro, quello che attende i bambini e gli adolescenti ritratti. Tra di loro, c'è
sicuramente qualcuno che diventerà miliardario e qualcuno che finirà in prigione.
Qualcuno purtroppo morirà, mentre altri
diventeranno medici, cuochi, fotografi o
guidatori di risciò». A pensarci è quasi una
vertigine.
Altri aspetti balzano agli occhi sfogliando il libro. Il primo è l'assenza totale dei
docenti. «Hanno troppa coscienza di sé: in
un'immagine di questo tipo avrebbero attirato tutta l'attenzione» afferma il fotografo. «Eppure, in un certo senso non sono
assenti, perché la macchina fotografica
assume esattamente il loro punto di vista
e così facendo ne esalta l'importanza. Del
resto quello che più mi ha colpito in questo
viaggio è proprio quanto sia fondamentale
la figura dell'insegnante: in classe possono
esserci LIM, computer e altre tecnologie,
ma il suo ruolo rimane insostituibile».
A sorprendere è anche la grande universalità delle immagini. Chiaro che ci sono
differenze: molte classi sono miste, altre
solo maschili o femminili, alcune sono super attrezzate, altre poverissime, poco più
di un'area in terra battuta, in alcuni casi
gli studenti indossano un'uniforme, in altri
no. Ma a parte alcune rare eccezioni, nessuno dubiterebbe che quella ritratta non
è altro che la scuola, con la sua struttura
base e i suoi tratti caratteristici (l'insegnante, un gruppo di alunni della stessa
età, una lavagna, libri e quaderni), oggi
come era decine di anni fa e più indietro ancora. «Al punto», osserva Germain
«che una reazione comune in chi osserva,
me compreso, è ritrovarsi catapultato nel
suo passato di studente, a ripensare la sua
personale esperienza di scuola».
•••
•Nella foto di apertura:
ragazzi del secondo anno
della scuola secondaria Omar
Al Mokhtar Boy’s School,
Sheraton, Sana'a, Yemen,
fotografati il 7 maggio 2007.
Foto: Julian Germain
In questa pagina:
ragazzi della Waseda Prep
(Cram) School, di Tokyo,
Giappone, fotografati
il 7 settembre 2009.
Foto: Julian Germain
Nella pagina successiva:
bambini della Openbare
Basisschool de Kruikplank,
Drouwenermond, Drenthe,
Olanda, fotografati
il 19 giugno 2006.
Foto: Julian Germain
Guarda online le immagini
del progetto Classroom Portraits
http://link.pearson.it/C0005DC9
21
22
intervista
Il libro
Julian Germain, Classroom Portraits 2004-2012,
Prestel Publishing, 2012. Prefazione di Leonid
Illyushin, professore di Pedagogia all'Università
statale di San Pietroburgo. Il volume ospita
87 ritratti di classi, scattati in Regno Unito,
Argentina, Brasile, Perù, Cuba, Paesi Bassi,
Spagna, Germania, Ungheria, Russia, Bangladesh,
Yemen, Bahrain, Qatar, Etiopia, Nigeria, Stati
Uniti, Taiwan, Giappone. Alla serie di immagini
seguono una ventina di pagine con i dati ricavati
da alcuni questionari che Germain ha
consegnato a bambini e ragazzi fotografati,
contenenti sia domande scherzose o neutre
(Che colore preferisci? Che cosa vuoi fare
da grande?), sia domande più serie
(Credi in Dio? Qual è il tuo eroe?).
«Una provocazione sulla fotografia» spiega
l'artista. «Perché se è vero che ritratti pieni
di dettagli come quelli presentati nel libro
possono raccontare molto della realtà,
è altrettanto vero che non raccontano tutto:
le risposte ai questionari forniscono molti
livelli di informazione in più».
Esperienze:
la scuola si confronta
Il sapere
antisismico
di Valentina Murelli
L'esperienza di una scuola di Mirandola
colpita dal terremoto del maggio scorso, dove
l'emergenza è diventata un'opportunità. Per
nuove iniziative, per cambiare la didattica, per
aprirsi all'esterno. E per riscoprire la centralità
della scuola nella vita dei ragazzi
24
esperienze: la scuola si confronta
•I ragazzi dell'Istituto
Luosi che hanno
realizzato gli incontri
del ciclo "Sapere è
antisismico".
Nella pagina
precedente:
uno degli incontri
al Palazzetto
dello Sport.
Foto: Istituto Luosi
S
uccede che all'improvviso la scuola
non c'è più. Che una scossa di terremoto, per esempio, la ferisce così
profondamente da renderla inagibile.
Chiusa, per un periodo più o meno lungo o
per sempre, alle lezioni di matematica e italiano, alle ore di educazione fisica, ai consigli
di classe, agli intervalli passati nei corridoi,
alle fughe nei bagni. E allora bisogna decidere che cosa fare, come tenerla in vita nonostante tutto, come inventarsi giorno per
giorno un nuovo modo di "fare scuola senza
scuola". Senza l'edificio, le mura, le aule. È
quello che è successo all'Istituto di istruzione superiore Giuseppe Luosi di Mirandola, in
provincia di Modena: quattro istituti (tecnico economico, professionale commerciale,
liceo linguistico e liceo classico) e due sedi,
entrambe fortemente danneggiate dai sismi
che il 20 e il 29 maggio 2012 hanno colpito
l'Emilia Romagna. Giusto il tempo di risollevare uno sguardo ancora annebbiato dalla
polvere dei crolli, di tirare un enorme sospiro di sollievo quando si verifica che nessuno
manca, ed è subito tempo di rimboccarsi le
maniche, di chiudere l'anno e di cominciare
a lavorare per la riapertura in autunno. Non
da soli, ovviamente. Gli enti locali - Comune,
Provincia e Regione - l'hanno detto subito: si
deve ripartire dalle scuole, ci si deve rimettere in movimento sulle gambe dei ragazzi.
E l'impegno non è stato solo formale, molti
lavori sono già avviati. «Nel caso del Luosi, ci
vorrà circa un anno per la ristrutturazione di
uno degli edifici e poco più per la costruzione
di una nuova struttura che sostituisca il convento della chiesa di San Francesco, in cui era
ospitato il liceo classico, non più utilizzabile»
spiega il dirigente scolastico Giorgio Siena.
Intanto, lo scorso novembre sono arrivati i
moduli provvisori della Regione: i container
prefabbricati che per un po' saranno la nuova
casa dei 1150 studenti e dei 90 tra insegnanti e tecnici del Luosi. E prima dell'arrivo dei
container? Come se la sono cavata ragazzi e
docenti fino ad allora, cioè per ben due mesi
senza una struttura fisica di riferimento?
Semplice: trasformando un grandissimo disagio in un'opportunità. «È stata l'occasione di
fare tutto quello che non avremmo mai osato
fare in situazioni normali» dice Siena, parafrasando Woody Allen. Potenziando percorsi
e progetti già rodati, come gli stage lavorativi,
e soprattutto sperimentando, con un mix di
flessibilità e creatività - e l'insostituibile aiuto del territorio - nuove modalità didattiche.
esperienze: la scuola si confronta
IMPARARE SEMPRE
Il primo passo è stato una nuova organizzazione degli orari, per sfruttare al meglio gli
spazi disponibili: le aule di una scuola media,
gli spogliatoi del palazzetto dello sport, le
sale di un ristorante. Così alcune classi hanno
fatto lezione solo al pomeriggio, mentre per
altre si è scelta una settimana corta, di tre
giorni alternati, con orario verticale dalle 8
alle 17. Poi c'è stata un'accelerazione sull'introduzione di nuove tecnologie. «Avevamo
già pensato di cominciare a usare i tablet,
un po' per ridurre il peso dei libri, un po' per
sfruttare le opportunità di condivisione dei
materiali offerte dalle piattaforme digitali»
racconta Siena. «Le difficoltà logistiche ci
hanno convinti a buttarci subito nel progetto,
attivandolo in alcune classi». E ancora: una
potente riorganizzazione delle esperienze
extra-scolastiche, come gli stage lavorativi
o quelli linguistici all'estero. Già da diversi
anni il Luosi mette in atto, soprattutto per
l'istituto tecnico e quello professionale, una
politica di alternanza scuola-lavoro, che porta i ragazzi a frequentare uno stage di almeno un paio di settimane in un'azienda del
territorio. Viste le circostanze, la scuola ha
chiesto alle aziende di concentrare tutti gli
stage a settembre-ottobre e di prolungarne
la durata: molti studenti hanno lavorato fuori classe per quattro o cinque settimane. E
oltre a contatti già solidi, se ne sono creati
di nuovi. «Da un paio d'anni una classe del
liceo classico segue un corso di introduzione all'archeologia, così abbiamo cercato di
portarla a lavorare in uno scavo. E ci siamo
riusciti» racconta Franco Verri, docente di
storia e filosofia. Per due settimane, i ragazzi
hanno frequentato il parco archeologico romano di Suasa, in provincia di Ancona, ospiti
del Comune di San Lorenzo in Campo: hanno
aiutato a pulire il sito e i reperti del museo,
collaborato alla costruzione di un muretto di
rispetto, lavorato al restauro di un mosaico,
scoprendo la componente pratica del mestiere di archeologo. «Pensavamo già da un
po' a uno stage di questo tipo: sono state le
condizioni create dal sisma a spingerci ad attivarlo» commenta Verri.
Sembra tanto, ma non è ancora tutto. Anzi,
forse manca il pezzo forte della proposta
del Luosi: l'organizzazione di un ciclo di 15
conferenze dal titolo programmatico Sapere
è antisismico, che per altrettante mattine ha
25
impegnato gli studenti in un nuovo modo di
fare lezione. Due gli obiettivi principali dell'iniziativa, come spiega Giorgio Siena: «Da
un lato, abituare gli studenti a lezioni di tipo
universitario e, dall'altro, metterli in contatto
con figure importanti del territorio». I relatori
delle conferenze (dedicate per lo più a temi
di natura economica o filosofica) non erano
casuali: spesso si trattava di imprenditori
della zona o di docenti universitari che nel
loro lavoro di ricerca si occupano del territorio emiliano. Così, per esempio, si è parlato del distretto biomedicale del modenese (il
più importante d'Italia), di importazioni ed
esportazioni nell'economia della provincia di
Modena, delle specializzazioni dei distretti
industriali nel mercato globale.
Un modo per far affacciare i ragazzi sul
mondo reale e sulle prospettive del mercato
del lavoro. Ma anche un modo per responsabilizzarli fortemente, perché tutto il ciclo è
stato gestito proprio da un gruppo di studenti, come attività per uno stage sull'organizzazione di eventi, svolto in collaborazione con la
Fondazione scuola di musica di Mirandola e la
locale radio Pico. I ragazzi hanno preso contatto con i relatori, ne hanno studiato il curriculum, li hanno presentati alla platea e hanno
curato le registrazioni audio delle conferenze
e il blog del ciclo. «Un'esperienza importante,
anche perché ci ha dato la possibilità di conoscere direttamente persone di altissimo profilo
culturale e istituzionale, che altrimenti avremmo solo guardato da lontano» afferma Luca
Ostinelli, 4D dell'istituto tecnico, uno degli
studenti coinvolti nei lavori. Per la scuola, invece, un atto di grande fiducia nei confronti
dei ragazzi, messi di fronte per la prima volta
a un impegno più grande (e meno scontato)
del solito. In ogni caso, una testimonianza
concreta di un forte legame tra la scuola e
> Il sito dell’Istituto Luosi, con i progetti
www.iisgluosi.com/
> Il blog del ciclo di conferenze curato dai
ragazzi del Luosi
www.sapereantisismico.blogspot.it
•I danni provocati
dalle scosse del 20 e
29 maggio 2012 agli
Istituti superiori di
Mirandola.
di Donato Ramani
Foto: Comune di Mirandola
26
esperienze: la scuola si confronta
La scuola chiama, il territorio risponde
«Sorprendente!» Così Anna Benati, docente di economia aziendale dell'Istituto Luosi di Mirandola
e coordinatrice delle attività di stage, definisce la risposta che le aziende del territorio hanno
dato quando sono state interpellate sulla possibilità di ospitare studenti per un periodo di lavoro.
«Chiunque si trovasse in condizioni minime per collaborare l'ha fatto con entusiasmo, magari
accogliendo i ragazzi nei container che costituiscono le sedi temporanee delle attività. E anche
questo per i nostri studenti è stato formativo: vedere che si continua a lavorare, sebbene in situazioni
di disagio. Perché i container - ora che ci facciamo lezione dentro possiamo ben dirlo - sono
decisamente piccoli e scomodi, però spesso rappresentano l'unico posto in cui si può riprendere
il lavoro». Il bilancio degli stage post-sisma del Luosi è decisamente positivo: ben 90 aziende sono
state coinvolte, ospitando in tutto più di 200 studenti. «Spesso si è trattato di partner storici della
scuola, soprattutto aziende del distretto biomedicale di Mirandola, però abbiamo attivato anche
molte nuove collaborazioni, in un bacino di riferimento più ampio del solito» spiega la docente.
Per la prima volta, per esempio, i ragazzi hanno potuto frequentare gli uffici della Camera di
commercio di Modena, della Procura della Repubblica, dell'ordine degli avvocati e della sede locale
di Confindustria. «Nuove opportunità di conoscenza e formazione, che abbiamo tutta l'intenzione di
portare avanti anche nei prossimi anni».
•I prefabbricati che hanno
accolto gli studenti
dal novembre 2012.
Foto: Istituto Luosi
il suo territorio: un legame già presente,
certo, ma che il terremoto ha contribuito a
rafforzare, spingendo a cogliere anche nuove
opportunità. Come quella offerta dalla prossima realizzazione del Campus biomedicale,
donato dalla Fondazione Specchio dei tempi
della Stampa, insieme al Comune di Torino:
in pratica, uno spazio con aule tecniche e
laboratori, che sarà fruibile da parte degli
studenti del Luosi e di altre scuole, ma anche
dagli operatori delle stesse aziende del distretto. In qualche modo un'eredità positiva
del terremoto, e non è la sola. «Lo schianto
del sisma ci ha costretti a trovare soluzioni
che sembravano solo risposte d'emergenza e
invece sono state uno stimolo per ripensare
la didattica, i suoi tempi, i suoi spazi» commenta Giorgio Siena. «Il buon funzionamento
delle classi con orario verticale, per esempio,
ci ha fatto riflettere sul fatto che la scuola
dovrebbe avere orari più flessibili, mentre il
ciclo di conferenze ha spinto gli insegnanti a
lavorare in un modo diverso, costruito attorno ai singoli interventi dei relatori». E ancora: i docenti si sono accorti che il semplice
fatto di cambiare spazi ha reso gli studenti
più partecipi. «Insegno da 30 anni e non avevo mai visto ragazzi così attenti come quelli
che mi sono trovata di fronte negli spogliatoi
del palazzetto dello sport, seduti sulle panche
di fianco alle docce, con i libri sulle ginocchia»
racconta Anna Benati, che al Luosi insegna
economia aziendale. Certo c'è anche il fatto un'altra eredità "buona" del sisma - che dopo
i momenti tragici che hanno vissuto, i ragazzi si sono sentiti molto attaccati alla loro
scuola. «Anche se spesso viviamo la scuola
con noia o fastidio, per noi è stato importante sapere che c'era nelle nostre vite qualcosa
che non cambiava, che rimaneva un punto di
riferimento» spiega Luca Ostinelli. E lo stesso hanno pensato i genitori, che dal giugno
scorso affollano le riunioni scolastiche come
mai prima. Niente di sorprendente, dunque,
nel fatto che proprio la scuola può rappresentare un luogo privilegiato per la discussione sul futuro di un territorio ferito. Al liceo
classico, per esempio, si pensa a un progetto
interdisciplinare per la realizzazione di una
guida virtuale al patrimonio storico-artistico
di Mirandola, con tanto di riflessioni sulle
ipotesi di ricostruzione per i monumenti danneggiati. «Anche questa è una bella sfida: noi
insegnanti siamo abituati a lavorare ciascuno
per conto proprio, mentre dovremo imparare a
collaborare e a coordinarci di più», commenta
Franco Verri. Dopo quello che hanno passato,
una sfida che non li spaventa affatto. •••
27
Esperienze:
la scuola si confronta
L’unione fa
la scienza
di Eleonora Viganò
28
esperienze: la scuola si confronta
Che cosa succede
quando le scuole
incontrano un grande
festival della scienza
e cominciano a
partecipare attivamente
alla sua realizzazione,
creando laboratori
ed esperimenti
per il pubblico,
fino a trasformare
gli studenti nei
primi divulgatori
B
ergamoScienza è come un treno,
una macchina che mette in moto
un approccio diverso alla didattica» dice Giancarlo Cavagna, docente di matematica e fisica al liceo delle
scienze umane e al liceo linguistico presso
l’Istituto Statale di Istruzione Superiore
(Isis) Romero di Albino. Prendere quel treno
significa coinvolgere la scuola in dinamiche
differenti che le cambiano il volto, e che possono migliorare la percezione pubblica della
scuola stessa, le competenze degli studenti e
i metodi di insegnamento. Quest'anno sono
state 20 le scuole, 53 i progetti tra mostre e
laboratori, 115 gli insegnanti e oltre 1800 gli
studenti coinvolti da BergamoScienza, festival di divulgazione scientifica contraddistinto proprio dal fatto di lavorare in sinergia
con le scuole per creare exhibit, laboratori,
mostre. Per due settimane, tutta la città
di Bergamo e i comuni dei dintorni vengono coinvolti in un'atmosfera viva e piena di
partecipazione, con gli studenti che si trasformano in vere guide scientifiche. Ecco,
allora, che cosa accade quando un festival
scientifico apre le porte ai contributi delle
scuole del territorio e queste rispondono con
entusiasmo.
esperienze: la scuola si confronta
IMPARARE SEMPRE
«Spesso a scuola si fa della matematica noiosissima» racconta Cavagna. «Con formule
e schemi di calcolo dimenticati dopo poche
settimane. Per questo ho pensato che fosse
necessario un cambio di paradigma educativo e, grazie al bando di BergamoScienza,
quattro anni fa ho deciso di cambiare approccio». Il professore ha iniziato a proporre
in modo sistematico agli studenti di classe
quarta esperimenti che partissero dallo
studio di un fenomeno, non solo con l’obiettivo di partecipare al festival, ma anche
per portare i ragazzi a capire la fisica attraverso il ragionamento e la discussione in
classe. «Dopo aver capito la teoria abbiamo
discusso sulla possibilità reale di presentare
l’esperimento a BergamoScienza: ci chiedevamo se fosse troppo facile o difficile, quali
concetti comunicare, quali omettere pensando a chi avrebbe partecipato al festival».
In questo modo gli alunni hanno sviluppato
anche competenze pedagogiche e divulgative, fondamentali per chi frequenta il liceo
delle scienze umane: quando diventeranno
insegnanti alle scuole primarie, è probabile
che ricordino l’esperimento che hanno contribuito a organizzare e questo modo diverso per affrontare il fenomeno scientifico.
E magari lo riproporranno ancora ai propri
studenti. Sapranno già come fare: a ogni
visita durante le giornate del festival hanno
dovuto gestire anche più di venti bambini
vocianti e a volte distratti.
Attrarre e rendere accattivante la materia
è il primo obiettivo dichiarato dall’Associazione di formazione professionale del Patronato San Vincenzo (AFP), scuola professionale a diversi indirizzi, tra cui “Operatore per
macchine utensili”. Durante la nostra visita a
BergamoScienza siamo stati accolti nel loro
stand da un giovane insegnante, Luigi Ferri, e
da una schiera di studenti, tutti con la stessa maglietta, pronti a guidare le scuole nel
percorso di costruzione di un motore Stirling. Il laboratorio è nato da un’idea discussa
insieme, tra docenti e studenti, e proseguita con domande, dubbi, prove ed errori che
hanno spinto i ragazzi a trovare soluzioni e
a migliorare il prodotto finale. La didattica
classica, insomma, è stata stravolta: non si
chiede più allo studente di limitarsi a eseguire un compito senza porsi troppe domande,
ma lo si coinvolge nell’intero processo che
parte dai singoli elementi e arriva alla costruzione di un prodotto finito. «Ciò permette a studenti e docenti di sentirsi coinvolti, di
fare ricerca per capire come realizzare i vari
pezzi del motore nel modo migliore e assemblarli concretamente, mentre la didattica
tradizionale prevede la costruzione di singoli
parti di una macchina, con minore soddisfazione da parte di tutti» racconta Luigi Ferri.
Il risultato è che i 25 ragazzi, per metà extracomunitari, spesso con scarsa autostima
e poca voglia di studiare, si sono impegnati
e hanno lavorato con passione.
«Gli studenti diventano gli insegnanti dei
laboratori e questo li porta a mettersi in
gioco» conferma la professoressa Chiara
Ruscitto, del liceo scientifico Amadi. «Vincono le loro timidezze e sono persino in
grado di adattare l'esposizione alle persone
che hanno di fronte, utilizzando un linguaggio rigoroso, ma coinvolgente e adeguato al
pubblico». BergamoScienza permette quindi di fare emergere capacità o difetti che
i ragazzi stessi non sanno di possedere:
«Alcuni studenti più chiusi durante la lezione, al momento del festival acquistano sicurezza» commenta la professoressa. Anche
il rapporto tra docenti e studenti si modifica, grazie all’atmosfera di collaborazione
necessaria per progettare i laboratori. «Noi
insegnanti chiediamo aiuto agli studenti per
realizzare ogni esperienza, e non abbiamo
la necessità di valutarli, perciò possiamo
lasciargli la libertà di vivere i momenti di
preparazione con passione» conclude Ruscitto. BergamoScienza è quindi una miccia
per accendere idee, progetti e nuove forme
didattiche, che molti docenti non avrebbero
mai intrapreso senza il pretesto del festival,
ma che sono ormai irreversibili. «Ha messo
in moto un tipo di attività che porterò avanti anche nel caso in cui la scuola non possa
più partecipare a BergamoScienza» afferma
sicuro Cavagna. Non solo: la macchina organizzativa permette alle scuole di aprirsi
al territorio, offre logistica, pubblicità, e il
contenitore adatto per sviluppare progetti
che le singole scuole non potrebbero mai
permettersi, soprattutto a livello sovracomunale. «In totale i visitatori del nostro laboratorio sono stati quasi 1200» ci racconta la
29
•In queste pagine e
in quelle precedenti,
alcune immagini dei
laboratori dell'ultima
edizione di BergamoScienza organizzati
dagli studenti delle
scuole della provincia.
Foto: BergamoScienza
professoressa Ruscitto. «Da soli non avremmo mai potuto raggiungere questi numeri e
BergamoScienza ci permette di sfruttare una
macchina organizzativa imponente». Il laboratorio degli operatori di macchine utensili
dell’AFP è nato anche dalla necessità di far
conoscere meglio la scuola agli studenti
delle scuole medie, come ci spiega Giuseppe
Comotti, docente dell’istituto con qualche
anno di esperienza sulle spalle e lo sguardo
di chi deve aver assistito ad anni migliori. «Le
scuole come la nostra stanno attraversando
una crisi di iscrizioni, molte sono costrette
a chiudere, e gli studenti che vogliono indirizzarsi a una scuola di formazione professionale preferiscono l’indirizzo meccanico»
conferma Ferri. «Per questo vogliamo far conoscere le applicazioni pratiche del nostro indirizzo, il livello di professionalità che i nostri
studenti possono raggiungere e le competenze sviluppate nel corso degli studi. Con il festival abbiamo trovato un modo efficace per
cogliere due obiettivi: coinvolgere studenti
spesso svogliati e demotivati, e mostrare al
pubblico cosa sappiamo fare». Un incentivo
per gli studenti e una vetrina per la scuola,
per pubblicizzarsi, mostrare il proprio lavoro, ma anche, in senso più ampio, far vedere
ai genitori ciò che i figli fanno in concreto.
«Per risolvere parte dei suoi problemi e aprirsi
all’opinione pubblica, la scuola deve diventare un centro culturale attivo sul territorio»
sintetizza Cavagna. «Il festival non è solo
una vetrina, che ci permette di aumentare la
nostra visibilità, ma anche una gratificazione per gli alunni che si impegnano e vedono
riconosciuti i loro sforzi, spesso fatti a casa
o durante le vacanze» commenta Emanuele
Marchesi, docente alle scuole elementari
di Albino, autore dell'unico progetto di una
scuola primaria che ha partecipato al festival. Marchesi ha inserito robotica nel percorso curricolare delle classi quarte. Da questi laboratori, portati avanti anche da altri
docenti, il preside ha avuto l’idea di proporsi
a BergamoScienza. «Il nostro lavoro è stato
accolto dalla macchina organizzatrice del
festival con entusiasmo» ci spiega Marchesi
«sia perché siamo l’unica scuola primaria sia
perché permettiamo ai visitatori di osservare,
ma anche di programmare i robot e quindi di
acquisire in poco tempo i primi rudimenti di
robotica».
Anche il festival, come è ovvio, ha molto
da guadagnare da questo scambio. Le scuole
aiutano a diffondere la scienza nei comuni, nelle zone periferiche della provincia e
a richiamare altre classi in visita. La partecipazione di giovani e bambini è da sempre
parte della mission di BergamoScienza, ma
«la macchina organizzativa non avrebbe il
budget per organizzare questi percorsi e queste visite, e quindi attirerebbe meno pubblico
esperienze: la scuola si confronta
IMPARARE SEMPRE
e soprattutto meno scolaresche», ammette
Sergio Pizzigalli, ex professore e responsabile della sezione scuole di BergamoScienza.
Nell'ultima edizione sono state più di sedicimila le persone che hanno partecipato ad
attività organizzate dalle scuole. «E ci siamo resi conto che i visitatori sono più inclini
a rivolgere domande ai ragazzi che non a
docenti più anziani, perché il coinvolgimento diretto del pubblico passa più facilmente
attraverso un giovane studente» afferma
Pizzigalli. Insomma studenti e scuole non
solo sono l’obiettivo dell’attività di divulgazione del festival stesso, ma anche una risorsa e uno strumento utile per comunicare
con un pubblico eterogeneo e ampio, formato da altre scuole, altri docenti, genitori
o più semplicemente curiosi. Una buona
simbiosi, insomma, anche se i problemi, in
realtà, non mancano, a cominciare da quello dei fondi, raccolti con fatica dalle scuole
oppure ottenuti grazie al contributo dato
dall’Associazione BergamoScienza ai nove
migliori progetti. C'è molto impegno in più
richiesto al docente, che viene assorbito
nell’organizzazione in modo totale: bisogna
imparare a gestire tempi e spazi. «Utilizziamo spesso ore extra-scolastiche o decido di
sacrificare qualche ora di matematica, ma
ne vale la pena», racconta ancora Cavagna.
«La maggior parte delle attività si svolge
durante ore extra-curricolari, e questo richiede sacrificio sia da parte degli studenti
sia da parte dei docenti» conferma Ruscitto.
Proporre i laboratori, studiarli e discuterli
significa avere gruppi di studenti che devono lavorare in modo autonomo, libero, con
strumenti e attrezzature, abbandonando la
tipica lezione frontale. Gestire una classe
che diventa più flessibile ed elastica è un
impegno importante per il docente. «C’è
chi vuole sapere perché l’esperimento non
funziona, chi vuole mostrarmi i risultati. Ci
si deve assicurare che nessuno si distragga o
giochi». Ci sono problemi logistici: la necessità di allungare alcune ore, il laboratorio
prenotato da un’altra classe, l’esperimento
che non riesce e il materiale da acquistare.
«Abbiamo occupato aule, spostato sedie»
racconta Cavagna. «Abbiamo ospitato 1240
bambini e ragazzi e, come se non bastasse,
quattro studenti ogni giorno a turno devono assentarsi per quattro-cinque ore, per
portare avanti il loro lavoro di guida». Anche se l’evento interessa un solo docente
e una o poche classi, l’intero istituto deve
essere coeso e disponibile. Tutti gli insegnanti sono chiamati a collaborare, evitando verifiche e interrogazioni per quelle due
settimane calde, o programmando recuperi
per chi è impegnato nei laboratori. E infine anche al docente serve libertà di movimento: se ha lezione deve poter lasciare la
sua classe e visitare i laboratori, per evitare
che gli studenti si sentano abbandonati.
«Il periodo del festival poi si scontra con le
esigenze scolastiche» spiega Pizzigalli. «Si
tiene a ottobre, che è il periodo migliore
per organizzare conferenze con professori e
Premi Nobel, ma quello meno adatto per le
scuole». Ragazzi e docenti devono lavorare
durante il secondo quadrimestre dell’anno
precedente. «Il primo mese di scuola poi è
molto delicato, i laboratori devono essere
allestiti e organizzati e i bambini devono
prendere confidenza con la loro attività di
guida» racconta Marchesi. «All’inizio hanno
un po’ di timore nel mettersi in gioco come
"insegnanti", ma grazie a una fase di prova
alla quale invitiamo i genitori e le altre classi
della scuola, riescono a superare il blocco e
a prendere confidenza». «E oggi» conclude
Pizzigalli «gli studenti sono la vera interfaccia
di BergamoScienza con il pubblico».
•••
Guarda i video dei laboratori
dell'ISIS Romero
> Il sito di BergamoScienza www.bergamoscienza.it/default.aspx
> Un video degli esperimenti di robotica della scuola primaria di Albino www.youtube.com/
watch?v=3MyrwRXHzo8
http://link.pearson.it/5E64C86A
31
DIALOGO
di Marika De Acetis
foto di Steve Mezzadri
Maurizio Ferraris
incontra
Juan Carlos De Martin
dialogo
34
“Nel momento
in cui è molto
facile trovare
certe cose,
quelle che sono
più difficili
da cercare
è come se
cadessero
nell’oblio”
Maurizio Ferraris
I
ncontriamo Maurizio Ferraris e Juan
Carlos De Martin, il primo filosofo teoretico da tempo impegnato a esplorare l'universo delle nuove tecnologie
e il secondo ingegnere esperto di Internet e
società, all’Università di Torino, in una sala
con enormi scaffali pieni di libri. Libri che, ci
fa notare Ferraris, ora potrebbero potenzialmente stare tutti nella tasca di una giacca,
grazie a Internet e ai dispositivi portatili come
gli smartphone. Una miniera di informazioni
non sempre di facile reperimento o valutazione, sottolinea De Martin, soprattutto se non
se ne conoscono le regole. Un ambito in cui
imparare a muoversi, per destreggiarsi tra le
enormi potenzialità e i rischi insiti nei nuovi
media. In questo dialogo abbiamo cercato di
capire con loro quanto l’avvento di Internet,
dei dispositivi portatili, dei nuovi media cambi il nostro rapporto con la conoscenza e la
formazione, partendo da quelli che
sono per entrambi i principali ambiti
di studio.
DE MARTIN. Il primo grosso
tema, che riguarda tutti i cittadini,
è come confrontarsi con le informazioni disponibili online: imparare a
capire dove trovare quello che si sta
cercando e come valutarne l’attendibilità; è una versione ampliata di
quanto in realtà facciamo già adesso con un libro. Solo perché il libro
è un oggetto più antico non sembra
difficile valutare chi è l’autore, chi è
l’editore e quindi valutarne l’attendibilità. Questa capacità va in parte
creata, in parte è già nota, anche per l’online.
• In questo articolo, foto
scattate durante l’incontro
presso l’Università di Torino
tra Juan Carlos De Martin,
a sinistra, e Maurizio Ferraris,
a destra.
FERRARIS. C’è un evidente vantaggio:
una volta, alla fine di un lungo viaggio, finite tutte le cose da leggere, uno non sapeva più cosa fare. Adesso, con i dispositivi
portatili, questo problema non esiste più
ed è un simbolo del fatto che ognuno di
noi viaggia con un archivio gigantesco. Nel
contempo, ci troviamo ad avere testi del
Seicento non più ristampati e il fatto che
non siano digitalizzati comporta un occultamento maggiore. Perché nel momento in
cui è molto facile trovare certe cose, quelle
che sono più difficili da cercare è come se
cadessero nell’oblio.
Concentrarsi nell’era digitale
FERRARIS. Da un altro punto di vista, le
persone di una certa età, come succede a me,
sono cresciute in un ambiente non digitale.
Quindi io sono ancora abituato a pratiche di
lettura silenziosa e di concentrazione che ho
l’impressione manchino a coloro che sono già
nati dentro un ambiente digitale. Secondo
me la formazione perfetta dovrebbe da una
parte garantire agli studenti di saper gestire
il flusso di informazioni che viene dal web - e
su questo sono d’accordo con il professor De
Martin: puoi, per esempio, trovare un libro di
satanisti scritto nel 1723 e sono follie anche
quelle, peggio che su Internet - dall’altra parte insegnare la capacità di concentrarsi su un
testo continuo. Il punto fondamentale è che
il supporto digitale come tale è multimediale,
per cui la curiosità di passare da quello che
immediatamente vedi a un’altra cosa è molto
forte. Una volta quando leggeva un romanzo
uno ogni tanto trovava qualcosa che non sapeva, come il nome di una località ignota, per
esempio Smolensk, e non voleva tirar fuori un
atlante, magari non ce l’aveva sotto mano,
quindi restava con il dubbio. Adesso invece
guardi subito su Google Maps e poi riprendi
la lettura. In questo c’è un effetto di realtà aumentata. Però contemporaneamente ti
arriva, magari, la email, ti arriva l’sms: tutto
è convogliato lì. Quindi la concentrazione è
sempre più a salti. Inoltre, sono convinto
che quando non hai la memoria visiva delle
pagine è un po’ più difficile ricordare.
DE MARTIN. Sospetto ci sia anche una
dialogo
IMPARARE SEMPRE
diversa filosofia educativa, soprattutto
tra il mondo educativo americano e quello
continentale europeo. Perché gli americani,
sicuramente con John Dewey, ma probabilmente anche prima, pensano che l’apprendimento basato sul learning by doing, ossia
sull’“imparo facendo”, sia molto forte. Sono
abbastanza convinti (naturalmente non tutti,
ma c’è una forte corrente ormai radicata da
almeno un secolo) che lo studio tradizionale, cioè quello di concentrazione, della fatica
su un libro, di imparare a concentrarsi, sia
meno forte. Quindi, forse, anche quello che
vediamo nei dibattiti sull’educazione in Italia
è spesso, senza riconoscerlo, una discussione
tra due filosofie educative differenti.
FERRARIS. Oltretutto, una filosofia che
diventa egemone, visto che poi tutti questi
strumenti vengono percepiti un po’ ingenua-
mente come moderni, come se moderno volesse significare un valore in sé.
Io le lezioni le faccio con il PowerPoint, che
non è esattamente uno strumento multimediale, ma a me non è mai capitato come studente di sentire delle lezioni di questo genere
e credo che siano meno noiose. Mi ricordo
ancora i convegni in cui le persone arrivavano con dei fogli di carta e iniziavano a leggere. Noi non ci addormentavamo, essenzialmente perché eravamo addestrati, però un
po’ l’abbiocco arrivava. Questo adesso non
succede più. Contemporaneamente mi dico:
beh, però si perde anche un po’ di quella capacità di precisione d’espressione che veniva
attraverso il testo scritto. Ogni vantaggio,
comporta uno svantaggio, ma non credo in
realtà ci siano dei grossissimi svantaggi in
questo. Però la perdita della concentrazione,
della possibilità di concentrarsi, quella è una
cosa negativa. Ed è una cosa che la scuola
può insegnare, perché la società non la dà. La
società civile è fatta per distrarre le persone,
ed è giusto perché deve dare diverse sollecitazioni. Tutto legittimo, però la scuola deve
insegnare uno stile quasi monastico, anche
perché la vera selezione avverrà tra coloro
che sono in grado di concentrarsi e coloro
che non sono in grado di farlo.
DE MARTIN. Sì, concordo. Devo dire che
anche negli ambienti scolastici, universitari e
bibliotecari, che non a caso hanno una connessione forte con la tradizione monastica,
già ci sono dei segni positivi in tale senso,
con lo sviluppo di spazi dedicati alla concentrazione. Di recente sono stato
ad Harvard e lì la biblioteca ha
accuratamente organizzato gli
spazi in “studio da solo”, “studio
in gruppo”, “consentito mangiare e bere”, “non consentito mangiare e bere”, “totale silenzio”.
Proprio per creare degli spazi
dove chi vuole concentrarsi in
modo assoluto, non essere disturbato da nessuno strumento
elettronico, o anche soltanto
dall’odore dell’hamburger dello
studente di fianco, può farlo.
Quindi, è possibile, nonostante le
pressioni molto forti che arrivano dall’esterno, creare delle contromisure che incoraggino la concentrazione.
Quando è utile il multimediale?
DE MARTIN. La multimedialità io la interpreto come la possibilità di avere molti
strumenti a disposizione per comprendere.
Effettivamente ci sono determinate cose
che possono essere trasmesse in maniera più
efficace utilizzando un canale piuttosto che
un altro, per esempio, dove un video di tre
minuti ben fatto riesce a trasmettere meglio
le informazioni che se queste fossero scritte
sulla carta. Questo capita soprattutto per le
attività pratiche, per esempio come fare una
determinata cosa con il computer: YouTube
è pieno di video di questo tipo, di cui l’equi-
“Come
confrontarsi
civilmente con
un gruppo di
altri coetanei
per provare
a raggiungere
un determinato
risultato è
un obiettivo
educativo
importante”
Juan Carlos De Martin
35
36
dialogo
Guarda i video del dialogo
http://link.pearson.it/2963F8FC
valente scritto sarebbe lungo, noiosissimo e
sarebbe più facile sbagliarsi. Analogamente,
ci sono studenti che possiamo raggiungere
più efficacemente utilizzando il disegno piuttosto che il video, i videogame, gli ebook ecc.
A questo si affianca l’aspetto collaborativo,
che, per determinate cose e fatto in maniera
appropriata, non solo sviluppa una comprensione maggiore del tema ma, soprattutto, sviluppa la capacità di lavorare insieme ad altri
che in molti ambienti lavorativi è importante. Quindi, effettivamente, come confrontarsi civilmente con un gruppo di altri coetanei
per provare a raggiungere un determinato risultato è un obiettivo educativo importante.
FERRARIS. Sì, anche io sono d’accordo.
E non soltanto a scuola. Molta della comunicazione medica avviene attraverso dei
video, per esempio per spiegare come si
realizza un’operazione medica. E questo è
un contributo essenziale al progresso della
medicina. Dubito, però, che possa funzionare
per certi tipi di materiali: per esempio, non
riesco a capire come si possono trasmettere
Maurizio Ferraris
Maurizio Ferraris è nato a Torino nel 1956. È professore
ordinario presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università
di Torino, dove insegna Filosofia teoretica e dove si è laureato
sotto la guida di Gianni Vattimo. Ha insegnato in importanti
università internazionali, tra cui quelle di Parigi, Colorado
Springs, Monterrey, Ginevra, Montpellier e Lipsia. Dirige la
Rivista di estetica e co-dirige la rivista Critique, conduce il
programma televisivo Zettel – Filosofia in movimento su Rai
Tre e scrive regolarmente su la Repubblica. I suoi ambiti di
studio principali sono l’ermeneutica, l’ontologia e l’estetica.
Dirige il Centro interuniversitario di Ontologia Teorica e
Applicata (CTAO) e il Laboratorio di Ontologia (LABONT) da
lui fondati nel 2001. Vincitore di numerosi premi filosofici,
è autore di oltre mille articoli e di circa quaranta libri, tra
cui Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce (2009),
Laterza, in cui espone la sua teoria del mondo sociale,
la Documentalità, in cui la registrazione di atti scritti (i
documenti) ha un ruolo fondamentale nella creazione di oggetti
sociali e, quindi, nel modificare la realtà.
dei rudimenti di logica attraverso un sistema
multimediale. La sostanza è che non esiste
un’unica ricetta.
Il web, le sue regole e i suoi galatei
DE MARTIN. Internet è come una serie di
scaffali dove chiunque può appoggiare qualsiasi cosa senza alcun controllo. Non esiste
un filtro in fase di pubblicazione, che non
vuol dire che se quanto pubblicato è illegale
non sarà perseguito. Nel caso, qualcuno farà
causa e quel contenuto verrà tolto. In fase
di acquisizione è proprio come entrare in un
posto dove so che chiunque può aver appoggiato qualsiasi cosa. E quindi, ho l’onere di
valutarlo sulla base di un certo numero di
parametri: in che sito è ospitato, quali sono
le sue regole e chi è il proprietario, ho delle
informazioni sull’autore, quanto sono attendibili queste informazioni ecc. Questa in
realtà dovrebbe essere una delle cose che si
insegnano a scuola, a cominciare dalle elementari. Se poi passiamo agli strumenti che
ci aiutano a trovare le informazioni, abbiamo
il motore di ricerca, che è il controllore del
cancello, cioè quello che ci fa arrivare a ciò
che stiamo cercando e che ha delle sue logiche, che non sono totalmente oscure come
qualcuno ama dire. Il principio fondamentale
su cui si basa è quanto quel sito è popolare,
ossia quanto è stato linkato da altri. Questo
principio che è, per esempio, alla base del
motore di ricerca Google è stato progressivamente sofisticato in maniera estremamente avanzata, ma sostanzialmente se un
sito ha successo sarà più in alto nei risultati.
Bisogna saperlo, bisogna sapere che quel
sito è molto linkato perché, magari, è pieno
di cose provocatorie. Questo dovrebbe entrare a far parte di quella specie di alfabetizzazione digitale necessaria sostanzialmente
a tutti, perché ormai non sapere queste cose
di base su Internet pregiudica in maniera
abbastanza forte le capacità di una persona
di agire nella nostra società, banalmente di
badare ai propri interessi.
FERRARIS. Non solo alfabetizzazione,
ma anche, io credo, galatei digitali. Educare l’utente a una serie di conseguenze che
le sue azioni hanno sul web, come mettere
delle cose molto personali su social network.
I social network hanno un singolare statuto,
dialogo
IMPARARE SEMPRE
sono un po’ una cosa pubblica e un po’ una
cosa privata, ma in realtà sono totalmente
pubblici, perché una volta che una cosa è
scritta su Internet in qualche modo diventa
pubblica. È come se andassi in tv a reti unificati, anzi peggio, perché un programma a reti
unificate è limitato nel tempo, invece qui può
arrivare dappertutto, non c’è limite di tempo
e di spazio.
Come cambia la visione di sé con i
social network
FERRARIS. È difficile rispondere a una domanda su come cambia l’idea di sé con i social network: io non riesco a stare nella mente
di questi ragazzi. Sicuramente è un’estensione dell’idea di Warhol che «un giorno ognuno
di noi sarà famoso per 15 minuti». Altro che
per 15 minuti: per l’eternità! Il dramma è che
puoi essere anche malfamato per l’eternità e
qualcuno dovrebbe avvisare gli interessati.
DE MARTIN. Incomincia a esserci della
ricerca su questo. Gli enti come la Pew Research e la MacArthur Foundation hanno
cominciato a fornire statistiche periodiche
sull’utilizzo da parte dei giovani e giovanissimi
di questi strumenti. È emerso che negli ultimi
anni, in realtà, i ragazzi sono diventati molto
bravi a utilizzare gli strumenti di privacy, per
esempio su Facebook. Hanno capito abbastanza in fretta che se mettono certe cose
online i genitori o i maestri possono leggerle,
perciò hanno imparato a creare delle comunità chiuse: certe cose le fanno vedere solo
a chi vogliono e altre le lasciano pubbliche.
Quindi, tra l’altro, stanno imparando a costruire un’immagine pubblica di sé, fanno
vedere certe cose a certe persone per mandare un messaggio specifico. Inoltre, la loro
vita viene anche più registrata, al punto che
anche i bambini piccoli si mettono in posa.
Essendo circondati da macchine di registrazione, si sono abituati a essere registrati e
sarà interessante vedere fra qualche anno
che effetto farà su di loro poter rivedersi con
tanta abbondanza di materiale.
Cosa ci riserverà il futuro
FERRARIS. Credo che l’evoluzione andrà
nel senso del benessere, dell’imparare ad
avere dei momenti di connessione e dei momenti di non connessione, ad avere momenti
Juan Carlos De Martin
Juan Carlos De Martin è nato a Cordoba (Argentina) nel 1966 da
genitori torinesi. È professore associato presso il Dipartimento di
Automatica e Informatica del Politecnico di Torino dove insegna
Rivoluzione digitale al primo anno di Ingegneria. Ha lavorato
presso l’Università della California, il centro di ricerca di Texas
Instruments a Dallas, il CNR di Torino e nel 1998 ha fondato
insieme a Angelo Raffaele Meo il gruppo di ricerca Internet Media
Group. Con Marco Ricolfi, giurista dell’Università di Torino, ha
fondato nel 2003 il gruppo di lavoro Creative Commons Italia e nel
2006 il Centro Nexa su Internet e società. Fa parte del consiglio
scientifico dell’Enciclopedia Treccani. Scrive regolarmente su
La Stampa e Il Sole 24 Ore sui temi di cittadinanza digitale,
neutralità della rete, diritto d’autore nell’era digitale. Inoltre, come
racconta nel suo blog, ha «scavalcato quattro volte l’Appennino a
piedi» e nel 2012 ha camminato in solitaria da Torino a Milano.
Il suo blog personale: http://demartin.polito.it/
Il suo profilo su Twitter: http://twitter.com/demartin
in cui questa enorme e importantissima evoluzione tecnologica possa riconciliarsi con il
passato, come del resto sempre avviene, per
la tecnologia.
DE MARTIN. Io concordo pienamente,
aggiungo che un tema decisivo sarà quello del trattamento dei dati personali. Questi
strumenti con tutti gli aspetti positivi che
conosciamo perfettamente sono anche degli
strumenti di sorveglianza assolutamente pervasivi e senza confronto, sul quale è giusto iniziare già da ora a impostare un dibattito. •••
> Il centro Nexa su Internet e Società del
Politecnico di Torino http://nexa.polito.it/
> Labont, il Laboratorio di Ontologia
dell’Università di Torino http://labont.it/
> L’archivio RAI con le puntate di Zettel
http://www.filosofia.rai.it/categorie/
zettel/354/1/default.aspx
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esperienze: la scuola si racconta
Esperienze:
la scuola si racconta
di Davide Coero Borga
"Ciao a tutti e benvenuti
su Radio Rinascita!
Ai microfoni per voi ci sono
Carlotta e Matteo,
pronti per passare
questi sessanta minuti
insieme e tenervi con le
orecchie incollate
alle casse del vostro
computer.
Siete pronti per il viaggio?
Si comincia con un brano
di Kellee Maize,
la Google female rapper
che ha fatto scuola di
copyleft e… di classe.
Buon ascolto…
"
N
o, non è uno scherzo. È proprio questa l'aria che si respira tra i
giovani deejay ai microfoni di Radio Rinascita. L’istituto sperimentale Rinascita-Livi è una scuola sempre in movimento che
dal 1974 non ha smesso di guardare al futuro, ben conosciuta
a Milano per la ricerca di nuove modalità di insegnamento, didattica di
gruppo e offerte formative decisamente flessibili. Qui l'autonomia scolastica è diventata anche questo: inventarsi una web radio, costruire un'emittente libera (come le gloriose radio libere degli anni Settanta) su una
pagina Facebook, mettere ai microfoni un nugolo di dodicenni coraggiosi,
dare voce alla scuola. Fare radio all’interno delle scuole vuol dire anzitutto avvicinare ragazzi a quello che, nonostante la longevità, resta un
moderno ed efficace strumento di comunicazione in grado di educare gli
studenti alla comunicazione, al racconto, alla conversazione. In Francia,
Olanda, Svizzera, Belgio e, in generale, nel centro Europa esiste una fitta
rete di emittenti radiofoniche che trasmettono all’interno delle scuole,
dalle elementari alle superori. Nel ruolo di conduttori, deejay, giornalisti,
ospiti, ci sono gli studenti di quegli istituti. Nella loro esperienza sono
aiutati da insegnati o adulti appassionati. In Rinascita sono partiti nel
2001 con un mixer, un paio di microfoni e due ore di lezione a settimana.
Riunione di redazione, lezione laboratorio, registrazione. Per un servizio
da e per la scuola: una comunità di 300 studenti, 300 famiglie, per un
migliaio di ascoltatori. Ma il fenomeno web radio sta esplodendo. In Italia
sembravano essersene accorte solo le università, dove il prurito radiofonico è diffuso da un decennio. Oggi approda anche alla scuola primaria e
secondaria, come potente strumento didattico e di espressione per alunni
e insegnanti. Sono sempre più le scuole che si adoperano per ospitare
una sala di registrazione al loro interno. Un’operazione non banale, che
richiede sforzi economici e innesca complicazioni burocratiche in cui l’istituzione scolastica rischia spesso di rimanere intrappolata.
IMPARARE SEMPRE
esperienze: la scuola si racconta
Le scuole alle prese con il fenomeno
delle web radio: piccole emittenti scolastiche
che grazie a una tecnologia semplice sono
capaci di mandare in onda un mondo
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esperienze: la scuola si racconta
Addio onda, si va online
Si chiamano web radio e, come indica il loro nome, si tratta di emittenti radiofoniche che
trasmettono in forma digitale il proprio palinsesto attraverso Internet, in streaming, con lo stesso
tipo di tecnologia che supporta le dirette video. Sono accessibili a tutti e chi è dall’altra parte
dello schermo può ascoltarle online senza bisogno di scaricare sul proprio computer alcun file.
L’illusione della radio è perfetta e si amplifica in siti pieni di testi, immagini e tutta una serie
di contenuti extra che l’ascoltatore può scaricare e ascoltare con tranquillità, su dispositivi
elettronici portatili (in questo caso si parla di podcast): la radio che vuoi, quando vuoi e come vuoi.
Goodbye comunicazione via etere, benvenuta comunicazione on demand.
In un’epoca in cui l’offerta radiofonica è ampia e strutturata sui canali in FM, le web radio
allargano la possibilità di partecipazione alle piccole realtà con programmi di nicchia, dedicati,
che danno voce anche a comunità ristrette. Succede a scuole e università. Ma anche alle emittenti
tradizionali che via web possono ampliare il proprio raggio di ascolto, replicando le trasmissioni
andate in onda (o meglio, online) in diretta e lasciando i contenuti d’archivio a disposizione del
pubblico. Si parla in questi casi di glocalizzazione, una crasi fra le parole globale e locale, che
rende bene il senso del fenomeno in atto.
Tenere il conto di tutte le realtà, grandi o piccole che siano, è complicato. Aprire e chiudere un sito
è un’operazione veloce e lascia pochi dati a chi si occupa di statistica. Ma per farsi un’idea della
portata del fenomeno basti dire che una decina di anni fa il Massachusetts Institute of Technology
ha calcolato quasi 30.000 web radio in presidio della rete.
IMPARARE SEMPRE
Il microfono didattico
Preparare e condurre una trasmissione radiofonica - in diretta o registrata - guida i
ragazzi alla padronanza del linguaggio come
strumento per esprimere se stessi e le proprie idee. Imparare a produrre contenuti per
la radio significa acquisire capacità di sintesi
su testi e temi complessi, ordinare le idee
nell’esposizione di un argomento, approfondire gli argomenti di attualità confrontando le fonti. Registrare, montare, gestire
un’intervista, un giornale radio, un reportage
all’interno e fuori dalla scuola costringe lo
studente-deejay a imparare a parlare, raccontarsi, esprimersi, agganciando l’ascoltatore e dissimulando la lettura di un testo.
Ma la potenza dell’oggetto radio sta anche nel ricreare atmosfere fatte di musiche
e rumori all’interno della trasmissione che si
sta costruendo. Da un lato il ragazzo è solo
davanti al microfono, impara ad ascoltarsi e
accettare la propria voce, vince la timidezza e acquista fiducia in se stesso. Dall’altra
la redazione è un team che lavora in network: calendarizza, incastra e gioca di squadra perché il prodotto finale sia ogni volta
migliore. Trasformare le classi in una grande redazione radiofonica aiuta a costruire
esperienze: la scuola si racconta
un palinsesto variegato. La web radio è un
contenitore elastico che sfrutta tutta la modularità della rete. A tanti e diversi gruppi
di lavoro corrispondono altrettanti prodotti
editoriali. E ogni gruppo segue lo sviluppo
di una determinata trasmissione che, com’è
naturale, affronta un particolare argomento.
I contributi, le rubriche, le interviste possono essere ascoltati singolarmente, montati
all’interno di un blocco delle trasmissioni e
dei radio giornali, o ancora a corredo di testi
e immagini sul sito della scuola.
I ragazzi scelgono piuttosto in autonomia
i temi da inserire in programma, partendo
dalla vita scolastica, le iniziative didattiche,
l’attualità, la cronaca. Ogni gruppo sviscera
una notizia, prepara un menabò da seguire
durante la diretta, pensa alle musiche giuste
che possano accompagnare il parlato, suddivide i compiti e i tempi di ciascuno studente
e fa le prove, come sul palco di un teatro.
Poi si va in onda. O si registra. Già, perché
le nuove tecnologie permettono agli studenti anche di ascoltare e riascoltare il lavoro
fatto prima di mandarlo in onda. Un vero e
proprio backup per verificare cosa è andato e cosa no, aggiustare il tiro, correggere
e discutere della lezione 2.0 con l’aiuto dei
professori.
•••
•In queste pagine e nella pagina
precedente, i ragazzi di Radio
Rinascita in azione.
Foto: Radio Rinascita
Guarda i video sulle radio
scolastiche
http://link.pearson.it/9B47FA85
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esperienze: la scuola si racconta
Radio Rinascita: musica e non solo
Foto: Radio Rinascita
È animata da un gruppo di 12 studenti deejay di seconda e di terza media che
lavorano due ore alla settimana sotto la guida di un docente e di un assistente
tecnico audiovideo nel laboratorio di musica e di informatica dell’istituto
sperimentale Rinascita-Livi, scuola secondaria di primo grado a orientamento
musicale. I ragazzi alla console propongono i generi musicali più ascoltati
del momento, approfondiscono le tematiche musicali e culturali, riservando
ampio spazio per gli avvenimenti che vedono protagonista la scuola come
Scienza Under 18, un progetto di educazione scientifica in piedi dal 1997. Ma
non c’è solo questo: sport, pettegolezzi, interviste, annunci personali e anche
barzellette. (www.agenziadeiragazzi.net/radio-rinascita.html)
Radioimmaginaria: tutta in mano ai ragazzi
È la radio bolognese dal forte sapore di radio libera.
Scrivono gli studenti sul sito e sulla pagina Facebook:
«Radioimmaginaria è l’unica radio fatta, diretta e condotta da
noi che abbiamo da 11 a 17 anni. Dei contenuti nessun adulto
si impiccia; facciamo e diciamo ciò che vogliamo. Andiamo
in onda da qualunque posto: da una camera di una nostra
amica, da un garage, da un parcheggio di una discoteca, dalla
strada, dal pullman». Radioimmaginaria esiste dal 2010. Dal
2012 è associazione e trasmette via web (anche via social
network). Alcune migliaia di ascoltatori in continua crescita.
(www.radioimmaginaria.it/la_radio.html)
Foto: Radioimmaginaria
Radio Kreattiva: a scuola di antimafia
Foto: Radio Kreattiva
È una web radio antimafia. Partendo da Bari Vecchia con due casse, un
computer e un microfono al quale si alternavano i primi speaker, Radio
Kreattiva è diventata un'associazione culturale e una web radio libera e plurale,
gestita interamente dagli studenti delle scuole baresi. Le trasmissioni parlano
del fenomeno mafioso dal basso, declinandolo in tutte quelle forme che i
giovani studenti sperimentano sulla propria pelle: ecomafia, comportamenti
devianti, abusi. Ma Radio Kreattiva non è solo denuncia: lavora sul territorio
permettendo a ogni scuola coinvolta nel progetto di creare proprie trasmissioni
e rubriche autogestite o di realizzare dirette radiofoniche condivise, eventi
pubblici a favore della diffusione della cultura della legalità e costruzione di
percorsi comunicativi partecipati. (www.radiokreattiva.net/)
Esperienze:
la scuola si racconta
La
scuola
senza
confini
di Donato Ramani
44
esperienze: la scuola si racconta
Alla scuola materna Diana
di Reggio Emilia lo spazio
è stato reinventato per
cambiare il modo di viverlo
da parte degli alunni.
Un modello che mette al centro
il bambino, costruttore della
propria conoscenza e portatore
di grandi potenzialità di sviluppo
che crescono grazie alla
relazione con gli altri
C
ome fosse una piccola città, al
suo centro è collocata una piazza,
luogo di aggregazione e di scambio per eccellenza. Uno spazio
immerso in una luce naturale vividissima,
che entra dalle grandi vetrate in un magico gioco di trasparenze, aprendo il dentro
a ciò che sta fuori, e collegando l’esterno
con l’interno, in un processo in continuo
sviluppo. Gli altri locali, le sezioni, la cucina, la zona pranzo, gli spazi di gioco, si
sviluppano tutto intorno, senza soluzione
di continuità. Addio ai confini e alle separazioni, dunque, così come a modelli educativi ormai invecchiati. Benvenuto invece
all’incontro, che qui è sempre voluto, ricercato, incentivato. Gli ambienti della scuola
Diana di Reggio Emilia, balzata agli onori
delle cronache una ventina d’anni fa perché segnalata come modello educativo di
eccellenza dal settimanale Newsweek, sono
la rappresentazione spaziale di un approccio pedagogico che da tempo attira le curiosità del mondo. Fatto piuttosto insolito
per una scuola pubblica, nata nel 1970, che
riunisce bambini tra i 3 e i 6 anni divisi per
età omogenea in tre diverse classi. Cosa c’è
nella scuola Diana di così speciale, dunque?
Situata nel centro storico della città e an-
esperienze: la scuola si racconta
IMPARARE SEMPRE
Reggio Children e il sistema Reggio Emilia
> Il suo nome completo suona così: Reggio Children s.r.l. – Centro Internazionale per la difesa
e la promozione dei diritti e delle potenzialità dei bambini e delle bambine. Nata nel 1994 per
iniziativa del pedagogista Loris Malaguzzi, è una società a capitale misto pubblico-privato che
ispirandosi alle esperienze educative delle scuole e nidi d’infanzia di Reggio Emilia lavora per
sperimentare e diffondere nel mondo un’educazione di qualità. Reggio Children s.r.l. è solo una
delle realtà attive nate negli anni a Reggio Emilia, un sistema - di cui fanno parte anche la nuova
Fondazione Reggio Children – Centro Loris Malaguzzi, nata nel 2011, e l’Istituzione Scuole e Nidi
d’infanzia del Comune di Reggio Emilia - attivamente coinvolto in un network internazionale
che conta oggi 32 Paesi. Di particolare importanza nel contesto reggiano anche il Centro
Internazionale Loris Malaguzzi. Aperto nel 2006 e completato nel 2011, il Centro è descritto come
«un luogo dedicato all’incontro di quanti, in Italia e nel mondo, intendono innovare educazione e
cultura. Un luogo internazionale aperto al futuro, a tutte le età, alle differenti culture, alle idee,
alle speranze e all’immaginazione».
che per questa ragione diventata un baricentro nella rete di servizi di Reggio Emilia,
negli anni è stata descritta spesso come una
sorta di laboratorio, in cui si sperimenta, in
cui si fa ricerca. «Questo è vero, ci sono anche questi elementi. Ma è nella quotidianità,
nel giorno per giorno, che alla scuola Diana,
così come in tutte le altre realtà del territorio, questi concetti sono declinati. Perché è
così che assumono davvero valore» spiega la
dottoressa Simona Bonilauri, pedagogista e
coordinatrice di alcune delle strutture della
rete comunale di Reggio Emilia che ne conta
34, tra scuole e nidi d’infanzia.
La ricetta è semplice ma niente affatto
banale. Rompendo uno schema didattico
di carattere prettamente istruttivo, il bambino, a scuola, diventa primo protagonista
dell’apprendimento, costruttore e fautore
della propria conoscenza. La ricerca, oltre
che portatrice di innovazione, va intesa
come un ingrediente fondamentale del processo pedagogico «perché è questa la modalità propria dei bambini per conoscere il
mondo. Osservano, assorbono gli stimoli, li
elaborano, fanno delle ipotesi, hanno delle
opinioni. Ognuno con i propri strumenti: in
questo senso il percorso di ciascun bambino
è davvero valorizzato» spiega la pedagogista. La scuola? Si fa accogliente, si apre ai
bimbi con occhio curioso e attento, in un
processo in cui anche gli adulti si mettono
in gioco. Compito complicato per chi è responsabile della loro crescita e della loro
educazione perché pronto ad aprire degli
inevitabili margini di incertezza. Ma estremamente stimolante.
Ecco così che, per esempio, lo schema tradizionale - insegnante da una parte, allievi
dall’altra - qui non ha mai trovato casa.
“Relazione” e “interazione” sono i concetti
che lo hanno spazzato via. «Interazione con
gli insegnanti e il personale non docente,
con i genitori che sono attivamente coinvolti, tra i bambini. A scuola si privilegia il
lavoro in piccoli gruppi in cui si crea una
comunicazione molto intensa tra i partecipanti che realizzano insieme, dialogano,
si scontrano, si confrontano». Il tutto in
un’atmosfera di grande armonia che nasce
da una gestione non gerarchizzata, favorita dall’organizzazione degli spazi, fatti
apposta per garantire una calibrata promiscuità. L’ambiente, infatti, è concepito e
vissuto come un attore tra i più importanti,
•Nella pagina accanto, lo
spazio per mangiare della
scuola Diana.
Nella pagina di apertura,
l'atelier della scuola
Diana.
Foto: Richard Kalvar/Magnum
Photos/Contrasto
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46
esperienze: la scuola si racconta
Lo spazio cambia anche il modo di apprendere
> Forse non ci abbiamo mai riflettuto troppo, ma all’interno di ogni istituto scolastico esiste una relazione
piuttosto forte tra organizzazione degli spazi e approccio pedagogico adottato. «In modo cosciente o meno
l’architettura trasmette un modello didattico ben preciso. Basti pensare alla classe tradizionale, che è
un’aula uditorio, in cui l’alunno è un elemento passivo. Il corridoio è un luogo spoglio, di passaggio. Tutti
elementi che sottolineano uno schema educativo di tipo trasmissivo»
spiega l’architetto Maria Grazia Mura, responsabile scientifica e autrice
dei testi di Abitare la scuola, sito promosso dall’Indire che raccoglie
e presenta una serie di realtà scolastiche, italiane e straniere, in cui il
dialogo tra ambienti e pedagogia ha saputo dare frutti eccellenti. Gli
esempi che Abitare la scuola mostra nelle sue pagine sono tanti, dentro
e fuori i confini italiani e a tutti i livelli della formazione: dalla scuola
d’infanzia Diana di Reggio Emilia alla primaria di Ponzano Veneto,
in provincia di Treviso, alle scuole primarie e secondarie olandesi,
finlandesi, tedesche. «Agire sugli spazi significa agire su tre possibili
livelli» spiega la dottoressa Mura «quello architettonico e strutturale,
quello degli arredi e quello dei materiali didattici e degli allestimenti, comprese le ICT». Per cambiare le
cose, insomma, non è indispensabile costruire un edificio tutto nuovo. Su quali fattori gli spazi possono
agire? Sull’apprendimento, prima di tutto, perché opportunamente organizzato l’ambiente può diventare
uno strumento per favorire percorsi cognitivi diversi, da intraprendere da soli o in gruppi piccoli e grandi,
creando contesti comunicativi ogni volta nuovi. Sull’accoglienza, perché realizzare ambienti piacevoli e
armonici curando il paesaggio sensoriale, luminoso e cromatico, rende la scuola un luogo amabile e ospitale.
Ma anche sulla sfera relazionale, affettiva e sociale. Perché una scuola in cui non sono gli ambienti a porre
dei limiti e stabilire dei comportamenti fa leva sulla responsabilizzazione del singolo: «Si formano dei
bambini autonomi e capaci di fare proprie, naturalmente, le regole della socialità» spiega l’architetto.
perché pieno di opportunità e luoghi fatti
apposta per sollecitare il gioco, la scoperta,
la comunicazione, la curiosità e promuovere
un intreccio di rapporti tra tutti i suoi abitanti, piccoli e grandi. Bambini che lavorano,
dialogano liberamente con gli adulti, con il
personale docente ma anche con le cuoche
della cucina interna alla scuola («luogo importantissimo nell’economia dell’intero sistema» dice Bonilauri), che si muovono negli
spazi aperti, sperimentano nell’atelier, altro
posto dalle mille sorprese e dai mille stimoli.
Guidato dalla atelierista, un docente opportunamente formato e a questo ruolo esclusivamente dedicato, l’atelier è il luogo in cui
i bambini possono esprimersi secondo “i loro
cento linguaggi”. E così, attraverso la pittura, la grafica, il lavoro con la creta e molte
altre attività, i bambini conoscono il mon-
do attraverso l’azione, con un approccio
multisensoriale che, nelle parole di Simona
Bonilauri, «è un grande atto di democrazia.
Una democrazia cognitiva perché i cento
linguaggi offrono a ciascun bambino la possibilità di accedere alla conoscenza con le
modalità che più gli sono congeniali, in base
alla propria cultura, alle proprie competenze e predisposizioni, fuori dal dominio della
parola». Ed ecco un’altra barriera che cade.
Qui come in tutte le altre scuole d’infanzia
di Reggio Emilia, dove l’atelier e le attività a
esso legate sono portati avanti.
Perché se la scuola Diana è certamente la
realtà più famosa, il modello pedagogico
che lì è applicato, quello che è stato definito il Reggio Emilia approach, è comune
a tutti gli altri servizi educativi comunali.
Anzi, il coordinamento pedagogico è uno
esperienze: la scuola si racconta
IMPARARE SEMPRE
•Altre due immagini della
scuola Diana.
Nella pagina accanto, la scuola
primaria di Montemignaio in
provincia di Arezzo.
Foto: Reggio Children
dei punti di forza di questa organizzazione
«che così fornisce ai genitori e ai bambini
una garanzia di continuità e non contraddittorietà» spiega Bonilauri. A sostenere il
tutto, inevitabilmente, c’è una città che ha
investito moltissimo nei servizi educativi.
Sono molte le delegazioni straniere che
si recano a Reggio Emilia per studiare ciò
che qui viene fatto da quando fu fondata, nel 1963, la prima scuola d’infanzia
(l’avventura per i nidi cominciò invece nel
1971) e che da allora, sulle idee educative
e le esperienze del pedagogista Loris Malaguzzi, non ha mai smesso di crescere.
Creando un vero e proprio sistema che
comprende anche i servizi comunali e le
altre realtà che si sono sviluppate attorno all’esperienza reggiana, come la società Reggio Children, la Fondazione Reggio
Children - Centro Loris Malaguzzi e il Centro Internazionale Loris Malaguzzi, nate
per capitalizzare quanto fatto, per sperimentare, per promuovere modelli educativi di qualità, per favorire gli scambi
nazionali e internazionali. Sono numerosi,
infatti, i progetti portati avanti grazie al
network che si è andato a
creare e di cui l’Istituzione
Nidi e Scuole Comunali di
“Il bambino, a scuola,
Reggio Emilia fa parte, per
diventa primo protagonista
attività di formazione, ridell’apprendimento,
cerca, confronto con realtà
costruttore e fautore della
europee ed extraeuropee.
propria conoscenza”
L’ennesima
declinazione,
potremmo dire, di quei
concetti di permeabilità,
di osmosi, di reciprocità, di scambio che
rappresentano le caratteristiche distintive dell’esperienza reggiana. «Gli stessi che
permettono di rispondere alla domanda
che i genitori si pongono sempre davanti
alle scelte da fare per i loro figli. Qual è l’educazione più utile e necessaria? Io credo
che la risposta stia in una scuola capace
di aprirsi e mettersi in ascolto» conclude
Simona Bonilauri. «Solo così potrà aderire
alla cultura dell’oggi e dare ai bambini la
miglior formazione possibile». •••
> Il sito delle scuole e nidi d’infanzia di Reggio Emilia www.scuolenidi.re.it
> Visita virtuale alla scuola Diana http://space.comune.re.it/girareggio/ita/geo/diana_ha.htm
> Il sito di Reggio Children www.reggiochildren.it
> Il sito della Fondazione Reggio Children – Centro Loris Malaguzzi http://reggiochildrenfoundation.org/?page_id=23
> Il sito del Centro Internazionale Loris Malaguzzi http://reggiochildrenfoundation.
org/?page_id=1037
Guarda il video dell’intervento
di Vea Vecchi, atelierista del
Centro Loris Malaguzzi
http://link.pearson.it/B06AA946
47
48
abcdefghilmno
Che ogni tempo sia di crisi per chi lo sta vivendo è acquisizione fin ovvia,
meno banale è che ci sono momenti, come quello odierno,
in cui l’orizzonte sociale più difficile richiede una maggiore capacità
di resistenza e che ci sono epoche della vita, come la giovinezza,
nelle quali si possiede sì «una fragile speranza, ma non un’energia
costante»; la tenacia è allora una più dura conquista.
Sostenere questa claudicante speranza e questa energia, renderle più forti facendole crescere
e dando loro delle ragioni e delle chiavi di comprensione è il compito delicato e irrinunciabile
degli adulti. Lo si può fare in molti modi, e gli insegnanti, con le famiglie, sono in prima
linea. Preparare un terreno fertile alle nuove generazioni e promuoverne il futuro passa
attraverso una trasmissione dei saperi che non sia scialba attuazione di programmi; o
attraverso una attenzione e una cura che non le identifichi prioritariamente come fonte di
ansia o target da soddisfare. Si può contribuirvi - ed è il caso di questo dossier - mettendo le
proprie competenze al loro servizio, per chiarire il contesto in cui ci troviamo, offrire spunti
o pensieri con cui paragonare la loro personale esperienza, e respiro. Sì, respiro perché, come
dicevano gli antichi Maestri di Israele, il mondo si regge sul respiro degli scolari. Il tema è
cruciale, ci torneremo su a più riprese e con diverse angolazioni; ci piacerebbe intanto che
questa iniziale sbozzatura fosse partecipata da quanti condividono la quotidianità dei ragazzi
e, se così sarà, potrà trovare su iS una sede in cui darle un seguito.
ECONOMIA
FILOSOFIA
49
Foto: Getty Images
La
generazione
in cerca
del futuro
DEMOGRAFIA
ANTROPOLOGIA
PSICOLOGIA
50
abcdefghilmno
ECONOMIA
La situazione di crisi delle nuove generazioni
può essere la porta verso un futuro in cui siano loro
il motore del nuovo sviluppo, superando i paradossi
di cui appaiono prigionieri
di Luigi Campiglio
Professore di
Economia politica
all’Università
Cattolica di Milano
I
centri di gravità sociale sono i nuclei che consentono di comprendere e prevedere l’evoluzione delle
epoche storiche, un po’ come accade per i pianeti, e il continuo gioco di
attrazione fra la Terra e la Luna. Non è
possibile comprendere la seconda metà
del XX secolo senza riconoscere almeno due grandi centri di gravità: la generazione del baby-boom e le donne. La
generazione del baby-boom, cioè i nati
dal secondo dopoguerra fino alla fine
degli anni Sessanta, ha segnato e trasformato modi di vivere e consuetudini
in tutto il mondo; le donne, la cosiddetta metà del cielo, in gran parte nascosta fino allo scoppio della Seconda
guerra mondiale, con il riconoscimento
del suffragio universale e la crescente
domanda di parità con gli uomini, hanno trasformato il mondo nel giro di pochi decenni. La generazione del babyboom e le donne sono state i due centri
di gravità senza i quali non è possibile
comprendere il secolo che sta a cavallo
ECONOMIA
fra la metà del XX e il XXI secolo. La
domanda oggi è quali possano essere
i centri di gravità intorno a cui ruoterà la vita sociale ed economica del
XXI secolo. Per il momento possiamo
formulare solo alcune congetture. E il
nuovo centro di gravità potrebbe essere
legato proprio ai giovani, pur essendo
la loro proporzione sulla futura popolazione mondiale destinata a diminuire.
L’Italia, in questo senso, sta anticipando i problemi di un mondo che verrà
e avrebbe perciò le potenzialità per
diventare un laboratorio sociale. Le
difficoltà economiche e sociali dei giovani nel nostro Paese non li pongono,
apparentemente, al centro dei processi
sociali, non ne fanno cioè un centro di
gravità. L’Italia è un paese dal quale
molti giovani emigrano, mentre altri
giovani stranieri arrivano per colmare
il loro vuoto. In realtà occorre guardare più a fondo. In primo luogo ciò
che avviene per l’Italia non può avvenire per l’intera Europa e ancora meno
FILOSOFIA
ECONOMIA
per il mondo intero, perché per molti
fenomeni sociali ciò che è possibile
a livello locale è impossibile a livello
complessivo. In secondo luogo siamo
di fronte a un apparente paradosso,
perché quando vi è una risorsa scarsa e in diminuzione, di regola, il suo
valore economico e sociale aumenta
rapidamente, mentre nel caso dei giovani sembra verificarsi il contrario: il
loro valore economico diminuisce, sia
come reddito sia come prospettive. è
un paradosso insostenibile.
Verso un nuovo modello
di sviluppo
Il fenomeno dei giovani italiani che
emigrano e dei giovani stranieri che
arrivano ci suggerisce la chiave interpretativa: il problema italiano è il suo
modello di sviluppo, inadeguato per
qualità e dimensione ad assorbire il
potenziale di conoscenza e innovazione dell’attuale generazione di giovani.
Questi sono i motivi per cui i giovani
DEMOGRAFIA
rappresentano il fondamentale centro
di gravità economico e sociale, in Italia,
in Europa e nel mondo. Tuttavia sono
un centro di gravità ancora oscurato ed
è invece urgente che possano venire in
piena luce. Oggi al centro del dibattito c’è il tema di un nuovo modello di
sviluppo e della sua natura. Lo impongono il processo di globalizzazione e la
stabilizzazione della crescita demografica. Le proiezioni demografiche evidenziano con chiarezza che lo sviluppo
economico ha disinnescato la bomba
demografica e che la popolazione mondiale tenderà a stabilizzarsi intorno
ai 10 miliardi di abitanti, seppure con
profondi squilibri fra regioni del mondo
in declino e regioni ancora in crescita.
L’Europa e la Cina sono le due grandi
aree in cui il declino demografico sarà
più accentuato. In Europa per ragioni
economiche e culturali, in Cina come
conseguenza della politica del figlio
unico, adottata nel 1979 da Deng Xiao
Ping, che è alla radice dell’eccezionale
ANTROPOLOGIA
•Un giovane operaio
specializzato di un'azienda
metallurgica.
Foto: Thierry Dosogne/The Image
Bank/Getty Images
PSICOLOGIA
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ECONOMIA
GermanIa
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Germania
9,7%
Francia
14,7%
Spagna
21,1%
Italia
22,7%
ECONOMIA
Grecia
23,2%
FILOSOFIA
ECONOMIA
IMPARARE SEMPRE
SpaGna
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25%
8,4
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16,3
15,9
13,1
15,4
16,0
15,6
20,7
23,2
25,4
37,027,9
31,6
26,0
28,7
33,7
DEMOGRAFIA
ANTROPOLOGIA
PSICOLOGIA
53
54
abcdefghilmno
ECONOMIA
espansione della Cina, accelerata
dal suo ingresso nell’Organizzazione Mondiale del Commercio.
In Cina ancora per circa 20 anni
la percentuale di popolazione in
età da lavoro e con un carico familiare ridotto, sia di bambini sia
di anziani, sarà eccezionalmente
elevata. Poi la situazione cambierà
rapidamente e il posto della Cina
verrà preso dall’India. Il declino
europeo già oggi si accompagna a
una crescente pressione migratoria
e il rimescolamento di colori e culture che ha caratterizzato l’ultimo
decennio continuerà a crescere, in
Europa come negli Stati Uniti, dove
la componente ispanica ha ormai
un ruolo decisivo nel sostenere
la crescita economica. In questo
quadro di grande rimescolamento
sociale a livello mondiale, di stabilizzazione demografica a livelli
comunque elevati, con una crescente pressione di domanda sulle
risorse mondiali di materie prime, i
giovani come nucleo più vitale, ma
anche più innovativo - se istruiti
e creativi - rappresentano necessariamente il centro di gravità di un
nuovo processo di sviluppo.
Se vogliamo disegnare un mondo
nel quale le guerre siano l’eccezione e non più la regola è indispensabile che i conflitti per il dominio
sulle risorse naturali, a partire dal
cibo e dalle risorse naturali, trovino la soluzione nell’abbondanza,
attraverso innovazioni e riduzione
degli sprechi, per consentire una
vita degna a 10 miliardi di persone. La gestione e valorizzazione
dei “beni comuni” richiede istituzioni nuove e una rivitalizzazione
di quelle esistenti. L’innovazione è
il dominio di menti fresche e vitali che in futuro, come già è avvenuto nel passato, trovino modi
nuovi per risparmiare risorse, eliminare gli sprechi e avviare un
nuovo processo di sviluppo. Così
come il XX secolo è stato plasmato
dall’automobile e da tutte le infrastrutture a esse collegate, il XXI
ECONOMIA
secolo può soddisfare il medesimo
insopprimibile bisogno di libertà e
movimento del genere umano, utilizzando nuove e sempre più efficienti fonti di energia alternative al
petrolio. La transizione verso una
stabilizzazione demografica significherà un periodo di qualche decennio di forti cambiamenti, flussi
migratori di lavoratori e imprese, la
riorganizzazione geopolitica delle
grandi aree economiche, ma soprattutto un mondo nuovo rispetto
a quello che abbiamo conosciuto
negli ultimi due secoli, dal decollo
della rivoluzione industriale.
Una situazione nuova
Il punto centrale è che il funzionamento dell’economia e della
società in una situazione di stato
stazionario rappresenta un fatto
storicamente nuovo, ma questo è
ciò a cui ci stiamo avvicinando
a grandi passi, avendo alle spalle
gli straordinari successi conseguiti nei due secoli passati. Pochi
FILOSOFIA
ECONOMIA
Quei disastri della finanza mondiale
Uno degli argomenti di cui più si è discusso
durante questa crisi economica è l’influenza che
ha avuto il sistema finanziario nel generare la
valanga che ha poi travolto i sistemi economici
di buona parte del mondo. L’importanza
dell’economia finanziaria è cresciuta in modo
esponenziale nell’ultimo decennio e il suo modo
di contagiare le grandezze reali dell’economia
è uno dei meccanismi meno chiari, tra tutte
le oscurità che l’economia conserva. Marcello
De Cecco è professore di Storia della finanza
alla Scuola Superiore Normale di Pisa ed è un
ottimo divulgatore. È capace di tracciare con
grande chiarezza non solo l’evoluzione della
oggi saprebbero immaginare una vita
quotidiana illuminata dalla luce delle
candele, anziché dall’elettricità, dall’assenza di sistema di riscaldamento delle
abitazioni o di servizi igienici per ogni
famiglia, dalla possibilità di comunicare
per telefono viaggiando in auto o sulla
metropolitana: per i nostri padri questo
mondo era una fantasia difficile da immaginare. Una transizione “felice” significa creare le condizioni per cui tutto
ciò avvenga anche per l’attuale generazione, con il vincolo di una popolazione stazionaria e una nuova attenzione
all’ambiente naturale e le risorse. Una
di queste condizioni è una “rivoluzione culturale” che riporti l’umanità presente a valori del passato, a riscoprire
il mondo non per motivi economici, ma
per la curiosità umana o per la necessità
di soddisfare un bisogno intenso, come
ridurre la fatica. La stima sociale, l’empatia umana per le sofferenze degli altri, il piacere di scoprire relazioni nuove,
nel passato ha spinto l’uomo – spesso in
modo casuale - verso i passi più giganteschi nel progresso della conoscenza,
DEMOGRAFIA
finanza e della sua importanza, ma anche il
modo in cui gli strumenti finanziari arrivino
a costituire una rete, un sistema che può
apparire incestuoso e certamente pericoloso
per cui, proprio come è capitato, la caduta di un
pezzo rischia di trascinare con sé anche tutti
gli altri, l’accorciarsi di un braccio della rete
può sbilanciare tutto il sistema e avere effetti
pesantissimi. Vale la pena leggere la sua lectio
magistralis pronunciata nel 2008 che risulta
chiarissima anche a chi dell’economia non
conosce il funzionamento.
(Leggi il testo online: http://link.pearson.
it/75499BA9)
di cui il riconoscimento
economico era la conseguenza e non l’obiettivo
centrale. I successi dell’economia
capitalistica
hanno rovesciato questo
paradigma ponendo al
centro l’impresa e il risultato economico, ma
anche questo quadro sta
cambiando. Oggi sono
apprezzate le imprese
che dimostrano una responsabilità sociale e
il loro successo dipende in modo centrale da
questo: la mancanza di
rispetto per i lavoratori
e l’ambiente è una macchia per i bilanci e toglie credibilità.
La transizione non è quindi una pura
distruzione del passato ma una metamorfosi di cui i giovani rappresentano
il centro di gravità, lo spirito vitale che
può evitare a Gregor Samsa uno spiacevole risveglio e garantire a noi una
metamorfosi felice. •••
ANTROPOLOGIA
•Un gruppo di writer
al lavoro durante una
performance a Pisa.
Foto: Pietro Paolini/TerraProject/
Contrasto
Nella pagina accanto, un
gruppo di giovani cinesi
a passeggio nelle vie della
moda di Pechino.
Foto: Sipa Press/Olycom
PSICOLOGIA
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abcdefghilmno
FILOSOFIA
Foto: Kristian Cabanis/Marka
56
ECONOMIA
FILOSOFIA
FILOSOFIA
IMPARARE SEMPRE
Senza vera
formazione
non c'è nemmeno
futuro
di Carlo Sini
Professore emerito
di Filosofia teoretica
all’Università degli Studi
di Milano
Il tempo si rivela sempre oscuro se viene indagato con preoccupazione esclusiva
e con un eccesso di timori. Qualunque aspettativa su ciò che verrà è destinata
a fare i conti con una realtà necessariamente diversa e dunque solo una solida
preparazione può aiutare a fronteggiare ed elaborare le sconfitte
L
a percezione originaria del tempo ha natura ritmica. Può aiutarci a comprendere questo fatto
originario l’espressione di Alfred
North Whitehead: «Eccolo di nuovo». Per
esempio, ecco di nuovo il sole, ecco di
nuovo la luna ecc. L’espressione è profondamente ambigua, in quanto allude a
due aspetti concorrenti e insieme opposti: dice che qualcosa è al tempo stesso
(notate che mi viene spontaneo dire “al
tempo stesso”) la medesima cosa e non
la medesima. Ecco qualcosa di vecchio
che insieme è nuovo. Già qui si giocano
tutti gli enigmi tradizionali del tempo:
che il passato è non essendo più; che il
futuro è non essendo ancora; che il presente è il non essere assoluto, perché,
non appena fosse, sarebbe passato e se
non fosse ancora passato, sarebbe solo
futuro. Infatti nel presente accade quella ambiguità che nominavamo poco fa:
DEMOGRAFIA
che c’è qualcosa di già stato che però è
nel contempo una prima volta, qualcosa
di nuovo che non è stato mai. Sfuggente
e ambiguo non è dunque il futuro soltanto, ma tutto intero il tempo. Diciamo che qui accade infatti l’esperienza
antropologica fondamentale. Qualcosa
deve essere presupposto come costante
per poter misurare, a partire da esso, il
mutamento. Questo qualcosa può, per
esempio, nascere nel sogno (una umanità primitiva sogna nella notte il sorgere
della luce del sole e l’uscita dalla angoscia dei fantasmi notturni) e l’immagine
di sogno può tradursi poi in un segno,
per esempio un grido. Ecco che questa
protesi esosomatica (il grido che risuona là fuori per tutti, associato al ritorno
del sole osservato da tutti) costituisce il
primo segno temporale, la prima traccia
che può tradurre l’esperienza generica
dell’“eccolo di nuovo” in ciò che AristoANTROPOLOGIA
PSICOLOGIA
57
58
abcdefghilmno
FILOSOFIA
Foto: Mario Bonotto/Marka
È noto che la percezione del tempo non
coincide con la sua misura oggettiva.
Lungo è il tempo dell’attesa, lunghissimo il tempo del dolore, brevissimo quello della gioia e così via. Il futuro risente
particolarmente, per la sua natura di
attesa, delle modificazioni psicologiche.
Da giovani si ha la sensazione di disporre di un tempo infinito; da vecchi il
futuro sempre più si chiude, il suo orizzonte estremo si avvicina minaccioso.
Non vi è più molto da aspettarsi, non ci
sono modificazioni possibili, esperienze
radicalmente nuove, tutto sembra già
sperimentato e sembra ripetersi sempre uguale. Così il tempo futuro letteralmente si chiude, quasi svanisce e si
vive alla giornata. Se invece incombono
pericoli e minacce, il futuro appare appunto minaccioso e oscuro, come se non
vi fossero più altre possibilità. Del resto
il tempo si rivela sempre oscuro se viene
indagato con preoccupazione esclusiva
e con un eccesso di timori circostanziati. Si vede allora quanto è vero che il
futuro non è; non ne sappiamo niente,
in realtà, e ogni previsione è assai più
significativa di colui che cerca di prevedere che non delle cose che si vorrebbero previste.
tele definiva “numero del movimento”: il
tempo, appunto, esteriorizzato e tradotto
in una successione di tacche numerabili
(un giorno, due giorni, la settimana, il
mese, l’anno). Va da sé che questa tempografia, mentre innesca la possibilità
di annotare il passato, insieme genera
l’attesa del futuro, con tutte le coloriture psicologiche possibili, a partire dalla
certezza generica della morte e dalla incertezza inquietante del suo quando.
ECONOMIA
Una illusione ricorrente è quella di immaginare il tempo come una dimensione a sé, come una realtà assoluta e oggettiva, dimenticando che è l’esperienza
umana a conferire al tempo questi caratteri di universalità oggettiva, attraverso i processi di “tempografia” che
ho accennato sopra. In questo senso è
l’esperienza del presente che costruisce,
a partire da sé, sia il passato ricordato sia il futuro immaginato. Un uomo
del paleolitico non ha lo stesso passato
di un uomo del neolitico, un uomo appartenente a una cultura priva di scrittura alfabetica e che concepisce il tempo solo in relazione al movimento del
cielo e al ritorno ciclico delle stagioni,
non concepisce il passato come noi, che
apparteniamo a un’umanità storica e
scientifica, che abbiamo scritto nei libri
il nostro passato e misurato matematiFILOSOFIA
FILOSOFIA
IMPARARE SEMPRE
camente i tempi della natura. Nel nostro
futuro sta pertanto un passato ben più
articolato e ricco, ma soprattutto un
passato che altre umanità non hanno
saputo di avere o che, più propriamente,
di fatto non avevano come oggetto della
loro esperienza memorativa e temporale.
Ne deriva che il senso del passato e del
futuro appartiene alla nostra responsabilità largamente culturale e umana,
poiché il passato e il futuro in un certo
senso si costruiscono e si promuovono.
per esempio, solo informazione, non
ci sono personalità capaci di elaborare un futuro efficace, personalità che
saranno quindi prive letteralmente di
futuro. In altri termini: ciò che si deve
essenzialmente insegnare per costruire
il futuro è la conoscenza il più possibile ricca e partecipativa del passato.
Esattamente il contrario della direzione
che le nostre scuole in Occidente vanno
prendendo da tempo.
La quantità e qualità delle occasioni
Il futuro dipende da una combina- disponibili pro capite è, a mio avviso,
zione infinita e del tutto imprevedibile il segno del livello democratico e prodi elementi. Una formazione rivolta ai gressivo di una società. Ho argomentagiovani, cioè ai protagonisti, in senso to e illustrato questo principio nel mio
attivo e passivo, del futuro, credo che libro Del viver bene. Ciò che oggi appadebba preoccuparsi anzitutto di tre re come il problema principale, ovvero
cose: stabilire quali mete, quali scopi il ridursi delle possibilità di trovare un
e valori siano preferibili e opportuni, lavoro, è solo un aspetto superficiale di
un fenomeno assai più
per sé e per gli altri;
radicale e profondo. Lo
poi quali siano gli
"Nel nostro futuro
si potrebbe esprimere
strumenti più idonei
sta
un
passato
più
così: il lavoro indualla loro maturaziostriale messo in atto
ne e realizzazione;
articolato e ricco,
dalla esperienza del
infine, di quali forun passato che altre
capitalismo occidenze si possa disporre
umanità
non
hanno
tale, tradotto in voper sopportare l’inelano mondiale dell’evitabile
fallimento,
saputo di avere"
conomia, ha inteso
totale o parziale, dei
ridurre il valore futupropri propositi e del
futuro immaginato. Direi che è sopra- ro semplicemente a quantità di denaro
tutto questo terzo punto che mi inte- disponibile. L’intera produzione della
ressa come educatore. Bisogna disporre vita futura si è concentrata sulla noziodi una salda e matura personalità per ne di merce e di scambio di merci, dove
affrontare la vita che verrà; dobbiamo il denaro finisce appunto per essere la
avere ben chiaro che il futuro che im- merce per antonomasia o addirittura l’umaginiamo è sicuramente parziale, e nica merce vera e propria (infatti la properciò erroneo, ingiusto e insufficien- duzione decide di rivolgersi quasi esclute; che dovremo necessariamente con- sivamente a prodotti riducibili in merci
frontarci con le vite degli altri e con gli e cioè scambiabili con denaro: ciò che
avvenimenti imprevisti della società e non produce denaro è considerato “fuori
della natura. Solo chi è ben piantato su mercato”, come appunto si dice). Questa
una formazione profonda, ricca pro- maniera di organizzare il presente in viprio per ciò di senso e di conoscenza sta del futuro (nella sempre più diffusa
del passato, può affrontare con qualche indifferenza nei confronti del passato,
successo le sfide del futuro, elaborando compreso quel passato che è la natura
positivamente le inevitabili sconfitte e nei suoi cicli annuali) ha indubbiamenresistendo alla dispersione e alla disso- te prodotto nel tempo una considerevoluzione. Per questo dove non è forma- le quantità di ricchezza e un benessere
zione nel senso vero della parola, ma, generalizzato prima inconcepibili per
DEMOGRAFIA
ANTROPOLOGIA
PSICOLOGIA
59
abcdefghilmno
FILOSOFIA
alcune parti di umanità sul pianeta. A
questi meriti oggi però si aggiungono
devastazioni, ingiustizie e cecità fortemente negative e destabilizzanti. Ecco perché la nuova misura
"Ogni essere umano
della effettiva ricchezza del genere umano, cioè degli abitanti
deve disporre delle
attuali del pianeta, non si può e
occasioni necessarie
non si deve più misurare in tera diventare umano"
mini di prodotto interno lordo o
di riserve di denaro nelle banche: tutto ciò non sta evitando
l’impoverimento progressivo di sempre
maggiori masse di umanità e la devastazione sciagurata e mortuaria delle
risorse naturali del pianeta. Ciò che è
davvero importante è invece la diffusione equa e solidale delle possibilità
future per l’intera popolazione. Ogni
essere umano deve disporre delle occasioni necessarie a diventare, appunto,
"umano", cioè realizzato nelle sue esigenze più profonde, più originali e più
vitali: è interesse di tutti che ciò accada. Queste esigenze non sono affatto
misurate o definite dall’entità del “consumo” (quindi di nuovo da una mentalità che non sa vedere oltre il mercato
mondiale delle merci e degli interessi
del capitale finanziario). Direi che siano piuttosto misurate dalla quantità di
vita che esse sono in grado di salvaguardare e di promuovere, perché agli
umani è davvero affidato oggi il futuro
del pianeta e di tutti i suoi abitanti, delle piante come degli animali che hanno
in noi la loro salvezza e il loro destino.
•••
E noi con loro.
Foto: Eligio Paoni/Contrasto
60
ECONOMIA
FILOSOFIA
DEMOGRAFIA
IL PESO
del DOMANI
di Alessandro Rosina
Professore associato di Demografia
all'Università Cattolica di Milano
L’
inclinazione al mutamento
della gioventù, più che a fattori biologici o allo spirito di avventura, deriva soprattutto dal
non assumere come dato di fatto l’ordine
vigente. Chi è giovane non ha interessi
precostituiti, può dunque identificare la
propria sensibilità con i nuovi problemi della collettività. Le giovani generazioni crescono assieme al mondo che
cambia. Trovano nel loro cammino gli
stessi ostacoli che trova il cambiamento. Ne sono quindi i migliori interpreti e
alleati. Rappresentano quella parte della
popolazione che può trovare soluzioni
innovative alle nuove sfide. A differenza del passato, le giovani generazioni
italiane stentano però oggi a prendere
in mano il proprio destino e con esso
quello del Paese. Se l'Italia risulta economicamente e socialmente immobile è
anche perché i giovani non riescono a
porsi al centro del cambiamento, sono
diventati una forza debole e timida.
Un ruolo, in questo impoverimento
dell’energia giovane nella società italiana, l’ha avuto l’invecchiamento della popolazione. La cosiddetta “piramide
demografica” è profondamente cambiata
negli ultimi decenni. Complessivamente la fascia di età 15-34 subirà la sua
fase di più accentuata contrazione tra
il 1990 e il 2020, con un calo stimabile
attorno ai 5 milioni. In termini relativi
da un'incidenza pari al 31% sul totale
della popolazione si scenderà a poco più
del 20%. Quello che stiamo vivendo è
un processo di progressivo “degiovaniDEMOGRAFIA
Il nostro Paese investe poco sui giovani,
li sostiene in modo insufficiente
attraverso il sistema di welfare e spende
meno degli altri per la ricerca.
Bisogna trovare il modo per far contare
di più il futuro che essi rappresentano
mento”, ovvero di riduzione strutturale
del peso demografico dei giovani, a cui
però si associa anche una contrazione
generalizzata della presenza delle nuove
generazioni nella società, nell’economia,
nella politica. Mai i giovani sono stati
così pochi e hanno contato così poco. In
termini di spesa sociale siamo uno dei
Paesi che meno investe nella voce “famiglia e figli” e nelle voci che riguardano direttamente i giovani (disoccupazione, casa, esclusione sociale): il dato
Eurostat riferito al 2008 (il più recente
disponibile con dati comparativi), indica
per l’Italia un valore pari a 1,9% sul PIL
contro il 4,3% dell’Eu-27. Secondo una
ricerca OCSE del 2010, l’Italia è poi uno
dei Paesi in cui il reddito dei figli è maggiormente correlato a quello dei padri.
ANTROPOLOGIA
PSICOLOGIA
61
62
abcdefghilmno
Un sistema che incentiva i figli a contare
solo sull’aiuto dei genitori è il peggior
welfare possibile. Accentua infatti l’assistenzialismo passivo e riproduce le disuguaglianze sociali. L’elevato numero dei
Neet (Not in Employment, Education or
Training, vedi anche l'articolo Né sui libri, né al lavoro), ovvero dei giovani che
se ne stanno in inoperosa attesa senza
studiare o lavorare, è possibile solo in
un paese nel quale non esiste un welfare attivo e nel contempo si può prolungare sine die la fruizione passiva delle
risorse private di padri e madri. Risorse
che però la crisi sta intaccando pesantemente. Intervenire
sul welfare è cruciale,
ma sono altrettanto
- forse ancor più importanti azioni di
promozione, ovvero
di investimento sul
capitale umano e sulla sua valorizzazione.
Dati coerenti con i limiti del sistema paese nel promuovere le
capacità delle nuove
generazioni sono, in
particolare, quelli del
basso investimento
in ricerca, sviluppo e innovazione.
Per questa voce noi
spendiamo un terzo
in meno rispetto alla
media europea. L’innovazione è elemento
essenziale del circolo
virtuoso che spinge al rialzo sviluppo
economico e lavoro. Ed è soprattutto
l’occupazione dei giovani a essere legata alle opportunità che si creano nei
settori più dinamici e tecnologicamente
avanzati. La combinazione tra riduzione
quantitativa dei giovani e scarsa valorizzazione del loro capitale umano può
quindi essere considerata uno dei principali fattori di depressione sociale ed
economica del Paese. Ma molto ridotta
è anche la presenza delle nuove generazioni nella politica e, più in generale, ai
ECONOMIA
vertici delle professioni, nell’università,
nella classe dirigente italiana. Scrive
Carlo Carboni (Potere stravecchio, i giovani fuori, Reset, marzo-aprile 2010),
uno dei maggiori esperti sul tema: “Le
nostre élites appaiono non solo aver
bloccato i boccaporti di un loro ricambio
regolato, ma ostentare scarso vitalismo e
dinamicità (ad eccezione di alcune componenti economiche imprenditoriali di
‘quarto capitalismo’). Insomma comanda la gerontocrazia”. Secondo i suoi dati,
nel 1990 l’età media dell’élite era di 51
anni, nel 2005 di circa 62. Un aumento
di 11 anni a fronte di una crescita della
speranza di vita, nello stesso periodo, di
circa 4 anni.
Come afferma inoltre Massimo Livi Bacci (Giovani alla riscossa, il Mulino, 2008)
la riduzione dello spazio verso le nuove
generazioni rende la società meno dinamica, fa prevalere forze arroccate “sulla
difesa delle posizioni e dei ruoli acquisiti
(…) avverse al rischio e a coloro (i giovani) che sarebbero più propensi a correrlo”, con conseguente ulteriore riduzione
dello spazio e delle prerogative delle
nuove generazioni e, quindi, anche delle
possibilità di crescita e prosperità futura.
Si sente sempre più spesso dire che le
nuove generazioni sono “senza futuro”.
Non è vero: il futuro prima o poi, implacabilmente, arriva. Quella in gioco
è la qualità della vita che ci attende
tra 10, 20, 40 anni. Dato che il futuro affonda le sue radici nel presente,
le premesse del vivere meglio o peggio nel breve e medio periodo dipendono dalle scelte che facciamo ora.
Chi non prepara bene il terreno oggi e
non semina con cura non può pretendere di raccogliere buoni frutti domani.
È un dato di fatto che da troppo tempo
in Italia non si semini bene, non si investa come si dovrebbe sui giovani. La
bassa mobilità sociale e la scarsa crescita
economica del primo decennio del XXI
secolo sono il coerente risultato di un Paese non in grado di predisporre e offrire
adeguati strumenti di protezione, promozione e partecipazione per i giovani.
FILOSOFIA
63
Foto: Olycom
DEMOGRAFIA
DEMOGRAFIA
ANTROPOLOGIA
PSICOLOGIA
64
abcdefghilmno
•Una giovane elettrice
al seggio per le elezioni
del Parlamento.
Foto: Marco Becker/Marka
> Non è un paese
per giovani,
di Alessandro Rosina,
Elisabetta Ambrosi,
Marsilio, 2009, 111
pag., 10 euro
> Il posto dei giovani
nella rivoluzione demografica,
di Alessandro Rosina,
in Polis 2/2009
Dare più peso al futuro significa dare
più consistenza a quella componente
della popolazione che al futuro è più
interessata, ovvero chi vivrà maggiormente le conseguenze, positive o negative, delle scelte prese oggi. Questa
componente è costituita dalle giovani
generazioni, il cui peso però, come abbiamo detto, si è drasticamente ridotto
nel tempo. Per compensare, almeno in
parte, tale alleggerimento sono possibili varie soluzioni. La prima è quella di
eliminare gli attuali vincoli anagrafici.
Se si concorda con il principio che non
devono essere i limiti di età a determinare le possibilità di poter o meno
accedere a una data posizione o una
data carica, ma solo i criteri del merito, delle capacità e della competenza,
ne deriva che non hanno alcun senso,
sono anzi iniqui, i vincoli anagrafici
attualmente presenti per accedere alla
Camera (25 anni) e al Senato (40 anni).
C’è, poi, chi non si è limitato ad abbassare
elettorato passivo e attivo a 18 anni, ma
ha fatto di più, come l’Austria, dove si è
ECONOMIA
deciso di far scendere a 16 anni l’età minima per votare. Ancor più radicale è invece la proposta di legare il peso del voto
all’aspettativa di vita residua. Dato che i
giovani hanno mediamente una vita più
lunga da vivere rispetto agli anziani, si
ottiene di fatto un riequilibrio della forza delle varie generazioni nell’elettorato.
Alla base non sta tanto l’idea che i giovani votino “meglio” (sul merito delle
scelte non si entra), ma semplicemente
l'idea che sono quelli destinati a vivere
e subire maggiormente nel tempo le implicazioni delle scelte elettorali di oggi
e delle decisioni politiche conseguenti.
Il principio è che sia giusto che conti di
più, ovvero sia chiamato a maggior responsabilizzazione, chi ha più da perdere o da guadagnare.
La ponderazione del voto individuale in
base all’aspettativa di vita può essere vista, quindi, come un modo per dare più
fiducia alle nuove generazioni e incentivarci come società a fare pesare maggiormente le valutazioni sulle implicazioni future delle scelte del presente. •••
FILOSOFIA
DEMOGRAFIA
di Silvia Paris
C
iclicamente l’attenzione pubblica torna a occuparsi dei giovani
e della loro esclusione sempre
più forte dalla partecipazione
alla vita economica e sociale del Paese.
Il tema è serio e riguarda non solo il destino di milioni di cittadini, ma il futuro
economico e sociale di un intero sistema. Infatti, come mostra il rapporto presentato il 23 ottobre 2012 da Eurofound
- la Fondazione della Commissione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro - in seguito alla
crisi è cresciuto in tutta Europa il tasso
di NEET, acronimo inglese utilizzato per
indicare i giovani che non lavorano, non
studiano e non si formano a una professione (Not in Education, Employment
and Training). Le differenze tra i Paesi
europei sono notevoli: nel complesso,
oggi si contano nell’Unione Europea
circa 7,5 milioni di giovani NEET su 60
milioni di ragazzi tra i 15 e i 24 anni, un
valore pari al 12,9%. Le nazioni più virtuose sono Paesi Bassi e Lussemburgo,
mentre le più colpite dal fenomeno sono
Bulgaria, Irlanda, Spagna e Italia.
All’Italia il rapporto Eurofound dedica
una scheda specifica. Un primo elemento di differenza riguarda la fascia di età
sulla quale calcolare il tasso di NEET: a
causa della maggiore durata degli studi
universitari, per il nostro Paese è opportuno riferirsi alla popolazione di età
compresa tra i 15 e i 29 anni, anziché a
quella, canonica, tra i 15 e i 24. Colpisce poi la forte differenza geografica tra
diverse aree del Paese: nel 2010 il tasso
DEMOGRAFIA
I ragazzi tra i 15 e il 29 anni a rischio di
esclusione lavorativa, educativa e formativa
sono in aumento. Ma quanti sono
i giovani inoccupati, perché rimangono
tagliati fuori e come coinvolgerli?
di NEET nel Sud era pari a 26,7%, nel
Centro-Nord al 14,9%. La natura endemica del fenomeno, che già prima della
crisi ci vedeva in cima alle classifiche
per numero di giovani inattivi, aumenta
poi il rischio che l’uscita dallo status di
NEET sia più difficile per i giovani italiani che per i coetanei di altri Paesi.
Ma quali sono i profili di questi giovani
e perché rimangono tagliati fuori? Dal
rapporto sul tema realizzato nel 2011 da
Italia Lavoro, emerge che i più colpiti dal
fenomeno sono i ragazzi con basso livello d’istruzione e che hanno abbandonato
precocemente gli studi: un gruppo più
ampio in Italia rispetto alla media europea, a causa anche della ridotta mobilità
sociale che caratterizza il nostro Paese.
E infatti, per i giovani che provengono
da famiglie con bassi livelli d’istruzione
la possibilità di compiere il percorso di
ANTROPOLOGIA
PSICOLOGIA
65
66
abcdefghilmno
DEMOGRAFIA
studi fino al raggiungimento di un titolo
universitario è scarsissima: solo il 7,5%
dei figli di genitori con al massimo la
licenza media ha una laurea, mentre è il
58,6% dei figli di laureati a raggiungere
lo stesso titolo. A complicare il quadro
c’è poi l’alta diffusione del lavoro nero,
che, se da un lato produce qualche possibilità di occupazione che agli occhi degli
osservatori rimane sommersa, dall’altro
contribuisce a scoraggiare ulteriormente i giovani italiani nella ricerca di lavoro. In questo quadro, su quali priorità concentrare gli sforzi? Le esperienze
condotte con un certo successo in altri
Paesi - come il Regno Unito - e l’analisi
delle specificità italiane suggeriscono di
intervenire sul contrasto all’abbandono
scolastico, sul rafforzamento dell’apprendistato e sull’incentivo alle imprese
per l’assunzione di giovani. Senza però
un’azione più trasversale di investimento nell’istruzione e nella ricerca, di lotta
al lavoro nero e di promozione delle pari
opportunità, questi interventi rischiano
di rimanere misure isolate e di non determinare quella ripresa che appare oggi
sempre più urgente.
•••
Esclusi, scoraggiati, in cerca: ecco chi sono
Il rapporto di Italia Lavoro 2011 ha raggruppato i NEET in quattro gruppi omogenei, in base alla loro
occupabilità e al loro atteggiamento nei confronti del lavoro.
Non disponibili a lavorare
Giovani non intenzionati o impossibilitati a lavorare, per lo più a causa di fattori sociali, vincoli
familiari, disabilità o malattia. Più della metà è tra i 25 e i 29 anni, tre quarti sono donne, e un quinto
è straniero. Risiedono in maggioranza nel Centro-Nord e hanno un livello d’istruzione molto più
basso rispetto alla media dei Neet. Quasi la metà del gruppo non è disponibile a lavorare perché
in maternità, si prende cura dei figli o di altre persone non autosufficienti o per altri motivi familiari.
Scarsamente occupabili, non in cerca di lavoro
Ad alto rischio di esclusione sociale, uomini e donne in uguale misura, hanno i livelli di istruzione più
bassi e sono i più scoraggiati. In netta maggioranza italiani (90%), vivono per lo più nel Mezzogiorno
(80%). La principale causa di inattività è lo scoraggiamento.
Mediamente occupabili, non in cerca di lavoro
Giovani inattivi ma disponibili a lavorare che hanno conseguito un titolo superiore alla terza media.
C’è una percentuale di laureati molto più alta della media dei NEET. Quasi tutti italiani, tra i 20 e 29
anni, risiedono nel Mezzogiorno e sono in prevalenza donne. Più di un terzo si dichiara “in attesa
d'iniziare un lavoro o non immediatamente disponibile”. Altri non cercano lavoro perché scoraggiati
dallo scarto tra le loro competenze, spesso alte, e le opportunità di lavoro.
Mediamente occupabili, in cerca di lavoro
Quasi la metà è alla ricerca del primo lavoro, mentre il 34,8% è composto da ex occupati che hanno
appena perso un lavoro e che si sono immediatamente attivati per cercarne un altro. Un terzo di loro è
un disoccupato di lunga durata. Distribuiti in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale e dotati
di un livello d’istruzione più alto rispetto alla media, i membri di questo gruppo sono aumentati più
rapidamente degli altri a causa delle crisi.
ECONOMIA
FILOSOFIA
DEMOGRAFIA
DEMOGRAFIA
ANTROPOLOGIA
PSICOLOGIA
67
abcdefghilmno
ECONOMIA
Foto: Daniele La Monaca/Olycom
68
di Andrea Fumagalli
Professore di Economia politica
all’Università di Pavia
Tra precarietà
e risposte fuori
dal coro
ECONOMIA
FILOSOFIA
ECONOMIA
69
In Italia i giovani sono ormai di fronte a una vera e propria
trappola della precarietà, frutto delle politiche degli ultimi
quindici anni. Di fronte a questa situazione la capacità
di dare risposte originali e intelligenti non è però venuta
meno, come dimostrano due esempi degli ultimi anni:
San Precario e Serpica Naro
Il fenomeno dei giovani Neet
è un fenomeno sociale relativamente
recente ed è un indicatore del deterioramento del mercato del lavoro negli
ultimi due anni. In Europa, tra il 2008
e il 2011 la disoccupazione giovanile è aumentata di 7,8 milioni a livello
globale, rispetto a un incremento complessivo del numero di disoccupati di
DEMOGRAFIA
Foto: Alessandro Canova/Marka
S
iamo da quattro anni in crisi
economica, la peggiore crisi dagli inizi del Novecento, superiore, oramai, per intensità e durata
alla grande crisi degli anni Trenta del
secolo scorso. Gli effetti sul mercato del
lavoro e in particolare sulla nuova generazione cominciano a farsi sentire. Il
peana dei media cerca, inutilmente, di
addolcire la pillola tra parole di conforto
e di pietà, raccontando numerosi casi di
giovani (e meno giovani) che cercano in
qualche modo di districarsi e sopravvivere nella miseria quotidiana (non passa
giorno che in qualche programma televisivo non venga riproposto il “racconto
della sfiga”) e parole di reprimenda contro il supposto lassismo delle nuove generazioni poco disponibili al sacrificio e
a rimboccarsi le maniche di fronte alle
avversità (fannulloni, bamboccioni ecc.).
28,9 milioni (dati ILO). Inoltre, la nuova fase recessiva che si sta verificando
all’indomani del biennio di recessione
(2008-2009) rischia di produrre preoccupanti effetti di lungo periodo sulle
dinamiche del mercato del lavoro giovanile. In primo luogo, molto probabilmente porta a ritardare l’ingresso nel
mercato del lavoro dei giovani e a prolungare la permanenza nel periodo di
istruzione anche di quelli meno inclini
agli studi. In secondo luogo, le deboli
condizioni economiche potrebbero renANTROPOLOGIA
•Immagini dalle sfilate della
Mayday Parade, il Primo
maggio dei lavoratori
precari organizzato ogni
anno a Milano.
PSICOLOGIA
70
abcdefghilmno
ECONOMIA
San Precario, proteggici tu
San Precario è il patrono dei precari e delle
aperto un corteo festoso composto da centomila
precarie e rappresenta la loro intelligenza. San
precarie e precari. Da allora è stato usato,
Precario è una mirabolante creazione precaria,
moltiplicato e santificato da decine di gruppi
un'espressione libera e indipendente da ogni
di lavoratori, ha sbancato in rete, è sceso in
partito e sindacato. L'idea del santo è sorta
piazza in tutta Italia, ha protetto i suoi
durante un’assemblea
fedeli e fatto tremare
dei lavoratori
i loro sfruttatori.
precari a Trento il
San Precario è
18 gennaio 2004;
l'icona pop della
poi è stata declinata
generazione precaria.
dal collettivo di
Da alcuni è temuto,
Milano Chainworkers
da molti venerato.
insieme ai lavoratori
Il suo santino è
del Comune di
il più diffuso nei
Milano, dell'Auchan,
portafogli dei precari.
del Piccolo Teatro
San Precario è il
e da fratelli e sorelle
protettore di chi lavora
sparsi per tutta Italia.
per un sottosalario,
San Precario è nato e
di chi soffre le
apparso per la prima
conseguenze di un
volta la domenica
reddito intermittente
del 29 febbraio 2004
ed è schiacciato da
in un Ipercoop di
un futuro incerto
Milano, ma la sua
che ci accomuna
definitiva consacrazione è avvenuta durante
tutti: commessa e programmatore, operaio
l'Euromayday, la manifestazione del Primo
e ricercatrice. San Precario è irriverente,
maggio precario che da più di dieci anni porta
beffardo e offensivo, e poi è anche bisestile,
in piazza i precari d'Europa. Lì il santo ha
visto che è nato il 29 febbraio.
Guarda il video
di Andrea Fumagalli
che racconta la nascita
di San Precario
http://link.pearson.it/EB2D0E0A
dere difficile il periodo di transizione
dall’istruzione al mercato del lavoro,
con il rischio che un maggior numero
di giovani rimanga intrappolato in più
lunghi periodi di disoccupazione e in
lavori precari e mal remunerati (trappola della precarietà). Infine, le riforme,
che, in base a una logica di austerity
e dettate dalla necessità di fare “casECONOMIA
sa” (sicuramente non a favore di chi è
maggiormente colpito dalla crisi), hanno interessato il sistema previdenziale
in molti Paesi europei, hanno portato
un aumento dell’età pensionabile, e, di
conseguenza, hanno ristretto i già carenti spazi di ingresso dei giovani nel
mercato del lavoro, riducendo il turnover generazionale.
FILOSOFIA
ECONOMIA
DEMOGRAFIA
ANTROPOLOGIA
Foto: Riccardo Schito/Olycom
Le persone giovani sono, quindi, più
vulnerabili in tempo di crisi. L’esistenza di molte tipologie contrattuali atipiche e precarie, dove la possibilità di
sviluppare processi di apprendimento
sono assai scarse proprio per l’intermittenza lavorativa, rendono i giovani
meno competitivi sul mercato del lavoro. Inoltre, l’inesperienza in termini di
ricerca di lavoro e limitate risorse finanziarie costringono i giovani a dover contare sulla famiglia di origine
(qualora disponibile) durante il periodo
di ricerca di lavoro. Questi fattori di
vulnerabilità caratterizzano la popolazione giovanile indipendentemente
dalla fase del ciclo economico, sebbene
lo svantaggio giovanile tenda ad acuirsi in periodi di recessione. Altresì,
l’intensità dell’impatto della crisi sul
mercato del lavoro giovanile varia in
misura significativa con il contesto so- il proprio percorso di studi. Mentre i
cio-economico e le risposte di politica giovani tra i 15 e i 24 hanno un’incieconomica dei diversi Paesi. All’inter- denza di Neet di meno del 18%, i giono dell’Unione europea, per esempio, vani-adulti (tra i 25 e i 30 anni) hanno
ci sono Paesi come la Francia e l’Ita- un tasso dieci punti percentuali più
elevato. La maggiolia dove attualmente
ranza dei Neet sono
quasi un giovane su
"Le persone giovani
inattivi, ma colpisce
tre è disoccupato, opl'elevata percentuale
pure la Spagna dove
sono più vulnerabili
di giovani disoccupiù del 40% di loro è
in tempo di crisi.
pati di lunga durata
senza lavoro.
L’esistenza
di
molte
rispetto a quelli di
Secondo i dati raccolti
breve durata. La pernel Rapporto sul mertipologie contrattuali
centuale dei giovani
cato del lavoro 2010-11
atipiche e precarie,
Neet aumenta quindi
del Cnel, in Italia il
rendono
i
giovani
con l’età: la causa non
fenomeno dei Neet è
è semplicemente spie«particolarmente difmeno competitivi sul
gabile dalla percenfuso tra i “giovanimercato del lavoro"
tuale di disoccupati
adulti” (25-30 anni),
e degli inattivi scopiù che tra i “giovanigiovani” (15-24 anni)». I più giovani, raggiati o marginalmente attaccati al
infatti, sono prevalentemente impegna- mercato del lavoro, che rappresentano
ti ancora nel percorso scolastico, la cui una quota sostanzialmente costante del
durata è aumentata (non solo perché complesso dei giovani dopo i 20 anni.
è stato innalzato l’obbligo scolastico, Ciò che è invece degno di nota è la
ma anche perché c’è una crescente quota di inattivi completamente uscipropensione a una maggiore scolarità). ta dal mercato del lavoro che aumenta
È invece tra le fasce di età successive al crescere dell’età. I giovani in queche si osserva il problema dell’inseri- sta condizione (circa 30.000 persone)
mento nel mercato del lavoro, giacché rappresentano circa il 6% dei ventenla maggioranza di questi ha concluso ni, ma tra i giovani-adulti il loro peso
71
PSICOLOGIA
72
abcdefghilmno
ECONOMIA
Serpica Naro: alta moda in forma precaria
Serpica Naro si impone a livello mediatico internazionale durante la Settimana della Moda del
febbraio 2005. Residente a Tokio, Serpica Naro è una giovane designer anglonipponica, che
grazie a un profilo seducente e trasgressivo, non fatica a essere inclusa nel calendario della
più ambita vetrina modaiola italiana. Laureata al Bunka Fashion College, conquista gli addetti
ai lavori per la scelta di tessuti high tech, di avveniristiche tecniche di taglio che contemplano
l’invenzione del mascheramento, e per l’uso spregiudicato di
tessuti rifrangenti e fasciature nelle collezioni moda. Ma il vero
potenziale di Serpica Naro è la sua vita di trasgressione vissuta a
cavallo tra Londra e Tokyo, il legame viscerale con l’underground.
Alla vigilia di febbraio, il suo nome non conosce confini:
Giappone, Corea, Hong Kong.
La Settimana della Moda comincia, i riflettori si accendono.
E Serpica Naro, carnefice e vittima della sua indole irriverente,
incarnazione dell’immaginario del lusso e della lussuria più
sfrenata, non resiste e continua a far parlare di sé. Tenta prima
di affittare uno dei più importanti centri sociali milanesi per
la sua sfilata, pretendendo un ambiente suburbano adeguato
alla sua collezione, e successivamente lancia negli ambienti
omosessuali un appello di reclutamento di persone affette
dal virus dell’Hiv per fungere da mannequin.
E Milano si scalda, perché centri sociali e movimenti gay
annunciano un’agguerrita manifestazione per impedire a questa
icona di un’industria del lusso disumana e arrogante, di sfilare
impossessandosi dell’esistenza e dell’essenza umana per renderla
mostra e spettacolo. Esplodono azioni di protesta contestualmente
alle sfilate di Prada e di Laura Bagiotti. Ma Serpica Naro in realtà
non esiste. Il nome dell'inesistente stilista è l'anagramma di
San Precario, il falso protettore dei lavoratori precari inventato
un anno prima dagli attivisti della crew Chainworkers.
Guarda il video sulla collezione
di Serpica Naro
Esiste tuttavia la sua collezione di abiti, che viene presentata
con tanto di approvazione della Camera della Moda. Sulle
passerelle, otto applauditissimi modelli che rappresentano con
sarcasmo alcuni aspetti della precarietà: abiti che nascondono la
maternità per non essere licenziate, gonne anti-mano morta piene di trappole
per topi, minigonne sexy per fare carriera più in fretta, abiti da sposa per
donne senza cittadinanza italiana, tute da lavoro che nascondono il pigiama,
per essere sempre pronti a lavorare notte e giorno; abiti double face per chi fa
due lavori e quelli antistress per quando sei sfinito dalla fatica, le magliette
con il numero dei giorni che mancano al licenziamento.
http://link.pearson.it/9C2A3E9C
ECONOMIA
FILOSOFIA
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Foto: Riccardo Schito/Olycom
ECONOMIA
sale al 10% circa, e in valore assoluto
il loro numero tra i trentenni è quasi
il doppio di quanto osservato tra i più
giovani. Il fenomeno della crescita con
l’età dei giovani che si dichiarano ormai distaccati dal mercato del lavoro
rappresenta – al pari degli scoraggiati – un’altra anomalia del mercato del
lavoro in Italia. Viene pertanto spontaneo chiedersi se questo fenomeno non
sia la conseguenza di lunghi periodi di
mancanza di occasioni di lavoro che
alla fine scoraggia in modo definitivo
dal cercare e dal rendersi disponibile
per qualsiasi tipo di attività lavorativa,
o che può spingere a entrare nell’economia sommersa. Di fatto in Italia siamo in presenza di una vera e propria
trappola della precarietà. Dopo anni di
peana mediatici a favore della flessibilità contro una presunta rigidità del
lavoro che penalizzava – secondo i meDEMOGRAFIA
dia dominanti e servili – soprattutto le
giovani generazioni, ci troviamo ora
in una situazione in cui, in assenza di
qualsiasi struttura di welfare diretto (a
quando un reddito minimo garantito in
Italia?), la flessibilità si è tragicamente
trasformata in precarietà, ricatto, invisibilità, povertà crescente, subordinazione, fuga dei cervelli. Non c’è che
dire, un ottimo risultato di 10-15 anni
di politiche demagogiche del lavoro,
condotte da governi di diverso segno
e da sindacati compiacenti! A fronte di
questa situazione, negli ultimi anni si
sono però manifestati segnali opposti,
segnali volti a evidenziare il sorgere di
forme autonome di contrasto alla precarietà pur all’interno della precarietà
stessa, come dimostrano le manifestazioni per il Primo maggio dei precari, la
nascita di San Precario e della stilista
Serpica Naro.
•••
ANTROPOLOGIA
PSICOLOGIA
abcdefghilmno
ECONOMIA
Tre miti
giovanili
da sfatare
Intervista
a Stefano Zamagni
di Paolo Magliocco
ECONOMIA
FILOSOFIA
Foto: Karl Johaentges/Olycom
74
ECONOMIA
I
l tema delle differenze tra generazioni non è tipico di questa fase di
sviluppo, spiega il professor Zamagni, economista che da molto tempo
guarda alle nuove forme di organizzazione dell'attività umana. La differenza
è che oggi il fenomeno ha subito un'accelerazione ignota alle epoche precedenti: le transizioni del passato avvenivano
a un ritmo talmente lento da consentire
all'intera società e alle sue istituzioni
di aggiustarsi al cambiamento, mentre
oggi i mutamenti sono più rapidi della
capacità di adattamento. «Io ritengo che
la crisi economica che stiamo attraversando ha accentuato e ancor più accelerato il processo, ma la trasformazione
ha cominciato a produrre i proprio effetti un quarto di secolo fa. In una prospettiva storica, è bene ricordare che questi fenomeni si sono già realizzati, dal
Medio Evo all'Evo Moderno e dall'Evo
Moderno a quello Contemporaneo. Oggi
si tratta della transizione dalla società
industriale a quella post industriale».
Professore, Che cosa comporta
questa transizione?
Per capire le sfide per il presente e il
futuro che la generazione dei giovani
si trova ad affrontare, bisogna guardare a tre miti che caratterizzano oggi la
condizione giovanile. Il primo mito e la
prima sfida riguardano la tecnologia. Il
mito tecnologico fa credere che tutto ciò
che è tecnicamente realizzabile, possa e
debba essere davvero fatto. Sappiamo
bene, invece, che gli strumenti che le
conoscenze mettono a disposizione non
necessariamente è bene che si traducano
in atti concreti. Bisogna chiarire ai giovani che il fatto che siano nelle condizioni di avere accesso a una quantità di
informazioni senza paragone nel passato, non significa automaticamente che le
loro capacità cognitive e riflessive siano
aumentate nella stessa proporzione. I ragazzi oggi sono bombardati da informazioni che non costituiscono conoscenza,
che non si trasformano in conoscenza
perché questo richiede una capacità di
assimilazione che ha bisogno di tempi
DEMOGRAFIA
Siamo di fronte a un passaggio
epocale, che però oggi avviene con
una velocità molto maggiore rispetto
al passato, dice Stefano Zamagni,
economista, docente universitario
ed ex presidente dell'Agenzia per il
terzo settore. Per adattarsi, le nuove
generazioni devono cambiare il
proprio rapporto con la tecnologia,
con le proprie capacità e con la
cultura utilitarista
diversi. Questo spiega le frustrazioni e
le nuove sindromi anche psicologiche
che si stanno manifestando. Il secondo
mito riguarda le capacità dei giovani e
la sfida consiste nel passaggio dalla capacità alla capacitazione. Nella lingua
inglese esistono due termini, capacity
e capability, che in italiano possiamo
tradurre come capacità e "capacitazione". La capacitazione è la capacità che si
traduce in azione. I nostri giovani hanno molte più capacità dei giovani delle
generazioni passate, ma hanno minore
capacitazione. Hanno meno possibilità
di tradurre in azione le loro conoscenze e capacità, che restano quindi allo
stato potenziale. Bisognerebbe modificare l'impianto del sistema scolastico e
universitario. Perché la nostra scuola,
soprattutto quella italiana, dà capacità,
ma non dà capacitazione. È una sfida
ANTROPOLOGIA
PSICOLOGIA
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ECONOMIA
ECONOMIA
FILOSOFIA
ECONOMIA
DEMOGRAFIA
ANTROPOLOGIA
PSICOLOGIA
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ECONOMIA
che riguarda i giovani, ma che chiaramente coinvolge la classe dirigente e la
classe politica. Il problema non è cambiare i programmi scolastici, bensì far
fare esperienza lavorativa ai giovani sin
dalla scuola superiore.
Qual è il terzo mito?
La terza sfida è quella che
riguarda il mito dell'Homo
economicus, ovvero dell'utilitarismo. La cultura individualista di oggi, che
ha soppiantato la matrice
culturale
comunitarista
che prevaleva in passato,
ha prodotto indubbi risultati positivi, ma ha determinato anche una situazione in cui il giovane oggi
è ossessionato dalla preoccupazione di
non riuscire a raggiungere le proprie
mete. Il messaggio dell'individualismo è
che ognuno debba farcela con le proprie
“I nostri giovani hanno
molte più capacità dei
giovani delle generazioni
passate, ma hanno meno
possibilità di tradurre in
azione le loro conoscenze e
capacità, che restano quindi
allo stato potenziale”
forze, ognuno è responsabile del proprio
destino. Questo costituisce uno stimolo e
un incentivo a migliorarsi, a impegnarsi
di più, a responsabilizzarsi, ma rischia
anche di aumentare la frustrazione e
soprattutto il senso di impotenza. Se a
un giovane viene detto che ha il proprio
destino nelle mani, che deve puntare
e contare sulle proprie forze, nel caso
in cui non riesca a raggiungere i propri obiettivi c'è il rischio che vada incontro a una autodistruzione della sua
personalità. Il mito dell'individualismo,
dell'uomo individualista, oggi è la minaccia più grave che incombe sui giovani. Dai risultati delle ricerche empiriche
emerge che i giovani di oggi sono meno
felici dei giovani del passato. E con riferimento alle diverse coorti di età, i giovani sono, a parità di tutte le altre condizioni (ceto, istruzione ecc.) meno felici
dei meno giovani. L'indicatore sintetico
di felicità è più basso tra i 18 e i 30 anni
che non tra i 30 e i 60 anni.
•In queste pagine:
i murales A better world e
Around the world realizzati
dagli studenti del liceo
artistico Boccioni di
Milano nell'ambito del
progetto di riqualificazione
urbana EscoAdIsola.
Foto: Nuova Acropoli- Progetto
EscoAdIsola www.escoadisola.it
ECONOMIA
FILOSOFIA
ECONOMIA
Che cosa si potrebbe o si
Dovrebbe fare per modificare
questa situazione?
Queste tre sfide devono essere vinte e
per farlo servono un'azione sia sociale
sia politica. Ci vuole una riforma della
scuola. Bisogna organizzare la nostra
società in modo da facilitare l'adesione
dei giovani a esperienze di tipo comunitario significativo durante gli anni
della scuola, dell'università, e anche
dopo l'università. Bisogna spiegare ai
giovani che se non mettono in pratica
il principio di reciprocità, per esempio attraverso forme di volontariato,
il mito dell'individualismo li distruggerà. Hanno molti più beni materiali
e molti meno beni relazionali. Hanno
tanti contatti e poche relazioni: Internet, Facebook, hanno aumentato i
contatti, ma non le relazioni. La terza
DEMOGRAFIA
implicazione riguarda la famiglia. La
famiglia è l'istituzione che per prima
e più di tutte sviluppa funzioni non
solo di tipo educativo, ma anche relazionale.
E bisogna affrontare il grande nodo
dell'armonizzazione dei tempi di lavoro e dei tempi di vita familiare.
Se spingiamo solo all'aumento della
partecipazione anche delle donne al
mercato del lavoro, che consente un
aumento del Pil e dei redditi delle
famiglie, e non prestiamo attenzione
al fatto che la famiglia vive di relazioni particolari, e racchiude i primi
rapporti tra generazioni, esaspereremo il problema. Dobbiamo cambiare
il modo di produzione. Bisogna che si
ricostituisca l'armonia tra le esigenze
dell'impresa e quelle della vita familiare.
•••
ANTROPOLOGIA
> Per un'economia a
misura di persona,
di Stefano Zamagni,
2012, Città Nuova, pag
96, 8,50 euro
> Economia ed etica.
La crisi e la sfida
dell'economia civile,
di Stefano Zamagni,
2009, La Scuola, pag
144, 9,30 euro
PSICOLOGIA
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ANTROPOLOGIA
IMMAGINARE
il FUTURO
di Sara Zambotti
Antropologa
dell’Università Milano Bicocca
per costruirlo
Bisogna aiutare i giovani a fare esercizio di esperienza immaginativa,
perché è propedeutica a una costruzione consapevole del futuro
proprio e dell’intera società. Ci vuole una vera e propria educazione,
che deve passare anche attraverso la scuola
R
icordare il passato serve per il futuro, così non ripeterai gli
stessi errori: ne inventerai di nuovi» GrouchoMarx. «Il futuro
influenza il presente quanto il passato» Friedrich Nietzsche.
Mi sono affidata a due citazioni illustri nel tentativo di tracciare i confini di un concetto così liquido, evanescente e pervasivo
come il futuro, che Sant'Agostino definiva «dimensione dell'anima».
Intangibile per la sua stessa inesistenza nel presente, il futuro è tuttavia molto influente e generativo nel determinare le nostre scelte.
Mi vengono in mente due immagini tratte dall'attualità. La profezia
sulla fine del mondo prevista questa volta per il 21 dicembre 2012, è
sintomo, come spiega il filosofo della scienza Telmo Pievani, di un bisogno umano di controllare l'indeterminatezza del futuro fissando in
modo arbitrario una data per esorcizzare il pensiero di una fine vera.
A pensarci, non lasciamo mai il futuro a se stesso, ma lo scandiamo
con una serie di contatori arbitrari (il calendario) e di riti di passaggio: l'educazione, il lavoro, il matrimonio ecc.
A quest'ansia di predizione e controllo, vorrei affiancare la fotografia
di uno dei tanti striscioni esposti nelle recenti manifestazioni studentesche: “Ci avete rubato il futuro". I giovani sanno che il loro futuro
non dipenderà solo dalla loro azione individuale, ma in larga misura
da una serie di opportunità e di diritti che devono essere costruiti
socialmente dagli adulti.
ECONOMIA
FILOSOFIA
ANTROPOLOGIA
Le proposte di due autorevoli studiosi contemporanei, Arjun Appadurai e
Marc Augé, ci indicano due importanti
dimensioni di una possibile antropologia del futuro: da una parte, il rapporto
tra immaginario e futuro, che tra l’altro riecheggia osservazioni presenti nel
numero 2 di questa rivista (vedi il dossier Immaginare, iS n. 2), dall'altra, la
distinzione tra futuro e avvenire.
IMMAGINARIO, FUTURO, AVVENIRE
In Modernità in Polvere, uno tra i primi tentativi di adattare la teoria antropologica classica alla trasformazione
del mondo globalizzato e mediatizzato
del XXI secolo, Appadurai, antropologo statunitense di origini indiane, introduce la categoria dell'immaginario
distinguendola da quella di fantasia.
La dimensione fantastica indica infatti, secondo Appadurai, una fuga dalla
DEMOGRAFIA
realtà, una ricerca consolatoria strettamente soggettiva; l'immaginario
prelude invece a una pratica sociale, a
un'azione, e si nutre di orizzonti storici, collettivi e sociali. Lo sviluppo delle
potenzialità dell'immaginario ha subito
nell'epoca contemporanea una sostanziale crescita sotto la spinta della diffusione dei mass media a livello globale.
In questo senso, l'antropologo considera come i modelli proposti dai media
aprono delle possibilità di trasformazione concreta della propria vita attraverso, appunto, l'opera dell'immaginario. La circolazione su scala globale di
film, romanzi, serie televisive e anche
musiche permette di entrare in contatto con traiettorie di vita altre dalle nostre, che si dipanano in contesti a volte
più virtuosi dei nostri. Immedesimarsi nelle vite di questi personaggi può
preludere a un'azione concreta, ovvero
ANTROPOLOGIA
•Un murale del progetto
EscoAdIsola a Milano,
intitolato Finis terrae.
Foto: EscoAdIsola
PSICOLOGIA
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ANTROPOLOGIA
ECONOMIA
FILOSOFIA
ANTROPOLOGIA
alla messa in pratica di un progetto di
emigrazione temporanea o permanente. In questo senso ogni trasformazione
futura è la conseguenza di un immaginario che si sviluppa nel presente.
Restando nel contesto dei flussi globali migratori, si ricordi, per esempio, il
ruolo esercitato dalle trasmissioni della
televisione italiana durante l'immigrazione in Italia dall'Albania alla fine degli anni Novanta. Un'altra distinzione
interessante in tema di futuro è quella proposta dall'antropologo francese
Marc Augé, che, nel suo recente saggio
Futuro, distingue tra futuro come dimensione individuale e avvenire come
dimensione sociale. In questo caso il
futuro rappresenta la traiettoria della vita soggettiva e, come tale, esso è
unico e originale. L'avvenire, invece, è
l'orizzonte collettivo ed è il risultato di
una serie di legami sociali; in questo
senso il richiamo degli studenti di cui
si è accennato all'inizio fa riferimento
alla costruzione dell'avvenire da parte
degli adulti di oggi, costruzione da cui
le giovani generazioni sono escluse da
un punto di vista decisionale sebbene
siano destinate a pagarne le conseguenze.
Imparare a immaginare
che cosa succederà
Combinando queste due prospettive
antropologiche, possiamo renderci conto di come l'opera dell'immaginario nel
presente è propedeutica a una costruzione consapevole del futuro (sul piano
individuale) e dell'avvenire (sul piano
collettivo). In questo senso, mi piacerebbe qui proporre l'idea di un'educazione
al futuro, ovvero della promozione di
percorsi nelle scuole o nelle organizzazioni lavorative in cui le persone siano
invitate a fare esercizio immaginativo,
a prefigurare alcuni scenari e scartarne altri, pensandosi così sempre di più
determinanti nell'influenzare ciò che
sta per accadere, per passare dal piano
della reazione a quello dell'azione. Sul
piano pedagogico, per esempio, quella
che è la nostra impostazione scolastica
DEMOGRAFIA
ancora in larga misura improntata su
un modello storicistico potrebbe essere
nutrita maggiormente di uno sguardo
rivolto al futuro, di un'interrogazione continua del
passato ma nell'ottica di
“I giovani sanno che il
una presa di consapevoloro futuro non dipenderà
lezza del disegno di futuro che si sta prefigurando.
solo dalla loro azione
Inutile sottolineare come
individuale ma in larga
tutto il percorso edumisura da una serie di
cativo sia un intervento rivolto al futuro, gli
opportunità e di diritti
alunni di oggi saranno i
che devono essere costruiti
cittadini di domani. Epsocialmente dagli adulti”
pure, la nostra società
(e qui parlo della nostra,
italiana) è caratterizzata da una distanza abissale tra il
tempo della formazione e quello in
cui i soggetti oggi in formazione diventeranno protagonisti del presente.
A scuola per legare
passato e futuro
è un problema generazionale che non
interessava i nostri padri e le nostre madri (di noi trenta-quarantenni) ma che
interesserà i nostri fratelli minori e i nostri figli, ovvero un ritardo nell'entrata
a pieno titolo nella vita sociale dovuto
alla crisi e alla scarsa mobilità sociale
che ci caratterizza. Quindi, da una parte,
il futuro deve diventare una prospettiva
vicina e prevedibile e la società deve disporre di modalità trasparenti e possibilità concrete di permettere agli individui
di vedere appagate le proprie fatiche costruttive. Dall'altra, la scuola può essere
il luogo dove i soggetti acquisiscono i
saperi (le arti, le scienze, la letteratura)
interrogandosi su come queste conoscenze sono strumenti in mano loro di
costruzione del futuro. Favorire un pensiero applicativo, immaginare l'effetto di
certe scoperte scientifiche sull'ambiente,
cercare nella storia, nella geografia e
nelle scienze sociali le tracce di un avvenire che si sta scrivendo, tutto questo
è un modo per insegnare a sentirsi protagonisti del futuro e di creare legame
con il presente.
•••
ANTROPOLOGIA
•La libertà è un futuro
senza l'etichetta del prezzo,
si legge su uno striscione
apparso durante una
manifestazione di studenti
a Londra.
Foto: Carl Court/AFP/Getty Images
> Futuro, di Marc Augé,
Bollati Boringhieri,
pag 138, 9 euro
> Identità Catodiche,
di Piero Vereni, Meltemi Editore, pag. 168,
17 euro. Sul rapporto
tra i mass media e il
processo di creazione
delle identità
PSICOLOGIA
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PSICOLOGIA
Alla ricerca di un nuovo
umanesimo
Per i ragazzi non c'è niente di più credibile che sentirsi dire che il
futuro è morto. Invece bisogna impegnarsi per capire come potergli
presentare la crisi e quale possa essere il loro ruolo per risolverla.
Perché solo loro potranno essere gli eroi che salveranno il pianeta
di Gustavo Pietropolli
Charmet
Psichiatra e psicoterapeuta,
è stato docente di Psicologia
dinamica ed è presidente
dell'Associazione Minotauro
ECONOMIA
FILOSOFIA
Psicologia
Q
uello che mi ha molto colpito
nell’esercizio della mia professione è stata la constatazione
che ciò che fa soffrire i ragazzi
non è il cumulo dei traumi
o delle inadeguatezze educative della
loro infanzia o preadolescenza, ma è
una complicata relazione con il futuro.
Li fa soffrire di più il futuro del passato. È un fatto denso di conseguenze,
per esempio professionalmente, perché
un conto è cercare di restituire passati
pensabili ed elaborabili sulla base dei
quali si possa costruire un’immagine di
sé o un progetto per il futuro, e un’altra
è pensare di dover fare un’incursione
nell’area della relazione delle persone
con il proprio futuro e verificare quali
inadeguatezze, sentimenti di esclusione, dolore l’adolescente provi. Da molti
anni ormai con il mio gruppo lavoriamo nella prospettiva di restituire ai
giovani futuri pensabili più che passati
tollerabili. È stato passare dagli studi di
archeologia agli studi di futurologia.
Può sembrare un modo di dire, ma è
una cosa molto concreta. I ragazzi nella fase dello sviluppo adolescenziale,
ma anche in quella del giovane adulto,
giustamente vengono definiti soggetti
in età evolutiva, perché avvertono moltissimo come proprio compito privato e
personale, oltre che come compito generazionale e di gruppo, quello di capire bene che cosa desiderano, che cosa
vogliono. Cercano di evitare di farsi
influenzare dalla sottocultura dei mass
media e dai modelli, dai genitori, dalla
Chiesa e dallo Stato per poter andare
alla ricerca di sé e su questo costruire
un poco alla volta un progetto di vita,
uno stile, la propria identità. Il problema nasce quando i ragazzi avvertono
di essere tagliati fuori, di non farcela,
di essere in una situazione di scacco.
Per esempio quando sentono di non essere ancora padroni della propria corporeità, di essere impediti dal proprio
corpo, che non li sostiene nella loro
marcia evolutiva, nella realizzazione
dei loro compiti. O di essere in ritardo
DEMOGRAFIA
in una qualunque area della loro marcia evolutiva, se hanno l’impressione
di essere ancora fermi nel processo di
separazione dalla mamma e dal papà,
di essere ancora molto figli e poco soggetti sociali, o sessuali. Allora nasce un
dolore particolare: assistere in diretta
alla morte del proprio futuro. Pensano
che non riusciranno mai ad avere fascino, ad attrarre lo sguardo del ragazzo o della ragazza che gli interessa, a
inserirsi nel gruppo ecc. E non ci riusciranno adesso, proprio ora.
Se hanno l’impressione che quando
entrano in classe è entrato l’uomo invisibile, tutto il progetto futuro viene
compromesso. Per l’età che hanno, per
la percezione drammatica che hanno,
ne deriva una depressione che non è da
perdita dell’oggetto d’amore, ma da perdita del sé, che è ammutolito e pieno di
vergogna. Questa situazione li fa molto,
molto soffrire. È un dramma grande. E
allora cancellano la rappresentazione
di un tempo futuro in cui si realizzerà
quello che desiderano, il loro talento,
in cui riusciranno ad amare e a farsi
amare. Eliminano la prospettiva della
crescita del futuro e si insediano in un
eterno presente. Diventano “presentificatori”. Rendono i giorni tutti uguali. I
compiti, la scuola, rappresentano scadenze e impegno verso un futuro che
non c’è. È una disperazione, un'assenza
di speranza. A un certo punto il dolore
per essere ridotti così li porta a compiere un gesto, a fare un'esperienza che gli
ridia il futuro o quanto meno che gli
faccia smettere di avere paura facendo
paura agli altri. Quindi azioni di solito violente o trasgressive, che sono il
sintomo e che attirano l'attenzione su
di loro.
La relazione con il futuro, la capacità
di sperare, è fondamentale. Da 14 anni
in poi il progetto futuro è superinvestito. Parlare del futuro ai ragazzi, agli
adolescenti e anche ai giovani adulti,
significa parlare della cosa per loro più
importante e anche più segreta, più
misteriosa, meno discussa, meno verANTROPOLOGIA
•Un ragazzo ospite di una
comunità per giovani
a Napoli.
Foto: Davide Monteleone/Contrasto
Nella pagina successiva,
una manifestazione di
studenti contro le politiche
per la scuola del Governo
a Palermo.
Foto: Giuseppe Gerbasi/Contrasto
PSICOLOGIA
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psicologia
balizzata. I ragazzi possono sviluppare futuro è morto. Gli educatori devono
un falso sé e apparire spavaldi e tron- portare verso il futuro, verso la conofi mentre in realtà si sentono piccoli e scenza, la verità.
spaventati. Adesso che una crisi cosid- Io ho prove certe che i ragazzi che non
detta economica, che in realtà è più una sperano più, che sono disperati, comcrisi etica e di sistema, getta ombre sul binano guai. Fino a ora li abbiamo
futuro, tutti quanti dovranno concor- potuti aiutare nella loro dimensione
rere a sostenere i ragazzi nella ricadu- individuale, personale, dell'irripetibile
ta che può avere la crisi non sul loro storicità di ciascuno. Ma se fosse colfuturo, ma sulla loro relazione con il pita un'intera generazione, che si confuturo, quindi sulle loro fantasie e sulle vince che non c'è più futuro, sarebbe
rappresentazioni, le ansie e i meccani- assai pericoloso. Non vedo nulla di più
smi di difesa per annullare la paura. urgente che dire che dobbiamo immaginare qualcosa che
Rispetto alle situaziovada oltre questa sini di crisi del passato,
tuazione e in cui la
oggi mancano le filo“Siamo stati travolti
qualità della vita possofie della speranza,
dalla nostra ignoranza
sa addirittura miglioil marxismo o il libedi prevedere il futuro.
rare. Se c'è una crisi
rismo o l'attesa della
vuol dire che c'era
rivelazione di un Dio,
E bisogna che glielo
qualcosa di profonche presentavano un
diciamo"
damente sbagliato nel
futuro come inevisistema precedente.
tabile e già visibile
Siamo stati travolti
e che ora sono tutte
morte. Senza queste filosofie della spe- dalla nostra ignoranza di prevedere il
ranza il passo che porta a rifugiarsi nel futuro. E bisogna che glielo diciamo.
presente è breve. Per ora a parlare di Gli adolescenti e i giovani adulti sono
questo ai ragazzi è quasi esclusivamen- in una fase in cui cominciano a lasciarte la sottocultura dei mass media, le si guidare nella vita dal sé sociale, dalla
cassandre che avvisano che saranno la sensazione di essere un soggetto anche
prima generazione nella storia dell'u- nella società degli adulti. È un processo
manità che avrà una qualità di vita di difficile, in cui devono mettere insiegran lunga inferiore a quella dei loro me fantasie infantili, narcisismo della
mamma e del papà, le aspettative del
papà e dei loro nonni.
È proprio vero che questa crisi gli ruba nonno e le loro, la scoperta del proprio
il futuro, la possibilità di lavorare in talento. Se da fuori il messaggio che gli
relativa sicurezza, di avere una natura arriva è che non c'è nessuna aspettatiancora a loro disposizione? Molti adul- va nei loro confronti, che non c'è nesti ne sono davvero convinti, anche se sun posto per loro, il rischio è grave.
nessuno ha le prove che questo sia vero.
Oppure bisogna presentare loro le cose Per la scuola è obbligatorio il compiin modo diverso? Io penso di sì. Io cre- to di elaborare il futuro, che non può
do che la scuola e la famiglia debbano essere un effetto indiretto dell'azione
scegliere come rappresentare ai ragazzi formativa. Ognuno deve mobilitarsi per
la crisi e quale possa essere il loro ruo- aiutare e favorire una soluzione della
lo. Perché chi manomette il futuro dei crisi che sia di radicale cambiamento.
giovani non compie un'azione educati- Non c'è nessuna possibilità di rimetva bensì un'azione per certi versi vio- tere le cose come erano. Per forza bilentissima, perché semina disperazione sogna trovare un'alternativa. E quelli
su un tema che è proprio il più caro ai che troveranno questa alternativa sono
ragazzi. Non c'è niente di più credibi- i ragazzini pluri-ripetenti che si aggile per i ragazzi che sentirsi dire che il rano negli istituti tecnici e nei cosidECONOMIA
FILOSOFIA
Psicologia
DEMOGRAFIA
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PSICOLOGIA
Quando la crisi appariva un’opportunità
Vittorio Foa, intellettuale e antifascista,
si chiedeva già anni fa quanto e come
l’esperienza di una generazione potesse
dare un contributo concreto e positivo
alle generazioni successive. Cosciente di
aver vissuto un’esperienza eccezionale,
come quella dell’opposizione al fascismo
e poi della guerra, Foa pubblicando molti
anni dopo le sue lettere ai genitori scritte
dal carcere si domanda: «Possono queste
lettere dire qualcosa a una ragazza o a un
ragazzo di vent’anni, l’età che più o meno
avevo io quando ho cominciato a scriverle?»
L’epoca della sua giovinezza era di grande
e profonda crisi, percepita però come
una grande opportunità di cambiamento
per l’intera società. Che cosa resta di
simili sentimenti oggi? Eppure, proprio
il sentimento è la chiave, dice Foa nella
prefazione che pubblichiamo
sul sito (http://link.pearson.it/24EAB3F),
attraverso la quale il contatto tra le
generazioni avviene e le esperienze si
trasmettono e restano vive.
detti licei. Dobbiamo avvertirli che gli
dobbiamo consegnare un compito strepitoso, eroico, narcisisticamente molto
ma molto soddisfacente. Che non è vero
che sono sfigati. Anzi. Noi non abbiamo avuto la possibilità di farlo, ma a
loro la storia chiede di salvare il pianeta. O ce la fanno loro o non ce la
farà nessuno. Loro sono i terrestri che
salveranno la Madre Terra. Sul sistema
economico e finanziario ci metteremo
d'accordo, ma prima bisogna salvare la
Terra. Può sembrare strano e non so
come sia successo, ma oggi i ragazzini
prima che italiani o europei o altro, si
sentono terrestri.
C'è un sentimento di responsabilità
nei confronti del pianeta. Ma la scuola
è in balia delle discipline, e le discipline
sono per loro natura rivolte al passato,
conoscono lo sviluppo della storia, della
geografia, della letteratura italiana e
così via. Sostengono che studiando bene
il passato si diventa cittadini del futuro.
I ragazzi ne dubitano. In una situazione
così grave bisogna mettere da parte lo
strapotere delle discipline e organizzare
un'area in cui ci si interessa attivamente del futuro e quindi dei grandi temi,
come i conflitti tra le religioni, la gloDEMOGRAFIA
balizzazione, la compatibilità. Ci vuole
un'area multidisciplinare di studio del
futuro e di quello che del futuro c'è già
nel presente, con dei significanti che
bisogna cogliere. Nessuna disciplina è
competente nel parlare del futuro, un'area che studi il futuro è per forza di cose
multidisciplinare. Bisogna attivare un
nuovo umanesimo multidisciplinare.
Se si riuscisse a fare questo, anche sperimentalmente, si riattiverebbe molto
la motivazione dei ragazzi allo studio,
che secondo me langue. L'impressione
dei ragazzi è che la scuola sia vecchia e
poco utile, perché non solo non li aiuta
nel presente, ma non li aiuta a capire
che cosa succede. Oggi il bisogno più
importante dei ragazzi è capire che cosa
sta succedendo e che cosa devono fare.
Sono sicuro che non sanno che cosa sia
la globalizzazione, non hanno una rappresentazione chiara, eppure loro sono
globalizzati. E non era mai successo che
gli adolescenti della Corea del Sud, del
Giappone, del Canada e della Francia si
assomigliassero: abbigliamento, colonna sonora, Internet, videogioco. E quindi anche gli ideali, il modo di gestire
la corporeità, la sessualità, l'amicizia,
il denaro, l'esplorazione, la notte. Sono
molto, molto globalizzati. •••
ANTROPOLOGIA
PSICOLOGIA
eppur si muove
di Simona Regina
90
eppur si muove
Il lavoro dei giovani con l'associazione
Libera, nata per diffondere la cultura
della legalità e contrastare quella
mafiosa. Gli incontri nelle scuole, i
progetti educativi, il premio intitolato
a Pio La Torre. E poi i campi estivi
realizzati sui terreni strappati ai clan,
veri laboratori di formazione civile
È
stato durante un incontro al liceo
classico statale di Lecce Giuseppe
Palmieri sulle stragi del 1992 che
Mattia, 17 anni, ha conosciuto Libera. E da allora sogna di iscriversi alla facoltà di Giurisprudenza e diventare magistrato
antimafia. «Marisa Capone quel pomeriggio
mi presentò con entusiasmo l'associazione di
cui era referente locale: le azioni che svolgeva, come si contrastavano le mafie nella lotta
sociale e soprattutto mi parlò di una manifestazione, che si doveva svolgere a breve:
quella del 21 marzo».
Ogni anno, infatti, il 21 marzo Libera celebra la Giornata della memoria e dell'impegno
per ricordare le vittime innocenti di tutte le
mafie. «Il primo giorno di primavera diventa
quindi il simbolo della speranza che si rinnova ed è anche occasione di incontro con
i familiari delle vittime» aggiunge Giuseppe
Parente, coordinatore del settore formazione di Libera. «Quest'anno ci ritroveremo
a Firenze, sabato 16 marzo, per un grande
corteo che sarà il frutto di un percorso che
ci vede al fianco di studenti, insegnanti e dirigenti scolastici per riscrivere, giorno dopo
giorno, il nostro impegno nella lotta contro
le mafie e per l’affermazione della giustizia
sociale». In occasione della manifestazione
nazionale, Libera invita le scuole ad adottare
una vittima di mafia, portando in piazza il
suo nome e la sua storia. «Da sempre Libera
propone alle scuole questo progetto. Lo slogan di quest'anno è Semi di giustizia, fiori di
corresponsabilità: chiediamo agli studenti di
scendere in piazza con dei fiori realizzati con
le loro mani in ricordo di chi ha perso la vita
nella lotta antimafia». Sul sito di Libera è disponibile un elenco di oltre 900 nomi di persone che hanno pagato con la vita l’impegno
contro la prepotenza mafiosa, attraverso il
quale è possibile individuare la vittima di
mafia su cui iniziare il percorso didattico.
La scuola è il peggior nemico
Nata il 25 marzo 1995, Libera cerca di instillare nella società civile la voglia di impegnarsi per promuovere un cambiamento,
nel nome della legalità e della giustizia, e
costruire una società alternativa alle mafie,
che si fondi sui valori della cittadinanza e
del convivere civile. Nella convinzione che,
se la cittadinanza è attiva e responsabile, si
eppur si muove
IMPARARE SEMPRE
possono creare gli anticorpi alla cultura del
privilegio e della corruzione, presupposto al
dilagare dei fenomeni mafiosi. L’associazione
presieduta da don Luigi Ciotti cerca infatti di
permeare i più giovani di valori positivi, legalità e solidarietà prima di tutto, attraverso
attività a scuola perché, come diceva il magistrato Antonino Caponnetto, «la mafia teme
più la scuola della giustizia: l'istruzione toglie
l'erba sotto i piedi della cultura mafiosa».
E anche se può sembrare difficile parlare di
mafia, corruzione, pizzo nelle scuole di ogni
ordine e grado, Libera lo fa, in modo che la
conoscenza dei fenomeni mafiosi e il ricordo
delle vittime di mafia accompagnino la crescita di cittadini responsabili e liberi. E perché in fondo la scuola è il luogo ideale per
l'affermazione dei diritti e l'esercizio della
cittadinanza attiva, dove può nascere e maturare un pensiero critico, attraverso l’incontro tra generazioni diverse e la condivisione
di esperienze. «Ogni anno presentiamo nelle
scuole le nostre attività e analizziamo insieme agli studenti e agli insegnanti il fenomeno
delle mafie e le risposte legislative promosse
dallo Stato e dalla società civile, avvalendoci
anche della testimonianza dei familiari delle
vittime innocenti della criminalità organizzata» spiega Parente. «Nel corso del 2011 Libera
ha svolto attività in 4210 scuole, coinvolgendo oltre 1.300.000 studenti». Incontri, dibattiti, workshop, spettacoli teatrali che mirano
anche a far conoscere quello che secondo
don Ciotti è «il primo testo antimafia»: la Costituzione. Nel pianificare gli interventi educativi, il confronto con i docenti è determinante: da un lato per conoscere il contesto
scolastico in cui si interviene, dall’altro per
costruire insieme una pedagogia antimafiosa
e capire quali strategie educative mettere in
atto per contrastare quella “cultura del malaffare” che mette in crisi i sistemi economici e culturali di tutto il Paese. «Per ragionare
sui sistemi mafiosi bisogna ragionare infatti
•In queste pagine alcune
immagini dei giovani al
lavoro durante i campi di
volontariato estivi organizzati
dall'associazione Libera.
Foto: archivio Libera
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92
eppur si muove
Il malaffare dietro casa tua
«Anche quest’anno, inoltre, con il Premio
Pio La Torre incoraggiamo chi ha tra gli 11 e
i 21 anni a ricordare l’impegno di quest’uomo politico che fino alla morte ha lottato
contro la mafia, chiedendo loro di elaborare
una proposta imprenditoriale per il riutilizzo
sociale di aziende del proprio territorio confiscate alla criminalità. E, insieme al Ministero
dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, invitiamo tutte le scuole a partecipare al
concorso Regoliamoci, con l'obiettivo di far
riflettere gli studenti sul tema del gioco e dello stare insieme secondo regole condivise».
Lavorare sul tema delle regole e del rapporto
tra diritti e doveri nella relazione con gli altri
è il primo passo, in fondo, per riflettere, a
scuola, sulla mafia. Fenomeno di cui i ragazzi
hanno una consapevolezza abbastanza forte, seppur fatta di luci e ombre. «Sanno che
agisce in maniera insidiosa in tutto il Paese e
che non riguarda più solo le regioni del Sud.
Tuttavia la maggioranza ritiene il fenomeno
mafioso distante dalla propria quotidianità»
sottolinea Ludovica Ioppolo, ricercatrice di
Libera che ha curato uno studio sulle rappresentazioni del fenomeno mafioso tra gli
studenti di scuole superiori in Toscana, Lazio e Liguria. «Inoltre, anche per effetto delle
fiction televisive, c’è una forte mitizzazione
dei protagonisti, sia dei mafiosi sia di chi si è
battuto sul fronte antimafia». Nell’immagi-
Per promuovere percorsi di educazione alla
legalità, Libera supporta insegnanti ed educatori anche con materiale didattico e informativo, come il manuale Sapere per sapere
essere (disponibile sul sito, l’ultima edizione
viene distribuita in formato cartaceo su richiesta) che offre una cassetta degli attrezzi
per lavorare in classe sui temi della cittadinanza responsabile e del contrasto civile alle
mafie. Anche ricorrendo a metodi didattici
alternativi alla lezione frontale, che diano
spazio all’animazione sociale e alla partecipazione attiva degli studenti. Per esempio,
dal progetto formativo Informati per informare, realizzato nelle scuole della provincia
e dei municipi di Roma, è emerso che i ragazzi sono entusiasti di portare avanti lavori
d’inchiesta sul malaffare a livello territoriale.
Hanno insomma le carte in regola per diventare “portatori sani di informazione” e
protagonisti del cambiamento, denunciando
situazioni d’illegalità e di diritti negati.
nario collettivo, in pratica, la lotta alla mafia
non appartiene alle migliaia di persone che
nell’anonimato hanno costruito e costruiscono la storia del movimento antimafia nel
nostro Paese, ma si incarna in pochi eroi.
sui sistemi culturali che si contrappongono
a una società fondata sui diritti e sul rispetto dell’altro. E rendersi conto che l'atteggiamento mafioso non riguarda solo chi cresce in
contesti criminali, ma si insidia nella cultura
dell’indifferenza di fronte alle ingiustizie e alle
prevaricazioni di qualsiasi tipo».
IMPARARE SEMPRE
Un'estate civile
La prova della diffusione del fenomeno mafioso e contemporaneamente di come può
nascere una nuova coscienza civile e dell’impegno dei giovani, soprattutto studenti, si
incontra a Borgo Sabotino, piccolo paesino
in provincia di Latina. Dal 2011, nel camping
California Village confiscato per abusivismo
edilizio, ospita il Villaggio della Legalità intitolato a Serafino Famà, avvocato catanese
ucciso, con sei colpi di pistola, il 9 novembre del 1995. Il Villaggio, gestito da Libera,
è uno dei tanti beni confiscati alla mafia che
ogni anno ospitano i campi di volontariato
E!State Liberi. Occasione, per tanti ragazzi e
ragazze, di impegnarsi nel lavoro dei campi
o in attività di riqualificazione delle strutture
stesse, di aprire gli occhi contro le mafie e
crescere. Appagati dall'idea di contribuire a
ridare vita a territori maltrattati e sfruttati
per interessi mafiosi.
Tra luglio e agosto scorsi, oltre 100 volontari, provenienti da tutt’Italia, hanno lavorato nel villaggio di Borgo Salentino, a pochi
chilometri dal litorale di Anzio e Nettuno e
dal lungomare di Latina. «Abbiamo lavorato
come macchine d'ingegno e la gioia e la soddisfazione per un progetto concluso ci hanno
fatto sentire vivi. Vivi com'è vivo il ricordo di
chi ha pagato con la vita il fatto di credere
in una via d'uscita e nella fine dello scempio»
racconta Isabella, che a luglio ha partecipato
ai lavori di manutenzione del villaggio, più
volte colpito da raid mafiosi e azioni vandaliche dopo essere stato assegnato all’associazione Libera dal Commissario Prefettizio del
Comune di Latina.
Isabella è orgogliosa di essersi sporcata le
mani nel campo-lavoro a Borgo Sabotino.
Ma il primo vero risultato di questo campo
di antimafia culturale, secondo Françoise,
«non è tanto il grigio dei muri che gradualmente lascia il posto a un arancio convinto
come la nostra presenza qui, né gli incredibili progetti dei murales concepiti e da realizzare, quanto il rispetto per le proposte che
ciascuno avanza per il cambiamento». «Noi
rappresentiamo il futuro della nostra nazione» aggiunge Achraf. «Se fossimo soddisfatti della situazione avremmo dovuto rimanere a casa e non scommettere su noi stessi,
partecipando a questo campo di volontariato. I nostri referenti hanno organizzato atti-
vità ludiche, intellettuali, creative e manuali, per farci remare nella stessa direzione con
la maggior coordinazione possibile. E questa
tattica è la stessa che si deve adottare per
sconfiggere qualsiasi tipo di mafia. Il fatto
che me ne sia reso conto sta a indicare che
questo campo è più che utile per aprire gli
occhi contro le mafie».
Isabella, Françoise e Achraf sono tre dei
seimila ragazzi che hanno scelto di vivere
un'esperienza di volontariato e di formazione civile (il lavoro manuale si affianca infatti allo studio del fenomeno mafioso, anche
attraverso il confronto con i familiari delle
vittime di mafia e testimoni di giustizia) nei
32 campi gestiti da Libera, assumendo un
impegno concreto, nella convinzione che il
cambiamento ha bisogno di ognuno di noi.
Ed è su questa convinzione che si basa l’azione di Libera nel contrastare la diffusione
dell’illegalità e il dominio mafioso del territorio. Ed è così che Libera, come scrive Francesca, alla fine della sua esperienza nel Villaggio della Legalità, diventa «l'eco assordante
di coscienze vive». •••
> Il sito di Libera
www.libera.it
eppur si muove
Sperimentare
la pace
attraverso il
teatro
di Silvia Paris
eppur si muove
IMPARARE SEMPRE
I
l teatro non è indispensabile. Serve ad
attraversare le frontiere fra te e me».
Guardando il modo di far teatro della
Compagnia Arcobaleno, che da anni
educa all’espressione decine di giovani, tornano in mente le parole asciutte con cui
Jerzy Grotowski, maestro del teatro sperimentale, sintetizzava il fine della pratica
teatrale. Le frontiere che separano i giovani
attori di questa compagnia dai loro compagni di avventura sono reali e di difficile
attraversamento. Frontiere politiche, religiose, culturali e linguistiche prima ancora che
simboliche e psicologiche. Perché questa
scuola di teatro situata nella Galilea settentrionale, uno dei territori di Israele a più alta
differenziazione etnica e sociale, è aperta
a giovani di diversa provenienza. Arabi ed
ebrei. Musulmani, ortodossi, cristiani. Laici
e credenti.
Undici anni fa nasce a Sasa, piccolo
villaggio in Israele, il Teatro Arcobaleno:
laboratorio di creatività ed educazione alla
convivenza civile aperto a giovani ebrei,
musulmani e cristiani. Un invito per ragazzi
di religioni ed etnie in conflitto a calare
le maschere del pregiudizio e a dimostrare
che la pace è possibile
Mettere in contatto
le differenze
L’idea di creare una zona franca di espressione artistica e convivenza pacifica in un
territorio di confine devastato dai conflitti
nasce dieci anni fa, su iniziativa di Angelica Edna Calò Livné. Educatrice e regista
teatrale, nata a Roma, da famiglia ebraica,
Angelica si trasferisce in Israele a vent’anni,
dove comincia a insegnare teatro a giovani
ebrei di realtà geografiche e sociali diverse:
ragazzi delle città, giovani provenienti dalle comunità rurali dei kibbutz e dei moshav
(una forma di cooperativa agricola), studenti disabili. Nel 2001, mossa dal desiderio di
mettere in contatto e dialogo «più differenze
possibili» decide, assieme al marito Yehuda,
di richiamare arabi, cristiani e musulmani ed
ebrei attorno a un progetto artistico e civile
tutto da avviare. Fuori è da poco cominciata
la Seconda Intifada: una nuova stagione di
assedi e attentati che in quattro anni mieterà circa 5.000 vittime tra palestinesi e israeliani. Ricominciare a sperare, in un momento
di violenza così acuto sembra impossibile.
Eppure la guerra accende nei coniugi Calò
Livné la voglia di testimoniare un possibile
nuovo “inizio di pace” - in ebraico Beresheet LaShalom - attraverso la creazione di un
gruppo di ragazzi che, condividendo l’entusiasmo per l’arte, possano superare gli antichi rancori tra i popoli a cui appartengono.
Giù le maschere,
siamo tutti uguali
Da queste premesse matura Beresheet, il
primo spettacolo allestito dalla compagnia,
ancora oggi rappresentato, in cui i giovani
attori narrano il passaggio da una pacifica
convivenza originaria all’esplosione della
violenza e infine alla conquista di una nuova,
possibile riconciliazione.
I movimenti del corpo a ritmo di musica e
le coreografie raccontano il deflagrare della
conflittualità tra i due gruppi, mentre l’atto
del calar giù le maschere prelude alla riconquista di una nuova amicizia. La maschera
costituisce un elemento scenico forte e poli-
•Gli allievi del Teatro
Arcobaleno recitano nello
spettacolo Beresheet,
una storia danzata della
convivenza civile in cui, come
spiega il titolo, “in principio
era la pace”.
Foto: Beresheet LaShalom
Foundation
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eppur si muove
Angelica Edna Calò Livné, donna di pace
> Nata a Roma nel 1955, Angelica Edna Calò Livné si trasferisce in Israele a vent’anni, dove compie
gli studi universitari e si dedica all’insegnamento del teatro fin quando nel 2001, assieme al marito
Yehuda, dà vita alla Compagnia dell’Arcobaleno, di cui diventa direttrice didattica, e nel 2004
alla Fondazione Beresheet LaShalom. Obiettivo del progetto, che le varrà numerosi riconoscimenti
internazionali è “educare alla pace attraverso le arti”.
Successivamente promuove nuove iniziative di educazione alla pace, tra cui Per Disegnare un Sorriso
sul Loro Volto, un progetto di attività interculturali destinato a bambini israeliani colpiti dagli
attacchi terroristici e, assieme all’amica palestinese Samar Sahar, Bread for peace, iniziativa volta a
unire donne musulmane, cristiane ed ebree mediante la lavorazione del pane. Nel 2006, con il marito
Yehuda fonda la squadra di calcio interreligiosa United Colours of Galilee e nel 2008 avvia il Centro
Ecologico per la pace, un luogo di vita comunitaria aperto a giovani di diverse culture in cui lavorare
sul binomio pace-natura.
Conduce laboratori di educazione alla socialità e all’espressione anche in Italia, Paese con cui
ha mantenuto negli anni uno stretto legame. Moglie e mamma di quattro figli, ha fondato con
il marito il primo agriturismo di Israele, nel kibbutz di Sasa, dove attualmente vive, insegna, fa
teatro e scrive libri.
> Il teatro dell’Arcobaleno
www.masksoff.org
> La fondazione Berehseet
LaShalom www.beresheetlashalom.org
> Bread for peace www.
breadforpeace.org
> La squadra di calcio
United Colours of Galilee
http://www.unitedcoloursofgalilee.org/
> Una Voce ha chiamato e
sono andata. Beresheet
LaShalom: i primi 10
anni, di Edna Calò Livné,
Proedi, 2011, pag. 80,
10 euro
semico, che rappresenta tanti tipi di ostacoli
diversi: pregiudizio, stereotipo, rifiuto del sé
reale. Intervistato sul significato di questo
simbolo, Ilian Smam, giovane arabo di religione cristiana, confessa: «Questa maschera
rappresenta una faccia piena di razzismo,
odio, gelosia e orgoglio. Quando la tolgo sento che la vita è più facile». Nell’esperienza didattica e civile di Beresheet prende dunque
corpo l’ispirazione di un teatro-laboratorio
che, come suggeriva Grotowski, diventa
occasione di «integrazione, rifiuto delle maschere, palesamento della vera essenza» e
che realizza il superamento di tante frontiere. Quelle psicologiche tra diverse zone del
proprio sé, quelle culturali e identitarie tra i
giovani interpreti, quelle espressive tra attori
e spettatori. Il risultato è una rappresentazione che, affidandosi al linguaggio universale del gesto e dell’espressione, supera le
barriere e rende visibile la comune natura
umana dei partecipanti. «Non c’è differenza tra me e un ragazzo arabo, solo perché io
sono ebreo e lui è arabo. Per me questa è l’essenza del teatro», commenta un giovane interprete. Dal punto di vista tecnico, Beresheet non prevede la recitazione di un testo
scritto, ma costituisce l’approdo di un lavoro
integrato che conduce i ragazzi a trasfigurare simbolicamente le loro paure e aspirazioni
attraverso la libertà creativa, ma vincolata
del gesto. Grazie a un metodo che valorizza
l’improvvisazione e il vissuto emotivo degli
interpreti, la messa in scena diventa così un
organismo vivo, che si trasforma a seconda
della personalità e degli umori degli attori,
delle reazioni del pubblico, e che continua a
rinnovarsi anche a diversi anni di distanza
dalla prima recita.
Per tornare a sperare
La scuola di teatro Arcobaleno nasce come
un luogo di accompagnamento alla crescita
di autoeducazione alla convivenza civile e
alla speranza. Perché in una zona di guerra,
il monito a «continuare a sperare» e a «non
arrendersi alla violenza» non arriva dall’esterno, ma è una conquista quotidiana che
ci si deve autoimporre, racconta Angelica
Edna.
Molti dei ragazzi che entrano in contatto
con i coniugi Calò Livné si portano dietro
ferite difficili da rimarginare. Ci sono musulmani che hanno vissuto il disastro della
colonizzazione attraverso i racconti dei loro
genitori, ebrei con famiglie distrutte dagli
eppur si muove
IMPARARE SEMPRE
attentati. Hanno idee politiche divergenti,
ma attraverso il teatro imparano a guardare
avanti e a concentrarsi, più che sulle paure,
sulle speranze. Ilian, per esempio, ricorda:
«All’inizio è stato molto difficile per me. Ero
molto razzista verso gli ebrei. Li odiavo molto, perché i miei nonni e i miei parenti sono
stati cacciati via da un paese che si chiama
Sohnata. Quando ho iniziato a fare teatro ho
dovuto cambiare idea, perché se si rimane a
rimpiangere il passato non si raggiunge la
pace». Un altro esercizio a cui si dedicano i
ragazzi dell’Arcobaleno è coltivare sogni, alcuni dei quali ambiziosi, come quello espresso da Chrine, una giovane musulmana: «Vorrei una pace come quella che c’è in Europa.
Viaggiare tra i Paesi senza passaporto, senza
nessun controllo, senza che ti chiedano chi
sei, da dove vieni e dove vuoi andare».
UN MODELLO PER L'ITALIA
Negli anni, il repertorio della compagnia si è
ampliato a nuovi spettacoli: Anne in the Sky,
pièce ispirata alla vicenda di Anna Frank, Le
avventure di Pinocchio e Vita di Galileo di
Bertolt Brecht.
Le recite totali sono state più di 300 e hanno
coinvolto un pubblico complessivo di circa
90.000 persone. E la Fondazione Beresheeet
LaShalom, che fino a oggi ha accolto a Sasa
più di 150 ragazzi, è uscita dai confini del
Medioriente ed è approdata in Italia, Paese
con il quale Angelica mantiene un rapporto
di elezione. Perché di educazione alla convivenza civile ha bisogno anche l’Europa, oggi
interpellata da una nuova sfida all’integrazione.
In collaborazione con Wizo - Associazione
Donne Ebree d’Italia, è nato così il ciclo di
seminari itineranti Una cultura in tante culture, realizzato nelle scuole di diverse città
italiane. Rivolto inizialmente ai docenti, questo progetto di educazione all’interculturalità si è poi allargato agli studenti. Anche
in questo caso gli incontri condotti da Angelica Edna sono centrati sulla conoscenza
reciproca, la riscoperta espressiva del corpo,
l’apertura emozionale, l’improvvisazione. Il
trasferimento, qui da noi, delle pratiche educative sviluppate in Israele - «il più grande
laboratorio di culture del mondo», come lo
definisce Angelica Edna - funziona, nei racconti dei ragazzi che partecipano ai labora-
tori. Ricorda Giovanni, del Liceo Casiraghi di
Cinisello Balsamo: «Pian piano, un arto alla
volta, ci siamo sciolti. Ho visto persone che
conoscevo da anni come timidi cronici ballare e saltellare per la stanza e ragazzi sconosciuti svelare volti nascosti e inimmaginabili.
Alla fine dell’incontro erano tutti rilassati e
sorridenti, ci siamo salutati come vecchi conoscenti e un mio compagno di classe mi ha
detto ridendo: "Oggi ci siamo fatti un bel po’
di nuovi amici!"». •••
Guarda il video della performance
http://link.pearson.it/C76D99D0
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Foto: Stefano G. Pavesi/Contrasto
BENCHMARK
di Stefano Glenzer
benchmark
IMPARARE SEMPRE
99
Ogni mese il programma internazionale PISA pubblica focus
dedicati a singoli temi della scuola e dell'apprendimento che
danno la possibilità di paragonare la situazione dei diversi
Paesi del mondo. Per scoprire, per esempio, che la situazione
degli studenti stranieri non è sempre la stessa e che alcune
difficoltà possono pesare più di altre
Foto: Roberto Arcari/Contrasto
U
n bambino immigrato quando
arriva a scuola si trova subito
ad affrontare una lunga serie di problemi. Nella maggior
parte dei casi la lingua che usa in aula è
diversa da quella in cui si esprime a casa.
Probabilmente frequenta una scuola con
una alta concentrazione di bambini stranieri. Una scuola che magari è in condizioni economiche difficili. I suoi compagni
forse usano altre lingue ancora, diverse
sia dalla sua sia da quella usata durante le
lezioni. Gli studenti immigrati o figli di immigrati si trovano così in una posizione di
svantaggio, che rischia di compromettere
il loro rendimento scolastico. Per farcela
devono superare vere e proprie barriere: il
loro stesso status di immigrati, l’ostacolo della lingua, una situazione economica
spesso difficile, il fatto di frequentare coetanei con gli stessi problemi.
Ma davvero è ovunque così? Giovani e
giovanissimi immigrati si trovano certamente in situazioni simili nei diversi Paesi
del mondo, perlomeno in quelli che devono affrontare una forte immigrazione dalle
regioni più povere del pianeta. Ma quanto simili? E poi, quale tra i tanti svantaggi
che uno studente straniero deve affrontare
nella sua avventura scolastica pesa di più?
Una risposta è difficile da dare e sarebbe
estremamente utile, sia a chi si trova quotidianamente ad avere a che fare con questa
realtà, a cominciare dai docenti, sia a chi
può intervenire con scelte di politica scolastica. Proprio per trovare risposte come
questa, l’OCSE nel 2000 ha istituito il PISA,
il programma per la valutazione internazionale dell’allievo. Il suo compito principale è
valutare ogni tre anni il livello delle competenze maturate dagli studenti di 15 anni
del maggior numero possibile di Paesi e,
di conseguenza, la qualità dei loro sistemi
scolastici (vedi anche l’approfondimento
sul primo numero del nostro magazine).
100
benchmark
Si tratta della sua funzione principale, che
però è anche un punto di partenza: sfruttando i dati raccolti in ognuna di queste
macrorilevazioni, e grazie ad altre indagini internazionali condotte su singoli temi,
il PISA pubblica ogni mese sul suo sito un
focus su un tema particolare. Sono approfondimenti di quattro pagine accompagnati da statistiche e grafici scritti in maniera
semplice e diretta. Disponibili in inglese e
francese, in alcuni casi si possono trovare
anche le versioni in italiano, tedesco, cinese, spagnolo e portoghese.
L'indagine sugli ostacoli all’ambientamento degli studenti stranieri è un esempio
molto chiaro dell'utilità di questi confronti
che per ciascun Paese sarebbero difficilissimi da realizzare e che sono in grado di
mettere in evidenza differenze significative
e, talvolta, anche di scoprire gli effetti di
tali differenze. Tutti i Paesi hanno certamente problemi di inserimento da parte dei
ragazzi stranieri. Ma probabilmente problemi diversi. La percentuale di immigrati
che frequentano le scuole con la più alta
concentrazione di stranieri, per esempio,
non è affatto omogenea, neppure in Europa. In Lussemburgo e in Svizzera è molto
inferiore alla media dei Paesi OCSE, addirittura sotto il 50%, mentre in Italia si supera
Foto: Shalom Ormsby/Blend Images/Corbis
Il blog di un'esperta per capire meglio i dati
Ogni focus viene accompagnato da una riflessione nel blog di Marilyn Achiron, redattrice del
consiglio direttivo per l’educazione del PISA. Americana, laureata a Yale in letteratura inglese,
in passato Achiron ha lavorato anche per il settimanale Newsweek, per l’Alto Commissariato delle
Nazioni Unite per i Diritti Umani e per la Croce Rossa Internazionale.
I suoi post approfondiscono un tema particolare del focus del mese, oppure ne spiegano in maniera
più discorsiva il contenuto, cercando di dare comunque una chiave di lettura personale. Nel
commento al focus sugli studenti stranieri svantaggiati, per esempio, Achiron cita il caso positivo
della provincia canadese dell’Alberta, nella quale le scuole con i risultati migliori sono quelle con il
più alto numero di alunni immigrati. Un modello positivo da fare conoscere anche agli altri Paesi:
«Spesso i buoni risultati derivano da politiche regionali o nazionali pensate apposta per provvedere e
fare rendere al massimo classi eterogenee di studenti».
benchmark
IMPARARE SEMPRE
la media, anche se la situazione è migliore,
per esempio, rispetto a Paesi come la Gran
Bretagna. La prima barriera da superare è
quella linguistica, in media più della metà
degli studenti dei Paesi OCSE non parla
in famiglia la stessa lingua che utilizza a
scuola. Ma in Estonia questo è vero solo
per un giovane su quattro, mentre in Italia
la quota sale a oltre sei ragazzini su dieci, più o meno come in Francia, Austria e
Olanda e, ancora una volta, meno che in
Gran Bretagna. La famiglia può certamente
influenzare i risultati scolastici, soprattutto
tra gli studenti immigrati, ma il focus del
PISA individua una forte correlazione tra il
rendimento scolastico e il livello di istruzione delle madri. I ragazzi più svantaggiati
sono quelli con madri che non abbiano raggiunto la scuola secondaria. Se poi in una
scuola sono molti i ragazzi che condividono
questo svantaggio culturale in famiglia, gli
esiti peggiorano ancora. In questo parametro troviamo agli ultimi posti della classifica Olanda, Stati Uniti, Francia, Danimarca e
Regno Unito, tutti sopra il 50% a fronte di
una media OCSE del 36%. L'Italia in questo
caso è invece ben al di sotto della media.
Il tema delle difficoltà scolastiche per i
giovani immigrati è solo uno dei tanti temi
trasversali che il PISA presenta con l’obiettivo di aiutare a comprendere tutti gli
aspetti del mondo dell’istruzione. Un'altra
indagine recente ha tentato di scoprire
quanto conti per i ragazzi la presenza dei
genitori. E da questo focus emerge che i
genitori che leggono spesso un libro con i
figli quando sono piccoli è come se costruissero per loro una piccola rendita, che gli
consentirà di avere risultati migliori nelle
prove di lettura quando saranno più grandi.
E anche, per esempio, che gli studenti con
i quali i parenti discutono di politica o su
temi d'attualità ogni settimana ottengono,
I Papers,
per chi vuole approfondire
L’OCSE pubblica con cadenza mensile anche gli Education
Working Papers. Si tratta di studi selezionati da più ampie
ricerche della Divisione Educazione dell’OCSE, in genere
lunghi tra le 20 e le 50 pagine. Come per i focus del PISA,
anche questi documenti sono disponibili in inglese e
francese, ma sono accompagnati da sommari presentati in
altre lingue. I temi che toccano sono molti: dall’impatto
delle ricerche del PISA sulle decisioni dei Paesi in termini
di educazione, all’istruzione connessa all'abuso di alcol
prendendo in esame il Regno Unito, fino alla differenza
delle prospettive di carriera per studenti e studentesse.
Si possono scaricare gratuitamente dal sito
http://www.oecd-ilibrary.org/ nella sezione Papers.
in media, 28 punti in più alle prove del PISA
rispetto a quelli che hanno padri e madri
che si impegnano di meno nel rapporto
con loro: il Paese che guida questa speciale
classifica è l’Italia, la migliore con 42 punti,
mentre i genitori di Macao sono i peggiori.
Non stupisce invece il focus di luglio 2012,
che si interrogava sull’effettiva utilità delle
attività extracurriculari in materie scientifiche come escursioni, esercitazioni sul
campo, competizioni tra istituti, fiere tecnologiche. Ebbene, non solo i ragazzi che
frequentano scuole impegnate in queste
iniziative hanno ottimi risultati in una o più
materie scientifiche. Ma grazie all’allenamento extra scolastico sviluppano anche
un migliore approccio a questa classe di
discipline che possono sfruttare negli anni
•••
successivi.
> La pagina dei Focus sul sito del PISA http://www.oecd.org/pisa/pisainFocus/#d.en.199059
> L’approfondimento dedicato al PISA sul primo numero del nostro magazine http://is.pearson.it/magazine/pisa-radiografia dellistruzione-nel-mondo
101
Il SUCCESSO
nelle MANI
di Marina Loffi Randolin
IMPARARE SEMPRE
L
o scenario della vita individuale e
sociale è intriso nel nostro Paese
di cultura e di memoria figurativa.
Abbiamo la più alta concentrazione
di opere d’arte al mondo, viviamo immersi
nell’arte e nella storia e, nonostante fenomeni di degrado, dentro gli abituali percorsi di
una qualsiasi giornata possiamo quasi ovunque fare diretta esperienza di testimonianze
legate alle tante diverse tradizioni estetiche
che si sono succedute nel nostro territorio. Si
tratta di un patrimonio inestimabile che ha
insensibilmente plasmato il gusto e la qualità della vita e ha esercitato influssi ampi e
duraturi su un artigianato di altissimo livello. Nelle botteghe e nelle industrie italiane
sono nati modelli, stili e tendenze che dai
contesti originari si sono irradiati fuori dai
confini, ad altri luoghi e Paesi. A differenza dei visitatori stranieri però, la consapevolezza dell’eccezionale qualità ambientale
dell’Italia è tra noi assai scarsa, come lo è
la capacità di valorizzare una sapienza artigiana profondamente innervata nella cultura
della nostra società. Questo segmento professionale soffre di una drammatica carenza
di vocazioni, non attrae nuovi operatori, o
lo fa in misura troppo ridotta, e il lavorarvi
viene avvertito come una opzione al ribasso. Da centro che siamo, rischiamo di ritrovarci in breve tempo periferia, perché si sta
interrompendo la trasmissione di talenti e
competenze secolari. Far conoscere questo
continente inesplorato è uno dei compiti che
si è data la Fondazione Altagamma, che riunisce marchi di notorietà internazionale. Nel
ventennale della sua costituzione questa associazione di imprenditori ha messo in cantiere una nutrita serie di iniziative che agiranno anche sul medio e lungo periodo. Con
il Centro Sperimentale di Cinematografia è
stato realizzato un filmato che, attraverso
interviste a soci, maestri e giovani lavoratori rilancia una convincente alternativa ai
mestieri intellettuali; una mostra fotografica
alla Triennale di Milano (Italian Contemporary Excellence, 2012) e il libro che ne è stato
tratto restituiscono in un caleidoscopio di
immagini le affascinanti sfaccettature di
mondi tra loro diversissimi ma per molti versi contigui. Su un versante più istituzionale
sono stati siglati due importanti protocolli di
intesa. Il primo, stipulato il 16 febbraio 2012
oltre la scuola
L'artigianato di alta gamma è una eccellenza
del nostro Paese, abituato a coabitare con
il bello in tutte le sue forme e a riprodurlo
negli oggetti di uso quotidiano. Un ambito
di studio e di lavoro che viene preso in
considerazione ancora troppo poco e che può
portare al successo, individuale e collettivo
103
104
oltre la scuola
Fatturato mondiale e fatturato italiano dei prodotti
di alta gamma per la persona in miliardi di euro
220
200
180
160
140
2008
2009
2010
2011
2012
2008
2009
2010
2011
2012
60
55
50
45
40
Fatturato italiano
Fatturato mondiale
Dopo un calo nel 2009, il fatturato dei beni di alta gamma per la persona ha ripreso a crescere al ritmo del 10% sia a livello mondiale sia in Italia.
La quota del nostro Paese è in media il 28% del fatturato mondiale. Oltre l’80% della produzione italiana è destinata all’esportazione. L’intero
settore dell’alta gamma occupa, compreso l’indotto, quasi 500 mila lavoratori in Italia e contribuisce circa al 3% del PIL.
“Il gusto delle cose
che la mano plasma”
Le Corbusier
con Italia Lavoro, l’agenzia tecnica del Ministero del Lavoro, definisce un accordo quadro per “la valorizzazione del lavoro manuale e per la diffusione dell’apprendistato
presso le migliori realtà imprenditoriali del
paese”. Il secondo, del 29 novembre 2012,
vede protagonisti Fondazione Altagamma e Federsolidarietà-Confcooperative; in
una logica di sistema si pone l’obiettivo di
favorire sotto diversi punti di vista, anche
formativi, le relazioni tra imprese profit e
no profit, così coniugando l’eccellenza della
qualità con il valore sociale. Ma un campo di intervento cruciale è senza dubbio la
scuola, come sottolinea Francesco di Lauro, direttore del Centro Studi e Formazione
Altagamma. Qui si aprono varie possibilità
di collaborazione a livello locale e naziona-
Che cos'è Altagamma
> Altagamma è stata costituita nel 1992 con l’obiettivo di promuovere l’industria italiana di eccellenza,
favorendone lo sviluppo e rafforzandone la presenza a livello internazionale.
Ne fanno parte più di settanta aziende attive su diversi fronti che coprono circa il 3% del PIL:
design e arredo, meccanica, velocità, nautica, abbigliamento, gioielleria,
accessori, alimentazione, ristorazione e ospitalità. Il Centro Studi
e la Fondazione, oltre a svolgere sistematiche analisi e monitoraggi su
tutti questi settori, si occupano di formazione. Altagamma ha creato
con SDA Bocconi due master specialistici per il management (in Fashion,
Experience & Design e in Food & Beverage) ma sostiene anche e divulga
al proprio interno le iniziative sperimentali avviate da alcuni soci con istituti scolastici e partecipa con
un certo numero di aziende al programma di stages Learning on the job.
oltre la scuola
IMPARARE SEMPRE
le perché formazione e lavoro sono due
facce della stessa medaglia. La Fondazione ha costituito il Gruppo di Alto Livello
sulla Formazione Professionale e Tecnica
per l’eccellenza industriale italiana, proponendosi come interlocutore del Ministero dell’Istruzione per quanto riguarda
l’adeguamento dei programmi scolastici.
Oltre alla flessibilità dei percorsi formativi
- perché i mestieri si trasformano - uno dei
fattori determinanti nella tenuta dell’economia tedesca, sostengono in Altagamma,
è la presenza degli Istituti di istruzione e
formazione tecnica superiore (Fachhochschulen) che erogano titoli equiparabili
alle nostre lauree triennali e sono vertiginosamente cresciuti negli ultimi dieci anni. Un
secondo elemento importante è l’alternanza
scuola-lavoro, che mette a contatto gli studenti con i ritmi e l’organizzazione dell’azienda (vedi anche iS magazine n. 2) e, aldilà
del trasferimento di conoscenze esplicite,
permette preziosi processi di apprendimento inconsapevole o, come dice di Lauro, fa
imparare un linguaggio. Insomma, c’è molta
carne al fuoco e soprattutto c’è la disponibilità, da parte di Altagamma, a impegnare
seriamente le proprie energie e competenze, organizzando anche incontri con docenti,
classi, famiglie.
•••
•Le immagini di queste pagine
sono tratte dal libro Italian
Contemporary Excellence, e
presentano prodotti e attività di
formazione di alcune importanti
aziende.
A pag. 104, Etro;
a pag. 105 Ducati;
in questa pagina, Illy.
Foto, nell'ordine: Lorenzo Pesce, Nicolò
Degiorgis, Alex Majoli/Contrasto Guarda il video
della Fondazione Altagamma
Il successo nelle mani
> Il sito della Fondazione Altagamma www.altagamma.it/
> Il comunicato della firma del protocollo d'intesa tra Italia Lavoro e Fondazione Altagamma http://www.altagamma.it/s.php?s=2424
http://link.pearson.it/57D28441
105
106
focus tech
Foto: Peter Phipp/Travelshots.com/Alamy
La didattica
Immaginiamo di invertire la logica della scuola e di
sostituire gran parte delle lezioni con brevi video di qualità
che gli studenti possano guardare dove vogliono, quando
vogliono e al proprio ritmo. I classici compiti a casa vengono
invece svolti in aula con i compagni e guidati dal feedback
dell’insegnante. È il metodo chiamato flip your classroom,
letteralmente “capovolgi la tua classe”
focus tech
IMPARARE SEMPRE
di Fabio Serenelli
E
siste una ricetta per una scuola
più coinvolgente per gli studenti
e meno frustrante per gli insegnanti? Un modo di fare lezione
che sia più efficace per il raggiungimento degli obiettivi didattici e più efficiente
nella gestione del carico cognitivo e delle
energie di tutti? Una proposta arriva dagli
Stati Uniti, patria del movimento per una
scuola attiva e oggi culla di una nuova
corrente che coinvolge migliaia di insegnanti di ogni ordine e grado e che mette in discussione la sacralità della lezione
tradizionale come pilastro della didattica
contemporanea. è in atto una discussione
che coinvolge sempre più docenti e che
si sta allargando dagli Stati Uniti agli altri Paesi, compresa l'Italia. Ma è ancora
in fase embrionale in termini di riflessione
pedagogica, al punto che non esiste neppure un nome definitivo per il movimento
stesso: flip-teaching (capovolgi l’insegnamento), flip-learning (capovolgi l’apprendimento) o più semplicemente flip your
classroom!, ovvero “capovolgi la classe!”.
TRA CHIMICA E MULTIMEDIALE
Tutto è cominciato quando due insegnanti
di chimica della scuola secondaria, Jonathan Bergmaan e Aaron Sams, si sono accorti che entrambi percepivano la propria
attività come troppo meccanica e arida.
Giorno dopo giorno, i cicli continui di lezione e test di verifica limitavano il tempo
necessario per conoscere in profondità i
propri studenti e capire i loro bisogni, in
termini sia di apprendimento sia di relazioni. Nel 2007 hanno pensato di trovare questo tempo mancante spostando il momento dell’acquisizione dei saperi di base, cioè
della lezione tradizionale, oltre l’aula e hanno scelto di responsabilizzare gli studenti
proponendo come “compito a casa” l'utiliz-
zo di materiali digitali in autoistruzione. In
questo modo hanno liberato la loro didattica dall’incombenza delle lezioni, che hanno
convertito in screencast, ovvero brevi video digitali composti da audio e sequenze
di immagini. Il tempo in aula è diventato
disponibile per laboratori in piccoli gruppi
e per seguire direttamente i singoli studenti attraverso un tutoraggio uno-a-uno.
I due chimici hanno poi condiviso sul web
i video prodotti e hanno comnciato a raccontare la loro esperienza. I social network
hanno fatto il resto diffondendo a macchia
d’olio il modello e dando il via al movimento
flip your classroom.
Che cosa fa l’insegnate
di una flipped class
> Appena arrivato in classe comunica il programma della
giornata ed esplicita gli obiettivi da raggiungere
> Verifica il livello di comprensione dei contenuti studiati in
autonomia (pre-requisiti)
> Adotta - se serve - un momento di istruzione frontale, per esempio per sintetizzare o riprendere elementi poco chiari
> Sostiene gli studenti in attività collaborative e cooperative
in qualità di esperto della materia e coordinatore dei gruppi
> Guida la classe nella creazione di prodotti originali, anche
digitali, che siano applicazione delle teorie
> Individualizza il feedback e predisporre piani personali
per attività di recupero o approfondimento
> Promuove la dimostrazione pubblica della padronanza di
fronte alla classe e incoraggia la diffusione online di ciò
che i ragazzi producono
107
108
focus tech
Bergmaan e Sams pongono in evidenza
come “ribaltare la didattica” possa fornire un quadro operativo per allineare le
conoscenze e le competenze degli studenti e miglio“Con il flipped learning il
rare la relazione educativa
attraverso la tecnologia e
ciclo dell’apprendimento
un’attenta ottimizzazione del
inizia a casa e non a scuola,
tempo. Potrebbe sembrare un
dove lo studente può trovare
approccio
eccessivamente
pragmatico.
In
realtà si basa
da solo il proprio ritmo di
sul consolidato modello pestudio"
dagogico del Mastery Learning, l’apprendimento per la
padronanza nato negli anni
Settanta che, tra le altre cose, si scaglia
contro l’idea che esistano studenti di serie A e di serie B, in grado o meno di rag•Nel metodo flipped classroom, giungere accettabili livelli di prestazione.
il tempo in classe è utilizzato
per esercitazioni e attività di
Il Mastery Learning punta a far ottenere
gruppo.
il massimo livello di padronanza al magFoto: The Boston Globe/Getty
Images
gior numero di studenti (se possibile alla
loro totalità), nel rispetto dei ritmi e degli stili di apprendimento dei soggetti. Il
flipped learning in fondo ne rappresenta
un’applicazione aggiornata ai tempi delle
tecnologie digitali e dei social network. Il
ribaltamento del tempo consiste semplicemente nello spostare a casa i momenti
di istruzione che richiedono un'interattività limitata, attraverso lo studio in autonomia. In aula vengono invece valorizzati
i compiti caratterizzati da una maggiore
complessità e apertura problematica, che
vanno affrontati attraverso il confronto
critico con gli altri studenti e con il docente.
Come cambiano i ruoli
Da un punto di vista pratico, con il flipped
learning il ciclo dell’apprendimento inizia a
casa e non a scuola, dove lo studente utilizza brevi ed efficaci videolezioni (o altro
materiale didattico appropriato) trovando
focus tech
IMPARARE SEMPRE
Modello Flip Your Classroom
Casa
L’apprendimento inizia a casa. Lo studente vede
(e rivede) in autonomia e al proprio ritmo i video.
I materiali possono essere prodotti dal docente
o selezionati da siti specializzati.
Scuola
Il docente esplicita gli obiettivi, crea gruppi in base
al livello di padronanza. Usa didattiche mirate al
problem-solving di gruppo, simulazioni, laboratori.
Vantaggi del modello Flip Your Classroom
> Per lo Studente
Assume il controllo del proprio apprendimento.
Guadagna tempo: segue le lezioni dove vuole
e quando vuole, quante volte vuole e al proprio
ritmo. Nell’applicazione dei contenuti è sostenuto
dal docente e dai compagni. Aumentano gli
scambi con il docente e i compagni.
da solo il ritmo di studio con il proprio
computer, tablet, lettore mp3 o cellulare.
La mattina seguente il ragazzo si presenta a scuola già “informato” sui contenuti
di base, che saranno usati come elementi
chiave per realizzare attività più stimolanti, di problem solving oppure produzioni originali individuali o in piccoli gruppi.
Per esempio i ragazzi potranno impegnarsi nella creazione di poster, presentazioni
digitali, filmati, composizioni artistiche o
altro. Insomma, lo studente non svolge più
i “compiti” a casa e in solitudine, invece,
applica in modo attivo (in classe) i concetti appresi (a casa) e questo ne favorisce un “ancoraggio” più profondo, grazie
al supporto diretto del proprio insegnante
e del gruppo classe. Una flipped-class si
basa dunque sullo spostamento del momento di acquisizione dei contenuti didattici. Ma ribaltare la didattica in aula
significa sconvolgere anche ruoli e status
consolidati dal punto di vista fisico.
> Per L'INSEGNANTE / TUTOR
Aumenta il controllo della didattica.
Guadagna tempo: registrando le video-lezioni
può riutilizzarle di anno in anno e in ogni
classe. Evita la monotonia. Può verificare
in tempo reale i progressi dei singoli.
Conosce meglio i bisogni dei singoli studenti.
tutti diventano più attivi
In una flipped-class, l’insegnante non sta in
cattedra, cambia la propria posizione e gira
continuamente tra i banchi, monitorando le
attività e regolando l’interazione tra gli studenti. Per i sostenitori della flipped-school,
questo significa che assume il ruolo di regista della classe, più vicino alla figura del
coach o del tutor che a quella del docente
tradizionale. Un ruolo impegnativo, che in
realtà prevede molte attività, tra le quali
compare anche la classica spiegazione. Che
però diventa parte di un lavoro fatto per lo
più insieme ai ragazzi. Lo studente, da parte sua, è invece obbligato a essere attivo,
perché in aula tutti si aspettano da lui che
applichi e produca conoscenza, non che assorba informazioni. L’obiettivo è che l’aula
diventi un luogo dove gli studenti siano incoraggiati a concentrarsi sulla sperimentazione diretta, ad apprendere criticamente e
a collegare concetti potenzialmente astratti
con l’esperienza concreta e quotidiana.
Guarda il racconto di Aaron Sams
dell’idea della flipped classroom
(in inglese)
http://link.pearson.it/20D5B4D7
109
110
focus tech
Il prof più famoso ha cominciato per caso
Il modello di blended learning, cioè di un mix bilanciato di istruzione in
presenza e a distanza, ha iniziato a diffondersi anche grazie alla spinta
propulsiva offerta dalla ormai celebre Khan Academy, un sito che offre
gratuitamente una sterminata libreria di video didattici - dalle scienze
sociali alla fisica quantistica - che possono essere usati per “capovolgere"
l’insegnamento. Il fondatore di questa accademia digitale è Salman Khan,
un plurilaureato del MIT (Massachusetts Institute of Technology) che ha
cominciato mettendo su Internet poche videolezioni di matematica per le sue
nipotine e ha visto i suoi video diffondersi in modo virale tra gli studenti
degli Stati Uniti e poi in tutto il mondo. Khan ha allora deciso di applicare
su grande scala l’invito di Bloom, Block e Anderson - i teorici del Mastery
Learning - a definire in modo esplicito gli obiettivi didattici per le proprie videolezioni e a dividere
i contenuti in mini-corsi o unità di insegnamento-apprendimento autonome. Ormai diventato un
vero guru di YouTube, oggi ricopre anche il ruolo di involontario innovatore pedagogico, ma viene
bersagliato da critiche taglienti che lo considerano responsabile della diffusione di uno stile di
istruzione piatto, acritico e alienante. Ecco la sua risposta: «Più gli insegnanti ribaltano il loro metodo
di insegnamento – con gli studenti che guardano le videolezioni a casa al proprio ritmo – più tempo
verrà liberato a scuola per attività creative come il gioco, l’arte o il brainstorming collettivo».
L’idea è che anche la percezione che gli
studenti hanno del valore del tempo speso
a scuola debba cambiare: le ore passate
con il tutor e i compagni non si limitano
più all’ascolto passivo, ma diventano lo
stimolo per relazioni cooperative e competitive finalizzate a una progressione
dell’autonomia e alla pubblica dimostrazione di padronanza delle materie. Anche
la scuola nel suo complesso, attraverso
l’adozione di questo modello potrebbe
modificare la propria immagine, passando da luogo spesso vissuto come oppressivo perché caratterizzato da una didattica rigida e non centrata sulla persona, a
uno spazio in cui il consumo degli stimoli
informativi non sia mai superficiale e in•••
consapevole.
> Flip Your Classroom: Reach Every Student in Every Class Every Day, di Aaron Sams e Jonathan Bergmann, 19,95 dollari
(disponibile su Amazon). Il racconto della prima esperienza statunitense
> The Flipped Classroom: The Full Picture, di Jackie Gerstein (disponibile su Amazon in formato Kindle), 2,10 dollari
> Le videolezioni di Salman Khan khanacademy.desk.com/
> La pagina di Facebook e il sito di discussione per l'Italia flipyourclassroom.it, flipyourclassroom.org
CITTADINANZA
di Franca Bimbi
Professore ordinario
di Sociologia
presso l’Università
di Padova
112
cittadinanza
Per le donne nulla
è ancora scontato.
I vecchi pregiudizi sono
sempre in agguato.
E l'uguaglianza dei diritti
nel riconoscimento
delle differenze resta
ancora da attuare
"C
•Eleanor Roosevelt presenta
la Dichiarazione dei Diritti
dell’Umanità (1948), che
sancisce, tra i vari aspetti,
che il sesso non può essere
una discriminante per i diritti
individuali, civili, politici
economici, sociali, culturali.
Foto: Federal Government Usa
ittadinanza" non è una parola facile, è una parola che divide, come
“famiglia”. Non si può entrare senza essere invitati. E se entriamo,
possiamo finire in un sottoscala, possiamo esser costretti a non parlare la nostra
lingua, a lasciare fuori tanta parte di noi,
persino i nostri figli o i nostri genitori. Possiamo entrare, ma non fare realmente parte
del luogo in cui entriamo. Possiamo restare
per sempre outsider within: in parte straniere e, se non straniere, in parte estranee.
Un limite o un privilegio? Credo che sia un
privilegio, oggi, per le donne native italiane,
pienamente cittadine e persino (almeno in
una certa proporzione) “arrivate”, emancipate, liberate, poter condividere con le
migranti e i migranti, questo sentimento
di venire da lontano, sapere che non si è
mai completamente “dentro”, che anche nei
luoghi del potere si deve fare i conti con
una storia recente di debolezza e di oggettiva inadeguatezza, a cui rinviano esclusioni
esplicite o implicite.
Aver presente il senso della relatività, la
consapevolezza che cittadinanza può significare un progetto comune, ma anche
conflitto per l’affermazione di sé come
persona e dei diritti alla propria differenza,
aiuta a immedesimarsi nelle condizioni di
vita di tutti quelli che sono costantemente messi ai margini. Venire da lontano, in
quanto a cittadinanza, significa per le donne venire dalla casa piuttosto che dalla
città, dall’interno domestico piuttosto che
dall’agorà, dal regno della cura esclusiva
dei “propri” piuttosto che dal governo di
tutti, anche degli estranei. L’espressione
“il nostro mondo comune” può significare per donne e uomini la famiglia, ma per
gli uomini può significare più facilmente e
con maggiore legittimazione anche la professione, lo sport, gli amici, soprattutto il
tempo per sé. Ciò da cui egli è chiamato a
uscire coincide con ciò che lei è chiamata
a custodire. “Custodire” significa vivere per
mantenere in vita, ma non si tratta di una
vita vissuta da essere morale se corrisponde a un obbligo ripetitivo di donare senza
potersene chiedere le ragioni, senza poter
dire “vado altrove”, come la Nora di Ibsen.
Oggi questo tipo di considerazioni possono sembrare in via di radicale superamento per la femminilizzazione del vertice di
molte professioni, anche di quelle votate
alla guerra, o perché un po’ di giovani padri possono scegliere di godersi la cura dei
cittadinanza
IMPARARE SEMPRE
figli. Si tende a sottolineare che le donne
possono scegliere una professione o la vita
familiare a tempo pieno, che le ragazze superano i ragazzi nella presenza ai gradi più
alti dell’istruzione, che le donne cominciano
a soffrire di molti mali da successo, di certi
tipi di cancro o di depressione. Proprio queste analisi, se unilaterali, rimettono in gioco
vecchi pregiudizi: poter scegliere di restare
disoccupata non è propriamente una scelta, studiare di più non significa avere più
denaro (in un mondo dove il denaro conta
più dell’istruzione, alle donne resta quello
che socialmente vale di meno), agli uomini
di successo non è mai stato consigliato di
lasciar perdere per evitare l’infarto.
La cittadinanza formale è importante e,
tuttavia, è la cittadinanza sostanziale che
misura la forza della propria voce nella società: diritti politici, certo, ma anche diritti
sociali e civili. Decidere assieme agli altri,
far pesare quanto ogni altra persona la propria opinione e le proprie esigenze: dall’inizio della storia umana guadagnarsi la cittadinanza ha significato avere accesso alla
città, nel senso di spazi sociali di vita ma
anche di autorevolezza nella sfera pubblica.
Il processo di riconoscimento della donna
come individuo morale sta alla radice della
cittadinanza, se intesa come democrazia
effettiva, in ogni tempo.
Rivediamo l’accesso recente alla città, che
sta negli articoli 1, 2 e 3 della Costituzione: una Carta dell’autodeterminazione della
persona, che fonda l’uguaglianza nei diritti
alla differenza, mentre afferma che l’uguaglianza non permette differenziazioni. I tre
articoli disegnano un dispositivo complesso, che non è interpretabile come semplice
affermazione di parità. Nel 1970 il diritto
di famiglia o l’introduzione del divorzio
affermano la parità, ma è la legge sull’interruzione di gravidanza a riconoscere la
differenza. È la donna che può decidere un
sì o un no a una gravidanza: questa volta
la biologia è assunta nella sua dimensione
morale e di esperienza. Nel 1996 con la legge sulla violenza sessuale si riconosce che
la donna è violata come persona, e dunque
lei sola può decidere se rivolgersi allo Stato
per chiedere giustizia. Il principio dell’autodeterminazione così apparentemente sem-
plice per il legislatore del 1996 (cos’altro
è la violenza se non vulnus alla libertà di
disporre di sé prima che ferita del corpo?)
ha perduto nel tempo la sua centralità. Al
posto dell’autodeterminazione femminile sta guadagnando spazio il diritto
“La cittadinanza formale è
penale: in Italia, in Europa,
importante e tuttavia è la
come in India, anche le
donne sono tentate dalla
cittadinanza sostanziale
richiesta di maggiori pene
che misura la forza della
per gli uomini violenti,
propria voce nella società:
fino alla cura coatta, alla
diritti politici, certo, ma
castrazione o alla pena di
morte. La parabola delle
anche diritti sociali e civili"
politiche antiviolenza italiane è significativa per
riflettere sul declino della
cittadinanza attiva delle donne, ma anche
sui rischi della razializzazione del dibattito sulla violenza di genere. Infatti sono
diminuite nel tempo le risorse per i servizi
antiviolenza promossi dalle donne mentre
la tipologizzazione dell’aggressore mette
spesso in campo la “barbarie” culturale dello straniero, nascondendo sotto l’etichetta
di “femminicidio” l’inspiegabile comportamento aberrante dell’omicida autoctono, la
cui violenza diventa facilmente una patologia individuale. Il tema della cittadinanza
delle donne, se non viene ridotto alle pari
opportunità (che comunque sono necessarie), ci aiuta a riflettere su molte dimensioni
di una possibile democrazia paritaria e del
riconoscimento delle differenze, ma soprattutto sulle dinamiche infinite tra diritti
e forme di giustizia. •••
> Donne, diritti, democrazia,
a cura di G. Fiume, XL Edizioni, 2007, 18 euro,
pag. 288
> Diventare persone. Donne e universalità
dei diritti, Martha Nussbaum, Il Mulino, 2001,
25 euro, pag. 370
> Genere. Dagli Studi delle donne a un’episte mologia femminista tra dominio e libertà,
Franca Bimbi, 2012, About Gender.
International Journal of Gender Studies,
vol. 1, n. 1, pp. 52-93
113
Laboratorio Pearson
di Riccardo Oldani
Foto: Archivio Pearson
Il progetto The Learning Curve realizzato da Pearson studia per la
prima volta le relazioni tra i sistemi educativi dei Paesi, l'economia,
la società e il benessere. E stila la classifica delle nazioni più
virtuose. Per capire punti di forza e debolezza di ciascun Paese
e offrire un aiuto concreto per migliorare
116
laboratorio Pearson
M
eglio funziona il sistema scolastico di un Paese, più elevati sono i suoi standard e i
risultati in termini di prodotto
interno lordo, capacità imprenditoriale, sicurezza sociale. Molti studi hanno dato conferma a questa affermazione soprattutto su
scala locale. Del resto, che una buona scuola
produca una società migliore è un dato di
fatto così evidente da sembrare addirittura
scontato. Ma nel
momento in cui
si vogliano indagare più nel
dettaglio le modalità con cui
un buon sistema di insegnamento produce
dei cambiamenti
quantificabili, a
livello per esempio di maggior
benessere diffuso o di riduzione
della criminalità,
le cose si complicano. La realtà in cui la scuola si inserisce
è così variabile
e sfaccettata,
composta da tanto numerosi e imponderabili
aspetti, che risulta particolarmente difficile
misurare la sua efficacia, sia nell'ambito di
un solo Paese sia in un confronto internazionale.
Ad aprire la strada a una classificazione e
valutazione oggettiva delle performance dei
sistemi scolastici di 50 Paesi nel mondo è un
grande progetto, denominato The Learning
Curve (la curva dell'apprendimento), realizzato da Pearson in collaborazione con EIU
(The Economist Intelligence Unit). Il risultato finale è una graduatoria dei sistemi scolastici di 50 Paesi, tra cui anche l'Italia, disponibile e consultabile liberamente online.
Per produrlo, gli esperti di Pearson e di EIU
hanno raccolto e analizzato a fondo un’enorme massa di dati, che riguardano sia la
valutazione dei singoli sistemi scolastici sia
economici e sociali. All'indagine statistica
si sono aggiunte le interviste a 16 esperti in
scienze dell'educazione di tutto il mondo.
Tutte le statistiche e i dati studiati sono stati
a loro volta trasformati in classifiche, liberamente consultabili sul sito del progetto, per
dar vita, come spiega Michael Barber, Chief
Education Advisor di Pearson, «a un database vivente e aperto, da aggiornare mano a
mano che vengono prodotti nuovi dati, che
speriamo possa incoraggiare nuovi studi e,
in ultima istanza, diventare uno strumento
per meglio indirizzare la politica educativa».
Finlandia e Corea al top
Dall'analisi è emerso un quadro complesso,
accessibile a chiunque voglia approfondirlo e perfezionarlo, che è il primo serio
tentativo di stabilire un sistema di confronto e valutazione dei più importanti
sistemi educativi. Secondo i dati raccolti
e confrontati dalla Learning Curve sono i
sistemi scolastici di Finlandia e Corea del
Sud a risultare i più efficienti del mondo,
seguiti da Hong Kong, Giappone e Singapore. L'Italia è situata a metà della graduatoria, al ventiquattresimo posto, davanti a
Francia e Norvegia, e non molto distante
da Germania e Stati Uniti, che la precedono rispettivamente di 9 e 7 posizioni. Per
definire questa classifica, gli esperti di Pearson e di Eiu hanno realizzato un Indice
Globale sulle Capacità Cognitive e il Rag-
laboratorio Pearson
IMPARARE SEMPRE
PAESE
PUNTEGGIO-Z
RANGO
PUNTEGGIO-Z
RANGO
PUNTEGGIO-Z
RANGO
FINLANDIA
1.26
1
DANIMARCA
0.50
12
ROMANIA
-0.60
32
COREA DEL SUD
1.23
2
AUSTRALIA
0.46
13
CILE
-0.66
33
POLONIA
0.43
14
PUNTEGGIO-Z
RANGO
HONG KONG–CINA
PAESE
0.90
3
GIAPPONE
0.89
4
SINGAPORE
0.84
5
REGNO UNITO
0.60
6
OLANDA
0.59
7
NUOVA ZELANDA
0.56
8
SVIZZERA
0.55
9
CANADA
0.54
10
IRLANDA
0.53
11
PAESE
GERMANIA
0.41
15
BELGIO
0.35
16
STATI UNITI
0.35
17
UNGHERIA
0.33
18
SLOVACCHIA
0.32
19
RUSSIA
0.26
20
SVEZIA
0.24
21
REPUBBLICA CECA
0.20
22
AUSTRIA
0.15
23
ITALIA
0.14
24
FRANCIA
0.13
25
NORVEGIA
0.11
26
PORTOGALLO
0.01
27
SPAGNA
-0.08
28
ISRAELE
-0.15
29
BULGARIA
-0.23
30
GRECIA
-0.31
31
giungimento del Livello d'Istruzione. Questo
indice considera le capacità cognitive raggiunte dagli allievi, calcolate per mezzo di
test internazionali come PISA (Programme
for Internationals Students Assessment),
Timss (Trends in International Mathematics
and Science Studies) e PIRLS (Progress in
International Reading Literacy Studies) e la
confronta con il livello di alfabetizzazione
di ogni singolo Paese, calcolato sul tasso di
scolarità e di raggiungimento della laurea.
L'importanza degli insegnanti
Secondo i responsabili del report sono due
i segnali che emergono con maggior forza
dall'indagine. Da un lato è evidente il fatto
che, per il miglior funzionamento di un sistema scolastico, non bastano gli investimenti.
I migliori risultati si raggiungono laddove
l'istruzione è supportata dalla società civile, in termini di condivisione dei contenuti,
dei comportamenti, di stimolo agli studenti
PAESE
117
PUNTEGGIO-Z
RANGO
TURCHIA
PAESE
-1.24
34
ARGENTINA
-1.41
35
COLOMBIA
-1.46
36
THAILANDIA
-1.46
37
MESSICO
-1.60
38
BRASILE
-1.65
39
INDONESIA
-2.03
40
e di creazione di aspettative e aspirazioni.
D'altro canto emerge il ruolo centrale dell'insegnante. L'impatto di un docente bravo e
motivato sui propri allievi non si riscontra
soltanto in un migliore risultato educativo, con studenti in grado di percorrere una
strada più lunga e più proficua nella scuola,
ma anche in una serie di elementi sociali
positivi, come livelli più bassi di gravidanze
tra i teenager o una maggiore propensione
a risparmiare in vista del pensionamento.
The Learning Curve ha lo scopo dichiarato
di aiutare i legislatori a individuare i punti
chiave che decretano il successo di un sistema scolastico. È un progetto in evoluzione, nel senso che si propone anche come un
invito ad altri specialisti e realtà per approfondire il metodo, migliorarlo e giungere a
un sistema sempre più preciso di valutazione dei sistemi educativi e dei loro effetti, a
breve e lungo termine, su tutti gli ambiti che
•••
decretano il benessere di un Paese.
Guarda il video di presentazione
del progetto (in inglese)
http://link.pearson.it/72245FB0
118
Laboratorio Pearson
L'ITALIA
Foto: Archivio Pearson
di Riccardo Oldani
A che punto è
I dati sul nostro Paese, elaborati dallo studio The Learnig Curve,
rivelano una situazione con luci e ombre: siamo a metà della classifica,
offriamo ottime possibilità di scelta e i ragazzi studiano fino a 16 anni,
ma investiamo poco. E siamo ben lontani dall'eccellenza
laboratorio Pearson
IMPARARE SEMPRE
U
n Paese in cui gli allievi trovano
una vastissima scelta di percorsi di studio, tra le più ricche al
mondo, e che ha raggiunto livelli
di qualità paragonabili a quelli dei più importanti Stati occidentali. Ma anche dove si
investe relativamente poco per l'istruzione
rispetto al prodotto interno lordo. Seguiamo
i nostri studenti molto a lungo, in media 16
anni a testa, garantendo loro tutte le opportunità per una formazione adeguata, ma non
siamo capaci di sfruttare appieno i vantaggi
di questo sistema, perché il benessere del
Paese non corrisponde al livello scolastico.
È questo il profilo dell'Italia che emerge dalla Learning Curve, dove ci troviamo esattamente a metà classifica, al ventiquattresimo
posto su 50 in base all'Indice Globale sulle
Capacità Cognitive e il Raggiungimento del
Livello d'Istruzione. Siamo in buona compagnia. In posizioni e con indici molto vicini al
nostro si trovano altre nazioni come Francia,
Germania, Spagna, Belgio, Norvegia, Svezia,
Australia, Stati Uniti. Leggermente avanti si
posizionano Gran Bretagna, Canada, Nuova
Zelanda, Svizzera, Belgio e Danimarca, oltre
a Giappone, Hong Kong e Singapore. Ma solo
i due Paesi che guidano la graduatoria, Finlandia e Corea del Nord, sembrano decisamente al di sopra di tutti gli altri. Va anche
detto che vastissime aree del mondo non
sono contemplate nella classifica, per mancanza di dati. Tra gli esclusi figurano la Cina
(a parte il territorio di Hong Kong), l'India,
tutta l'Africa, il Medio e il Vicino Oriente.
Confronto tra sistemi
Va poi sottolineato come Corea del Sud e Finlandia costituiscano due casi anomali rispetto agli altri. Nel primo il sistema scolastico
riflette la rigidità e la severità della società
civile, mentre la scuola finlandese spicca per
un'impostazione straordinariamente elastica
e libera. Uno dei 16 esperti intervistati dagli
specialisti di Pearson e di EIU che hanno stilato il rapporto, Robert Schwartz, professore
di Pratica della politica e dell'amministrazione dell'educazione all'Università di Harvard,
negli Usa, sottolinea che «la Finlandia è un
caso di studio meraviglioso. I bambini iniziano a studiare tardi, il tempo trascorso a lezione è più breve che in altri Paesi, non hanno
compiti, i loro insegnanti fanno poca presen-
za frontale. Secondo una stima, gli italiani
vanno a scuola per 3 anni in più». I dati del
Pisa, raccolti con una cadenza di tre anni
per verificare il livello di apprendimento di
scolari di 15 anni di età, mostrano che sono
ben pochi i finlandesi che prendono ripetizioni, e quelli che lo fanno di solito hanno
risultati peggiori nei test, il che indica che si
tratterebbe di operazioni di recupero. Infine,
il sistema ha la fama di essere concentrato
sull’aiutare i bambini a comprendere e ad applicare il sapere, e non solo a ripeterlo.
L'Italia, in base all'indice della Learning Curve, si pone a un livello alto, corrispondente a
quello di un Paese con un PIL elevato e con
un diffuso livello di alfabetizzazione. L'iniziativa di Pearson, però, non si limita a fornire
una classifica nuda e cruda. La ricchissima
banca dati, elaborata dagli esperti della Economist Intelligence Unit, raccoglie anche
una serie di parametri, una sessantina, che
illustrano tre differenti aspetti: gli input nel
sistema educativo, come la spesa pro capite
per insegnanti e allievi; gli output, cioè i risultati forniti dai sistemi educativi; l'ambiente socio-economico dei vari Stati, valutato
sulla base di indici internazionali, sui livelli
di salute e di reddito, ma anche sul numero
di omicidi.
Metà classifica
Misurati sulla preparazione degli allievi, i
nostri risultati sono medi. L'indice Pisa, i cui
dati più recenti risalgono al 2009, e che misura capacità e conoscenze degli studenti di
15 anni, analizzati a campione, ci pone a un
livello medio della graduatoria, con un valore di 485,93, distante da quello massimo,
ottenuto da Hong Kong, di 545,57. I nostri
risultati sono paragonabili a quelli di Spagna
e Francia, ma distanti da quelli tedeschi. L'indice Timss, invece, più orientato a valutare
la preparazione sulle materie scientifiche e
matematiche in due stadi dell'apprendimento (dopo il quarto e l'ottavo anno di scuola)
ci vede in una posizione leggermente migliore. Osservando questa particolare classifica,
su dati risalenti al 2007, notiamo come gli
scolari italiani mostrino performance migliori in queste materie in età più giovane. Siamo
anche al posto 26 su 50 nella classifica del
livello di alfabetizzazione della popolazio-
119
120
laboratorio Pearson
ne oltre i 15 anni, con una percentuale del
98,93%: i leader sono gli ucraini e i sudcoreani, rispettivamente con il 99,71% e il
99,60%. Se i dati relativi a disoccupazione
e livello di preparazione scolastica non sono
particolarmente attendibili, perché le serie
più complete risalgono al 2007 e sono precedenti alla crisi economica, più significativi
sono i dati sulla capacità di innovazione dei
singoli Paesi, che ci vedono, di nuovo, a metà
della graduatoria, con performance distanti
da Svizzera e Svezia, i leader in questo particolare contesto. È alta invece rispetto alla
media la produttività dei lavoratori italiani,
in termini di prodotto interno lordo. Anche
questo dato è considerato una diretta conseguenza della preparazione scolastica.
I punti di forza
Se andiamo a cercare i punti di forza del sistema italiano, quello che balza all'occhio è
l'elevata possibilità di scelta. A qualsiasi livello del percorso formativo si presentano, davanti all'allievo e alle famiglie italiani, molte
più strade percorribili rispetto ad altri sistemi. Dopo Singapore, Nuova Zelanda e Thailandia siamo il Paese che offre più possibilità
agli allievi. Gli autori del rapporto mettono
in evidenza che «secondo recenti ricerche, i
Paesi che offrono un ventaglio più ampio di
scelta hanno risultati educativi superiori. È
plausibile quindi pensare che permettere ai
genitori di scegliere le scuole migliori premi
l’alta qualità, portando a un progresso generale». In realtà sono comunque molte le
variabili: per esempio, la presenza di scuole
gratuite e pubbliche in Stati dove l'educazione è per lo più in mano a istituti privati diventa un fatto positivo, così come, al contrario, l'esistenza di scuole private di alto livello
in Paesi poveri che non sono in grado di investire molto sull'istruzione e quindi di dare
una preparazione sufficiente alle proprie
giovani generazioni. Più in generale, la possibilità di una scelta ampia presuppone anche
una capacità di informarsi e di scegliere da
parte dell'allievo e della propria famiglia. Di
per sé, quindi, un ampio ventaglio di opzioni non è indice di successo. Un altro ambito
in cui l'Italia mostra ottime performance è
quello dell'aspettativa di vita scolastica o,
in altre parole, gli anni di insegnamento impartiti in media a ogni scolaro in un Paese.
Arriviamo a oltre 16 anni, più della Germania,
IMPARARE SEMPRE
laboratorio Pearson
121
laboratorio Pearson
Foto: Archivio Pearson
122
per esempio, della Svizzera o del Giappone.
Soltanto Nuova Zelanda, Australia e Irlanda
fanno decisamente meglio. Siamo anche tra
i Paesi che ammettono in una struttura scolastica i bambini in età più precoce: già a tre
anni i nostri figli possono essere ammessi in
una struttura “pre-primaria”, come viene definita nel report, Esaminando invece i compensi riconosciuti agli insegnanti in Italia,
considerati tutti i gradi di istruzione, questi
sono al di sopra degli stipendi medi nazionali.
Ma, analizzando i dettagli, si nota come si
investa di meno sugli insegnanti della scuola
primaria. Inoltre non c'è molta variazione tra
stipendi minimi e massimi. è bassa la percentuale di PIL destinata dall'Italia all'istruzione
(4,52% nel 2009), pur in un Paese in cui è
elevata l'età per la scuola dell'obbligo e in cui
le scuole sono prevalentemente pubbliche.
Scuola e benessere
Quale profilo tracciano dell'Italia questi
dati? Sia gli investimenti fatti per la scuola sia i risultati prodotti ci garantiscono un
elevato livello di benessere, ma potremmo
fare meglio. Nella graduatoria dell'Indice
di sviluppo umano (Human Development
Index), che indica il livello macroeconomico degli Stati e la qualità della vita complessiva, siamo al posto 21 su 50. Ci troviamo, in questa classifica, dietro a Paesi
come Corea del Sud, Israele, Spagna, ma
siamo in una posizione migliore rispetto al
Regno Unito. Siamo anche tra quelli con un
basso numero di omicidi, 0,98 ogni 100.000
abitanti contro i 34,65 della Colombia o i 5
degli Stati Uniti. Abbiamo però una bassa
percezione della corruzione, ai livelli del
Ghana, del Brasile e della Cina e, come già
accennato, stipendi medi bassi, intorno ai
26.400 dollari l'anno (circa 22.000 euro),
contro gli oltre 61.000 di svizzeri e norvegesi. In altre parole, il profilo dell'Italia
che emerge dal report The Learning Curve
è contraddittorio e mette in evidenza luci
e ombre, sia negli indicatori generali del
livello di vita sia in quelli particolari riferiti agli investimenti sulla scuola e alla preparazione degli allievi. Valutare nel tempo
come si modificherà il rapporto tra questi
parametri consentirà a esperti e osservatori di capire meglio come l'educazione possa
avere riflessi positivi e negativi su tutto il
sistema paese. •••
> Il sito di The Learning Curve
http://thelearningcurve.pearson.com/
123
IMPARARE SEMPRE
Laboratorio Pearson
di Donato Ramani
Foto: Steve Vidler/Age/Marka
124
laboratorio Pearson
Il baricentro del mondo si sta spostando dall’oceano
Atlantico al Pacifico, dall’Occidente all’Oriente.
Ma il successo dei Paesi dipenderà sempre
di più dalla capacità del loro sistema educativo:
ecco quali saranno i fattori chiave
N
ei corsi e ricorsi della storia non
capita spesso di osservare una così
rapida rivoluzione nelle simmetrie
del mondo, oggi arrivato a un punto in cui la leadership mondiale, rimasta per
tanto tempo saldamente in mano alle nazioni atlantiche, si sta velocemente spostando
verso un altro oceano, il Pacifico, le cui potenze sono pronte a giocare carte decisive
sul tavolo degli equilibri internazionali. E, secondo molti, a dominare il prossimo futuro.
Tutto deciso, dunque? Tutto inevitabile? Non
esattamente. Le sfide che si pongono a chi,
da qui in avanti, avrà l’ardito compito di tenere le fila del pianeta sono tante e complicate.
Per far fronte a queste sfide i cambiamenti
da introdurre sono numerosi e inevitabili.
Due elementi, indissolubilmente legati l’uno all’altro, in particolare, faranno davvero
la differenza: l’innovazione e l’istruzione.
È questa la tesi sostenuta da Sir Michael Barber, Katelyn Donnelly e Saad Rizvi
nel corposo lavoro intitolato Oceans of innovation – the Atlantic, the
Pacific, global leadership and
the future of education. Nella
Ciò che serve è un salto,
ricerca, compiuta per l’inglese IPPR, Institute for Public
una discontinuità, una
Policy Research, i tre autori,
mossa decisiva sulla strada
tutti massimi esperti nel camdel progresso che rappresenti
po dell’istruzione e consulenun vero e risolutivo scatto
ti della casa editrice Pearson,
in avanti
analizzando gli ultimi studi e
intervistando gli opinion leader
del settore, hanno messo sotto
la lente di ingrandimento economia, società
e servizi all’istruzione d’Oriente e Occiden-
te, dell’area atlantica e di quella pacifica,
evidenziandone pregi e difetti in una prospettiva globale e tutta proiettata al futuro.
Dati alla mano, il panorama, ci dicono, appare chiaro: i successi dell’Asia, le sue rombanti
economie, i dati di crescita stupefacenti a
fronte di un Occidente in evidenti difficoltà,
lasciano pochi dubbi sulla direzione in cui
tira il vento. E se è vero che «l’istruzione è
il più importante investimento che si possa
fare per prepararsi al futuro», come afferma
il primo ministro della Repubblica di Singapore Lee Hsien Loong nell’introduzione del
lavoro di ricerca, non c’è dubbio alcuno che
anche su questo versante le realtà dell’area
pacifica e dell’Asia in particolare giochino un
ruolo di assoluta importanza. Lo dimostrano le altissime posizioni in classifica di Paesi
come Cina, Corea del Sud, Hong Kong, Singapore, Giappone, nel ranking mondiale sui
sistemi educativi. Sulla base del test PISA,
tanto per fare un esempio, uno studente coreano di 15 anni è 17 mesi avanti nello studio della matematica rispetto a un coetaneo
statunitense; un giovane di Shanghai precede di due anni e mezzo un collega europeo.
Otto posizioni tra le prime dieci, nel test PISA
sono occupate da Paesi dell’area pacifica.
Eppure, ci dicono Barber, Donnelly e Rizvi,
la partita è tutt’altro che chiusa. Anzi: «Le
questioni da affrontare si fanno sempre più
complicate e pressanti. Questi problemi
non si risolveranno semplicemente incrementando attività già in corso. C’è invece
bisogno di un’innovazione, molto più rapida, più profonda, più disturbante che nel
laboratorio Pearson
IMPARARE SEMPRE
Ciò che ha funzionato negli ultimi cinque
decenni permettendo di raggiungere i formidabili traguardi di oggi non fornirà la
chiave del successo nei prossimi 50 anni.
Semplicemente perché la nuova società
globale va troppo veloce, l’informazione è
molto dispersa e democratica, i cambiamenti in atto troppo rapidi. Ciò che serve è un
salto, una discontinuità, una mossa deci-
asiatici al successo. Tra gli altri: una élite
deputata a decidere la rotta di un intero
Paese, una società responsabile e rispettosa nei confronti dell’autorità e dello Stato,
l’estrema organizzazione, una cultura familiare forte, una scarsa mobilità professionale, l’uniformità e l’omogeneità come valore,
la collettività premiata sull’individualità.
Per rispondere alle sfide del futuro c’è bisogno di costruire, invece, quella che gli
autori definiscono una global generation,
capace di scrollarsi di dosso questi abiti diventati improvvisamente troppo stretti. La
siva sulla strada del progresso che rappresenti un vero e risolutivo scatto in avanti.
Per ottenerlo «occorre creare le condizioni
perché l’innovazione e la creatività possano
trovare spazio nella società» dicono Barber,
Donnelly e Rizvi. Obbligatorio innanzitutto
rivoluzionare quegli stessi capisaldi che, secondo gli osservatori, hanno portato i Paesi
generazione globale di cui parlano è fatta
di individui formatisi in una specifica cultura ma aperti al mondo, indipendenti e in
grado di adattarsi a incessanti mutamenti,
di continuare ad apprendere, di assumere
responsabilità e prendere decisioni, pronti a trasformare le cose con e per gli altri.
Le vie di questo cambiamento, nel pensie-
passato, indispensabile non solo per sostenere l’economia ma anche per far fronte
alle prove che si porranno da qui in avanti».
125
126
laboratorio Pearson
ro degli autori, seguono un percorso ellittico, che parte dalla società e vi ritorna
attraversando un territorio in cui devono
essere poste le autentiche fondamenta di questa trasformazione: la scuola.
Non che, come già evidenziato, in Oriente
i risultati già raggiunti in campo educativo
non siano degni di nota. Merito, dicono gli
analisti, di diversi fattori: il grande valore
dato alla professione di insegnante, premiato
da ottimi stipendi e da un prestigio sociale
sconosciuti in Occidente; il coinvolgimento
attivo delle famiglie nelle attività scolastiche, al di fuori di ogni divisione di classe o di
censo; l’importanza data all’apprendimento,
concepito di per se stesso come processo
virtuoso; e, anche, la pianificazione a lungo
termine delle politiche scolastiche, portate
avanti con estrema puntualità e rigore. Se
però i leader dell’area del Pacifico si fermassero qui mettendo un punto al processo di
evoluzione «commetterebbero un grossissimo
errore». Scrivono infatti Barber, Donnelly e
Rizvi: «La grande sfida oggi è diventare leader
dell’innovazione. Per farlo, occorre adattare il
sistema scolastico, passando dal paradigma
di grande successo del ventesimo secolo a un
altro, molto diverso, proprio del secolo in cui
viviamo». A tutti, il terzetto di autori offre
come ricetta per la migliore istruzione possibile una formula dagli ingredienti potenti e
suggestivi che suona così: Buona istruzione
= Etica (Conoscenza+Pensiero+Leadership).
Gli autori definiscono questa equazione «una
piattaforma, non una camicia di forza, che
lascia spazio a ogni Paese di creare un modello secondo le proprie esigenze». La Conoscenza è da acquisire ma anche da saper
utilizzare al momento opportuno: «Vogliamo
studenti che non solo conoscano il teorema
di Pitagora. Ma che sappiano come e quando
usarlo per risolvere dei problemi nel mondo
reale».
La combinazione di questi elementi, dicono
gli autori, è ciò che permetterà alle nuove
generazioni di liberare le qualità più innate,
di essere innovativi e costruttivi all’interno
della comunità, a livello locale come in quello globale. Una formula, questa, che dovrà
essere applicata non solo per una ristretta
rappresentanza di studenti, per un’elite di talenti come è stato finora soprattutto in Occidente, ma per l’intera comunità. Gli adulti
dei prossimi decenni, infatti, come lavoratori, come studenti, come cittadini, dovranno
tutti adattarsi a mutamenti rapidi nel mercato del lavoro, essere competitivi, «pensare
alla propria carriera come a una start-up, con
un atteggiamento imprenditoriale» così nelle
parole di Reid Hoffman, co-fondatore di LinkedIn, e Ben Casnocha nel recente volume
laboratorio Pearson
127
Foto: Danita Delimont Stock/Marka
IMPARARE SEMPRE
dal titolo The start-up of you di cui Oceans
of innovation riporta alcuni passi salienti. La
global generation dovrà essere anche giovane, fantasiosa, immaginativa, ingegnosa,
costruttiva, talvolta irrispettosa delle regole,
curiosa, iconoclasta, spesso coraggiosa, capace di sbagliare e rialzarsi. Saranno proprio
queste le qualità che faranno la differenza
nelle società del domani. La capacità di creare un terreno fertile per farle sbocciare e
crescere sarà l’elemento chiave che permetterà a un Paese di correre più veloce di un
altro, dal punto di vista economico, sociale,
politico. Non a caso, a fior di metafora, l’invito di Barber, Donnelly e Rizvi nei confronti
di istituzioni e insegnanti è quella di «togliere
il soffitto» alla scuola e, in campo artistico,
sportivo, accademico, dare ai ragazzi, a tutti
i ragazzi, «l’opportunità di volare», liberando aspirazioni, energie e potenzialità. Che,
assieme all’applicazione, al lavoro costante e un ottimo training, garantiscono gli
autori, sono i veri ingredienti del successo.
Una bella impresa per lo schema educativo occidentale, quello statunitense soprattutto, molto propenso a un’impostazione
verticale, in cui sono pochissimi talenti a
emergere e ad avere accesso all’istruzione migliore. Così come per quello orientale,
più equo ma scolasticamente molto impegnativo, poco incline a valorizzare le individualità e le differenze, molto omogeneo,
molto disciplinato e con un’organizzazione
serrata. Un’impostazione che, ci suggerisce
Oceans of innovation, riproduce al pantografo quella dell’intera società asiatica.
È anche per questa ragione che i cambiamenti necessari e obbligatori perché le
realtà del Pacifico possano raccogliere efficacemente lo scettro di leader mondiale
devono partire dalla scuola, ponendo lì il
seme di un mutamento difficilmente evitabile. Che è tecnologico e sociale, e mette
insieme innovazione e crescita economica,
creatività e libertà di espressione. Elementi questi con cui l’intera area pacifica, e la
Cina in particolare, dovrà fare presto i conti
per compiere l’evoluzione che saprà davvero
ridefinire i connotati del pianeta che verrà.
In tema d’innovazione, è vero, con l’Asia
da una parte e il Nord America dall’altra,
già oggi questa regione non teme paragoni. Seppur con significative differenze: se è
vero infatti che la quantità di application per
nuovi brevetti in Oriente è aumentata di oltre il 50% dal 1996 al 2009, è altrettanto
vero che troppo spesso questa innovazione è
128
laboratorio Pearson
Come funziona la formula
Buona istruzione = E x (C + P + L)
E = sta per “etica”, sottesa a ogni aspetto della nostra vita e di cui la scuola dovrà farsi sempre più
carico negli anni a venire.
C = conoscenza, da acquisire ma anche da saper utilizzare al momento opportuno: «Vogliamo studenti
che non solo conoscano il teorema di Pitagora. Ma che sappiano come e quando usarlo per risolvere dei
problemi nel mondo reale».
P = “pensiero” e “pensare”, perché insegnare agli studenti a riflettere, a porsi delle domande, in modi
diversi, in contesti diversi, è uno dei compiti più importanti del sistema scolastico.
L = “leadership”, perché, in attività differenti, che siano didattica, sport o attività culturali, i ragazzi
devono imparare l’arte del comando, inteso come abilità a comunicare e lavorare in team, esporre il
proprio punto di vista e sentire quello altrui, assumersi delle responsabilità e prendere delle decisioni.
(La formula è stata tradotta dall’inglese. Nell’originale risultava Well-educated = E(K+T+L) in cui E sta per Ethics, K per
Knowledge, T sta per Thinking e Thought, L sta per Leadership.)
di matrice incrementale e continuativa, non
dirompente, esplosiva, sconvolgente, game–
changing, come quella che a tutt’oggi arriva dagli Stati Uniti. «Designed in California.
Assembled in China» si legge dietro a ogni
iPhone, ci ricordano gli autori. Una frase che
traccia piuttosto bene gli equilibri oggi presenti in un campo in cui da qui in avanti si
svolgerà la partita del mondo.
Le regole del gioco saranno le diverse realtà nazionali a doversele dare. I giocatori si
stanno formando in questo momento nelle
loro scuole. Quella che Barber, Donnelly e
Rizvi chiamano “la rivoluzione educativa”,
insomma, ha valenze di estrema importanza,
molto al di là delle pareti di un istituto, dei
confini di un Paese e di un’area geografica.
Sebbene lontanissima ai nostri occhi, remota culturalmente, apparentemente assai
distante dai nostri interessi primari, i muta-
menti che quella parte del pianeta, l’Asia in
primis, sarà capace di mettere in atto, a partire dalla nuova società di individui che nelle
sue scuole si sta oggi formando, ci riguarda molto più da vicino di quanto saremmo
pronti a pensare. Perché i problemi che le
realtà affacciate sul Pacifico, nella geometria che dall’Oriente raggiunge l’Australia e
finisce sulle coste del continente americano, saranno chiamate a risolvere, in un’ottica globale, sono e saranno anche i nostri.
Lo ribadiscono i tre autori nelle battute finali del loro testo, così dichiarando: «Il futuro dell’area del Pacifico e la sua capacità
di diventare un oceano di innovazione sarà
modellata ogni giorno, da qui in avanti, nelle
classi di Singapore e Shanghai, Hong Kong e
Hanoi, Kuala Lumpur, Melbourne, San Francisco e Vancouver. Dal successo di questa
•••
impresa, dipende il futuro di tutti».
Guarda l’intervento di
Sir Michael Barber (in inglese)
> Il sito dedicato alla ricerca, da cui è possibile scaricare l’intero rapporto
http://www.pearson.com/oceans.html
http://link.pearson.it/5236F26