Frutti di mare - Progetto Dialogo

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Frutti di mare - Progetto Dialogo
un mondo a colori
Frutti di mare
vincitore concorso “un mondo a colori” 1ª edizione
SezIONE ElaBorato artisTIco
La patina appiccicosa si sgretolò come mollica sull’estremità dell’indice
sinistro. Il vento sabbioso dell’inverno, che trasformava la superficie naturale
di tutte le cose, aveva trovato l’umidità della sera e adesso il vetro restituiva
un’immagine opaca dell’esterno, sparpagliava la luce, mescolandola all’anima
grigia della finestra.
Si era svegliato per quelle piccole ombre luminose sul soffitto buio della
stanza ed era rimasto ad ascoltare col fiato interrotto il vocio sommesso che
veniva dal di fuori; poi si era alzato e si era fermato a guardare dalla finestra,
col naso schiacciato sul vetro per tutto il tempo.
Il mare era un grande occhio spento e le ciglia algose si erano distese
sul lenzuolo del cuscino sabbioso, puntellato di orme e crateri di formiche.
Sull’iride bluastra e fioca un barcone bianco dalle pareti smangiate si avvicinava
lentamente alla riva, tagliando il dorso piatto del mare; dalla finestra della
stanza sembrava un mostro sconfitto che camminava a tentoni su una gelatina
quasi incolore. Le grandi reti sulla poppa davano l’impressione di essere delle
enormi razze luccicanti, fatte per natura a quadratini trasparenti che in certi
punti scomparivano dal reticolo coerente del corpo, a causa di alcuni oggetti
neri adagiatisi sopra.
Un gruppo ondeggiante di persone si dirigeva verso la spiaggia e, a mano
a mano che la strada si diramava allungandosi verso il mare, si aggiungevano
altre gambe e altre braccia, e la folla cresceva, un’informe massa nera che si
muoveva in punta di piedi nella notte.
Quando la barca gettò l’ancora, era stato già acceso un fuoco; allora uno o
due pescatori scesero a terra con le lanterne nelle mani e qualcuno si sporse sul
ciglio dell’onda per vedere quello che il mare aveva saputo offrire.
“Youssef, Youssef! Testa di fagiolo, spostati da là! Arriva un’onda e ti
mangia!”
“E stai un po’ zitto tu, Cenerentola, che mi distrai.... Non hai portato
nemmeno il binocolo e pure ti lamenti...”
“Fai un po’ come ti pare, Youssef... La pelle è tua; anche se appiccicosa, ma
è tua.”
Youssef-Aranciata-testa di fagiolo-figlio di nessuno, d’inverno, d’estate,
con pioggia o sole sulla capoccia, si accoccolava sopra le pietre taglienti oltre
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la ringhiera erosa dalle onde e guardava l’acqua con gli occhi lontani e le mani
a cupola sulle orecchie, per sentire meglio, diceva.
Quando usciva da scuola, prima di tornare al convento dei monaci, passava
il pomeriggio a rotolarsi sulla spiaggia, destra sinistra sinistra destra, mentre
il mare spruzzava fischi e sudore dalla pancia vuota del suo didentro. Se poi
Padre Tanuzzo gli chiedeva cosa fossero tutti quei minuscoli taglietti sulle
braccia e sulle gambe, rispondeva che era stata la terra a volerlo risucchiare,
proprio mentre era seduto, ma lui aveva combattuto, non ci voleva andare
sotto il mare, Padre, sotto il mare proprio no... Ed era riuscito a risalire a galla,
un attimo prima che il sole inciampasse sull’ultimo scalino del cielo e poi,
puff, svanito chissà in quale baratro.
La maestra durante l’ora di geografia gli aveva detto che era una perdita di
tempo starsene in spiaggia tutto il giorno, gli aveva spiegato che quello era
un paese troppo piccolo e nessuno dei barconi provenienti dall’Africa sarebbe
mai arrivato lì.
“Guarda Youssef, la gente del tuo paese arriva qui, si chiama Lampedusa” e
aveva indicato con l’unghia smaltata un puntino giallastro fra l’azzurro smorto
del Mar Mediterraneo.
“Ma allora perché io sono qua e gli altri stanno tutti da un’altra parte?”
“Perché sei figlio di nessuno! Aranciata! Figlio di nessuno, nannanarannà!”
aveva gridato con la bocca sgangherata Cenerentola, e alcuni avevano riso,
altri, che non se lo filavano più da un pezzo per quella storia della scarpa che
aveva perso mentre giocava a pallone, gli avevano fatto una pernacchia.
“Non è così Youssef, non ascoltare il tuo compagno. Sai bene che sei stato
trovato per caso e meno male! Devi ringraziare il Signore per questo.” aveva
concluso la maestra.
Ringrazia il Signore, sei stato fortunato, c’è gente a cui è andata peggio. Senza
dubbio.
Guardando il mare, però, si era chiesto più volte se anche lui non fosse
venuto da un cavolo sepolto sotto l’acqua.
Nino, il pescivendolo, era da una vita che taceva tutto. Tutte le parole
che gli venivano in mente, quelle sì, che uscivano come l’acqua del rubinetto
quando ha piovuto, ma se gli chiedevano e Youssef?, serrava le labbra in una
morsa tenace, cominciava a togliere le lische del pesce più velocemente del
solito. Si sapeva solo che una sera di agosto di sette anni prima l’avevano visto
tornare dalla spiaggia con un fagotto in mano, che all’inizio sembrava più
che altro una catasta di lettere l’una sopra l’altra. Poi dalla catasta era uscito
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un dito minuscolo, scuro come il miele di castagno, e le madri erano andate
subito a mettere il latte sul fuoco. Sull’etichetta del pigiamino qualcuno aveva
scritto Youssef con una penna dal colore sbiadito e c’era come il rimasuglio
di un fiore fra le pieghe della coperta. Mentre Padre Tanuzzo, colpito da una
scheggia di compassione e forse anche di istinto paterno, si era fatto prestare
una culla che ormai nessuno utilizzava da tempo, una fila serpentina di occhi
e bocche eccitate si era snodata sino al convento, portando al trovatello quanto
aveva da offrirgli. Il parroco aveva pure osato dire che quell’anno il Natale era
arrivato prima. Poi se n’era pentito.
Ma in fondo poi lo sapevano tutti che Youssef era un bambino buono,
faceva tante domande, sì, ma quando avevi qualcosa di interessante da dirgli si
metteva attento ad ascoltare, imbambolato davanti la tua faccia. Se non avevi
niente da dire cominciava a parlare ad alta voce di tutto quello che gli passava
per la testa, come se tu non avessi potuto sentirlo, e gridava con la forza di un
assennato, capitombolava da un argomento all’altro il cui legame era un filo
sottilissimo, un’intuizione istantanea nella mente.
“Nino, ma, secondo te, non si stancano i pesci a respirare con le branchie?
Gli entra tutta quell’acqua dentro, che io vomiterei in un secondo, e poi
subito fuori dalle branchie. Secondo me, è una cavolata, e un giorno usciranno
dall’acqua e cominceranno davvero a respirare, perché respirare nell’acqua non
c’entra niente col respirare davvero! No?”
“Io non lo so come fanno i pesci, Youssef, io me li mangio e basta.”
“Uffa, fai sempre il muto quando ti chiedo qualcosa, ma io lo faccio anche
solo per scambiare qualche parola, se non parlo con te con chi devo parlare?”
“Hai ragione, ma sono molto stanco ed è da una giornata che mi fai
domande difficili, io sono solo un pescivendolo, e sono tuo amico, ma sono un
pescivendolo, nient’altro.”
“Ma questo che c’entra! Allora io che sono solo un bambino, cosa dovrei
dire? Siete tutti strani voi.”
“No, non è così Youssef. È solo che a volte si è stanchi.”
“Sì certo, quando chiedo una cosa siete stanchi, ma se me ne sto zitto, voi
parlate e nessuno vi ha chiesto di farlo.”
“Va bene, hai ragione tu.”
“Sì, lo so. Ho ragione io. E poi, secondo me, è una schifezza l’acqua dentro il
corpo, e menomale che non sono un pesce, non vorrei essere un pesce nemmeno
se mi pagherebbero, figuriamoci!”
“Si dice se mi pagassero, non pagherebbero.”
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“Ah?”
“Niente, niente.”
“Poi ce n’è di gente strana, anche sotto il mare. Le balene, tu lo sapevi che
non respirano sempre, ma quando gli sembra più giusto? Tu lo sapevi?”
“No, non lo sapevo, ma non credo che facciano davvero così.”
“E se si addormentano per troppo tempo, non respirano più, ed è finita.
Cioè tu che dormi, e nel mentre t’ammazzi.”
“Davvero?!”
“L’altro giorno pensavo che forse sono arrivato dalla pancia di una balena.
Come Pinocchio, mia mamma mi aveva fatto di legno, però dopo mi hai
trovato tu, e sono diventato normale.”
“Chi lo sa.”
“Comunque, adesso me ne vado, c’è Salvatore che mi aspetta in spiaggia,
dobbiamo scrivere una lettera e metterla dentro una bottiglia, e poi la buttiamo
a mare, così se qualcuno dei miei parenti la legge, mi viene a trovare. Ah, e poi
lo sai come lo chiamano Salvatore? Lo chiamano Cenerentola! Perché ieri ha
perso la scarpa mentre giocava a calcio, ma ha continuato a correre come uno
scemo. Va bene, ciao Nino, ci vediamo domani.”
“Ciao Youssef, fai il bravo.”
L’occhio si era richiuso nelle cinque dita della sua mano, un pugno serrato
che durante il giorno si addormentava, mentre la notte si apriva come una
porta spalancata, per vegliare la spiaggia abbandonata, le strade nere.
Erano riusciti a recuperare una bottiglia di coca cola, dentro cui avevano
infilato un foglio a quadretti grandi e il petalo di fiore che Nino aveva trovato
sette anni prima, tra le pieghe del pigiama. Non era stata un’impresa facile,
soprattutto perché Youssef aveva dovuto rubare quel petalo, dato che Padre
Tanuzzo aveva pensato bene di conservarlo sotto il materasso del suo letto,
come un portafortuna. Ma con un po’ di ingegno Youssef era arrivato alla
conclusione che se avesse sostituito quel petalo con un qualsiasi altro petalo,
nessuno se ne sarebbe accorto. Però nella bottiglia ci doveva stare quello giusto, non
un altro.
Ci avevano messo un po’ di tempo per scrivere la lettera, avevano cercato
le parole giuste, quelle più semplici ed essenziali, quelle che sarebbero potute
piacere di più al nonno, alla mamma, al papà di Youssef.
“Allora, io detto e tu scrivi, perché io magari poi sbaglio e si mettono a
ridere e non vogliono venire più. Va bene?”
“Sì, Youssef, detta detta, che io scrivo.”
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“Allora, devi mettere intanto che oggi è primavera e c’è il sole.”
“No, tu dimmi proprio quello che devo scrivere. Cioè, tipo: ciao, io sono
Youssef, bla,bla, bla...”
“Va bene. Allora, ciao, io sono Youssef, oggi è primavera e c’è il sole. Fatto?
Bene. Vi scrivo questa lettera perché mi farebbe piacere conoscervi, e siccome
non vi conosco e voi non conoscete me, forse così possiamo conoscerci. E dai,
sbrigati, che poi mi dimentico quello che devo dire...”
“E un attimo!”
“Va bene.”
“Fatto.”
“Io vi aspetto ogni giorno, vengo a mare e guardo se arrivate, ma voi non
arrivate mai, forse perché non sapete chi sono e dove vivo. Allora vi scrivo
questa lettera, così poi venite e ci conosciamo.”
“Sì, continua...”
“Sì...Ho messo dentro la bottiglia il petalo che c’era dentro il mio pigiama,
così capite chi sono io. Adesso butto la bottiglia a mare, e voi venite qua,
perché vi aspetto e vorrei tanto conoscervi. Ecco. Firmato Youssef.”
“E io no?”
“Ma sì, anche tu... Firmato Youssef e Salvatore.”
“Perfetto.”
“Sì.”
“Ora buttiamola in acqua.”
“Sì.”
L’occhio si era aperto, un manciata di secondi per prendere aria, ma poi una
scheggia di vetro l’aveva colpito, e allora si era richiuso di nuovo, offeso sino
all’osso per quella manata improvvisa.
“Adesso che facciamo?”
“Adesso stiamo qua fino a quando non se ne va il sole, e poi ce ne andiamo
a casa.”
“Va bene.”
Salvatore aveva giocato tutto il tempo con le pietre, le aveva messe sopra la
mano e poi le aveva fatte saltare, ne aveva preso tre o quattro e aveva cercato
di costruire una piccola torre. Youssef lo aveva guardato per tutto il tempo e
aveva provato a non ridere troppo- perché Salvatore poteva sembrare un po’
scemo a volte- ma non ci era riuscito.
“Comunque non è colpa tua, Youssef, se la tua pelle è appiccicosa. È colpa
dell’aria, mia mamma lo dice sempre che è troppo umida e poi tutto diventa
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appiccicoso. Ma tu non te la prendere se ti chiamo Aranciata, però è simpatico,
no?”
“Sì, non ti preoccupare, sempre meglio di Cenerentola...”
Quando era tornato a casa si era sentito soddisfatto, e prima di addormentarsi
aveva deciso che avrebbe pensato all’incontro con la sua mamma. Lo aveva
pure inscenato, seduto a gambe incrociate sul letto, si era complimentato con
se stesso per il lavoro riuscito così bene.
Se fosse il sonno, se fosse invece l’opacità del vetro, questo non riusciva a
capirlo, ma davvero le cose che stavano accadendo là fuori gli apparvero come
la coda del sogno lasciato sul letto.
Il grande occhio del mare strabuzzava da una parte all’altra, non facevi
in tempo a guardarlo fisso che scappava in un’altra direzione, destra sinistra
sinistra destra. Youssef era attaccato alla finestra come una lucertola sul muro,
cercava di trattenere quanto più possibile il fiato per non appannare il vetro.
Dal barcone bianco continuavano a scendere uomini e ancora uomini, che
Youssef quasi quasi non cadeva a terra dall’emozione. Si urlava in testa che
erano arrivati!, che aveva fatto bene a mandare la lettera!, che era stata davvero
una genialità! Poi era rimasto a guardare ancora un po’, curioso di sapere anche
che pesci avevano preso, ma non era riuscito a vedere bene, anzi, si era pure
spaventato, gli era sembrato che una delle figure nere sopra le reti terminasse
con una mano e con una gamba. Forse il sonno, forse l’opacità della finestra.
Allora si era addormentato, con la bocca che non smetteva di andare su,
perché sarebbe stato meglio fargli la sorpresa alla mamma, arrivare da lei
l’indomani mattina tutto sorridente e magari anche con un mazzo di fiori,
e poi prendersela tutta in un abbraccio, prendersi anche quello che si era
perso. Mamma! Sono qua!, Oh, Youssef, vieni qui che ti riempio di baci!, e via con
l’allegria, via con le camminate mano nella mano, le corse insieme, i bagni di
pomeriggio, di mattina, a qualsiasi orario!
Il sogno riprese coscienza di sé e, muovendo la coda abbandonata sullo
stipite della finestra, sguainò le ali e si lanciò ad occhi chiusi.
Youssef, adesso, era fermo davanti la ringhiera del lungomare, aspettando
che qualcuno da dietro lo venisse a prendere. Accanto a lui apparvero delle
scarpe di tela rossa e una mano calda si strinse attorno la sua. Cominciarono
a camminare e il vento dal respiro diafano portava sotto il naso un’essenza
salubre, che sapeva di casa, di mamma. Se annusava la mano che lo stringeva,
l’odore si faceva ancora più forte.
Camminavano attaccati l’uno all’altro, ma senza riuscire a vedersi, quasi
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come se fossero diventati lo stesso corpo, la stessa mano. Poi entrarono dentro
il paesino; percorrevano i vicoli stretti che odoravano di panni stesi, di pranzo
della domenica; si fermavano davanti le vetrine dei negozi di giocattoli, ne
indicavano uno e ancora un altro, avanzavano ondeggiando verso il bar della
piazza.
Il negozio di Nino era aperto, si vedevano da lontano le insegne con il
prezzo dei pesci. Correvano, adesso, verso Nino, ché sarebbe stato un peccato
non averlo potuto salutare assieme, ché ci sarebbe rimasto male pure lui.
Nino davanti la porta non c’era, l’avevano chiamato, ma non rispondeva
nessuno. Allora, erano entrati, malgrado il puzzo insopportabile, malgrado le
pareti che grondavano da ogni parte acqua e bagnavano il pavimento grigio.
Nino non c’era nemmeno lì. Aveva lasciato il negozio incustodito, con tutto
il pesce esposto in prima fila che chiunque se lo sarebbe potuto portare a casa.
Pesce di ogni tipo, di qualsiasi grandezza. Anche dei pesci enormi, ma davvero
enormi, che non si capiva bene cosa fossero perché nascosti da un lenzuolo blu
che scendeva giù sino al pavimento. Accanto al lenzuolo c’era un cartello di
plastica su cui c’era scritto frutti di mare.
Alzarono il lenzuolo, per assaggiare un calamaro, o una seppia, o un’ostrica.
Un volto pallido e anch’esso grondante d’acqua; un naso morbido, scuro
come il miele di castagno.
Maria Giulia Mancuso Prizzitano
Liceo Ginnasio Statale “N. Colajanni” - Enna
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