Leggi l`elaborato - Fogli di Viaggio

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SUDAFRICA, IL SOGNO SVANITO
Sudafrica un Paese nuovo?
Eccomi di nuovo per la seconda volta in Sudafrica, la prima è stata in occasione dei Campionati del
Mondo di Calcio 2010, questa volta invece è per l’African Cup of Nation 2013. Sbarchiamo a
Johannesburg dopo otto ore di volo, ma ci aspettano ancora due ore di bus per arrivare a
Rustenburg. Appena usciti dalla bolgia urbana di Johannesburg si ha subito l’impressione di un
Paese lindo, ordinato e la presenza di innumerevoli attività industriali ed artigianali di piccola e
media portata trasmettono l’idea di un Paese in piena e forte evoluzione economica. Man mano che
ci si inoltra nella North West Province di cui Rustenburg fa parte, il paesaggio diviene di un
uniforme verde smeraldo, con abitazioni basse e sobrie perfettamente integrate nell’ambiente. Stenti
a credere di essere in Africa. La terra è rossa e grassa ma vi sono pochissimi appezzamenti coltivati,
soltanto arrivando nell’enorme pianura di Marikana Plaza le coltivazioni si estendono a perdita
d’occhio. Per il resto un’immensa savana con vegetazione piuttosto bassa e rada dove pullula
bestiame ovino e bovino, punteggiata qua e là da zebre, antilopi, gazzelle e da cactus carichi di frutti
rosso fuoco. Gli agglomerati di baracche a cui l’Africa mi ha da tempo ormai abituato sono rari e
cominciano ad intensificarsi solamente in prossimità di Rustenburg. Imbocchiamo l’immancabile
Nelson Mandela Street che taglia in due la città e lì comincia l’Africa a cui sono abituato: sporcizia,
immondizia, i soliti bivacchi di gente sui bordi delle strade, la solita povertà. Nonostante questo
Rustenburg, con i suoi 125.000 abitanti, non è la tipica città africana, perlomeno nel centro mostra
un aspetto dignitoso, il tutto è sufficientemente pulito e sulla strada principale si affacciano attività
commerciali di ogni genere ma tutte piuttosto decorose. Questo Paese comincia a stupirmi, durante
la mia prima visita forse lo avevo mal giudicato o quantomeno osservato troppo superficialmente e
con scarsa attenzione ma, d’altro canto, all’epoca non avevo ancora scoperto le periegesi. Appena le
case di Rustenburg cominciano a diradarsi per dare nuovamente spazio alla savana, veniamo
letteralmente immersi in nuvole di farfalle bianche molto simili alle nostre cavolaie (Pieris rapae)
ed alla vista tutto mi appare come un grande e tremulo ondeggiamento bianco su di uno sfondo
verde smeraldo: uno di quegli spettacoli straordinari che solamente l’Africa sa regalarti. La magia
finisce presto ed all’arrivo al Royal Marang Hotel, ripiombiamo nell’Africa stereotipata e
commerciale, offertaci questa volta da una dozzina di falsi zulu che ci danno il benvenuto con canti
e balli locali, erano molto meglio le farfalle. Il Royal Marang Hotel che ospita il complesso del
Kgoshi Leruo High Performance Center è un lussuosissimo complesso sportivo perso in mezzo alla
savana. All’epoca dei mondiali di Calcio aveva ospitato la Nazionale Inglese, e da allora ha visto
ben pochi altri visitatori. Parlando poi con il personale del centro credo di aver capito, ma la
sicurezza in Africa non è di casa, che il complesso sia stato costruito da una società mineraria che,
in cambio dello sfruttamento del territorio, ha fornito la regione – in effetti il centro è stato
direttamente donato a Kgosi Leuro Tshekedi Molotlegi, il re della Royal Bafokeng Nation, che se lo
è prontamente intitolato - di questa super lussuosa struttura, mi viene subito in mente che forse
sarebbe stato meglio costruire una scuola, oppure un ospedale, ma temo che da queste parti il fatto
di poter ospitare i Mondiali di Calcio sia stato un business troppo allettante per poter fare delle
scelte razionali. D’altro canto anche lo stadio di Rustenburg, costruito anch’esso in occasione dei
Mondiali, campeggia in mezzo al niente a pochi chilometri da noi. Al di là del valore di queste
considerazioni, il complesso è in effetti molto bello, i campi di allenamento sorgono proprio dove la
savana comincia a gracchiare, i nidi dei tessitori dorati (Ploceus subaureus) pendono da ogni albero
ed i loro voli, assieme a quelli dei vescovi rossi, (Euplectes oris) come fiammate gialle e scarlatte
infuocano il cielo già pieno dei richiami degli Hadada Ibis (Bostrychia hagedash), che tutto
sembrano fuorché suoni che possano essere emessi da un uccello. In uno scenario naturale così
diviene sopportabile, o quasi, anche il calcio.
L’idillio s’incrina
Rustenburg in questi giorni è in subbuglio, i minatori che lavorano nelle locali miniere di platino
hanno iniziato una dura protesta, la violenza sta crescendo e la polizia locale non ha più il pieno
controllo della situazione. Anche i sindacati stanno perdendo la fiducia, e conseguentemente il
controllo, dei minatori che stanno cominciando ad abbandonare le organizzazioni sindacali e
vorrebbero scegliere direttamente i propri rappresentanti. Il vescovo di Rustenburg, Monsignor
Kewin Dowling, ha espresso pubblicamente la sua preoccupazione attraverso l’agenzia Fides,
paventando il rischio reale di vanificare le normative adottate sia dal governo, che dai sindacati per
controllare le rivendicazioni lavorative e sociali dei minatori. Il suo intervento non è comunque
stato di grande efficacia, visto che nei giorni immediatamente seguenti due minatori sono stati
uccisi in una delle baraccopoli alla periferia della città. La situazione, perlomeno a detta di
Monsignor Dowling, si è ulteriormente esacerbata con la discesa in campo di un gruppo
d’ispirazione Trotzkista, denominato Democratic Socialist Movement, per arginare il quale la
Chiesa locale non ha trovato null’altro di meglio da fare che organizzare una serie d’incontri di
preghiera per la pace e la riconciliazione che si terranno mensilmente in un diverso luogo di culto di
religione cristiana della provincia. Mi permetto di dubitare dell’efficacia della pur lodevole
iniziativa.
Dove è svanito il sogno di Nelson?
Al di là di questa idilliaca apparenza il Sudafrica rimane comunque un Paese violento dove la
negazione dei diritti umani è tutt’altro che un’eccezione. La realtà Sudafricana è fatta da un lato di
gente che rivendica, scendendo sempre più frequentemente nelle piazze, i propri diritti essenziali ed
inalienabili: salari dignitosi, condizioni di vita accettabili, una casa decorosa al posto di una misera
baracca, acqua, elettricità, un sistema fognario… e dall’altro di polizia che risponde con la
repressione violenta. Sorge spontaneo domandarsi: il progetto del Paese è fallito? La grande
speranza della fine dell’apartheid è stata solamente un’illusione? Quando quest’anno dopo che sotto
i colpi sparati da poliziotti neri contro i minatori del loro stesso colore, Nadine Godimer, la grande
scrittrice premio Nobel per la letteratura nel 1991 e simbolo della lotta antirazzista in Sudafrica,
scrive inorridita: “Non avrei mai immaginato di assistere ad un simile massacro. Di vedere neri che
uccidono neri. Poliziotti contro operai.”, il dubbio mi attanaglia. Il grande progetto Sudafricano, la
fine dell’apartheid, dunque si è risolto solo nel sostituire il “bianco contro il nero” con “il nero
contro il nero”? Forse è proprio così. In effetti, ciò che è successo qui oggi non è molto dissimile da
ciò che accadde 53 anni fa, in piena apartheid, il 21 marzo del 1960 quando a Sharpeville la polizia
aprì il fuoco sui dimostranti che protestavano contro le norme sui permessi di circolazione,
uccidendo 69 persone tra cui donne e bambini. Da allora ad oggi è cambiato solo il colore della
pelle dei carnefici, quello delle vittime è sempre lo stesso. Nella regione di Rustenburg, la
cosiddetta “cintura del platino”, quarantacinque morti nelle cinque settimane di sciopero indette dai
minatori, hanno risvegliato il fantasma dell’apartheid che la gente credeva morta per sempre ed
appartenere ad un passato ormai gettato dietro le spalle. Questo è quello che hanno gridato con
forza e disperazione i 27.000 minatori che hanno invaso lo stadio di Marikana, tenendo le mani ben
in alto in segno di tregua ma agitando comunque in aria bastoni, lance, machete, come per ricordare,
caso mai ve ne fosse bisogno, che la violenza genera violenza. Il presidente Jacob Zuma, forse con
sincerità, comunque da verificarsi, ha dichiarato che “quei morti ricordano a molti di noi scene che
credevamo definitivamente seppellite ma che la storia ci ha restituito come uno schiaffo”.
Sicuramente meno sincera la reazione dei dirigenti della Lonmin - la multinazionale angloamericana, terza produttrice di platino al mondo – che descrivono la situazione come “uno shock,
una sveglia che ci ha posto di fronte a situazioni drammatiche”, della cui esistenza evidentemente
non si erano mai accorti prima, forse distratti dai troppo facili guadagni che lo sfruttamento del
lavoro gli ha da sempre permesso. Mi è bastato aggirarmi nei pressi delle miniere nei dintorni di
Rustenburg per accorgermi immediatamente che l’ottimistica visione del Sudafrica che mi ero fatto
durante il viaggio di qualche giorno prima era sparita come neve al sole. Centinaia e centinaia di
baracche tirate su alla bell’e meglio con assi di legno, cartoni lamiere e qualsiasi altro materiale di
fortuna, costellano l’immensa pianura, sorgono al posto dei quartieri per i minatori che lo Stato e le
multinazionali proprietarie delle miniere si erano impegnati a costruire, un nuovo Eldorado mai
nato, al suo posto squallore e miseria per molti e facile e disonesto guadagno per pochi altri. Ma da
chi sono state prima rinviate, poi disattese ed infine ignobilmente tradite queste promesse fatte e
mai mantenute? Dalle multinazionali sicuramente ma anche, e soprattutto, dalla classe nera al
potere. Neri che tradiscono e sfruttano altri neri. Dove è finito il grande sogno di Nelson Mandela?
Il Sudafrica ha combattuto per questo? Dai dirigenti politici bianchi dell’apartheid un tradimento
simile poteva essere ritenuto come ordinaria amministrazione, ma da un governo nero, eletto dai
neri, sul quale si fonda, o forse è più corretto dire si fondava, tutta la fiducia del suo popolo, questo
è davvero inaccettabile. Tutti ricordiamo, o perlomeno dovremmo ricordare l’apartheid – che in
lingua afrikaans significa letteralmente "separazione" – la spregevole politica di segregazione
razziale imposta dal governo di etnia bianca in Sudafrica a partire dal 1948, applicata dal governo
Sudafricano anche in Namibia amministrata dal Sudafrica sino al 1990, e rimasta in vigore sino al
1993 – che costringeva neri e coloured, ossia indiani e meticci, ad usare mezzi di trasporto
pubblico diversi rispetto a quelli utilizzati dai bianchi, a frequentare scuole separate, a vivere in
quartieri-ghetto- i cosiddetti bantustan - e così via per tutto ciò che concerneva ospedali, locali
pubblici, negozi, matrimoni, persino per l’uso delle fontane e dei marciapiedi vi era una
regolamentazione da rispettare. La coscienza sociale Sudafricana si risvegliò solamente a partire dai
primi anni ’60 con l’istituzione dell’Umkhonto we Sizwe (letteralmente “lancia della nazione”), che
rappresentava l’ala militare dell’African National Congress. L’ Umkhonto we Sizwe fu fondato il
16 dicembre del 1961 dall’African National Congress e dal Partito Comunista Sudafricano,
l’obiettivo era quello di condurre azioni di guerriglia contro il regime segregazionista bianco, e così
fu sino al 1 agosto 1990, data in cui l’Umkhonto we Sizwe cessò le sue azioni in vista della fine
dell’apartheid, sino a che, nel 1994, le sue forze furono completamente integrate nell’ambito del
nuovo esercito Sudafricano. Nel 1990 la liberazione di Nelson Mandela, dopo 27 anni di prigionia,
e la sua successiva elezione a Capo dello Stato, avevano decretato la fine ufficiale dell’apartheid.
Nel 1994 le elezioni determinarono la schiacciante vittoria dell’African National Congress, che da
allora ha governato continuativamente il Paese prima con Nelson Mandela, seguito poi da Thabo
Mbeki, successivamente da Kgalema Motlanthe ed attualmente con Jacob Zuma. Il Paese sognava,
sognava la libertà di cui sino ad allora non aveva mai goduto, sognava una vita dignitosa, sognava
la giustizia, voleva gettarsi alle spalle anni di violenza, soprusi ed iniquità. Che triste risveglio lo
aspettava. Oggi l’apartheid è ritornata, sotto diverse e mentite spoglie, ma è di nuovo la padrona del
Paese. Questa libertà tanto agognata, che alla fine non è riuscita a cambiare lo stato delle cose, è
stata pagata a carissimo prezzo, che sarebbe stato ancora più alto se un uomo, uno dei simboli
dell’apartheid, Frederick de Klerk, l’ultimo presidente bianco del Sudafrica, non avesse capito, si
dice dietro suggerimento della moglie, che avrebbe conquistato un posto nella storia se avesse
rinunciato al potere, lo fece, e questo permise di risparmiare altri morti ed altro sangue al Paese. Si
incontrò con Nelson Mandela, lo fece uscire dal carcere ed insieme gettarono le basi di un progetto
che doveva trasformare il Paese in un gigante economico, nonché in un simbolo del riscatto sociale
di un popolo. A questi due uomini fu assegnato il premio Nobel per la pace nel 1994. La classe
dirigente dell’African National Congress divenne da allora la padrona incontrastata del Paese ma si
sa, l’uomo non è immune dal fascino del potere, indipendentemente dalla sua fede politica e dal
colore della sua pelle. Da questa giovane classe di potere nera cominciarono a spuntare i “nuovi
ricchi”, che come tutti i “nuovi ricchi” del mondo” ci insegnano, hanno ben presto dimenticato le
loro origini e con loro tutti quei neri che sono rimasti in quelle irrisolvibili sacche di povertà da cui
anch’essi provenivano. Il territorio era ricchissimo di risorse naturali e prometteva grandi fortune
che, ovviamente, i nuovi padroni neri si sono ben guardati del distribuire, con buona pace del
liberalismo. Le undici tribù nelle quali è diviso il Sudafrica si sono fatte avanti con il loro nuovo
peso politico che si è ben presto trasformato in nepotismo, corruzione, truffe, peculato… in tutto
questo nessuna diversità con la vecchia classe dirigente bianca contro la quale avevano combattuto
sino a ieri. La logica conseguenza di ciò è stato il ritorno dell’apartheid, non più però nella sua
forma originaria di “bianchi contro neri” ma questa volta di “neri ricchi contro neri poveri” ed ancor
più tragicamente, di “neri poveri contro neri poverissimi”. I neri poverissimi sono rappresentati
soprattutto dai circa due milioni di emigrati provenienti dai Paesi vicini come lo Zimbawe, la
Somalia od il Mozambico. Questi disperati, che affollano oggi le shantytown Sudafricane,
rappresentano gli ultimi degli ultimi nella nuova scala sociale dell’attuale Sudafrica. In sintesi vi è
stato solo un cambio di guardia, nulla di più. Questa umanità reietta è divenuta il bersaglio naturale
della rabbia dei neri Sudafricani che non sono potuti approdare alla ricchezza, e che sfogano su di
loro le proprie frustrazioni ricattandoli, sfruttandoli, costringendoli a salari da fame, confinandoli
nelle baraccopoli abusive che sorgono ai margini delle zone minerarie. Costretti dalla fame hanno
tentato di lavorare comunque durante il periodo degli scioperi e per questo sono stati additati come
crumiri e fatti oggetto di minacce e violenze. Erano appena usciti da un periodo durante il quale gli
immigrati clandestini erano le vittime di una spietata caccia all’uomo, durante la quale sono stati
uccisi a bastonate, impiccati, bruciati vivi. Oltre 300 morti, ancora una volta neri contro neri,
disperati contro altri disperati. Mi ritornano in mente le parole di un giovane Nelson Mandela che
nel 1965 scriveva: “ Non è vero che la liberazione di tutti si risolverà in una dominazione razziale,
la libertà politica fondata sulla diversità del colore della pelle è assolutamente artificiale e, appena
essa scompare, viene meno anche il dominio esercitato da un gruppo di colore sull’altro … per
tutta la vita mi sono dedicato alla lotta per il diritto alla vita. Ho egualmente combattuto contro il
predominio dei bianchi e contro l’idea di un predominio dei negri” . Ancora una volta un’illusione,
ancora una volte un triste risveglio. Tutto questo mi ricorda la prima volta che venni in Sudafrica ed
in un albergo di Pretoria conobbi un Sudafricano di origine olandese, piuttosto attempato, molto
distinto e di ottima cultura, che mi disse “Io ho vissuto l’apartheid, era una cosa ignobile,
inaccettabile, ma questi politici neri sono veramente incapaci di governare”: Non gli credetti, ora
mi sono reso conto che mi sbagliavo, aveva ragione. I ricchi Sudafricani, questa volta sia bianchi
che neri, osservano distaccati, giudicano, sentenziano, nei loro compound protetti da guardie armate
e filo spinato elettrificato. Fuori la stessa storia di sempre, mai cambiata, una costante della vita
Sudafricana. Però le statistiche governative dichiarano trionfanti che la criminalità è scesa del 6.5%.
Livello 1: il Paradiso delle miniere
Oggi abbiamo un pomeriggio libero e decido di approfittarne per visitare le miniere che
all’orizzonte formano degli enormi cumuli di terra rossa o nerastra, che fanno sembrare la pianura
di Rustenburg come invasa da enormi talpe intente a scavarne il sottosuolo. Tutt’attorno è un
andirivieni di decine e decine di enormi caterpillar che azzannano famelici il terreno sbuffando
intese zaffate di pestilenziale fumo nerissimo. Ho prenotato un guida, che arriva disinvoltamente
con circa un’ora e mezzo di ritardo, ma in Africa il tempo, si sa, ha un’altra dimensione e bisogna
abituarsi. Si chiama Michael è giovane e parla un ottimo inglese, mi dice di fare la guida turistica
soprattutto per quello che riguarda i safari. Naturalmente nonostante la sua scarsa puntualità il
prezzo è salito, dagli originali sessanta dollari concordati telefonicamente siamo passati ad ottanta.
Inutile protestare. Siccome abbiamo già accumulato un bel ritardo, non possiamo, come previsto
originariamente, visitare sia il centro di Rustenburg che la zona mineraria e quindi, dovendo
scegliere, opto per quest’ultima. Gli dico subito che sono soprattutto interessato a vedere dove
vivono i minatori, vedere le loro condizioni di vita e possibilmente parlare con loro per riuscire a
capire qualche cosa di quello che è successo nell’autunno scorso. Mi risponde che non ci sono
problemi. Mi sembra un ragazzo sveglio. Cominciamo a parlare della situazione di lavoro nelle
miniere e mi conferma ciò che già sapevo a proposito delle sommosse popolari avvenute nei mesi di
ottobre e novembre, numero di morti compreso. Aggiunge solo che la situazione è precipitata
quando, in una township mineraria nei sobborghi di Rustenburg, i minatori hanno ucciso un
poliziotto e ne hanno ferito gravemente un altro. Dopo un giro piuttosto insipido attorno alle varie
miniere, arriviamo di fronte al Main Center della Amplats (Anglo American Platinum) la prima
produttrice mondiale di platino. All’interno del Main Center vivono buona parte dei minatori
impiegati nella società. La zona è completamente recintata da un’alta rete elettrificata e, per
maggior sicurezza, da un doppio enorme rotolo, posto sia all’esterno che all’interno, di filo spinato.
Ci fermiamo dinnanzi alla sbarra d’ingresso, controllata da un unico poliziotto che sorveglia con
aria severa chi entra e chi esce. Michael mi dice, con aria piuttosto rassegnata, che l’ingresso è
severamente vietato agli estranei ma scende comunque dalla macchina – una Hammer nuova
fiammante, a dimostrazione che i safari rendono piuttosto bene – si dirige verso il poliziotto ed
inizia a discutere con lui, intavolando quella che ha tutta l’aria di essere una trattativa. Dopo una
breve contrattazione, seguita da un rapido quanto clandestino passaggio di qualche Rand dalle mani
di Michael a quelle del Caronte Sudafricano, possiamo passare. Forse l’entrata non era poi così
severamente vietata come diceva prima… Imbocchiamo il viale d’ingresso e dopo un paio di larghe
curve, ci si presenta davanti la zona di residenza delle maestranze. Lungo un largo ed arioso viale
alberato si sviluppa, da entrambi i lati, una fila di edifici lunghi e bassi di color cremisi, suddivisi in
vari blocchi, ognuno con un ampio spazio verde all’interno, ben curato con l’erba uniforme e tosata,
punteggiata di galline che piluccano da ogni parte. Ogni blocco ha il proprio nome, il tutto da
un’idea di ordine e pulizia. Anche la gente che passeggia lungo i viali che intersecano quello
principale o che è seduta sotto le verande delle abitazioni, o nei ben tenuti spazi verdi, godendosi
l’ombra ed il fresco portato dalla brezza della sera, ha un’aria tranquilla e molti ci salutano
sorridendo. Noto subito che, stranamente rispetto a tutto il resto dell’Africa che sin’ora ho
conosciuto, sono tutti ben disposti a farsi fotografare. Solamente alla domanda “How is your job
here ? Hard? “rispondono tutti indistintamente con un franco e spontaneo scoppio di risate che è la
migliore e più chiara delle risposte. In ogni caso, Michael mi dice che il salario medio di uno di
questi minatori è pressappoco equivalente a 1000-1200 dollari mensili. Non so se credergli ma
l’impressione che ho è comunque quella di una vita vivibile. Michael mi spiega poi che in questi
compounds vigono regole molto rigide: niente famiglia al seguito, niente visite esterne se non
autorizzate, niente alcol, niente donne. In molti non riescono a sottostare a questo regime di vita,
probabilmente percepito, soprattutto in una cultura come quella africana, come molto, troppo,
rigido. Tanti preferiscono andare a vivere altrove, all’esterno del Main Center. Andiamo allora a
vedere dove.
Livello 2: il Purgatorio delle miniere
Chi sceglie di vivere all’esterno dei compounds messi a disposizione dalle varie imprese minerarie,
riceve da queste ultime una somma di denaro extra-salario per poter affittare un alloggio altrove.
Evidentemente la somma non deve essere gran che visto che la scelta ricade su di una delle tante
township che circondano le varie miniere. Entriamo nella prima che incontriamo lungo la strada di
uscita dal Main Center della Amplats, “tanto sono tutte uguali” mi dice Michael. Dapprima ci
addentriamo piuttosto cautamente in macchina poi, visto che la situazione non mi sembra
particolarmente a rischio e confortato in tal senso anche dalla mia guida, scendo e comincio ad
incamminarmi lungo le misere strade polverose costeggiate da altrettanto misere casupole. Ben
presto vengo circondato da gruppetti di gente curiosa, un po’ pressante forse, ma certamente non
ostile, anzi direi piuttosto cordiale. Pochi Sudafricani, la maggioranza proviene dai Paesi limitrofi,
soprattutto Botswana, Zimbabwe, Mozambico, Namibia. Alla domanda di rito, di come siano le
condizioni di vita e di lavoro, tutti mi rispondono esprimendo una moderata ma sincera
soddisfazione, sicuramente dettata dal fatto che la loro condizione nei Paesi di origine doveva
essere tutt’altro che rosea. Qui perlomeno hanno un tetto sopra la testa, c’è l’acqua, l’elettricità,
ogni casa ha i servizi igienici, è vero, ricavati alla bell’e meglio in baracche esterne, ma comunque
non poi tanto peggio di molti altri posti che avevo già visto in Africa. L’impressione è sicuramente
di una vita misera, ai limiti della decorosità, ma indubbiamente per tutti il termine di paragone che
si sono lasciati alle spalle era ancor peggio. Continuo a dire a Michael che sinceramente non
capisco come sia potuta esplodere tutta quella rabbia e quella violenza che, nei giorni della
contestazione, ha provocato una tale ecatombe. Michael mi risponde di avere pazienza, tra poco
avrei capito.
Livello 3: l’Inferno delle miniere
Percorriamo pochi chilometri ed imbocchiamo uno stretto viottolo che si dirama dalla strada
principale. Poco dopo cominciamo ad incontrare uno di quei classici formicai umani tipici
dell’Africa. Centinaia e centinaia di persone sedute ai bordi delle strade, suddivisi in tanti piccoli
capannelli, fermi ad aspettare qualche cosa che in Africa si aspetta sempre e non arriva mai. Questa
è l’Africa della gente che si siede ai bordi delle strade, ad aspettare che cosa non si sa. Stanno lì
giornate intere, tormentati dalle mosche e dagli insetti, sotto un sole che spacca la testa,
semplicemente ad aspettare. Anche Kapuściński definì l’Africa come il mondo dell’apatia. Ma forse
è solo la rassegnazione che li spinge a questa apatia che consuma i loro giorni , la loro vita.
Percorriamo ancora qualche centinaio di metri ed arriviamo all’ingresso della sondela. E’ così che
chiamano, mi dice Michael, le fetide baraccopoli in cui arrivano le torme di disperati che cercano
lavoro, scappando da un inferno e trovandone un altro ancora peggiore. All’ingresso un posto di
guardia piantonato da un unico poliziotto, che ha tutta l’aria di essere conscio della propria inutilità
in un posto come quello. Michael mi dice che posso scendere dalla macchina ed addentrami nel
viale principale che taglia in due la sondela, lui mi avrebbe seguito in macchina a pochi metri. In
ogni caso non dovevo assolutamente allontanarmi oltre la vista del poliziotto, era l’unica nostra
flebile speranza di sicurezza. Il pericolo è palpabile, ormai conosco l’Africa e so riconoscere questa
sensazione. Mi rendo conto che potrebbe succedere qualsiasi cosa in qualsiasi momento. Solo i
bambini sono cordiali e fanno gara a fare sberleffi di ogni genere per farsi fotografare. Continuo a
fotografare tenendo d’occhio il poliziotto alle mie spalle, che finge d’ignorare la situazione. Capisco
che non è il caso di tentare di parlare con la gente, molte volte basta un niente in situazioni come
questa per ritrovarsi in un mare di guai. Arriva gente verso di noi, un po’ da tutte le direzioni,
Michael mi fa segno di rientrare in macchina. Non me lo faccio ripetere due volte. Ora ho capito, e
Michael me lo conferma. E’ da qui, e da decine di altre sondela come questa, che la gente ha covato
quella rabbia che poi è esplosa tanto brutalmente. Ogni sondela è un piccolo inferno sulla faccia di
questa terra così ricca, in ogni sondela si soffre, si muore di fame e di stenti, ci si nutre di odio e si
partorisce la violenza devastante che ha insanguinato e rischia d’insanguinare ancora questo
sciagurato Paese. E’ tardi dobbiamo rientrare ma ho le risposte che volevo. Il giorno dopo a
colazione leggo sul giornale locale che l’Amplats ha deciso un piano di licenziamento che
interesserà 14.000 minatori – l’equivalente del 3% della forza mineraria di tutta la regione di
Rustenburg - chiuderà due miniere e ridurrà di un quinto la sua produzione di platino. Il direttore
generale di Amplats, Chris Griffith, ha dichiarato che queste misure si sono rivelate necessarie per
la sopravvivenza del gruppo. Cosa invece dovranno fare per sopravvivere gli abitanti delle sondela
nessuno lo sa.
Cosa riporto indietro nella mia valigia?
Oggi è il mio ultimo giorno in Sudafrica prima del rientro in Algeria. Che Paese mi lascio alle
spalle? Quale risposta alle tante domande che mi sono posto prima di andare, mentre ero lì, ed
anche ora che sto per andarmene, riporto indietro nella mia valigia? Perché questo è il senso di ogni
viaggio in cui si cerchi di capire. Il Sudafrica ha indubbiamente mantenuto, il suo primato
industriale nel Continente Africano, primato che deteneva sin dagli anni ’60 con il suo grande
bacino industriale del Witwaters Rand, allora paragonabile solamente all’altro grande bacino
esistente a quei tempi in Zambia: il Copperbelt. E’ un Paese indubbiamente diverso dal resto
dell’Africa, più vivo, più moderno con un evidente anelito di modernizzazione. Ma è malato di
africanità. Quella terribile malattia che per primi colpisce i membri delle classi dirigenti, i politici, i
nuovi ricchi africani e li rende corrotti, corruttibili, sfrontati ed insensibili alle esigenze del Paese.
Se tutto questo è il risultato della rivoluzione di Nelson Mandela è ben poca cosa. Nelson Mandela
deve la sua fortuna ai 27 anni passati in carcere. Il carcere è storicamente sempre stato un elemento
fondamentale in tutti i processi mitopoietici, ossia in tutte quelle circostanze in cui lo spirito umano
tende a creare dei miti od a considerare miticamente fatti, eventi, persone. Specialmente l’uomo
politico dopo la prigionia si ritrova in una posizione sociale estremamente diversa rispetto a quella
vissuta prima della prigionia. Il carcere, di fatto, lo innalza di rango, gli permette di conquistare
l’ammirazione, il rispetto, la devozione della gente. In alcuni casi particolarmente propizi, come nel
caso di Mandela, si può passare con un sol balzo dall’anonimato alla storia. Partendo mi lascio alle
spalle un Paese bello ma profondamente malato, grande ma paralizzato da un virus che lui stesso ha
generato, con un presente scoraggiante ed un futuro quanto mai incerto. Un Paese che ha nei
confronti del mondo industrializzato un gap incolmabile, che mai riuscirà ad affrancare a meno che
non rinunci alle sue radici tribali, al suo male endemico, alla sua africanità. Ma chi conosce questo
Continente così bello e così maledetto lo sa: in Africa poche cose dipendono esclusivamente
dall’Africa.