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Cap.IV Operatori “pari” e operatori professionali, valorizzare le differenze
Susanna Ronconi
dedicato a Paolino,
che nel 1992 ci portò
da un suo viaggio in Olanda
l’idea di fare lavoro di strada
a Porta Palazzo, a Torino.
Con l’affacciarsi in Italia, nei primi anni ’90, dell’approccio e delle pratiche di riduzione del danno
e di fronte al compito di costruire servizi per noi inediti, come operatori ci siamo trovati a dover
costruire un bagaglio di competenze che non avevamo. Lo spiazzamento e l’ignoranza, però, era
dovuto non tanto a questa o quella lacuna disciplinare o metodologica, bensì principalmente al
“punto di vista”. Si trattava, insomma, di “posizionamento”: da dove guardavamo i consumatori,
con quali occhiali li mettevamo a fuoco, alzando lo sguardo verso quali obiettivi. Perché non si
trattava solo di aggiungere un’opzione in più al menù dell’offerta di servizi, allora: si trattava di
elaborare la “torsione paradigmatica” che l’innovazione ci metteva davanti agli occhi, e che si
portava dietro, coerentemente, un nuovo e diverso bilanciamento della relazione (e del potere e
della circolazione di sapere) che intercorre tra operatore e utente. Questa è la riflessione che mi
propongo: forza e debolezza, valorizzazione o indifferenza (se non anche rifiuto esplicito)
dell’entrata in scena della soggettività competente del consumatore e del suo riconoscimento
sono funzione dei movimenti dello sguardo paradigmatico che ha caratterizzato (o ha mancato di
farlo) le pratiche e le scelte metodologiche.
Le competenze prima (e più) dei comportamenti
Lo sguardo della riduzione del danno vede il consumatore di droghe come un attore sociale in grado
di apprendere, produrre cambiamento e mettere in campo condotte razionali, calibrate più che alla
chimica della sostanza in sé, al set e al setting, cioè alle caratteristiche individuali insieme – e
inscindibilmente – a quelle del contesto di vita (Zinberg 1984, Zuffa, 2000 ). E’ una uscita secca
dal paradigma morale (il consumatore come deviante) e anche da quello medico (il consumatore
come malato), entrambi, sebbene differentemente, basati sulla lettura di un deficit1, e un ingresso
nella grande famiglia degli approcci empowering della promozione della salute. C’ è una coerenza
necessaria tra gli obiettivi di riduzione del danno e lo sguardo paradigmatico che si assume, al di
fuori della quale risulterebbe difficile qualsiasi pratica efficace: con buona pace di un ricorrente
quanto futile dibattito attorno a una lettura “ideologica” versus una “pragmatica” della riduzione
del danno - che in Italia ha imperversato purtroppo non solo a livello politico ma anche tra i
professionisti - interventi, azioni professionali e servizi non hanno alcuna consistenza al di fuori
della mobilitazione delle competenze e dei ri-orientamenti soggettivi dei consumatori. Come ci
ricordano tutti i teorici di questo approccio, le pratiche autoregolative giocano un ruolo assai più
centrale delle “buone tecnostrutture” sanitarie (Buning, 1994).
E’ stato più volte notato come questo protagonismo, che è ormai una ovvietà riferita a molti gruppi
sociali chiamati “a fare salute”, sia stato a lungo (ed ancora sia) negato ai consumatori di droghe
per il pregiudizio squisitamente morale che domina l’ambito scientifico, in cui permane prioritaria
la preoccupazione di dissuadere dal comportamento di consumo rispetto a quella di facilitare salute
e benessere a partire - e non a prescindere – da uno stile di vita prescelto (Ronconi, 2003). Questo
pregiudizio morale, che pretende paradossalmente il cambiamento di stile di vita come
precondizione per una alleanza, è in evidente conflitto con un approccio empowering che mira, al
contrario, a valorizzare le competenze degli attori sociali reali, cioè per quello che sono, sanno,
1
In realtà, se davvero secca è la rottura tra riduzione del danno e paradigma morale, assi più complessa e ambivalente è
la lettura del rapporto con il paradigma disease. Per un approfondimento vedi in Zuffa, 2008
1
scelgono, e non per quello che una ideologia dominante pensa dovrebbero essere. È una questione
che potremmo declinare sotto molteplici aspetti: della libertà individuale, dei diritti, della
costruzione sociale dell’idea di salute… ma qui importa sottolinearne la tonalità pragmatica: un
gruppo sociale (un individuo) produce apprendimento e cambiamento se sa e può “agire” la
propria soggettività in senso (auto)promozionale.
Almeno dalla Carta di Ottawa
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità in poi, l’accento sulle competenze, la loro
valorizzazione e la loro “messa al lavoro” per il benessere individuale e collettivo ha rappresentato
una via di uscita dall’ingessato dilemma se operare sul contesto per modificare le condotte
individuali o sui comportamenti individuali per averne ricadute sociali. In qualche modo non solo
è stata data un’altra risposta, all’insegna di una realistica complessità – puntiamo di più sulla
valorizzazione delle competenze invece che mirare dritto alla modifica dei comportamenti - ma,
ben più radicalmente, è stata riformulata la domanda: da “quali comportamenti dobbiamo indurre”
a “quali potenzialità e competenze possiamo valorizzare”, sostenere e mettere in relazione dentro un
processo sociale, comunicativo e “ecologico” in cui l’aspetto valoriale sia vincolato al rispetto della
molteplicità delle culture e delle libertà (Ingrosso, 2003). Porre una nuova domanda significa anche
riflettere criticamente su chi, come e attraverso quali processi co-definitori orienta (e decide) gli
obiettivi del cambiamento: una questione politica ed etica ben prima che scientifica. Come ci
insegna il mai esaurito dibattito sulle linee guida ONU in materia di droghe, “un mondo senza
droghe” è un’affermazione valoriale autoreferenziale di una comunità politico-amministrativa e a(pre-)scientifica. Non si basa su alcuna negoziazione sociale né alcun assunto scientifico può farvi
da stampella. Questo non significa certo la rinuncia, a livello di politiche di salute pubblica – e la
riduzione del danno è una politica di salute pubblica - a porsi obiettivi da perseguire, ma non v’è
dubbio che la constatazione dello scacco pragmatico di un certo comportamentismo, con le sue
illusioni prescrittive e i suoi rischi neoautoritari, pone interrogativi radicali attorno a che rapporto
tenere con i diversi stili di vita compresenti nelle società (dunque anche con le libertà e le diversità)
e come e in che termini interagire con le soggettività individuali e collettive per scopi condivisi di
salute e benessere.
Ottawa nella bassa soglia ….
Questo dibattito, nei termini molto succintamente accennati, entra nel lavoro su consumi e
dipendenze con la riduzione del danno in Italia negli anni ’90, assumendone l’ottica promozionale,
in sintonia con la finalità generale – quella della riduzione, al minimo possibile di rischi e danni
correlati, praticandone il “transito” più significativo – quello dalla eliminazione del fenomeno al
suo governo, e necessariamente oltrepassando l’approccio morale e la stigmatizzazione, antagonisti
di ogni espressione e attivazione di soggettività. “Governare” un fenomeno è qui inteso come
“rendere gestibile un fenomeno da parte degli attori del fenomeno stesso” (De Leonardis, 1998): un
consumatore partecipe e “attivo” e al tempo stesso stigmatizzato e svalutato è una evidente
incongruenza alla luce di uno sguardo empowering, come avere la botte piena e la moglie ubriaca.
Nel lavoro sociale in Italia spesso mi pare si glissi sul fatto che power è la parola che costituisce il
cuore del concetto stesso di processo empowering, e si dimentica anche che questo potere dei
soggetti cui ci si riferisce non è neutro, ma ridisegna i rapporti tra i diversi poteri in campo, a
cominciare da quello della politica e delle professioni (Ronconi, 2003). La “nostra Ottawa” è stata
soprattutto riconoscere, finalmente “vedere” soggettività competenti, studiarne le abilità di
apprendimento e cambiamento e, infine ma soprattutto, imparare a co-costruire con i soggetti una
relazione negoziata e coerente, creando contesti in cui questo incontro fosse possibile.
“Vedere” abilità e competenze è stato possibile in prima battuta con un lavoro di relazione con i
consumatori stessi – e qui le modalità di lavoro della riduzione del danno, come l’intervento in
contesti informali, setting naturali d’uso, in strada e nei servizi a bassa soglia di accesso sono
strategiche - e poi di approfondimento e di studio. Si è trattato di scoprire queste competenze
togliendoci dagli occhi quella lente che fin lì aveva fatto vedere il “cambiamento” solo declinato in
termini di “guarigione dall’uso”, di astinenza. Il nostro interesse si è allora concentrato sulle
2
pratiche e le culture dell’autoregolazione dell’uso, un aspetto sino ad allora ignorato dal sapere
professionale, e in ogni caso non “messo al lavoro” come variabile delle strategie operative; aspetto
emerso dentro una lunga storia fatta di interazioni informali, presenza in strada, osservazione
partecipante, prime collaborazioni strutturate, focus group con consumatori, ma anche da dialoghi
inediti emersi in luoghi di nuova cittadinanza, luoghi non immediatamente “professionali”. Mi
riferisco al movimento – così intrecciato alla riduzione del danno – delle persone sieropositive, e tra
esse molti consumatori, che con grande efficacia traduceva in quegli anni l’approccio di
promozione della salute, attraverso
un protagonismo rivendicato, l’evidenza dei saperi
dell’esperienza, la rottura del nesso stile di vita (uso di sostanze, abitudini sessuali) - “destino” di
salute, cui contrapporre una idea di danno e rischio situato, specifico e progressivo a cui è possibile
rispondere sia ri-orientando alcuni specifici comportamenti - e non necessariamente rinunciando al
proprio stile di vita tout court – ma anche soprattutto modificando i contesti sociali, culturali e
normativi, visti a loro volta come variabili significative del “fare salute”. L’essersi fatti attraversare
da questo sociale attivo ed esperto di sé, uscendo dall’autoreferenzialità dei mestieri, è stata la
prima fonte di apprendimento, la prima palestra di una alleanza, la prima premessa di una futura
teorizzazione ed anche la prima evidenza di una nostra responsabilità della nostra cecità: i
consumatori, l’autoregolazione la praticavano da sempre. La moltiplicazione di dialoghi inediti
con i consumatori ha messo in scena, anche prima che molti di noi si appropriassero
scientificamente di una buona definizione di “stile di consumo”, quella microfisica di accorgimenti,
pratiche, abilità, scelte, comportamenti di regolazione “dentro l’uso” di sostanze cui la riduzione
del danno si appiglia per perseguire i propri obiettivi di salute. Del resto scoprimmo ben presto –
grazie agli scambi europei, ai viaggi e alle narrazioni nostri e di molti consumatori e poi anche alla
letteratura - che la riduzione del danno nasceva dall’interazione tra decisioni istituzionali in materia
di salute pubblica e pratiche (lotte, anche) dei consumatori, soprattutto laddove questi erano in
qualche modo associati e dotati di voce pubblica. Emblematica la doppia nascita della riduzione del
danno europea, tra Rotterdam e Liverpool, la prima con la lotta delle junkies bond per le siringhe
sterili libere e gratuite (si trattava ancora di epatite B, di AIDS si sarebbe parlato di lì a un paio di
anni), la seconda, a distanza di oltre un quinquennio, in forma di linee guida dell’autorità sanitaria
del Merseyside, in cui gli obiettivi di salute (e allora, nel 1986, si trattava di AIDS) venivano ora
formalmente prima dell’obiettivo dell’astinenza.
Del resto, e comunque, anche sul piano dell’evidenza scientifica a ben vedere avevamo già a portata
di mano qualcosa di più di un indizio: datano agli anni ’70, ’80 e primi ’90 studi e teorizzazioni su
consumo controllato, culture e rituali sociali, pratiche autoregolative (Zinberg 1984, Becker, 1987,
Cohen e Sas, 1993); da sempre esiste l’evidenza di un consumo non problematico anche protratto,
testimoniato tanto in modo aneddotico che statistico; la letteratura in materia di self recovery –
astensione spontanea – è a sua volta prolifica e foriera di un discorso sulle abilità soggettive di riorientamento del comportamento in assenza di interventi trattamentali . E non è stato secondario
per noi – che nei servizi a bassa soglia operavamo spesso con singoli e gruppi molto segnati dal
danno conclamato - notare come dalla letteratura si evinca che abilità e pratiche autoregolative
riguardano anche soggetti con traiettorie di consumo in cui sono presenti periodi di uso “fuori
controllo”: biografie in cui c’è non solo l’uscita autonoma da periodi di consumo problematico
verso moderazione o astinenza, ma in cui si osservano anche pratiche regolative “durante e dentro”
periodi di consumo intensivo e/o problematico Come dire: le potenzialità autoregolative – o detto
altrimenti la qualità di attore sociale – non sono funzione esclusiva di biografie moderate. Una
scoperta basilare, allora come oggi. (Decorte, 2000; Zuffa, 2008 ).
Peer support “naturale”, il quarto elemento
Forzando la proposta di Zinberg, si può immaginare di “aprire” il suo noto triangolo droghe-setsetting a un quarto apice, enfatizzando la dimensione sociale, (sub)culturale, gruppale, portandola
“fuori” dal setting per darle una propria dignità. Il peer support (supporto tra pari) è quell’insieme
di atti e pratiche comunicativi e relazionali che intercorrono nella dimensione della quotidianità in
3
un gruppo di consumatori. Esso entra a far parte delle pratiche autoregolative dei consumatori
attraverso la comunicazione orizzontale tra pari che veicola informazioni, la (variamente declinata)
co-costruzione di riti, regole, culture e consuetudini, lo scambio mutualistico e le relazioni solidali
(Trautmann e Barendregt, 1995; Trautmann, 2003). Il peer support è pertanto un insieme di
relazioni “naturali”, spontanee (indigenous, dicono gli inglesi) che intercorre tra consumatori in
presenza di un comune vissuto, che può essere condiviso per ragioni di stile di consumo,
appartenenza territoriale, appartenenza culturale, frequentazioni di mercato, aggregazione attorno a
interessi comuni e quant’altro. Esiste quando funziona un tam tam sulla qualità delle sostanze in
circolazione sul mercato locale, quando ci si protegge vicendevolmente o ci si salva dal rischio
overdose infausta, quando si fa colletta e si allenta il rischio di esposizione al mercato inviando un
solo acquirente sulla strada, quando si condivide un’esperienza sugli effetti voluti o non voluti,
quando si offre un rifugio, quando si negozia insieme in un Ser.t, quando si promuove un blog.
I consumatori comunicano tra loro e producono le loro culture in modo indipendente da qualsiasi
relazione con i servizi e gli operatori. Come dice Franz Trautmann, quando come operatori parliamo
di peer support non abbiamo scoperto l’America, l’America era già lì, come operatori siamo solo
approdati sulle sue spiagge (Ronconi, 2003). Come comunicazione e pratica sociale, il peer support
interessa la politiche di promozione della salute sotto l’aspetto di quelle abilità regolative, di quelle
competenze sociali e di quelle potenzialità di cambiamento che caratterizzano una “comunità
competente”: un gruppo cioè, che in vari modi e su vari aspetti della vita dei suoi partecipanti, si
autopromuove “attore nel proprio contesto di vita” (Ingrosso, 2003).
Il riconoscere esistenza, competenze e modalità comunicative e relazionali di queste “comunità
competenti” di consumatori è stato ad oggi difficile per tre ragioni. La prima - già ricordata - di
tipo “paradigmatico”, il giudizio valoriale secondo cui il consumatore non è “attore sociale” ma
malato e/o deviante, dunque lo stigma; la seconda, correlata, che rende difficile agli operatori
riconoscere lo statuto di “risorsa” a comportamenti ritenuti devianti, illegali, o solo troppo
informali, come potrebbe essere la circolazione di informazione sulla qualità della sostanza di
questo o quel pusher o la solidarietà di gruppo contro i controlli della polizia o gli accordi per
gestire un rave illegale. La terza, una accezione troppo formale o strutturata di “comunità
competente”, l’aspettativa di un “consumatore collettivo” aggregato, solido e “intenzionale”
difficilmente riconoscibile sulla scena italiana, quando sulla scena della droga possiamo – invece
ma non meno utilmente - trovare reti “deboli”, aggregazioni mobili e saltuarie “legate” al luogo e
al mercato, circolazioni rapsodiche di informazioni, solidarietà per piccoli gruppi, subculture di
nicchia, relazioni virtuali che viaggiano sul web, gruppi “tenuti” insieme dalla frequentazione di un
servizio….
Sono difficoltà superabili con un salto paradigmatico: un passo indietro dai modelli dominanti, due
avanti verso una capacità di osservazione e relazione mirata a conoscere e valorizzare risorse
informali e relazionali anche fragili e provvisorie. Del resto, empowerment è un concetto assai
legato alla provvisorietà: si tratta pur sempre di abilitarsi a vivere “in condizioni di incertezza e
rischio”, trovando in sé e nell’ambiente risorse vecchie e nuove da usare, valorizzare e moltiplicare.
Ogni azione di empowerment usa quello che ha a disposizione (Zimmermann, 2000). L’operatore
che voglia interagire con il peer support “naturale” è uno scout con nello zaino un obiettivo alla
ricerca di alleati, disponibile ad assumersi la responsabilità dell’imprevisto, non un seguace di
procedure consolidate.
Peer support naturale, “comunità competenti”, e riduzione del danno
La relazione tra peer support e interventi e servizi formali nel campo della riduzione del danno –
dalla più episodica cooperazione informativa al reclutamento “organico” di saperi esperienziali nel
sistema formale, con gruppi autonomamente organizzati o reti instabili e provvisorie – credo a
tutt’oggi debba fare i conti ancora con la questione morale, e che sia per questo - nonostante alcune
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importanti esperienze ormai consolidate anche in Italia 2 - che lo sviluppo sia di esperienze di
cooperazione intenzionale con gruppi locali sia di inclusione di peer supporter (o operatori pari) nei
servizi formali sia ancora poco praticata rispetto alle sue potenzialità. Peer support non è sinonimo
di peer education né di autoaiuto – cui pure metodologicamente si accosta - perché porta in sé lo
scandalo dell’autoreferenzialità dei fini e della rappresentazione di sé da parte dei consumatori: dei
fini, perché attiene alla quotidianità del consumo, sta “dentro” il consumo, alle sue pratiche, ai suoi
rituali, non ponendo nella sua gerarchia di obiettivi la cessazione del consumo ma la sua qualità;
della rappresentazione, perché qui il consumatore non si rappresenta con una malattia da curare o un
deficit da colmare, ma come attore (cittadino?) con un proprio stile di vita e le problematiche
concrete ad esso correlate. La peer education tradizionalmente è eterodiretta negli obiettivi (si pensi
al lavoro con gli adolescenti e al ruolo dell’educatore/adulto), l’autoaiuto – che pure
metodologicamente include la massima autoreferenzialità – di fatto, quando si tratta di consumi di
droghe e dipendenze, tratta prioritariamente la “malattia dipendenza” da cui guarire, e lo fa nella
gran parte dei casi affidando un ruolo significativo a una figura professionale. Nel peer support
sono i consumatori che si rappresentano e si prendono cura di sé secondo obiettivi autonomi, in
caso co-costruiti con gli operatori qualora vi sia un rapporto e siano condivisi dal servizio come
obiettivi praticabili e utili a un discorso di salute. Questa gerarchia (dalla “comunità competente”
alla eventuale collaborazione con il servizio) è assai evidente laddove (raramente, in Italia3) esista
una realtà aggregata autonoma di consumatori, capace di autorappresentazione e di voce pubblica
cui gli operatori si riferiscono, assai più sfumata e ambivalente quando si tratta di reti episodiche e
deboli, quando l’intenzionalità degli operatori non trova argini realmente negoziali. E tuttavia
autoreferenzialità dei fini e della rappresentazione resta un connotato qualificante la cui assenza
invalida la scommessa metodologica. Lo “scandalo” dell’autorefenzialità dei soggetti, dunque, e
non astrattamente le metodologie - che appartengono alla grande famiglia dell’empowerment, con
poco di davvero nuovo da inventare - è ciò che un servizio deve superare ed anzi validare per un
buon utilizzo – informale o professionalizzato che sia – della figura del peer supporter, pena
l’avvilente messa in scena di quei surrogati che abbiamo imparato a conoscere quando autoaiuto o
peer education vengono degradati a stampelle dello psicologo.
E del resto, se il peer support non mantenesse fede a questo scandalo dei processi di
autoregolazione e di autorappresentazione, a che servirebbe? Qual sarebbe il suo valore aggiunto
come “comunità competente”?
Peer support e servizi a bassa soglia tra informalità e professionalizzazione
Le tipologie di relazione tra peer support e servizi formali sono variegate, funzione tanto dei gruppi
e degli stili di consumo quanto degli orientamenti dei servizi4. Come già accennato, oscillano da
relazioni deboli dentro reti a maglie larghe tra peer support “naturale” e operatori (una alleanza per
far circolare informazione in strada o sul web, un sostegno economico per un giornale di strada
autonomo, un focus group per raccogliere bisogni, aggiornarsi sul mercato o valutare la propria
azione professionale) fino alla valorizzazione di consumatori dentro i servizi formali (operatori pari
singoli nel lavoro di strada o nella equipe di un Ser.T, una collaborazione formale con un gruppo
associato nella progettazione e gestione di un drop in, nella conduzione di uno sportello di
consulenza legale). Il modello operativo dentro cui, in ogni caso, si iscrive la relazione è quello
declinato da due accezioni di servizio: il primo afferma che un servizio è una relazione che crea
relazioni, in cui operatore e utente sono “partner nel cambiamento”, in ciò cercando di superare
ogni logica di invalidazione, dipendenza e sudditanza dell’utente, nonché di autoreferenzialità nello
2
per una analisi dell’esperienza degli operatori pari nei servizi vedi Portis, Racchetti, Ronconi (2003) e Martelli, 2009
E’ il caso, tra gli altri, delle esperienze degli operatori pari del Piemonte (vedi in www.bassasogliapiemonte.it ), di
quelli della cooperativa La Strada di Bologna (http://www.cooplastrada.it/) per quanto concerne i servizi a bassa soglia;
più numerose le esperienze indipendenti in ambito di interventi nei setting naturali giovanili, spesso facenti capo ad
alcuni centri sociali autogestiti (per esempio vedi in http://lab57.indivia.net/, http://infoshocktorino.noblogs.org/)
4
Per una disamina di modelli di relazione peer support/servizi in Italia vedi Ronconi, 2003 a; Gamberini, 2003.
3
5
sguardo dell’operatore (De Leonardis, 1998 e 2003); il secondo afferma che – in un’ottica di
promozione della salute - ciò che è importante è promuovere “relazioni co-evolutive tra operatori e
utenti” al fine di percorrere insieme determinati processi su cui avviene la comunanza di interessi e
obiettivi (Ingrosso, 2003).
Possiamo dire che queste due descrizioni da parte dei servizi – partnership e relazioni co-evolutive
- insieme ai due assunti sopra descritti da parte dei consumatori - autoreferenzialità dei fini e della
rappresentazione di sé – sono i lati della cornice entro cui ha ad oggi lavorato con successo il peer
support nella riduzione del danno, qualsiasi fosse lo stile di consumo, la subcultura, il gruppo
sociale coinvolto.
Non si vuol qui dire che sia indifferente la diversa tipologia di relazione: un gruppo
autoorganizzato di consumatori che stila un contratto con un servizio per una certa azione o la
gestione in toto di un servizio a bassa soglia, ha un ancoraggio alla propria autoreferenzialità più
forte del singolo che entri con un contratto individuale in una equipe mista di un Ser.T, e si trovi,
solo, dentro la tensione continua tra un ruolo formalizzato e una appartenenza (magari con tempo
allentata) a un gruppo. Tuttavia, le esperienze più articolate e di lunga data, se segnalano la
consapevolezza di un rischio di “sussunzione” neutralizzante degli operatori pari dentro i servizi –
al contempo ne narrano anche il governo e l’evitamento5 (Portis, Racchetti, Ronconi, 2003; Ninni,
2008).
Il valore aggiunto di cui un operatore pari è portatore – capacità di contatto, spendibilità del sapere
esperienziale nell’ascolto e nell’orientamento, conoscenza e internità a culture, rituali, linguaggi,
reti comunicative, conoscenza della scena della droga, competenze della mediazione e della
negoziazione, sensibilità e attenzione alla promozione di diritti e lavoro di advocacy, capacità di
attivazione di dinamiche tra pari e gruppali, promozione di attività culturali e politiche inerenti le
droghe6 - trova la sua legittimazione e valorizzazione (e dunque anche la sua efficacia) proprio
nella tensione e nella ambivalenza positiva tra esperienza/vissuto del consumo e mission,
attivazione intenzionale verso un obiettivo condiviso e perseguito con un servizio. Le strategie
rappresentate dagli operatori pari “professionalizzati” per mantenere aperta questa ambivalenza
enfatizzano la dimensione di gruppo variamente intesa (avere un “sé collettivo” simbolicamente e
pragmaticamente visibile), la libertà di consumo attivo durante l’esperienza di lavoro (fatte salve
poche norme condivise con il servizio), la partecipazione a pari dignità alle equipe e luoghi
decisionali. Nei servizi dove il peer support è diventato risorsa riconosciuta, retribuita e in questo
senso professionalizzata, questo è un dibattito quotidiano cui operatori pari e professionali si sono
abituati, fino ad includerlo nelle loro prassi ordinaria.
C’è una capacità di negoziazione e “presidio” della propria autoreferenzialità dei pari, e c’è una
chiara responsabilità degli operatori, politica e insieme organizzativa e operativa, sia quando si
abbia a che fare con il peer support “naturale” che quando si abbiano in equipe operatori pari
professionalizzati. Interventi di riduzione del danno e servizi a bassa soglia implicano la
responsabilità politica di sostenere lo scandalo dell’autoreferenzialità e della autorappresentazione
dei consumatori implicati, sapendo che una loro “sterilizzazione” – come gruppo da colonizzare o
peer da ridurre a operatore di serie B – è non solo una “incongruenza paradigmatica”7 ma anche un
autogol metodologico; e una responsabilità organizzativa e operativa perché, se per definizione
5
E’ interessante a questo proposito il dibattito sviluppato a Torino sia nell’ambito del Coordinamento degli operatori
dei servizi a bassa soglia del Piemonte (COBS), che nella redazione del giornale di strada Polvere. Riferimenti a queste
esperienze in Ninni, 2008; Ronconi, 2003 a
6
L’elenco delle competenze è tratto dalle dichiarazioni degli stessi operatori pari nella citata ricerca Paritox, in Portis,
Racchetti, Ronconi, cit, validato da interviste ai responsabili dei Ser.T Piemontesi che includono questa figura, in
Ninni cit, e Molinatto, 2003
7
Incongruenza che può avere anche costi umani in termini di smarrimento esistenziale, una troppo pesante difficoltà a
“tenere insieme” i tasselli molteplici del proprio sé: nel citato lavoro di Ninni è con grande evidenza descritto come le
condizioni sopra citate di difesa della propria autoreferenzialità siano state in alcune biografie la “chiave” di un
conquistato rispetto di utenti e colleghi, di una evoluzione dei percorsi formativi, creativi e professionali dei singoli, di
un vissuto del proprio ruolo a “bassa temperatura conflittuale” (Ninni, 2008)
6
nessun operatore professionale può vestire i panni del consumatore, è ben vero che nel citato
“percorso co-volutivo” verso obiettivi di salute è possibile costruire contesti facilitanti versus
contesti demonizzanti, restituire fiducia e autoefficacia versus patologizzazione e passività,
promuovere diritti e convivenza sociale versus etichettamento, affidare risorse versus “concederle”
a patti rigidi.
Pari e dispari in un presente incerto
L’esperienza dei servizi a bassa soglia che in Italia hanno incluso la relazione con il peer support
naturale e/o la collaborazione degli operatori pari è a somma positiva, se misurata in qualità
dell’accesso, della relazione, dei dispositivi di attivazione8. E ancor più lo scenario europeo rilancia
questo approccio, con il sostegno istituzionale dell’Unione alle aggregazioni di consumatori che,
insieme ai loro diritti umani e civili, si attivano per la promozione della salute e la qualità della
vita e si presentano sulla scena sia come “gruppi di interesse” che come “comunità competenti”.9 Il
nesso tra le due identità è, coerentemente, stretto.
Tuttavia in Italia sono esperienze assai minoritarie. Ho cercato di enumerare alcune ragioni,
diciamo “paradigmatiche”, inerenti convinzioni e letture sia sociali – supportate e istigate da una
cornice normativa declinata tutta dentro l’accezione morale/disease - che degli operatori, che a mio
avviso sono “le” questioni di fondo di questo scarso sviluppo, che si traducono in svalutazione
delle competenze soggettive altre, imbarazzo verso una relazione che ridisegna il potere (del sapere
e della rappresentazione) e rigidità organizzativa.
Ma indubbiamente vi sono, oggi, altri interrogativi cui è necessario dare risposta per immaginare
una continuità e una innovazione nel peer support.
Il primo riguarda i consumatori: quella con cui abbiamo lavorato nei servizi a bassa soglia negli
anni ’90-00, è una generazione di peer unica e destinata a non avere eredi? O meglio: dopo il
consumatore over40, acculturato, con alle spalle un consumo di eroina in dimensione “culturale e
collettiva” e un presente di consumo controllato magari anche di cocaina e di impegno sociale, il
peer support è destinato a naufragare tra individualismo, frammentazione e dominio del
consumismo a-culturale, di una droga sempre più molecola e sempre meno significato? O ancora: ci
serve un servizio formale, pur a bassa soglia, per “vedere” e offrire una sponda a dinamiche di peer
support, dunque siamo destinati a non avere più il piacere di incontri inediti oltre il già
consolidato? La domanda è fondata, gli stili di consumo che si moltiplicano e si accavallano
disegnano tutta un’altra scena della droga, dove la questione cruciale della dimensione sociale,
della comunicazione orizzontale e delle culture condivise produce forti spiazzamenti rispetto allo
stile di consumo che ha fatto da base all’esperimento del peer support negli anni ‘90. Tuttavia,
penso che ancora una volta sia una questione di sguardi: nemmeno con gli eroinomani-tipo
avremmo mai intravvisto una “comunità competente” se non avessimo guardato dentro pratiche
quotidiane che a lungo non sono apparse significative in ottica empowering e nemmeno i primi
gruppi di operatori pari avrebbero maturato un fare collettivo in assenza di alcuni buoni incontri
allora azzardati (tra loro, con alcuni di noi, con i progetti sperimentali che davano un po’ di
ossigeno, con un movimento per i diritti civili e via elencando). Voglio dire: a ogni epoca – e a ogni
stile di consumo – la sua cultura, la sua comunicazione, la sua ricerca. Se ciò che fonda il peer
support naturale è la comunicazione e la condivisione di alcune variabili, pratiche, culturali o di
senso, al vecchio giornale di strada si sostituisce un blog, ma si tratta di una diversa qualità del
medium e delle reti, non della fine della comunicazione. Anzi: a viaggiare nel web, la circolazione
di informazioni e lo scambio di vissuti è immensamente più ricco e accessibile delle narrazioni
orali e cartacee di vent’anni fa. E se – dal punto di vista dell’operatore – l’intreccio di
comunicazioni e l’alleanza non avviene più attraverso il servizio a bassa soglia nella sua fisicità di
camper, drop in o sportello legale, non è la fine dello scambio ma una sua diversa modalità:
8
Su questo, vedi interventi di operatori e responsabili di servizi in Ninni, 2008 e Molinatto, 2003
Vedi le attività del progetto UE27 “Correlation” che prevede specifiche azioni mirate al sostegno e all’ incentivazione
del peer support e delle associazioni di interesse di consumatori (Correlation, 2009)
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l’episodicità del rave, il gruppo su facebook, la consulenza online, i luoghi aggregativi alternativi.
Un gruppo di bravi blogger piuttosto di un pugno di opinion leader di strada10. Del resto, il peer
support naturale ne ha già fatta di strada, in questo senso, producendo anche nuove alleanze e nuovi
operatori pari, per esempio nella diverse modalità di intervento messe in atto nei setting naturali del
consumo giovanile.
Il secondo interrogativo riguarda operatori e servizi: per quanto concerne i servizi a bassa soglia
come luoghi – anche fisici – dell’interazione con, e del sostegno al peer support su obiettivi
condivisi nel solco di quella “relazione co-evolutiva” di cui abbiamo detto, qual è lo stato dell’arte?
O meglio: le nostre basse soglie assomigliano ancora a quei luoghi empowering, tra formale e
informale, flessibili e client oriented, che abbiamo ideato quando eravamo nello stato nascente
della riduzione del danno, oppure la coppia promozione-controllo ha avuto uno sbilanciamento
verso il secondo tale da non avere più quelle caratteristiche promozionali di base? Non è nuovo il
dibattito su come i servizi a bassa soglia - non solo nelle dipendenze - stiano slittando
dall’inclusione all’occultamento, dal transito all’anfratto urbano, dalla promozione al controllo.
Infiniti segnali, procedure, clima sociale, investimenti mancati, nuove e vecchie selettività lo
testimoniano. (Ronconi, 2008; Renzetti, 2008; Salomone, 2008). Non è cosa da poco: entrare in
contatto con il peer support naturale è questione di fiducia e credibilità, per un operatore; è
questione di coerenza e praticabilità del mandato; è questione, poi, per un operatore pari, di garanzia
di poter restare ancorato alla sua autoreferenzialità, mantenendo la corda tesa dell’ambivalenza del
ruolo senza vederla spezzarsi al primo cenno della mano di un questore o di un capodipartimento
sotto pressione o di un politico che “scopre” di pagare anche operatori che usano sostanze…. Più di
ogni cosa, questo mi pare il vero interrogativo: siamo ancora davvero così ospitali, nei nostri
servizi? Siamo certi che “promuovere” non significhi innescare una bomba dei diritti e della
soggettività che poi implode nell’(auto)inganno invece che prendere la giusta via, fuori dalle nostre
stanze? Siamo sicuri che lo spirito di Ottawa si aggiri ancora nei nostri servizi?
Ho buone ragioni per un certo pessimismo: so di un dormitorio di una città del Veneto che ha
licenziato gli educatori e assunto un mondialpol. Per risparmiare, certo, quattro a uno, ma anche per
sancire il viraggio su un altro mandato. E tuttavia questo non chiude la partita: perché se la
“responsabilità delle procedure” ci ingabbia e snatura la nostra missione, rimane sempre la
“responsabilità dell’imprevisto” che ci consente di tentare – altrove, fuori dalle stanze, se le stanze
non sono ospitali - passi laterali, alleanze altre, qualche rischio, assumendocene il carico (Ronconi,
2009; Cruz, 2005). Di consumatori è pieno il mondo, di luoghi – fisici o virtuali - per incontrarli,
anche.
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Interessante il progetto di un “Peer support manual 2.0” lanciato da Franz Trautmann nell’ambito del progetto
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