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Introduzione
{...} individui che erano ordinati nel
vero senso della parola e avevano diviso
il mondo secondo un piano, rendendolo coerente.
Saul Bellow, Ravelstein
Più isolata, temuta e perfino odiata dal resto del mondo.
Più divisa al suo interno. Così si presenta l’America al termine del primo mandato presidenziale di George W.
Bush. È un bilancio sorprendente, perché è l’esatto contrario di quello che sembrava dover succedere dopo l’11
settembre 2001. Quell’attacco terroristico all’inizio aveva
unito gli americani tra loro e attorno al presidente. Rivelando al resto del mondo un’America fragile e vulnerabile
come ogni paese, aveva suscitato solidarietà, almeno tra
gli alleati occidentali. Il seguito degli eventi ha preso
un’altra strada. Le scelte di politica estera dell’Amministrazione Bush hanno sottolineato la diversità degli Stati
Uniti da ogni nazione, hanno rimesso all’ordine del giorno quell’«eccezione americana» che Alexis de Tocqueville iniziò a studiare nell’Ottocento. In quella vigorosa sterzata unilateralista e neoimperiale della politica estera,
un’influenza decisiva è stata esercitata dal compatto gruppo di intellettuali e tecnocrati chiamati “neoconservatori”: “Neocon”, secondo l’abbreviazione in voga in America. Mai nella storia una rete composta prevalentemente di
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teorici e opinionisti ha esercitato un peso così importante
sui destini del mondo. Secondo la battuta di Thomas
Friedman, editorialista del “New York Times”, il nucleo
duro dei neoconservatori si può ridurre a venticinque persone, tutte collocate in posizioni cruciali ai vertici dell’Amministrazione Bush: se nel 2002 quei venticinque
fossero stati esiliati su un’isola deserta, la guerra in Iraq
non sarebbe mai avvenuta. Com’è stato possibile per un
gruppo ristretto di persone sequestrare e dirottare il governo della superpotenza mondiale? L’ascesa al potere dei
Neocon è potuta apparire come un blitz fulmineo solo se
vista da un’Italia male informata delle vicende americane.
In realtà “l’occasione” dell’11 settembre fu colta al volo
perché i falchi erano perfettamente pronti: si allenavano
da molto tempo.
Negli anni novanta, quando la presidenza di Bill
Clinton fu più volte indebolita da scandali veri o presunti
– fino all’impeachment per Monica Lewinski – sua moglie
Hillary parlò di una «grande congiura della destra». All’epoca, quella della First Lady parve una difesa d’ufficio e la
teoria del complotto ebbe scarso credito anche a sinistra.
Fino a quando la destra ebbe il suo pentito: il giornalista
David Brock, celebre autore di scoop sugli scandali dell’era Clinton, vuotò il sacco nel libro autobiografico Blinded
by the Right. The Conscience of an Ex-conservative (“Accecato dalla destra. La coscienza di un ex-conservatore”) 1
rivelando l’esistenza di un complotto vero – l’Arkansas
Project – pagato da alcuni magnati reazionari allo scopo di
implicare Clinton in un reato. La rivincita della destra
americana viene da lontano, è un’operazione politica pre10
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parata su molti fronti, dai sostegni finanziari alla strategia
delle alleanze, dalla battaglia delle idee al controllo dei
mass media. Da quando la loro importanza è stata scoperta anche in Europa, si tende a focalizzare tutta l’attenzione sui Neocon fino a esagerarne l’importanza. In realtà, il
gruppo dei neoconservatori è solo uno dei protagonisti.
La genealogia e la geografia della nuova destra americana
che si raccoglie attorno a Bush sono più ricche, talvolta
sorprendenti. La trama di questa offensiva restauratrice
affonda le sue radici in tempi lontani – alcuni padri storici della destra attuale si misero al lavoro fin dagli anni sessanta, alcuni uomini di potere si fecero le ossa addirittura
nelle amministrazioni di Richard Nixon e Gerald Ford,
prima ancora che di Ronald Reagan e di Bush padre. Il
piano ha conosciuto rovesci e sconfitte importanti prima
di centrare l’obiettivo; infine la vittoria è stata raggiunta
grazie alla confluenza di forze politiche, economiche,
ideologiche e religiose, una santa alleanza che non è stato
facile tenere unita. Alla fine la svolta decisiva è venuta da
un evento imprevedibile. L’apocalisse scatenata da al
Qaeda contro le Torri gemelle e il Pentagono fu l’occasione insperata: per cementare le varie componenti della destra; per imprimere un segno ideologico più netto alle politiche di Bush; per cercare di cambiare durevolmente l’America e il mondo.
La tragedia dell’11 settembre fu usata per operare uno
strappo, per tentare una rottura “rivoluzionaria” nel sistema politico americano. Il trauma nazionale per la strage
terroristica paralizzò per mesi l’opposizione democratica.
Cambiò gli equilibri in seno alla destra, ammutolendo le
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componenti moderate del vecchio establishment. A occupare il campo fu una rete di consiglieri oltranzisti, di
gruppi politici e religiosi di natura estremista. È stato il
colpo più ardito dei Neocon: uomini determinati e senza
dubbi come Paul Wolfowitz, William Kristol, Richard
Perle, David Horowitz. Un gruppo omogeneo di intellettuali distribuiti tra posti di comando nell’Amministrazione Bush, pensatoi e mass media. Personaggi a modo loro
sovversivi, perché non riconoscono alcune regole del gioco della liberaldemocrazia americana: il rispetto delle istituzioni internazionali e il rifiuto delle guerre di conquista
imperiale; il patto sociale fondato sul collante del Welfare
State; la separazione tra Stato e Chiesa. Molti di loro hanno una biografia antisistema: ex trotzkista Irving Kristol,
padre di William e precursore teorico della nuova destra;
ex stalinista David Horowitz, leader della New Left a Berkeley negli anni sessanta e oggi animatore del pensatoio
reazionario Center for the Study of Popular Culture. Tutti i
neoconservatori hanno un passato di sinistra o una militanza nelle correnti più liberal (radicali) del partito democratico, da cui uscirono durante la guerra fredda in rottura con le posizioni troppo “morbide” dei democratici.
La lunga ascesa dei neoconservatori è una parabola
straordinaria. Quella che era stata per molto tempo una
fazione marginale della destra, nelle circostanze drammatiche del 2001 riesce a conquistarsi un’influenza decisiva
sull’Amministrazione Bush. La storia di questo paziente
assedio alle stanze del potere ha origine negli anni sessanta, all’apice dell’egemonia della sinistra: gli anni della
contestazione studentesca, delle proteste contro la guerra
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in Vietnam, del femminismo, delle battaglie per i diritti
civili dei neri. Allora alcuni esponenti del capitalismo
americano decidono di organizzare e finanziare una riscossa della destra che parta dalla riconquista del controllo sui valori culturali e sull’informazione. Magnati come
Richard Mellon Scaife, Walter Coors, le famiglie Olin e
Bradley, la multinazionale Rand Corporation (armamenti) stanziano fondi ingenti per costruire una nuova rete di
fondazioni e di pensatoi conservatori: anno dopo anno i
loro miliardi servono a reclutare brillanti talenti dalle migliori università americane e raccoglierli attorno a un piano di restaurazione ideologica; costruiscono la forza della
Heritage Foundation, dell’American Enterprise Institute,
del Cato Institute, della Hoover Institution (tutti vivai da
cui ha attinto ampiamente la Casa Bianca di Bush). Ma
all’inizio questo progetto reazionario ha un impatto marginale sulla linea del partito repubblicano. Il primo tentativo di spostare il partito a destra, strappandone il controllo alla vecchia élite liberale della East Coast, fallisce
miseramente con la candidatura del demagogo Barry
Goldwater alle presidenziali del 1964, stravinte dal democratico Lyndon Johnson. Nel 1968, proprio all’apice del
movimento di contestazione della guerra del Vietnam, la
“maggioranza silenziosa” crea un riflusso contro la sinistra. Il repubblicano Richard Nixon eletto in quell’anno
alla Casa Bianca, pur venendo dalla California, rimane
condizionato dall’establishment moderato. Istruito dalla
vicenda Goldwater, Nixon governa al centro: in politica
economica introduce perfino i controlli sui prezzi per moderare l’inflazione; in politica estera guidato dalla Realpo13
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litik di Henry Kissinger firma accordi con l’urss per il
controllo degli armamenti e apre alla Cina. Il primo
trionfo della destra più radicale parte proprio dalla West
Coast, ma alla fine degli anni settanta. È la rivolta antitasse che esplode in California con un referendum popolare nel 1978, segnala il successo di massa di una nuova
ideologia antistatalista, spiana la strada ai due mandati
presidenziali di Ronald Reagan, alla grande ondata neoliberista che con Margaret Thatcher contagia anche l’Europa. Parallelamente negli anni settanta si aggiunge un altro
pezzo del mosaico quando il sociologo Daniel Bell pubblica The Cultural Contradictions of Capitalism, seguito
nel decennio successivo dal filosofo Allan Bloom con The
Closing of the American Mind 2. È l’inizio della grande
guerra culturale tra destra e sinistra. Negli anni sessanta
era stata la sinistra a occupare il campo con grandi cambiamenti come il femminismo e la pillola, la contestazione studentesca, il pacifismo, il movimento gay, le mode
beat e hippy e New Age: la destra era in un angolo, impaurita dal cambiamento ma incapace di organizzare la
resistenza. Nei decenni seguenti, invece, sul terreno dei
valori è la destra che prende l’iniziativa e incalza l’avversario. Bell apre la strada con una critica radicale dell’individualismo egoista che ravvisa dietro le rivoluzioni di costume degli anni sessanta. In seguito Bloom si scaglia contro
la cultura del politically correct, contro il relativismo morale e l’etnocentrismo, contro il permissivismo, a cui addebita la decadenza della società americana, a cominciare
dalla scuola e dall’università. Se la rivolta anti-tasse attacca la costituzione materiale del sistema americano – lo sta14
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to sociale, le politiche fiscali redistributive – la controffensiva culturale apre una nuova possibilità: un’alleanza fra la
destra sociale e quella religiosa, tra gli interessi economici
e la salvezza dell’anima. Grazie a pensatori come Bell e
Bloom, tuttora due maestri riveriti dai Neocon, diventa
concepibile un progetto che metta assieme il Big Business
capitalistico (interessato a deregulation e privatizzazioni),
la base di massa piccolo-borghese della rivolta anti-tasse, e
quell’altra America della Bible Belt (la “cintura della Bibbia”), cioè quella fascia di Stati del profondo Sud che non
ha mai digerito gli anni sessanta: né il movimento dei diritti civili di Martin Luther King né la liberazione della
donna, né tantomeno la marijuana. I Neocon sono per lo
più sofisticati ebrei newyorchesi, molto distanti culturalmente dai provinciali della Bible Belt. Eppure, con una
spregiudicatezza tattica in cui alcuni osservatori hanno
ravvisato l’impronta del loro passato comunista, gli intellettuali alla Kristol afferrano l’opportunità politica offerta
da un’intesa con quel mondo 3. Si intravedono allora i
segnali premonitori di un’evoluzione del partito repubblicano: dalla coalizione di interessi all’identità ideologica; da forza nordista e moderata (il Grand Old Party di
Abraham Lincoln e di Dwight Eisenhower) a partito sudista e radicale. Reagan è il primo presidente che per vincere attinge a tutti i serbatoi della destra, compresa la Moral Majority, la maggioranza morale, ovvero la parte più
retriva delle chiese protestanti. Ma Reagan ha una biografia che lo vaccina contro certi eccessi: da uomo divorziato,
ex attore hollywoodiano ed ex governatore della California, lo Stato più anticonformista e libertario degli usa, il
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presidente della rivoluzione neoliberista non è un bigotto.
Inoltre sotto Reagan l’estremismo dei neoconservatori –
contrari alla distensione con l’urss e fautori del progetto
di guerre stellari – è ancora equilibrato dal centrismo repubblicano della East Coast, dalla tradizione laica e liberale dell’establishment della grande industria. Tipico
esponente di quella élite, per le sue origini familiari e per
le sue idee, è Bush padre. Già vicepresidente di Reagan
per due mandati, una volta eletto presidente nel 1988,
Bush senior non fa nulla per sedurre il fondamentalismo
cristiano anti-abortista, il mondo dei predicatori evangelisti come Jerry Falwell e Pat Robertson. Secondo Karl Rove – lo stratega della campagna elettorale del figlio – è
proprio la defezione della destra religiosa che fece mancare al presidente uscente i voti decisivi nella battaglia triangolare contro Bill Clinton e Ross Perot alle presidenziali
del 1992. Il figlio condivide quest’analisi sulla sconfitta del
padre, e ne trae le conseguenze.
Bush jr. per conquistare la Casa Bianca nel 2000 sigla
un patto di ferro con l’estrema destra. Interi pezzi della
sua Amministrazione vengono appaltati a due componenti da cui il padre aveva tenuto le distanze. Da una parte, i
teorici oltranzisti dei think tanks neoconservatori, falchi
in politica estera e iperliberisti in economia. Dall’altra, gli
esponenti dell’integralismo protestante, come il ministro
della Giustizia John Ashcroft. Ma la vittoria truccata alle
elezioni presidenziali del 2000, il deficit di legittimità di
Bush jr., per quasi un anno mantengono la sua Amministrazione in un limbo di incertezza. Avendo ottenuto solo
una minoranza del voto popolare, il presidente repubbli16
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cano non può certo sostenere di avere ricevuto un mandato chiaro dall’America per una svolta radicale a destra. La
trasformazione ideologica del partito repubblicano subisce una battuta d’arresto. Non è la prima volta. È già accaduto con Newt Gingrich, il leader estremista che ha
cavalcato il malcontento anti-Clinton nelle elezioni legislative del 1994, ma poi è stato incapace di consolidare l’egemonia repubblicana.
Dunque Bush jr. quando arriva alla Casa Bianca è
così debole che deve puntare sul compassionate conservatism – si autodefinisce un «conservatore compassionevole», che vuole aiutare i più deboli – come esca per attirare
i democratici moderati e governare attraverso compromessi. Solo l’11 settembre fa piazza pulita di quelle prudenze. I Neocon si infilano senza esitazioni nella breccia
che si apre: l’America è in ginocchio e nella sindrome dell’assedio può accettare ricette oltranziste, l’opposizione è
costretta all’unità nazionale di fronte al nemico, i mezzi
d’informazione sono ricattabili in nome del patriottismo.
I falchi prendono il comando fin dalle prime ore dopo
l’attacco. Decisiva è l’adesione alle loro tesi del vicepresidente Dick Cheney e del segretario alla Difesa Donald
Rumsfeld. Il segnale del loro trionfo è l’immediato rilancio di antichi progetti che erano stati bocciati da Bush sr.
nel 1992: la dottrina della guerra preventiva, e l’operazione “Cambio di regime” a Baghdad. Di colpo vengono abbandonate due tendenze pur presenti nella tradizione repubblicana: da una parte, la Realpolitik kissingeriana,
amante del negoziato diplomatico e attenta agli equilibri
nei rapporti di forze internazionali; dall’altra, l’isolazioni17
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smo di destra incarnato da un Pat Buchanan, che lo stesso
Bush aveva mostrato di non disdegnare nella campagna
elettorale del 2000, quando si era detto contrario alle operazioni di nation-building (e aveva preannunciato un ridimensionamento delle truppe americane impegnate nel
mantenimento della pace nei Balcani).
Con l’appoggio determinante dei nuovi gruppi mediatici in mano alla destra – l’emittente televisiva Fox e i
giornali di Rupert Murdoch; il “Wall Street Journal”; il
gigante delle radio locali Clear Channel – i neoconservatori intimidiscono gli avversari e dominano la scena nel
dopo-11 settembre. La loro agenda è vasta, ambiziosa, rivoluzionaria. Include disegni di lungo periodo sul Medio
Oriente («i veri uomini non si fermano a Baghdad, vanno
a Damasco e Teheran» è la battuta che circola nei palazzi
del potere subito dopo l’invasione dell’Iraq, prima che gli
attentati e la guerriglia facciano svanire l’illusione di una
vittoria-lampo); la distruzione della progressività fiscale e
delle politiche di redistribuzione dei redditi; la demolizione di conquiste sociali risalenti al New Deal di Roosevelt
(i superdeficit del bilancio federale sono funzionali a “uccidere per fame” il Welfare State); l’assalto alle normative
ambientaliste; la crescente interferenza della religione nella politica scolastica e scientifica.
Per certi aspetti, la squadra di Bush ha ripreso un percorso interrotto, rilanciando la rivoluzione conservatrice
di Reagan. In molti campi, però, gli uomini che circondano e orientano Bush lo hanno spinto a scelte ancora più
radicali, e questa seconda rivoluzione conservatrice si è
spinta ben oltre, in zone dove la prima non aveva osato
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arrivare. Reagan era un fautore dello Stato minimo – «government is not a solution, government is the problem» 4
– e un figlio della rivolta anti-tasse in California. Ma tagliò la pressione fiscale solo nel suo primo anno di governo, in seguito accettò di rialzarla per sanare i crescenti deficit pubblici. Bush non ha di questi scrupoli, ha ridotto
le tasse per tre anni di fila senza curarsi di un deficit pubblico fuori controllo. In quanto all’avversione ideologica
nei confronti dell’intervento pubblico, essa non ha impedito al ministro della Giustizia Ashcroft di fornire allo
Stato federale – con la legge anti-terrorismo Patriot Act –
dei poteri di spionaggio interno, di arresto, di detenzione
e di repressione che non hanno precedenti nella storia
americana in tempo di pace. Il nuovo superministero degli Interni creato dopo l’11 settembre, il Department of
Homeland Security, è stato definito «la più grande nuova
struttura burocratica fondata dai tempi di Harry Truman» 5. Il radicalismo di questa Amministrazione ha forzato anche la cultura anti-statalista e individualista di una
destra americana che tradizionalmente difendeva la privacy e le libertà contro l’invadenza dei “federali”.
Durante il primo mandato presidenziale, gli uomini
che guidano Bush hanno incassato una vittoria e un insuccesso. La vittoria certa è stata l’avanzata alle elezioni legislative di mid-term (metà mandato), che nel 2002 hanno
dato al partito repubblicano una maggioranza netta sia
alla Camera che al Senato. L’insuccesso è stato il caos iracheno: ha offuscato il prestigio acquisito dai falchi durante la guerra-lampo contro Saddam, ha rivelato la superficialità delle loro previsioni trionfalistiche sul dopoguerra.
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Il contraccolpo ha provocato anche incrinature e tensioni
nella squadra di Bush, per esempio tra Rumsfeld e gli intellettuali estremisti raccolti attorno a Kristol. Ma i Neocon non si scoraggiano facilmente. Nella loro lunga ascesa
verso il potere hanno conosciuto altri momenti di crisi.
La loro formazione di matrice rivoluzionaria li spinge a
reagire lanciandosi sempre all’attacco, alzando la posta in
gioco. Come una setta religiosa, sono convinti di avere
una missione superiore. Le sconfitte accentuano la loro
paranoia, la mentalità da congiurati li rende impermeabili
alle critiche.
Difficoltà e rovesci non riducono l’importanza dei
cambiamenti già messi a segno dagli uomini di Bush. Nel
sistema democratico americano, nel modo di fare politica,
negli orientamenti della società civile, nella dialettica delle opinioni, hanno ormai lasciato un’impronta profonda.
Le conseguenze resteranno visibili per molti anni.
Come già accennato, una delle trasformazioni più importanti ha investito proprio il partito repubblicano. La
cultura politica del Grand Old Party (gop) fino a tempi
recenti era ancora abbastanza liberale da ospitare nel suo
seno l’eredità di tre leader storici. Abraham Lincoln, il
vincitore della guerra civile, il presidente repubblicano
che aveva abolito la schiavitù; Theodore Roosevelt, artefice all’estero di una politica aggressiva e imperialista, ma
dentro i confini nazionali strenuo avversario dei monopoli capitalistici (i Baroni Ladri del primo Novecento che
spadroneggiavano nelle ferrovie) e pioniere delle politiche
anti-trust; infine, il generale Dwight Eisenhower, vincitore del nazifascismo, liberatore dell’Europa: una volta elet20
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to presidente sotto le bandiere repubblicane, la sua lunga
carriera in divisa non gli impedì di denunciare con vigore
la minacciosa influenza politica del «complesso militar-industriale», cioè la lobby di interessi economici che spingeva per il riarmo 6. Anche dal punto di vista sociologico, il
fatto che i repubblicani rappresentassero piuttosto i ceti
medio-alti, li portava a identificarsi con la cultura laica e
modernizzante dell’élite wasp.
Il bagaglio di valori di Lincoln, Teddy Roosevelt e Eisenhower è stato abbandonato dagli uomini di Bush.
Spostando progressivamente il gop dalla rappresentanza
di interessi verso il modello di un “partito di idee”, ne
hanno fatto un universo politico e intellettuale alternativo. Hanno saldato tre fanatismi: l’imperialismo elitario
dei Neocon, il populismo anti-politico, l’integralismo religioso. La nuova mappa della destra ha delle gerarchie
che sono state definite efficacemente da Eric Alterman 7.
Al comando c’è la Cerchia Esclusiva: poche centinaia fra
leader politici, intellettuali, finanziatori, e le grandi star
dell’informazione di destra. Sotto c’è il Movimento: migliaia di attivisti impegnati nelle campagne elettorali o
pronti a mobilitarsi localmente premendo sui propri parlamentari su temi specifici (in difesa del possesso di armi,
contro l’aborto, per la preghiera a scuola). Quest’America
parallela ha le sue emittenti televisive, le sue radio, i suoi
giornali; controlla intere università e istituzioni para-accademiche; ha le sue Chiese e le sue case editrici di riferimento; ha i suoi magistrati militanti, dalla Corte Suprema in giù. Infine ha in mano le redini di un Fronte Popolare, il partito repubblicano: l’organizzazione di massa.
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Vent’anni di battaglie per dare alla nuova destra un’egemonia culturale hanno avuto anche un altro effetto. Il
baricentro della dialettica politica americana, gli equilibri
complessivi del paese, sono “slittati” inesorabilmente verso destra. Prendiamo un elenco di temi come il Welfare
State, le pensioni e l’assistenza sanitaria; i diritti sindacali
e il salario minimo; la redistribuzione dei redditi attraverso le tasse; la facilità di comprare armi; la pena di morte.
Su questo arco di temi, gli stessi democratici sotto l’offensiva conservatrice hanno sposato posizioni sempre più
moderate. Dai tempi di Jimmy Carter fino a Bill Clinton,
i leader democratici sono venuti dall’ala destra (e sudista)
del partito. Per quanto Clinton fosse popolare nella sinistra europea, per quanto organizzasse seminari della Terza
Via insieme a Massimo D’Alema, Romano Prodi e Gerhard Schroeder, in politica economica ha fatto cose “più a
destra” di Tony Blair; per esempio, la severa cura dimagrante del Welfare State. Se negli anni sessanta la New
Left influenzava il partito democratico, oggi le opinioni
che in Europa sono considerate rispettabili dalla sinistra
di governo, in America sono confinate ai margini dello
spettro politico: nel Green Party di Ralph Nader, tra intellettuali eccentrici come Gore Vidal, Noam Chomsky,
Susan Sontag, Michael Moore o Lewis Lapham. I loro
nomi e le loro idee possono servire a vendere libri, magari anche a conquistare un posto nella classifica dei bestseller, ma non hanno cittadinanza nel ceto politico di
Washington.
Malgrado l’evoluzione in senso moderato del partito
democratico, gli anni di Bush jr. hanno visto una polariz22
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zazione della società americana quale non si conosceva dai
tempi della guerra del Vietnam. La spregiudicata aggressività dei Neocon, la faziosità dei loro portavoce mediatici,
l’emergere di un’“informazione militante” come quella
della Fox News di Rupert Murdoch, hanno indebolito il
consenso bi-partisan sulle regole del gioco. Tra i punti più
bassi toccati in questi anni c’è un episodio significativo
accaduto durante la campagna elettorale per un seggio senatoriale della Georgia nel 2002. Il candidato democratico Max Cleland, pur essendo un grande invalido di guerra (ha perso le gambe e un braccio in Vietnam) e pluridecorato al valore militare, per aver criticato i preparativi di
guerra in Iraq è stato oggetto di un linciaggio morale dai
repubblicani: lo hanno accusato di viltà e di fare il gioco
di Osama bin Laden. La demonizzazione dell’avversario
politico, la delegittimazione fra le parti, ha raggiunto livelli che l’America non conosceva da più di trent’anni. La
nuova destra è riuscita a trasformare la battaglia politica
in guerra di religione. Questa polarizzazione, a sua volta,
tende ad autoalimentarsi. Il clima di sfiducia reciproca
sembra avere assottigliato quel cuscinetto moderato che
stabilizzava al centro la democrazia americana: gli elettori
cosiddetti indipendenti, pronti a spostare il proprio voto
da un partito all’altro a seconda della situazione economica, dei programmi di governo alternativi o della credibilità dei leader in lizza. Per molto tempo gli equilibri elettorali si erano basati su un rapporto di 40-40-20: all’incirca
un 40% degli elettori tendeva a votare regolarmente per il
candidato democratico, un 40% votava quasi sempre repubblicano, e un 20% era indipendente, disposto a sce23
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gliere di volta in volta un partito o l’altro. Questo spingeva sia i candidati democratici che i repubblicani verso posizioni moderate, per catturare quel 20% decisivo. Nell’America di George W. Bush molti politologi – e lo stesso
consigliere elettorale del presidente, Karl Rove – sono
convinti che la geografia delle preferenze sia diventata
45-45-10. Sono aumentati quelli che votano per partito
preso, per convinzione ideologica, per odio dell’avversario. Sono diminuiti gli indipendenti. Secondo Laura Stoker, del Department of Political Science dell’Università di
Berkeley, i giovani americani cresciuti durante la “guerra
di religione” scatenata dalla destra tendono a polarizzarsi
e a schierarsi su posizioni estreme, ancor più dei loro genitori. Uno dei sintomi di questa crescente lacerazione durante la presidenza Bush è la nascita di una pubblicistica
virulenta, un’intera industria di libri faziosi e partigiani
scritti da opinionisti di destra o di sinistra intenti a demolire l’avversario. Titoli come Le bugie e i bugiardi che le
raccontano. Uno sguardo equilibrato e oggettivo sulla destra,
Le bugie di George Bush o, sul fronte opposto, Le bugie dei
progressisti sulla destra americana, Tradimento. Come la sinistra liberal sta distruggendo l’America hanno invaso stabilmente la hit-parade dei più venduti 8. Un fiorente business della rissa ideologica, che la dice lunga sullo stato
della fiducia reciproca e del consenso bi-partisan. Tra le
vittorie della destra, questa è forse la più importante.
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