Il giudice di prossimità Intercettazioni telefoniche: solo un problema

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Il giudice di prossimità Intercettazioni telefoniche: solo un problema
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Mensile edito dall'Associazione di promozione sociale senza scopo di lucro Partito Pirata
Iscrizione Tribunale di Rovereto Tn n° 275 direttore responsabile Mario Cossali p.IVA/CF01993330222
anno 1 numero 8
prezzo di vendita: OpenContent (alla soddisfazione del lettore)
intervista a
Claudia Moretti
La class action di
ADUC per il
rimborso Windows
di Federico Bruni
8
Il giudice di
prossimità
una proposta di
Gennaro Francione
Che diremo ai bambini?
Le tecnologie digitali ed i minori
di Alessandro Bottoni
Intercettazioni telefoniche: solo un problema di
tutela della privacy? di Piero Calabrò
Che diremo ai bambini?
Le tecnologie digitali ed i minori
Se avete dei figli di età compresa tra i 6 ed i 12
anni, di sicuro avrete notato quanto essi siano a
loro agio con i computer. Di fatto, sono molto più
a loro agio loro coi PC di quanto riusciremo mai
ad esserlo noi, che pure siamo dei professionisti. Non è certamente un caso che le mamme
che hanno dei bambini di questa età siano solite
ripetere: “Mio figlio è bravissimo coi computer.”
La velocità con cui questi ragazzini “pestano”
sulla tastiera è effettivamente impressionante.
Ma, al di là delle mitologie urbane, sarà poi vero
che questi micidiali ragazzini siano così bravi coi
computer?
Fate questo esperimento: chiedete ad uno di
questi ragazzini di creare un account di posta su
Yahoo e/o di configurare il programma di posta
(Thunderbird o MS Outlook) in modo da inviare
e ricevere messaggi. Non è un compito difficile
come potrebbe sembrare. In realtà, una volta
che gli sia stato mostrato come fare, quasi qualunque ragazzino di 10 o 12 anni è in grado di
ripetere l'esercizio con successo. Come potrete
notare, però, quasi nessun ragazzino di età
compresa tra i 6 ed i 14 anni è in grado di farlo
da solo, senza la guida di un adulto od una dimostrazione precedente. La ragione di questo
fallimento è che per completare questo esercizio
è necessario sapere cosa si deve fare (cioè bisogna trovare e leggere le “istruzioni”), bisogna
saper usare la tastiera (non i tasti cursore, che
si usano per i giochi), bisogna identificare e
avviare un programma sul PC (cioè bisogna sapere che un PC può ospitare più programmi),
bisogna identificare ed usare l'apposita pagina
di configurazione ed infine bisogna saper
raggiungere un risultato per tentativi ed errori. In
altri termini, si tratta di un esercizio di “problem
solving” tutt'altro che banale.
Troppo difficile? Provate a chiedere ad uno di
questi ragazzini di scrivere un documento con
MS Word o OpenOffice Writer e fare in modo
che il programma generi automaticamente il
sommario. Si tratta semplicemente di posizionare il cursore dove si desidera che appaia il
sommario e attivare il relativo comando “Inserisci sommario” dal menù “Modifica”. Nulla di
complicato ma... il vostro ragazzino c'è riuscito?
Quasi certamente no. Se frequenta le scuole
medie, a scuola gli dovrebbero aver già insegnato a scrivere un documento Word ma, quasi
sicuramente, non gli avranno mostrato questa
funzione ed il ragazzino, da solo, non sarà riuscito a trovarla e farla funzionare (soprattutto se
non sa cosa sono gli stili).
La realtà è che i ragazzini di oggi sono bravissimi a giocare sul PC (con uno dei molti
videogame disponibili) ma non sanno affatto
usare un PC, nemmeno per quel poco che gli
viene insegnato a scuola. Sono due attività
completamente diverse ed il fatto di eccellere
nell'una (il gioco) non significa affatto essere bravi nell'altra (uso ed amministrazione del PC).
Soprattutto, saper pestare sulla tastiera per
distruggere questo o quel mostro virtuale non significa affatto aver compreso cosa sia un
computer e quali conseguenze comporti il suo
utilizzo.
NOTA: La situazione è del tutto diversa in USA,
dove si insegna spesso ad usare ed amministrare i PC anche a ragazzini di 8 – 12 anni. Questo
ritardo della nostra scuola è uno dei molti motivi
della nostra arretratezza.
I bambini ed i PC
Questa situazione dovrebbe essere tenuta ben
presente quando si affida il proprio PC ad un ragazzino di meno di 14 anni, anche se
apparentemente sveglio. La statistica ci dice
che quasi certamente il ragazzino sarà in grado
di scaricare da Internet ed installare i suoi videogame preferiti ma altrettanto certamente non
sarà in grado di agire nel rispetto del PC e degli
altri suoi utenti (cioè voi). Il risultato finale potrebbe essere un PC inutilizzabile e gli utenti del
PC disperati per l'inaccessibilità dei loro documenti. Uno dei rischi maggiori è che il
ragazzino, insieme ad uno dei suoi videogame,
installi sul PC anche un virus od un programma
spia. Questo programma spia potrebbe poi essere usato da un malintenzionato per svuotarvi il
conto corrente passando per il vostro sistema di
home banking. Non si tratta di un rischio da poco.
Più in generale, un bambino di meno di 6 anni
non dovrebbe potersi avvicinare al computer dei
genitori. Fino a quell'età non è in grado di capire
quanto sia complicato, delicato e costoso un
aggeggio del genere e può facilmente
distruggerlo senza rendersi conto del danno che
produce. Ho già visto dei PC con dei tasti
strappati via dalla tastiera a viva forza dalle agili
dita di un bambino di 4 anni. Ho anche visto degli altri PC resi inutilizzabili da una monetina
infilata in un drive (con conseguente corto circuito). Sono danni, questi, che costano come una
vacanza a Rimini. Ci sono modi più intelligenti di
spendere questi soldi.
Tornando al software, la logica vuole che ogni
utente di un computer debba avere la sua identità (cioè la sua “utenza”, definita dal suo “user
name” e dalla sua password) ed il suo spazio
personale. Sui sistemi Unix, come Linux, BSD e
MacOS X, questo spazio si chiama “home directory”. La home directory è una directory
all'interno della quale l'utente può fare tutto ciò
che vuole, compreso installare programmi. Ogni
utente ha la sua home directory e nessuno può
andare a pasticciare con la home directory di
qualcun altro. Ogni utente può installare il suo
software nella sua home directory ed eseguirlo
con la sua identità (cioè il suo “user name”). I programmi eseguiti con l'identità di un normale
utente non possono toccare le risorse degli altri
utenti e/o il software che gestisce il sistema nel
suo complesso e quindi non possono fare danni
a livello globale. Dai tempi di Windows NT
(1998?), anche Windows permette di creare
utenti diversi sullo stesso computer ed assegnare a loro delle risorse personali. Per evitare
l'80% dei rischi, basta quindi creare una utenza
apposita per il ragazzino prima di consegnargli il
PC. In questo modo, il ragazzino non potrà
rendere inutilizzabile l'intera macchina neanche
in caso di “errori” drammatici. Per creare questa
utenza, basta cercare l'apposita sezione “Gestione utenti” nel “Pannello di Controllo” di Windows
(o chiedere assistenza all'amico “guru”). Come
potrete vedere, è possibile creare vari tipi di
utenza, dall'utente “normale” all'utente “amministratore”. Ovviamente, l'utenza destinata al
ragazzino deve essere una utenza di tipo “normale”, che non sia in grado di accedere alla
gestione del computer. L'utenza di tipo “ammini-
stratore” serve, ovviamente, ad amministrare il
PC ed è quindi autorizzata fare qualunque cosa
(anche cancellare l'intero contenuto del disco rigido).
In ogni caso, sia che il PC venga usato da vostro figlio di 12 anni, sia che sia usato solo da
voi, sul PC deve essere presente una buon antivirus e questo antivirus deve essere tenuto
aggiornato. I vostri documenti devono essere
salvati ad intervalli regolari su CD, o da qualche
altra parte (“backup”), e le vostre password de-
vono essere lunghe, difficili da indovinare e non
devono stare scritte in un documento sul desktop. Infine, il vostro PC deve essere separato
da Internet da un Firewall (ZoneAlarm o simili).
Queste sono precauzioni ovvie che vanno
sempre rispettate.
I videogame e le console
Le statistiche ci dicono che, prima dei 12 anni, il
maschietto medio spende circa 7000 ore davanti ad una console per videogame come la
Sony Playstation, la Microsoft XboX e simili. Per
confronto, sembra che ne spenda altre 5000 davanti alla TV e “solo” 2000 sui libri di scuola.
Settemila ore sono circa 10 mesi. Non è poco.
Non è però nemmeno molto. La struttura delle
nostre società urbane è tale che l'alternativa alla
TV ed alla PlayStation sarebbe quasi sempre la
strada, con tutti i pericoli che essa comporta. Lamentarsi di questa situazione non è quindi molto
saggio. Le console, come la TV, sono delle ottime babysitter ed andrebbero ringraziate per il
lavoro che svolgono. Piuttosto, varrebbe la pena
di accogliere l'invito di Nintendo per un videogame più “fisico” e regalare ai propri figli una
console Wii (quella con cui si gioca usando la
“bacchetta magica”). Almeno questo sistema
permette ai ragazzini di muoversi.
I bambini ed il web “tradizionale”
Internet è vostra amica. Non solo: è la migliore
amica di cui possano godere i vostri figli. Non ci
credete? Fate questo esperimento: quando vostro figlio vi chiede qualcosa che avete studiato
30 anni fa e che ora non ricordate più, provate a
cercarlo con Google. Ad esempio, quando vi
chiederà qualcosa del Paradosso di Zenone,
che affascina sempre i ragazzini, provate a
cercarlo con Google. Scoprirete che esistono
circa 10.000 (diecimila) pagine che ne parlano,
tra cui quella di Wikipedia. Vi basterà leggerla
per evitare le solite mezze figure da matusa fuori esercizio. Oppure, quando vi chiederà
qualcosa del Kazakhistan, provate a cercarlo
con Google Maps e/o con Wikipedia. Farete un figurone.
Il web “tradizionale”, cioè quello di Google, di Wikipedia e di Repubblica Online, è una fonte di
informazioni inesauribile e non deve essere sottovalutato.
Naturalmente, vostro figlio questo lo sa già e,
infatti, quando gli chiedono una ricerca sui Babilonesi si limita a cercare la pagina relativa su
Wikipedia, stamparla e consegnarla all'insegnante (senza leggerla, ovviamente). Non
preoccupatevi di questo: gli insegnanti sanno benissimo
come
affrontare
la
situazione.
Basteranno un paio di domande “mirate” per
convincerlo a studiare un po' meglio le cose che
scarica dal web.
Il web tradizionale comporta solo un tipo di rischio “reale”: quello di imbattersi in contenuti
pornografici (o comunque sgraditi). Potete evitare situazioni imbarazzanti usando un sistema di
“parental control” locale od un apposito portale
di accesso ad internet. I sistemi di parental
control sono semplicemente dei filtri che impediscono agli utenti del PC di vedere determinati
siti web. L'elenco dei siti web viene compilato e
mantenuto aggiornato dal produttore, per cui
non occorre che ve ne preoccupiate. Se vi
imbattete in qualcosa che non gradite, e che il
sistema non ha filtrato, potete aggiungere il sito
all'elenco usando gli appositi comandi. Quasi
tutti i sistemi di parental control permettono di
avere un trattamento diverso per i diversi utenti
dello stesso PC per cui voi, che avete 40 anni,
non sarete limitati ai soli siti web della Disney
ma vostro figlio, che ne ha 12, non potrà vedere
le donnine nude. I sistemi di parental control sono inclusi in quasi tutti i pacchetti dei moderni
antivirus (Norton Antivirus, McAfee, Kaspersky,
AVG, etc.). Consultate la guida del vostro antivirus per capire come configurare il suo sistema
di parental control. Potete anche trovare altri sistemi ed altre informazioni cercando “parental
control” con Google o con Wikipedia.
I portali per bambini sono dei “proxy server” che
svolgono la stessa funzione dei sistemi di
parental control. In questo caso, si configura il
browser web in modo che si colleghi automaticamente al portale e poi si continua la navigazione
da lì. Il portale provvede a filtrare i contenuti
indesiderati. Ovviamente, questi sistemi sono
abbastanza semplici da scavalcare. Potete trovare portali di questo tipo cercando “portale
bambini” da Google.
I bambini ed il web “sociale”
Il cosiddetto web 2.0, cioè quello orientato alla
creazione di comunità di utenti, è un altro paio
di maniche. La stragrande maggioranza delle
applicazioni del web 2.0 è assolutamente innocua ma in alcuni casi queste applicazioni
espongono i bambini a due tipi di rischi. Da un
lato i bambini rischiano di imbattersi in materiale
destinato agli adulti e che il sistema di parental
control non è in grado di filtrare. Tanto per
capirci: se YouTube viene “abilitato” per
permettere al ragazzino di vedere le clip dei
cartoni animati lo sarà anche per vedere i filmati
pornografici (YouTube provvede a filtrare
internamente i contenuti ma il filtro è facilissimo
da bypassare). Dall'altro lato, sui siti destinati
alla socializzazione, i bambini rischiano di
incontrare qualche malintenzionato.
Non c'è motivo di essere paranoici per questo.
Le statistiche ci dicono che solitamente i ragazzini passano dei guai a causa di persone che
appartengono al loro ambiente familiare ed al loro intorno sociale, non a causa di incontri
occasionali su Internet. Tuttavia, un minimo di
prudenza è necessaria.
Il mio personalissimo consiglio è quello di usare
i sistemi di parental control per impedire ai ragazzini di accedere ai siti di socializzazione
(MySpace, web chat, etc.) finché non hanno
almeno 14 o 15 anni. A quel punto, ogni tentativo
di
proteggerli
dalla
loro
curiosità
diventerebbe controproducente e bisogna lasciarli fare. Tuttavia, prima dei 14 anni, ci sono
veramente poche ragioni per permettere ad un
minore di accedere a questo tipo di risorse. Non
si tratta quindi di una rinuncia drammatica e non
compromette certamente lo sviluppo di chi la
subisce.
Tenete presente che gli insegnanti dei vostri figli, alle scuole elementari e medie, devono
essere (per legge) laureati nella loro disciplina
specifica (ad esempio in matematica) e specializzati in pedagogia (scienza della formazione).
Si tratta quindi di persone dotate di un altissimo livello di preparazione tecnica (psicologica) e che
conoscono i vostri figli bene quasi quanto voi.
Nel dubbio, potete chiedere loro se pensano
che i vostri figli siano abbastanza maturi da
permettere loro l'accesso a queste risorse.
I compiti a casa e Wikipedia
Esiste un modo semplicissimo per sapere da
quale sacco arriva la farina: basta scegliere una
frase a caso dai compiti di vostro figlio, digitarla
su Google e vedere cosa salta fuori. Se si ottiene un documento simile od identico al compito
di vostro figlio, è tempo di sospendere la paghetta.
Lo sapete voi, lo sanno anche gli insegnanti di
vostro figlio e naturalmente lo sa benissimo
anche vostro figlio. Questa “tecnica” viene abitualmente usata da molti insegnanti, per cui non
vi dovete preoccupare eccessivamente dell'uso
“smodato” che vostro figlio fa di Internet. Natu-
ralmente, potete (e forse dovete) contribuire a
questo tipo di controlli. Basta che prendiate l'abitudine di fare una rapida verifica una volta alla
settimana per disincentivare questo tipo di
comportamenti.
Il vero problema, però, è un altro: si può “studiare” qualcosa anche senza provare nessun
interesse per esso. In questo caso, il tipo di “erudizione” che si acquisisce è molto superficiale
ed è destinata a sparire in breve tempo.
Internet, da questo punto di vista, aggrava solo
marginalmente un problema che esiste da
sempre: la mancanza di interesse. Non si può
provare interesse per qualcosa che è palesemente inutile e, purtroppo, agli occhi dei nostri
figli quasi tutta la cultura scolastica è completamente inutile. L'unico modo di “motivare” vostro
figlio consiste quindi nel farlo sentire utile ed
importante per ciò che sa e che impara a scuola. Solo se ciò che egli impara è utile ed
importante per voi, potrà esserlo anche per lui.
Se gli fate delle domande, lo invitate a “insegnarvi” ciò che sa e lo state ad ascoltare, gli
darete un motivo per studiare. Vi prego di notare che non si tratta di una mia opinione: questo
è ciò che hanno scoperto gli studiosi americani
che negli anni '80 e '90 hanno studiato i motivi
per cui gli studenti asiatici (indiani e cinesi) stavano superando quelli americani negli studi. I
ragazzini cinesi, ad esempio, studiano a tamburo battente per poter poi insegnare ai loro
genitori (nati e cresciuti in Cina) ciò che imparano nelle scuole americane (a partire dalla lingua
inglese, che a loro serve moltissimo). Da questo
loro ruolo di guida in famiglia traggono lo stimolo
allo studio. Non possiamo fare altro che seguire
l'esempio.
I bambini ed i cellulari
Fino all'ingresso alla scuola media (11 anni), solitamente i nostri figli non vengono mai lasciati
da soli. Non ha quindi nessun senso dotarli di
un telefono cellulare. L'unico momento in cui potrebbero usarlo sarebbe durante le ore di
lezione, a scuola, e gli unici usi che potrebbero
farne sono per disturbare i compagni durante la
lezione o per passarsi le risposte dei compiti.
Non sono usi da promuovere.
Ha senso regalare un telefono cellulare ad un ragazzino solo quando comincia a muoversi da
solo, ad esempio per andare a nuoto. Da quel
momento in poi, la disponibilità di un cellulare è
effettivamente un elemento di rassicurazione
per i genitori e per il ragazzino (oltre che uno
strumento di socializzazione).
Tuttavia, non ha assolutamente nessun senso
regalare a dei ragazzini di 12 anni un telefono dotato di fotocamera o di telecamera. La presenza
di questi strumenti invita ad un uso anche
troppo “creativo” del cellulare ed espone il ragazzino ad una serie di rischi francamente
inutili. Il mio personalissimo consiglio è di non regalare uno strumento dotato di microcamera
prima dei 14 o 15 anni (sarebbe meglio 18, ma
chi ci riesce?).
Gli “altri”
Ho un vecchio PC, dotato di interfaccia Wi-Fi. Il
mio vicino di casa ha una connessione Wi-Fi
non protetta a cui riesco ad accedere. Ho deciso che lascerò questo PC, privo di antivirus e di
firewall, nelle mani di mio nipote, che ha 12
anni. Gli permetterò di accedere ad Internet attraverso la Wi-Fi del vicino e di installare tutti i
giochi che vuole. Tanto, anche se si becca un virus, il mio PC resta protetto sulla mia rete di
casa, dietro al mio firewall. Non c'è motivo di
spendere soldi in antivirus e cose simili. Sarà
qualcun altro a subire le conseguenze della
incompetenza di mio nipote e della mia totale
mancanza di senso di responsabilità.
Sono una vera carogna, non è vero? Un lurido
bastardo che permette ad un innocente di
spargere infezioni e di fare danni ad altri inno-
centi solo per non dedicare alla sicurezza quel
minimo di attenzioni che sarebbero necessarie.
Ecco: questo è ciò che penseranno di voi se
permetterete ad un ragazzino di accedere ad un
PC senza alcun controllo e di spargere delle
infezioni in Rete.
Dal vostro punto di vista, gli altri sono le persone come me. Ma dal nostro punto di vista, gli
altri siete voi. Se voi non vi occupate di noi, noi
non ci occuperemo di voi. Cercate di capire questo banale concetto una volta per tutte e di
comportarvi in maniera socialmente responsabile.
Conclusioni
Spero di non avervi strapazzato troppo. Certi
artifizi verbali sono necessari per “attraversare
lo schermo” ma non vanno presi troppo sul serio. Spero anche di esservi stato di aiuto nel
gestire il difficile rapporto tra voi, i vostri figli e la
tecnologia digitale. Tenete presente che basta
cercare “internet bambini sicurezza” da Google
per trovare migliaia di pagine in italiano che possono aiutarvi ad approfondire questo tema. Ci
sono anche molte mailing list a cui è possibile rivolgersi per scambiare qualche opinione e
trovare aiuto. Internet è la vostra migliore amica,
ricordatevelo.
Intercettazioni telefoniche: solo un problema
di tutela della privacy?
di Piero Calabrò
La materia dei rapporti tra indagini giudiziarie e
diritti dell’informazione ha nuovamente ripreso il
centro dell’attenzione nel dibattito politico-istituzionale. In particolare, l’ostentata indignazione
di numerosi esponenti politici ha investito le modalità di utilizzazione e pubblicizzazione di quel
delicatissimo strumento d’indagine che è rappresentato dall’intercettazione di conversazioni o
comunicazioni telefoniche, regolato dal Codice
di Procedura Penale. Non è, pertanto, inopportuno ribadire alcune considerazioni ed aggiornare
le nostre opinioni, anche alla luce di norme e
dati numerici.
Le norme
Come è noto, l’intercettazione è “consentita”,
previa autorizzazione concessa con decreto motivato al P.M. dal G.I.P., solo in relazione a ben
delimitate gravi ipotesi delittuose (analiticamente indicate dall’art. 266 c.p.p.) e solo
“quando vi sono gravi indizi di reato e l’intercettazione è assolutamente indispensabile ai fini
della prosecuzione delle indagini” (art. 267
c.p.p.). Dal punto di vista normativo, la possibilità
di
pubblicare
le
trascrizioni
delle
intercettazioni eseguite in modo legittimo
incontra, innanzitutto, i limiti sanciti dallo stesso
codice del rito penale, in modo particolare dagli
artt. 114 c.p.p. (che disciplina il divieto di pubblicazione degli atti coperti da segreto ovvero di
quelli non piu’ coperti da segreto, consentendo
invece la pubblicazione del contenuto degli atti
non coperti dal segreto), 115 c.p.p. (che, in
aggiunta alla sanzione penale, impone la trasmissione degli atti all’organo titolare del potere di
instaurare l’azione disciplinare) e 329 c.p.p. (che
indica quali sono gli atti coperti da segreto, prevedendo la ulteriore possibilità per il P.M. della
secretazione in caso di necessità d’indagine). Il
Disegno di Legge n. 1638, predisposto dall’allora ministro Mastella ed approvato il 17.4.2007
da uno solo dei rami del Parlamento, era destinato ad estendere il divieto di pubblicazione fino
alla conclusione delle indagini preliminari ovvero
fino al termine dell’udienza preliminare. Il nuovo
Esecutivo ha preannunziato un diverso Disegno
di Legge, che addirittura dovrebbe essere destinato a restringere la possibilità di disporre
intercettazioni telefoniche alle sole ipotesi di
reati associativi di stampo mafioso e di terrorismo. Per le intercettazioni acquisite in modo
illegale, che qui non interessano, è intervenuto il
recente Decreto Legge 22.9.2006 n. 259
Re Salomone e la Regina di Saba
convertito nella legge 20.11.2006, n. 281, che
ne ha regolamentata la distruzione, disciplinando le conseguenze penali e risarcitorie del
loro illecito uso. Quanto, invece, al versante
della tutela della riservatezza dei dati personali,
parecchie disposizioni sono rinvenibili nel testo
del D.Lgs. 30.6.2003 n. 196 (c.d. ”Codice della
Privacy”). Il Titolo I, nello stabilire quale principio
generale che “chiunque ha diritto alla protezione
dei dati personali che lo riguardano” (art. 1), prevede che il trattamento“si svolga nel rispetto dei
diritti e delle libertà fondamentali, nonché della
dignità dell’interessato, con particolare riferimento alla riservatezza, all’identità personale e
al diritto alla protezione dei dati personali” (art.
2) , intendendosi come dato personale “qualunque informazione relativa a persona fisica,
persona giuridica,ente o associazione, identificati o identificabili, anche indirettamente,
mediante riferimento a qualsiasi altra informazione” (art. 4 lett. b) ivi compresi i dati giudiziari,
anche solo rivelatori della “qualità di imputato o
di indagato” (art. 4 lett. e). Il Titolo III, nell’indicare le regole per il trattamento dei dati, prevede
che il rispetto di quelle che sono contenute nei
“Codici di Deontologia” (ivi compreso quello dei
giornalisti) “costituisce condizione essenziale
per la liceità e correttezza” del trattamento stesso (artt. 3-4). Il Titolo XII, nel disciplinare le
regole attinenti l’attività giornalistica, dispone
che il Codice di Deontologia relativo al trattamento dei dati debba prevedere “misure e
accorgimenti a garanzia degli interessati
rapportate alla natura dei dati, in particolare per
quelli idonei a rivelare lo stato di salute e la vita
sessuale” e che in caso di violazioni delle prescrizioni contenute nel Codice stesso “il Garante
può vietare il trattamento” (art. 139). Pur prevedendo, inoltre, l’esenzione da alcune restrizioni
previste per altre categorie (ad esempio, in materia di dati giudiziari), stabilisce che, in ogni caso,
debbano restare“fermi i limiti del diritto di cronaca a tutela dei diritti di cui all’art.2 e, in
particolare, quello dell’essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico” (art.
137). Il Garante, nell’ipotesi accertata di violazioni del Codice della Privacy (e del Codice
Deontologico), può adottare una serie di misure
che varia dal blocco al divieto totale o parziale
del trattamento (art. 143), che può essere preceduta dalla prescrizione, anche d’ufficio, di ogni
cautela opportuna (ivi compreso il divieto o il
blocco del trattamento dei dati: art. 154). L’inosservanza dei provvedimenti del Garante è
sanzionata penalmente (art. 170). I diritti sanciti
dal Codice della Privacy possono, naturalmente,
essere fatti valere in via alternativa anche davanti all’autorità giudiziaria (art. 145).
Un problema non solo italiano.
In verità, la problematica delle intercettazioni telefoniche e dell’uso fattone dalla stampa non è di
carattere esclusivamente nazionale. Nel mese
di giugno del 2006 il Congresso degli Stati Uniti
d’America ha approvato a maggioranza (227 voti contro 183) una risoluzione contro le fughe di
notizie considerate “dannose per la sicurezza nazionale” con esplicito invito ai media ad
applicare criteri di autocensura. Obbiettivo della
maggioranza trasversale creatasi in seno al
Parlamento statunitense è stata, in verità, la
pubblicazione di intercettazioni telefoniche non
autorizzate, riguardanti centinaia di migliaia di
persone, anche non residenti negli States, che il
governo ha motivato con fini di lotta al terrorismo, non considerati tali da alcuni autorevoli
quotidiani (quali: New York Times, Wall Street
Journal e Los Angeles Time): è stata, invece, respinta una proposta del senatore repubblicano
John Cornyn che prevedeva di investire del problema, con un divieto sanzionato, non i giornali
ma i funzionari governativi (considerati colpevoli
di trasmettere alla stampa le informazioni sulle
intercettazioni). Per tutta risposta, il New York Times ha ribadito di ritenere illegali le
intercettazioni e obbligo civile dei mass media rivelarle alla Nazione, mentre il Wall Street
Journal, pur ritenendo che “quando un governo
manda a processo i giornalisti si finisce nella
censura”, ha di fatto accolto l’invito a dare vita
ad una propria forma di autocensura. Come si vede, pur con ovvie differenze politiche e culturali,
il cuore del problema è ovunque riconducibile al
rapporto tra giustizia e informazione o, se si vuole, tra potere e diritti dei cittadini.
I protagonisti del nostro sistema: magistrati
e giornalisti
Se una democrazia tra le più attente alla libertà
dell’informazione è divisa su un tema così delicato, per quanto ci concerne credo che occorra
prendere lo spunto da recenti fatti di cronaca
(che hanno visto, di volta in volta, coinvolti il
mondo bancario, del calcio, della nobiltà, dello
spettacolo e della politica) al fine di analizzare i
comportamenti posti in essere dai veri protagonisti, anche mediatici, di tali vicende. Il nostro
Paese ha sovente riconosciuto a magistrati e
giornalisti il merito e la capacità di mettere in luce interi settori inquinati della vita civile ed
istituzionale: da troppo tempo, peraltro, si rinnova l’immancabile rituale delle reciproche accuse
e dei vicendevoli rimbrotti, soprattutto quando
l’oggetto del contendere è rappresentato dalla
attuazione e dalla pubblicazione delle intercettazioni telefoniche. Ognuno imputa all’altro
violazioni di norme di legge ovvero del senso
della misura, invocando la corretta applicazione
delle regole del diritto e della deontologia professionale. Le ragioni della magistratura vengono,
spesso, racchiuse nel seguente assioma: le
intercettazioni di conversazioni o comunicazioni
telefoniche, oltre che previste e disciplinate
dalla legge, sono mezzi di ricerca della prova
insostituibili nell’epoca moderna, nella quale sovente chi delinque non lascia ulteriori tracce dei
propri comportamenti. Le ragioni del giornalismo
sono solitamente riassumibili nel presunto obbligo deontologico di dover pubblicare tutto il
materiale in qualunque modo acquisito, allo scopo di rispettare quella sorta di patto etico
stipulato con i lettori, che impone il disvelamento della realtà e della verità, ancor piu’
dovuto quando sono coinvolte nei fatti persone
di rilievo pubblico. Senza la presunzione di poter stabilire in modo inequivoco da quale parte
stia la ragione, non sarà inopportuno offrire alcuni dati e qualche sommaria riflessione su di
essi.
I dati
L’escalation che negli ultimi anni ha vissuto tale
strumento di indagine è, oggettivamente, stata
così impressionante da indurre alcuni osservatori a qualificarla come forma di vera e propria
“bulimia intercettatoria”. In effetti, secondo i dati
forniti da Eurispes, l’incremento delle intercettazioni negli ultimi 7 anni è stato notevole: se
nell’anno 2001 i telefoni intercettati erano
32.000 circa, nel 2002 sono diventati 45.000,
nel 2003 quasi 78.000, nel 2004 quasi 93.000,
nel 2005 oltre 107.000, con un ulteriore incremento nell’ultimo biennio sino a giungere al
numero di 112.623 nell’anno 2007.
La spesa complessiva nel periodo 2001/2007 è
stata di € 1.600.000.000,00 e ha raggiunto la
somma di € 224.000.000,00 nel 2007, pari a poco meno del 3% del Bilancio del Ministero della
Giustizia (percentuale ben diversa dal 33,3%
erroneamente indicato dall’attuale Guardasigilli). L’analisi del dato puramente economico,
non secondaria anche per il suo impatto sull’opinione pubblica, dovrebbe essere estesa anche
al rapporto costi/benefici della spesa sostenuta
dallo Stato in questo settore di indagini, nonché
alla “qualità” della spesa medesima. A titolo puramente esemplificativo, possono essere
segnalati i seguenti dati:
- i costi delle indagini variano in relazione alle tariffe praticate dalle società private che, non
avendo lo Stato strutture adeguate, si occupano
della materiale attività di intercettazione, in assenza di una normativa destinata a calmierare e
unificare questo ricco “mercato”;
- il costo apparentemente notevole di una singola inchiesta, può essere ampiamente coperto se
non addirittura superato dal denaro recuperato
attraverso le successive fasi processuali (nel citato caso delle intercettazioni che hanno
sconvolto il mondo bancario, la spesa di circa €
7.900.000,00 è stata “surclassata” dalle restituzioni e dai risarcimenti di coloro che hanno
patteggiato la pena, giunti ad oggi ad un
importo vicino ad € 350.000.000,00).
Altri numeri, suscettibili di incutere allarmismo,
debbono essere più attentamente verificati. Tenuto conto del tempo medio di ogni
intercettazione (circa 45 giorni), ne deriverebbe
che ogni anno vengono intercettate oltre
1.500.000 persone, vale a dire una percentuale
assai elevata della popolazione del nostro Paese: in realtà, il numero degli “intercettati” è
ampiamente inferiore in considerazione del fatto
che i dati si riferiscono alle “utenze” e non alle
persone, che ogni soggetto può disporre di più
numeri sottoposti a controllo e può essere assoggettato ad indagini diverse per differenti
ipotesi di reato.
Il bilanciamento degli interessi in gioco
Dalla lettura di questi dati non può, però, non
sorgere il dubbio che, nonostante i rammentati limiti di legge, si ricorra sovente a questo
invasivo strumento d’indagine, al solo scopo di
evitare altri metodi oggettivamente piu’ difficoltosi, meno rapidi e di effetto non altrettanto
evidente. L’escamotage spesso utilizzato, allo
scopo di poter disporre le intercettazioni, è la
contestazione del reato di associazione a delinquere, grande ombrello idoneo a consentire
indagini su reati di minore gravità, che tante
volte è poi stato chiuso al termine delle indagini
Piero Calabrò
stesse. Ricordo a tutti, a titolo di puro esempio,
l’accorato lamento pubblico di un noto presidente di un club calcistico retrocesso per illecito
sportivo, il quale, dopo l’archiviazione in sede
penale dell’accusa associativa e pur con il
mantenimento delle imputazioni per tutti gli altri
reati minori, ebbe a dolersi di essere stato, a
suo dire, indebitamente trattato come un …“delinquente” . Pur non condividendo la facile e
spesso superficiale accusa di abuso intercettatorio rivolta alla magistratura inquirente, si
dovrebbe, comunque, trarre una prima conclusione: le intercettazioni telefoniche sono
certamente necessarie per le indagini, ma non
tutte le indagini necessitano dell’uso dello strumento delle intercettazioni. Peraltro, se
l’eventuale abuso d’indagine incide, come è
ovvio, su diritti fondamentali del cittadino (in primis quello sancito dall’art. 15 della Costituzione,
laddove è prescritto che “la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma
di comunicazione sono inviolabili”), assai piu’ pericoloso e dannoso è l’uso distorto che sovente
viene fatto, attraverso la pubblicazione sulla
stampa, delle trascrizioni delle intercettazioni. Il
diritto a mantenere il segreto sulla “fonte” delle
notizie (ribadito, in materia di dati personali, dal
Garante della Privacy con provvedimento in
data 30.3.2005) consente, per di piu’, al giornalista di non svelare eventuali abusi e violazioni di
legge perpetrati dagli stessi magistrati, dalla polizia giudiziaria ovvero dai difensori degli indagati
(magari allo scopo, quanto a questi ultimi, di
porre un qualche ostacolo alle indagini, anche
mediante il clamore suscitato dalla pubblicazione degli atti). In verità, spesso vengono
pubblicati fatti, circostanze, dettagli e nomi di
persone che nulla hanno a che vedere con le
indagini stesse, ma che si trovano in rapporto di
mera occasionalità con l’intercettazione e che,
però, solleticano maggiormente la curiosità
dell’opinione pubblica. Le vicende giudiziarie e
mediatiche che hanno visto come protagonisti
uno dei membri di “Casa Savoia” ed il fotografo
Corona sono, al riguardo, assai eloquenti. Negli
articoli di stampa, lo spazio dedicato alle notizie
dell’inchiesta vera e propria è stato minimo, se
rapportato a quello, assai piu’ ampio e dettagliato, riservato a storie di sesso vero o
presunto, a millanterie, a turpiloqui, a carriere di
persone non indagate e via dicendo. L’inchiesta
ribattezzata “Calciopoli” ha visto, per settimane
intere, tutti i quotidiani dedicare molte pagine
alla pubblicazione delle intercettazioni e, addirittura, un noto editore pubblicare, al prezzo
certamente remunerativo di € 5,90 cadauno,
ben due volumi (rispettivamente di 426 e 243 pagine) aventi il medesimo integrale oggetto.
L’accusa di abuso del diritto di informazione, di
scandalismo e voyeurismo mediatico, da piu’
parti sollevata, trova nelle predette vicende un
qualche sicuro fondamento ed impone meditate
ma non meno ferme riflessioni. L’obbiettivo ineludibile è, ovviamente, quello di trovare un punto
di equilibrio tra il diritto di cronaca e il diritto di
ogni individuo ad essere rispettato nella propria
dignità, nella propria identità e nella propria intimità.
Le possibili soluzioni
Nel conflitto tra interessi egualmente garantiti
dalla Costituzione, il bilanciamento tra il diritto
alla riservatezza ed il diritto di informazione non
pare, però, suscettibile di soluzioni aprioristiche
ovvero di una qualsivoglia minuziosa codificazione di regole preventive. In effetti, la molteplicità
e la varietà delle vicende di cronaca e dei
soggetti che ne sono coinvolti non consentono
di stabilire ex ante ed in modo categorico quali
particolari e quali notizie possano essere
raccolti e diffusi. Spesso, anzi, la pubblicazione
che appare legittima in un determinato contesto,
non potrebbe esserlo in un contesto diverso.
Dunque, come evidenziato dal Garante della Privacy con un documento datato 11.6.2004,
appare inevitabile che “il bilanciamento tra i diritti e le libertà di cui sopra resta in sostanza
affidato in prima battuta al giornalista il quale, in
base a una propria valutazione (che può essere
sindacata) acquisisce, seleziona e pubblica i
dati utili ad informare la collettività su fatti di rilevanza generale, esprimendosi nella cornice
della normativa vigente -in particolare, del Codice
Deontologicoe
assumendosi
le
responsabilità del proprio operato”. Peraltro,
con specifico riferimento alla pubblicazione
delle intercettazioni telefoniche, con una precedente decisione datata 29.10.1997 il Garante
ebbe a precisare:
- che “il giornalista ha il dovere di acquisire lecitamente i documenti relativi alla trascrizione di
intercettazioni effettuate nel corso di una inchiesta giudiziaria e di utilizzarli nel rispetto delle
finalità perseguite”;
ch
e
“la
dif
fusi
on
e
di
int
er
ce
tt
azi
oni telefoniche deve tener conto dei limiti del
diritto di cronaca posti a tutela della riservatezza
anche quando il fatto rivesta un interesse pubblico”;
- che “la notizia ed il dato personale pubblicato
senza il consenso dell’interessato deve rispettare il principio della essenzialità della
informazione”;
- che, pertanto, l’interessato “ha diritto a che rimangano
riservate
quelle
parti
delle
conversazioni intercettate che attengono a
comportamenti strettamente personali non
connessi alla vicenda giudiziaria o che possono
riguardare la sfera della sua vita intima”.
Né dovrebbe sottacersi, quanto alle stesse
persone indagate, che con deliberazione in data
8.11.2004 il Garante ebbe a stabilire che “i nomi
degli indagati e degli arrestati possono essere
resi noti, ma il giornalista deve valutare con cautela i giudizi sulle persone indagate nei primi
passi dell’indagine e la stessa necessità di divulgare subito le generalità complete di chi si
trova interessato da una indagine ancora in fase
iniziale”. Volgendo per un attimo nuovamente il
pensiero alle vicende mediatiche alle quali s’è
fatto cenno, quand’anche l’acquisizione dei documenti
relativi
alla
trascrizione
delle
intercettazioni sia avvenuta in modo lecito, appare arduo sostenere che la loro pubblicazione
abbia avuto luogo, in tutto o in parte, nel rispetto
di tali principi (con particolare riguardo a persone e fatti estranei alle vicende giudiziarie,
nonché al carattere intimo e riservato di alcune
delle conversazioni date alla stampa). Facile è,
pertanto, sospettare che, sovente, anziché il diritto all’informazione venga privilegiato
l’interesse, non altrettanto nobile e tutelato, al
c.d. gossip ovvero, il che è ancor peggio, alla
piu’ crudele pruderie legata alle miserie altrui, soprattutto se l’altro è un personaggio pubblico.
Non si comprenderebbe, altrimenti, la ratio in
forza della quale il magistrato inquirente, per
disporre l’intercettazione, debba contestare gravi ipotesi di reato, mentre il giornalista possa poi
diffondere conversazioni captate nel medesimo
contesto aventi ad oggetto fatti di nessuna rilevanza penale e protagoniste persone non
indagate (conversazioni che, senza la grave
contestazione di reato prevista dall’art. 266
c.p.p., non sarebbero mai state intercettate). E’
ben vero che lo stato delle attuali norme processuali, relative alla acquisizione agli atti delle
sole conversazioni rilevanti nel processo penale, non può ritenersi adeguato rispetto alle
esigenze della informazione, non essendo previsto un sicuro e rapido meccanismo di selezione
e valutazione del vasto materiale delle intercettazioni. Ciò non esime, peraltro, chi intende dare
diffusione al testo delle trascrizioni dall’onere
del rispetto dei principi stabiliti dal D.Lgs. n.
196/2003, dal Codice Deontologico dell’attività
giornalistica, nonché dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, così riassumibili:
- garantire, anche in relazione ai fatti di interesse pubblico, l’essenzialità dell’informazione;
- divulgare, anche in modo dettagliato, notizie di
rilevante interesse pubblico o sociale solo
quando l’informazione sia indispensabile per l’originalità dei fatti o per la qualificazione dei
protagonisti;
- evitare riferimenti a congiunti o ad altre persone non interessate ai fatti;
- garantire il pieno rispetto della dignità delle
persone;
- tutelare la sfera sessuale dei soggetti coinvolti.
Principi, giova rammentarlo, ribaditi dallo stesso
Garante con prescrizione adottata il 21.6.2006,
ai sensi dell’art. 154 del Codice della Privacy,
proprio in relazione all’eccesso di pubblicazione
di trascrizioni di intercettazioni telefoniche, che
ha altresì evidenziato il dovere per tutti i mezzi
di informazione“di procedere ad una valutazione
piu’ attenta ed approfondita, autonoma e responsabile, circa l’effettiva essenzialità dei
dettagli pubblicati, nella consapevolezza che
l’affievolita sfera di riservatezza di persone note
o che esercitano funzioni pubbliche non esime
dall’imprescindibile necessità di filtrare comunque le fonti disponibili per la pubblicazione,
che vanno valutate dal giornalista, anche alla luce del dovere inderogabile di salvaguardare la
dignità delle persone e i diritti dei terzi”. Quale sarà la sorte effettiva di tali prescrizioni lo dirà il
futuro. Ciò che rileva, nell’intersecarsi tra abusi
di chi intercetta ed abusi di chi pubblica le
intercettazioni, è segnalare l’effetto perverso
che ne deriva a danno di molti soggetti, per
nulla colpevoli e molto poco tutelati.
Considerazioni conclusive
Il Guardasigilli On. Alfano, nel preannunziare le
ragioni dell’imminente intervento legislativo di
pertinenza del Governo, ha esternato quella che
i padri del diritto romano avrebbero qualificato
come una excusatio non petita: non sarebbe
intenzione dell’Esecutivo limitare il potere d’indagine del Pubblico Ministero, né il diritto
d’informare della stampa. Spuntare le armi dei
magistrati e/o le penne dei giornalisti, però, è da
sempre un sogno appartenente a tanti, in epoche ed in contesti assai diversi. Certo, in un
Paese nel quale l’illegalità, soprattutto dei
colletti bianchi, sembra moltiplicarsi in modo
esponenziale, invocare un drastico ridimensionamento dello strumento d’indagine delle
intercettazioni suonerebbe come un segnale di
resa o di rassegnazione alla criminalità d’élite.
Parimenti, il diritto-dovere di informare e di essere informati potrebbe essere vanificato da
astratte previsioni limitative, magari dettate
dall’indignazione estemporanea di qualche potentato. A mio modesto parere, gli strumenti
esistenti (magari integrati dalla previsione di
una udienza o di un’altra istanza procedurale destinata a stralciare le intercettazioni non rilevanti
ai fini del processo) sarebbero piu’ che sufficienti a garantire un corretto equilibrio tra
necessità investigative, diritto di informazione e
tutela della privacy. Il rispetto, da parte dei magistrati, delle limitazioni di legge in materia di
intercettazioni e l’utilizzo di tale strumento
d’indagine solo in ipotesi di concreta ed effettiva
necessità, ne costituirebbero il necessario presupposto. L’effettivo adeguamento, da parte dei
giornalisti, ai principi stabiliti nel Codice della Privacy e nel Codice Deontologico, ne
rappresenterebbe il coronamento. Il timore è
che, nel frattempo, altri riescano ad imporre soluzioni ben più drastiche e difficilmente
rimediabili.
Piero Calabrò
Biografia
Piero Calabrò classe 1954, in magistratura dal
1979 è Presidente f.f. della IV Sezione Civile
del Tribunale di Monza
E' il fondatore, capitano ed anima della squadra. Ala destra nel periodo eroico della
Nazionale Italiana Magistrati, gioca da tempo
come regista abbinando buone doti tecniche ad
una grinta da combattente. Le sue giocate migliori sono gli assist per le punte e le
punizioni dal limite dell'area. Prima di dar vita alla Nazionale, il Capitano ha giocato nelle
giovanili del Monza ed e' stato Campione d'Italia con la squadra del Foro di Monza.
Nel corso della trasmissione Blog del 4 giugno
2088, diretta da Raffaele Festa Campanile,
l’avvocato Francesco Elia e l’avvocato(già magistrato) Gennaro Francione hanno avanzato
l’idea del Giudice di Quartiere ovvero di un giudice decentralizzato che, in civile e penale, sia a
diretto contatto col territorio, cioè a stretto ridosso delle zone dove sorgono le situazioni sociali
conflittuali. Questa figura, secondo diverse modalità, è già realizzata in alcuni paesi europei e
corrisponde alla necessità di realizzare una più
efficiente “giustizia di prossimità”. Si tratterebbe
in Italia di creare questa figura autonoma e valorizzarla appieno in tutte le sue potenzialità,
facilmente accessibile dal cittadino per risolvere
velocemente e con spesa irrisoria se non gratis
sia conflitti civili che penali di minimo rilievo. In civile i due avvocati, ideatori del blog “Le
avanguardie del diritto” http://flash.studiolegaleelia.it/index_resize.html), hanno individuato figure
già esistenti quali il conciliatore e l’arbitro, in
funzione il primo di mediatore secondo equità e
conciliatore delle controversie; il secondo di vero giudice parallelo a quello ordinario, veloce e
facilmente accessibile. Al conciliatore e all’arbitro di quartiere civilisti si affiderebbe una
funzione conciliativo-mediatoria-decisoria nei casi più comuni come le controverse di
condominio, le liti di vicinato etc..Si tratta di situazioni talora esplosive acuite dalla lentezza della
procedura normale che porta all’impossibilità
pratica di rivolgersi a un giudice ordinario. Proprio la tensione protratta e il senso di non
giustizia portano spesso questi contrasti a degenerare, creando “reati di cortile”(ingiurie,
minacce, lesioni etc.), talora sfociati in veri e propri omicidi. In penale i due avvocati hanno
avanzato il progetto di un nuovo giudice ad hoc
che gestisca reati minori o comunque con pena
minima con un criterio assolutamente nuovo e rivoluzionario, espresso da Francione nel suo
recente libro IL DIRITTO PENALE TRA
REALTA' E UTOPIA, (Herald Editore, Roma
2008). Francione ha creato il Movimento per il
Neorinascimento della Giustizia(http://www.antiarte.it/eugius/) che si batte per una giustizia
sostituente al medioevale “diritto penitenziale”(fondato sulla punizione) il nuovo “diritto
medicinale”, basato su cura, sanzioni e misure
di sicurezza per la repressione dei reati con l'au-
Cristo giudice (Michelangelo.Cappella Sistina)
silio delle nuove tecnologie(es. braccialetti
elettronici), della psicoterapeutica, e grazie
all'estensione del controllo dei devianti direttamente sul territorio. Nel crimine, in prospettiva
neoumanistica, non deve più contare quello che
si è fatto, ma perché lo si è fatto e quale il rimedio per prevenire e guarire. Questa la chiave di
volta di un processo medicinale e microstrutturato. Punire semplicemente il deviante e
abbandonarlo all’uscita del carcere significherebbe ritrovarselo addosso peggio e più
attrezzato di prima. Un compito di prevenzione e
recupero tanto più facile da realizzare quanto
più il giudice sia a stretto contatto col territorio
assegnatogli che controlla e gestisce con equipe di esperti. Un modello immediato di giudice
di prossimità è stato avanzato da Francione nel
SEMINARIO SULLO STALKING ALLA REGIONE LAZIO tenutosi il 10 giugno 2008 a Roma.
Là andando controcorrente, ma riscuotendo
ampi consensi, il relatore ha contestato la necessità di un nuovo reato di stalking (persecuzione)
in esame al parlamento, ritenendo che siano
sufficienti le norme già esistenti(violenza privata
art. 610 c.p., minacce, 612 c.p., molestia o
disturbo alle persone art. 660 c.p.). Integrando
la proposta di legge regionale del consigliere
Claudio Bucci, ha invece avanzato la necessità
di instaurare un dialogo tra la vittima e l’autore
del comportamento deviante, spesso una persona normale disturbata da eccesso d’amore,
ricorrendo alla nuova figura del Giudice Mediatore di Quartiere. Si tratta di un giudice con
funzioni confidenziali amministrativo-pregiurisdizionali di prevenzione e conciliazione, attrezzato
per le sue capacità comunicative e multisciplinari ma soprattutto con l’ausilio di esperti di
intervenire sui fatti illeciti prima del loro insorgere. Un autentico Pacificatore Sociale di
Quartiere.
La class action di ADUC per il rimborso Windows
intervista a Claudia Moretti
di Federico Bruni
L'impegno di ADUC in relazione al rimborso
Windows è iniziato con la causa contro Hp, vinta
nel novembre 2005. Puoi raccontarci brevemente quella vicenda? ..che, se non sbaglio,
non è ancora conclusa...
La vicenda nasce da una iniziativa di un collaboratore dell'ADUC, il consulente informatico
Marco Pieraccioli, che, dopo aver acquistato un
portatile Hp con Windows preinstallato, ha deciso di provare ad ottenere un rimborso del
prezzo di mercato per le licenze sia di Windows
che di altri software preinstallati (come Works).
Come spesso accade in questi casi, il produttore hardware – in questo caso Hp - ha posto una
serie di ostacoli ad un rimborso equo (tra i quali
l'obbligo di inviare il computer presso la propria
sede). Così si è giunti alla causa presso il giudice di Pace di Firenze, che dopo qualche
udienza ha risolto il caso riconoscendo il diritto
al rimborso, chiaramente enunciato nella licenza
Microsoft. Deriva infatti dallo stesso contratto
incluso nell'acquisto del pc la possibilità di non
concludere tale contratto, ovvero di leggere le
clausole, decidere di non accettarle e di non attivare la licenza d'uso e procedere quindi al
rimborso. Il Giudice di Pace non ha fatto altro
che applicare il contratto, un contratto che
coinvolge il singolo utente finale e l'azienda che
produce questi computer, pur essendo predisposto fondamentalmente da Microsoft.
Quando ho saputo della vostra vittoria, anch'io
ho provato a contattare il produttore di un portatile che avevo da poco acquistato e su cui avevo
installato da subito GNU/Linux. Il produttore
(Acer) mi ha risposto indicandomi due requisiti
per ottenere il rimborso: 1) chiederlo entro un mese dall'acquisto (accidenti, erano passati 33
giorni!); 2) non accettare la licenza EULA di Microsoft (accidenti, io non l'ho neanche vista, l'ha
accettata per me chi ha installato il sistema operativo!). Insomma, messa così, sembra
un'impresa impossibile vedersi riconosciuto il diritto al rimborso..
Questi comportamenti sono inaccettabili. Un
conto è acquistare un computer e avere la possibilità di accettare o meno la licenza al primo
avvio del sistema. Se invece qualcuno ha
accettato per te la licenza, è questo qualcuno
che si dovrà in qualche misura prendere le responsabilità...perché la licenza è un'attivazione
personale che deve essere fatta in prima persona dall'utente che usa il computer e quindi il
sistema operativo.
Tornando alla causa contro Hp, non si è ancora
conclusa...
La causa è già in corso di appello presso la
corte di appello del Giudice di Pace di Firenze.
Hp, anziché sborsare 150€, ha preferito pagare
ben quattro avvocati per portare avanti una causa il cui interesse a noi pare evidente:
proteggere gli accordi che hanno con Microsoft
per evitare che si crei per l'utente uno spazio di
scelta su quali software installare. Purtroppo i
tempi di appello sono sconosciuti; c'è stata una
prima udienza poi rinviata ad ottobre e quindi
siamo in attesa.
In seguito alla sentenza Hp, ADUC ha invitato i
consumatori a seguire il suo esempio e a far
causa ai produttori hardware. Non avendo
ADUC le risorse per seguire tante singole cause, ogni singolo consumatore ha dovuto
sobbarcarsi il rischio e le spese del procedimento giudiziario. Fatta questa premessa, in
quanti hanno avuto il coraggio di far causa ai
produttori? E con quali risultati?
I dati non li sappiamo. Noi diamo i consigli
quando le persone ci chiamano o ci scrivono, e
poi mettiamo a disposizione gli atti dei nostri procedimenti giudiziari. Inoltre, trattandosi di cause
che hanno un valore di circa 150€, il cittadino
può far causa per conto suo. Capiamo e
comprendiamo la difficoltà di affrontare la giustizia per conto proprio, però è anche vero che
purtroppo gli avvocati costano e comunque
anche una piccola causa comporta delle perdite
di tempo e di energie di non poco conto. Non
abbiamo avuto segnalazioni di persone che
hanno portato avanti cause; magari lo hanno
fatto, ma non ne sappiamo ancora gli esiti.
E del resto i tempi sono lunghi. Immagino che siano state tutte queste difficoltà a spingervi a
tentare la strada della class action..
Certo, perché fare una causa di 150€ è di per sé
antieconomico, e quindi poco conveniente fatta
eccezione per chi è mosso da una questione di
principio. Chi può permettersi o ha voglia di
perdere le mattinate in udienza, nonché altro
tempo ed energie per capire la questione e prepararsi? L'idea della class action nasce proprio dal
fatto che, pur essendo una questione giuridicamente semplice - c'è un contratto che deve
essere rispettato - le difese della controparte sono così forti e così tenaci che abbiamo pensato
che i cittadini singoli non possano sfondare questo muro da soli. La class action – a parte il fatto
che ora la vogliono rinviare e nonostante i difetti
e i limiti della nostra legge – rappresenta sicuramente lo strumento giusto, perchè noi portiamo
avanti la vittoria da un punto di vista giuridico, dopodiché nella camera di conciliazione che si
crea a seguito della sentenza, i cittadini che
hanno aderito (anche fino all'ultimo) possono
chiedere un rimborso sulla base della propria vicenda e quindi trattare in quella sede il proprio
rimborso senza doversi accollare costi e tempi
che comporta un processo individuale.
E ottenere subito il rimborso?
No, non subito. La class action è divisa in due fasi. La prima è quella dell'analisi delle questioni
giuridiche al termine della quale il giudice giunge
a una conclusione (se l'azienda è tenuta a
rimborsare i consumatori oppure no). Nella seconda fase, postgiudiziale, l'azienda, stante la
sentenza, si mette d'accordo con i singoli aderenti sulle modalità con cui adempiere alle
decisioni del giudice. Se questa camera di conciliazione non funziona – magari perché l'azienda
non partecipa – a quel punto il cittadino deve fare causa individuale...magari facendosi forte
della sentenza della class action, ma comunque
deve fare una causa individuale per ottenere
quanto gli spetta.
Alcuni ritengono che una class action contro Microsoft non sia legittima, perché di fatto sono i
produttori hardware a negare/ostacolare il
rimborso.
Ma la class action è contro i produttori, non
contro Microsoft. Se leggi bene il sito, vedi che
l'idea è quella di raccogliere per ora preadesioni,
per capire quali sono i produttori contro cui fare
la class action. Nessuno farà causa a MS,
perché MS non è chiamabile in causa. L'atteggiamento vessatorio è dei produttori...a nostro
avviso perché soggiogati dal potere e dalla posizione dominante di MS; però tale questione
compete il garante dell'Antitrust, non è una que-
stione giudiziale. Quindi la class action sarà
tecnicmente rivolta ai produttori hardware.
Quindi il form presente sul sito dell'ADUC serve
proprio a questo..
Sì, per darci modo di preselezionare il materiale,
decidere contro chi fare la class action e iniziare
a raccogliere anche persone motivate che, nel
momento in cui noi facciamo questa azione
collettiva, diano il sostegno documentale e l'adesione immediata fin dalle prime parti del
processo. Insomma, siano di pari passo con noi.
In fondo, noi non la facciamo per noi, la facciamo per loro.
Quali sono i limiti della class action italiana (rispetto
al
modello
americano,
ritenuto
superiore)? Sembra che l'attuale governo voglia
rinviare l'attuazione della legge sulla class action
perché ritenuta inadeguata. La senatrice Donatella Poretti dei Radicali-PD, in collaborazione
con l'ADUC, sta elaborando un nuovo disegno di
legge: ci puoi sintetizzare i punti chiave di questa proposta?
Sul secondo punto non sono molto preparata,
perché di quella proposta di legge si stanno
occupando altri collaboratori di ADUC. Posso
invece sintetizzarti i limiti della legge italiana
sulla class action. Il primo è la distinzione – che
già abbiamo visto – tra fase giudiziale e fase
conciliativa. Si introduce un assurdo logico: una
volta che è intervenuta una sentenza, non vedo
cosa ci sia da trattare; una sentenza può stabilire un risarcimento e fare in modo che questo
risarcimento venga attuato immediatamente,
quindi dall'ufficiale giudiziario e non in camera di
conciliazione. Questa distinzione allunga i tempi
e rende necessarie successive azioni individuali
che non dovrebbero esistere, visto che si fa la
class action apposta per evitare ai cittadini l'onere delle difese individuali. A nostro avviso è un
modo per ritardare le “mazzate” per le aziende.
Un altro punto è che limita l'ambito di applicazione ai contratti dei consumatori, e non ne
vediamo il motivo francamente: perché il
contratto business non ha diritto ad aver una tutela giudiziaria al pari del contratto dei
consumatori? Insomma, l'ambito applicativo ci lascia un po' perplessi. E poi il ruolo dell'azienda
in questo processo, perché l'azienda può negare la sua presenza, non difendersi oppure
difendersi solo in parte e rifiutarsi di fare la camera di conciliazione, e non è prevista alcuna
possibilità che a questo comportamento segua
una condanna, coattiva a quel punto, di risarcimento. Questo può vanificare e far annullare
tutto il lavoro fatto in sede giudiziale se la compagnia non si mette a sedere e tratta con le
singole posizioni. È anche vero che l'idea di
scorporare la fase giudiziale da quella conciliativa ha una sua ragione pratica, che è quella di
evitare che all'interno del processo ci si metta a
guardare una per una le singole carte e quindi si
rallentino le decisioni. Ma a questa eccezione si
può replicare dicendo che lo si deve comunque
fare dopo; e poi farla nella fase giudiziale, per
quanto lunga, fa sì che il giudice abbia il potere
di mettere nero su bianco qualcosa che potrà essere speso immediatamente da chi ha aderito.
Cosa che ora non avviene, perché per far valere
una sentenza emessa in class action, bisognerebbe andare da un altro giudice e fare un'altra
causa individuale, portare la sentenza della
class action e le proprie carte e quindi duplicare
i tempi del processo.
Dicono che la legge sia stata bloccata perché ritenuta inadeguata. Si tratta ovviamente di un
pretesto, quali sono i veri motivi secondo te?
Noi ci siamo fatti un'idea molto chiara. A questa
class action si è opposto fin dall'inizio tutto il
mondo imprenditoriale, perché ha visto crollare i
suoi privilegi legati all'incapacità della giustizia civile di far fronte ai problemi dei cittadini.
Pensiamo solo alle truffe 899: un cittadino per
80 euro non va dal giudice di Pace e quindi, proprio contando sul vuoto di tutela che riguarda le
cause antieconomiche, le aziende vanno avanti.
Non vediamo altri motivi, né si sono preoccupati
di darli.
Quali sono le differenze del modello americano rispetto alla nostra legge?
Una differenza sostanziale è legata agli effetti di
una class action. In Italia una class action può essere fatta più volte nei confronti della stessa
azienda e per gli stessi motivi da soggetti diversi. Il giudice – che è sempre il solito, perché
è quello del foro dell'azienda – dovrà decidere
se riunirle, ma potrà anche lasciarle separate, e
valutare la rappresentatività di chi le porta in cau-
sa. Negli Stati Uniti invece il giudice, nel
momento in cui si vede investire di una class
action, dovrà valutare se questa è effettivamente rappresentativa degli interessi in causa
peché, una volta presentata una class action,
tutte le questioni attinenti al caso saranno
rappresentate in quella class action, e nessun
altro potrà fare una class action simile, e i suoi
effetti investiranno tutti, chi ha partecipato e chi
non ha partecipato. Quindi è una sorta di strumento diverso nel diritto rispetto all'Italia: per noi
è un'opzione – se farla in class action, da soli,
aderire ad una piuttosto che a un'altra, replicarla, etc. quindi è uno strumento un po' più
debole. Per loro invece chi propone una class
action si assume la responsabilità di risolvere il
problema a tutto il paese. È un'azione molto più
forte e anche più competitiva fra i promotori, è
un'azione in cui chi promuove rischia in proprio,
insomma ha un'altra filosofia alla base che è
quella di risolvere una volta per tutte le cose.
E funzionano?
Funzionano, sì. Ci sono anche dei difetti, dei ripensamenti, perché ci sono degli squilibri, dei
conflitti di interesse tra chi promuove l'azione e
chi poi deve usufruirne..in termini di beneficio,
perché chi promuove l'azione può anche a un
certo punto fare il proprio interesse e
accontentarsi pur di chiuderla. Quindi anche in
USA ci sono magari aspetti discutibili...si tratta
comunque di strumenti che sono ancora in
corso di sperimentazione e di perfezionamento.
Cosa vi aspettate dalla class action contro i produttori? Ci sono margini di vittoria? Quali
saranno i tempi di questa azione collettiva?
Attualmente nulla, considerato il rinvio della
legge. Se la legge venisse poi attuata, ci
aspetteremmo che i giudici interpellati rispondessero nel più breve tempo possibile e senza
perdersi nelle argomentazioni a nostro avviso ridicole della difesa, e quindi che risolvessero
velocemente le questioni di diritto, affermando
naturalmente il diritto al rimborso; dopodiché
che fosse possibile che i singoli produttori non
perdessero tempo e procedessero a questi
rimborsi, e anche che adeguassero successivamente le proprie attitudini conformemente alla
pronuncia del giudice.
Un'altra possibile strada per cambiare le cose
sono forse gli esposti alle autorità competenti.
L'Antitrust italiano nell'agosto 2006 vi ha risposto picche, negando l'esistenza di un monopolio
MS. Nel febbraio 2008 avete fatto un nuovo
esposto all'Antitrust della Commissione Europea, che – considerate precedenti sentenze
proprio contro MS – dovrebbe dimostrarsi più deciso a tutelare la libertà di mercato. Siete
ottimisti su questa risposta? Quando dovrebbe
arrivare? Quali effetti potrebbe produrre
un'eventuale risposta positiva?
Noi non abbiamo fatto nessun comunicato su
questa cosa, però l'autorità ci ha risposto. L'autorità ci ha risposto che si sta occupando di altre
cose, cioè sta valutando Microsoft sotto altri profili.
E comunque l'Antitrust solitamente impone
delle multe anche molto salate, ma in sostanza
la situazione non cambia, il monopolio non viene scalfito...
Infatti, le azioni dell'Antitrust non cambiano la situazione, assolutamente. Almeno l'Antitrust
italiano ci aveva dato la soddisfazione di riconoscere il diritto al rimborso.
Quali sono state le motivazioni che vi hanno
spinto a intraprendere questa battaglia?
Questa iniziativa è partita da Pieraccioli, che lavorando con Linux e quindi facendo parte della
sua comunità, ha a cuore lo sviluppo del
Software Libero e della concorrenza in materia
di software. Queste sono battaglie che nascono
per passione. Richiedono un grande dispendio
di tempo e di energie, ma, essendo cause pilota, fanno sì che il nostro lavoro – in termini di
atti, di scritture, di presenze dal Giudice di Pace, etc. - possa servire ad altri che vogliano
seguire il nostro esempio. Sicuramente, se rimane un caso isolato, si arriva poco lontano; la
battaglia è appena iniziata e non è neppure finita giudizialmente.. speriamo in una conferma
della sentenza in appello..ma anche se si arrivasse ad una sentenza definitiva, è una..i
tribunali sono tanti (in Italia, nel mondo). E
purtroppo i comportamenti vessatori delle
aziende non cessano se tutti, o almeno coloro
che ci credono, non si impegnano in questo tipo
di azioni, spendendo un po' del proprio lavoro e
del proprio tempo. Comprendiamo che sono
questioni di principio, ma in Italia è così. La lotta
si fa su vari fronti: c'è la lotta parlamentare, come quella giurisdizionale.
Speravo in una risposta di questo tipo. Nel
senso che chi è lontano dal mondo
dell'informatica potrebbe pensare che sia solo
una questione di riavere indietro un centinaio di
euro. Credo quindi che sia importante riuscire a
comunicare in modo chiaro il fatto che la class
action non è tanto un'iniziativa contro MS né un
qualcosa che si limiti alla richiesta di un
rimborso e basta, bensì un'iniziativa a favore
della liberalizzazione del mercato e quindi dei sistemi operativi alternativi e delle economie
locali che stanno nascendo intorno ad essi (come indicato nel punto 2.8 del vostro esposto
alla Commissione Europea).
Certo, e questa è una motivazione importante
perché dietro alla libertà del software ci sono
tante realtà intellettuali, lavorative, creative.
Senza entrare nel merito della bontà dei programmi proprietari rispetto a quelli liberi...è un
principio. E in ogni caso è anche una questione
di legalità: se ho una licenza che mi dice che ho
diritto a un rimborso, non vedo perché questo diritto debba essere negato. Ci si potrebbe
fermare anche al contratto, tralasciando il problema dell'abuso di posizione dominante.
Ti ringrazio per l'impegno che hai dedicato finora a questa causa, che sta a cuore da anni a
tutta la comunità del Software Libero. E in
bocca al lupo!
Crepi!
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