Il giudice di prossimità Intercettazioni telefoniche: solo un problema
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Il giudice di prossimità Intercettazioni telefoniche: solo un problema
L U G L I O 2 0 0 8 Mensile edito dall'Associazione di promozione sociale senza scopo di lucro Partito Pirata Iscrizione Tribunale di Rovereto Tn n° 275 direttore responsabile Mario Cossali p.IVA/CF01993330222 anno 1 numero 8 prezzo di vendita: OpenContent (alla soddisfazione del lettore) intervista a Claudia Moretti La class action di ADUC per il rimborso Windows di Federico Bruni 8 Il giudice di prossimità una proposta di Gennaro Francione Che diremo ai bambini? Le tecnologie digitali ed i minori di Alessandro Bottoni Intercettazioni telefoniche: solo un problema di tutela della privacy? di Piero Calabrò Che diremo ai bambini? Le tecnologie digitali ed i minori Se avete dei figli di età compresa tra i 6 ed i 12 anni, di sicuro avrete notato quanto essi siano a loro agio con i computer. Di fatto, sono molto più a loro agio loro coi PC di quanto riusciremo mai ad esserlo noi, che pure siamo dei professionisti. Non è certamente un caso che le mamme che hanno dei bambini di questa età siano solite ripetere: “Mio figlio è bravissimo coi computer.” La velocità con cui questi ragazzini “pestano” sulla tastiera è effettivamente impressionante. Ma, al di là delle mitologie urbane, sarà poi vero che questi micidiali ragazzini siano così bravi coi computer? Fate questo esperimento: chiedete ad uno di questi ragazzini di creare un account di posta su Yahoo e/o di configurare il programma di posta (Thunderbird o MS Outlook) in modo da inviare e ricevere messaggi. Non è un compito difficile come potrebbe sembrare. In realtà, una volta che gli sia stato mostrato come fare, quasi qualunque ragazzino di 10 o 12 anni è in grado di ripetere l'esercizio con successo. Come potrete notare, però, quasi nessun ragazzino di età compresa tra i 6 ed i 14 anni è in grado di farlo da solo, senza la guida di un adulto od una dimostrazione precedente. La ragione di questo fallimento è che per completare questo esercizio è necessario sapere cosa si deve fare (cioè bisogna trovare e leggere le “istruzioni”), bisogna saper usare la tastiera (non i tasti cursore, che si usano per i giochi), bisogna identificare e avviare un programma sul PC (cioè bisogna sapere che un PC può ospitare più programmi), bisogna identificare ed usare l'apposita pagina di configurazione ed infine bisogna saper raggiungere un risultato per tentativi ed errori. In altri termini, si tratta di un esercizio di “problem solving” tutt'altro che banale. Troppo difficile? Provate a chiedere ad uno di questi ragazzini di scrivere un documento con MS Word o OpenOffice Writer e fare in modo che il programma generi automaticamente il sommario. Si tratta semplicemente di posizionare il cursore dove si desidera che appaia il sommario e attivare il relativo comando “Inserisci sommario” dal menù “Modifica”. Nulla di complicato ma... il vostro ragazzino c'è riuscito? Quasi certamente no. Se frequenta le scuole medie, a scuola gli dovrebbero aver già insegnato a scrivere un documento Word ma, quasi sicuramente, non gli avranno mostrato questa funzione ed il ragazzino, da solo, non sarà riuscito a trovarla e farla funzionare (soprattutto se non sa cosa sono gli stili). La realtà è che i ragazzini di oggi sono bravissimi a giocare sul PC (con uno dei molti videogame disponibili) ma non sanno affatto usare un PC, nemmeno per quel poco che gli viene insegnato a scuola. Sono due attività completamente diverse ed il fatto di eccellere nell'una (il gioco) non significa affatto essere bravi nell'altra (uso ed amministrazione del PC). Soprattutto, saper pestare sulla tastiera per distruggere questo o quel mostro virtuale non significa affatto aver compreso cosa sia un computer e quali conseguenze comporti il suo utilizzo. NOTA: La situazione è del tutto diversa in USA, dove si insegna spesso ad usare ed amministrare i PC anche a ragazzini di 8 – 12 anni. Questo ritardo della nostra scuola è uno dei molti motivi della nostra arretratezza. I bambini ed i PC Questa situazione dovrebbe essere tenuta ben presente quando si affida il proprio PC ad un ragazzino di meno di 14 anni, anche se apparentemente sveglio. La statistica ci dice che quasi certamente il ragazzino sarà in grado di scaricare da Internet ed installare i suoi videogame preferiti ma altrettanto certamente non sarà in grado di agire nel rispetto del PC e degli altri suoi utenti (cioè voi). Il risultato finale potrebbe essere un PC inutilizzabile e gli utenti del PC disperati per l'inaccessibilità dei loro documenti. Uno dei rischi maggiori è che il ragazzino, insieme ad uno dei suoi videogame, installi sul PC anche un virus od un programma spia. Questo programma spia potrebbe poi essere usato da un malintenzionato per svuotarvi il conto corrente passando per il vostro sistema di home banking. Non si tratta di un rischio da poco. Più in generale, un bambino di meno di 6 anni non dovrebbe potersi avvicinare al computer dei genitori. Fino a quell'età non è in grado di capire quanto sia complicato, delicato e costoso un aggeggio del genere e può facilmente distruggerlo senza rendersi conto del danno che produce. Ho già visto dei PC con dei tasti strappati via dalla tastiera a viva forza dalle agili dita di un bambino di 4 anni. Ho anche visto degli altri PC resi inutilizzabili da una monetina infilata in un drive (con conseguente corto circuito). Sono danni, questi, che costano come una vacanza a Rimini. Ci sono modi più intelligenti di spendere questi soldi. Tornando al software, la logica vuole che ogni utente di un computer debba avere la sua identità (cioè la sua “utenza”, definita dal suo “user name” e dalla sua password) ed il suo spazio personale. Sui sistemi Unix, come Linux, BSD e MacOS X, questo spazio si chiama “home directory”. La home directory è una directory all'interno della quale l'utente può fare tutto ciò che vuole, compreso installare programmi. Ogni utente ha la sua home directory e nessuno può andare a pasticciare con la home directory di qualcun altro. Ogni utente può installare il suo software nella sua home directory ed eseguirlo con la sua identità (cioè il suo “user name”). I programmi eseguiti con l'identità di un normale utente non possono toccare le risorse degli altri utenti e/o il software che gestisce il sistema nel suo complesso e quindi non possono fare danni a livello globale. Dai tempi di Windows NT (1998?), anche Windows permette di creare utenti diversi sullo stesso computer ed assegnare a loro delle risorse personali. Per evitare l'80% dei rischi, basta quindi creare una utenza apposita per il ragazzino prima di consegnargli il PC. In questo modo, il ragazzino non potrà rendere inutilizzabile l'intera macchina neanche in caso di “errori” drammatici. Per creare questa utenza, basta cercare l'apposita sezione “Gestione utenti” nel “Pannello di Controllo” di Windows (o chiedere assistenza all'amico “guru”). Come potrete vedere, è possibile creare vari tipi di utenza, dall'utente “normale” all'utente “amministratore”. Ovviamente, l'utenza destinata al ragazzino deve essere una utenza di tipo “normale”, che non sia in grado di accedere alla gestione del computer. L'utenza di tipo “ammini- stratore” serve, ovviamente, ad amministrare il PC ed è quindi autorizzata fare qualunque cosa (anche cancellare l'intero contenuto del disco rigido). In ogni caso, sia che il PC venga usato da vostro figlio di 12 anni, sia che sia usato solo da voi, sul PC deve essere presente una buon antivirus e questo antivirus deve essere tenuto aggiornato. I vostri documenti devono essere salvati ad intervalli regolari su CD, o da qualche altra parte (“backup”), e le vostre password de- vono essere lunghe, difficili da indovinare e non devono stare scritte in un documento sul desktop. Infine, il vostro PC deve essere separato da Internet da un Firewall (ZoneAlarm o simili). Queste sono precauzioni ovvie che vanno sempre rispettate. I videogame e le console Le statistiche ci dicono che, prima dei 12 anni, il maschietto medio spende circa 7000 ore davanti ad una console per videogame come la Sony Playstation, la Microsoft XboX e simili. Per confronto, sembra che ne spenda altre 5000 davanti alla TV e “solo” 2000 sui libri di scuola. Settemila ore sono circa 10 mesi. Non è poco. Non è però nemmeno molto. La struttura delle nostre società urbane è tale che l'alternativa alla TV ed alla PlayStation sarebbe quasi sempre la strada, con tutti i pericoli che essa comporta. Lamentarsi di questa situazione non è quindi molto saggio. Le console, come la TV, sono delle ottime babysitter ed andrebbero ringraziate per il lavoro che svolgono. Piuttosto, varrebbe la pena di accogliere l'invito di Nintendo per un videogame più “fisico” e regalare ai propri figli una console Wii (quella con cui si gioca usando la “bacchetta magica”). Almeno questo sistema permette ai ragazzini di muoversi. I bambini ed il web “tradizionale” Internet è vostra amica. Non solo: è la migliore amica di cui possano godere i vostri figli. Non ci credete? Fate questo esperimento: quando vostro figlio vi chiede qualcosa che avete studiato 30 anni fa e che ora non ricordate più, provate a cercarlo con Google. Ad esempio, quando vi chiederà qualcosa del Paradosso di Zenone, che affascina sempre i ragazzini, provate a cercarlo con Google. Scoprirete che esistono circa 10.000 (diecimila) pagine che ne parlano, tra cui quella di Wikipedia. Vi basterà leggerla per evitare le solite mezze figure da matusa fuori esercizio. Oppure, quando vi chiederà qualcosa del Kazakhistan, provate a cercarlo con Google Maps e/o con Wikipedia. Farete un figurone. Il web “tradizionale”, cioè quello di Google, di Wikipedia e di Repubblica Online, è una fonte di informazioni inesauribile e non deve essere sottovalutato. Naturalmente, vostro figlio questo lo sa già e, infatti, quando gli chiedono una ricerca sui Babilonesi si limita a cercare la pagina relativa su Wikipedia, stamparla e consegnarla all'insegnante (senza leggerla, ovviamente). Non preoccupatevi di questo: gli insegnanti sanno benissimo come affrontare la situazione. Basteranno un paio di domande “mirate” per convincerlo a studiare un po' meglio le cose che scarica dal web. Il web tradizionale comporta solo un tipo di rischio “reale”: quello di imbattersi in contenuti pornografici (o comunque sgraditi). Potete evitare situazioni imbarazzanti usando un sistema di “parental control” locale od un apposito portale di accesso ad internet. I sistemi di parental control sono semplicemente dei filtri che impediscono agli utenti del PC di vedere determinati siti web. L'elenco dei siti web viene compilato e mantenuto aggiornato dal produttore, per cui non occorre che ve ne preoccupiate. Se vi imbattete in qualcosa che non gradite, e che il sistema non ha filtrato, potete aggiungere il sito all'elenco usando gli appositi comandi. Quasi tutti i sistemi di parental control permettono di avere un trattamento diverso per i diversi utenti dello stesso PC per cui voi, che avete 40 anni, non sarete limitati ai soli siti web della Disney ma vostro figlio, che ne ha 12, non potrà vedere le donnine nude. I sistemi di parental control sono inclusi in quasi tutti i pacchetti dei moderni antivirus (Norton Antivirus, McAfee, Kaspersky, AVG, etc.). Consultate la guida del vostro antivirus per capire come configurare il suo sistema di parental control. Potete anche trovare altri sistemi ed altre informazioni cercando “parental control” con Google o con Wikipedia. I portali per bambini sono dei “proxy server” che svolgono la stessa funzione dei sistemi di parental control. In questo caso, si configura il browser web in modo che si colleghi automaticamente al portale e poi si continua la navigazione da lì. Il portale provvede a filtrare i contenuti indesiderati. Ovviamente, questi sistemi sono abbastanza semplici da scavalcare. Potete trovare portali di questo tipo cercando “portale bambini” da Google. I bambini ed il web “sociale” Il cosiddetto web 2.0, cioè quello orientato alla creazione di comunità di utenti, è un altro paio di maniche. La stragrande maggioranza delle applicazioni del web 2.0 è assolutamente innocua ma in alcuni casi queste applicazioni espongono i bambini a due tipi di rischi. Da un lato i bambini rischiano di imbattersi in materiale destinato agli adulti e che il sistema di parental control non è in grado di filtrare. Tanto per capirci: se YouTube viene “abilitato” per permettere al ragazzino di vedere le clip dei cartoni animati lo sarà anche per vedere i filmati pornografici (YouTube provvede a filtrare internamente i contenuti ma il filtro è facilissimo da bypassare). Dall'altro lato, sui siti destinati alla socializzazione, i bambini rischiano di incontrare qualche malintenzionato. Non c'è motivo di essere paranoici per questo. Le statistiche ci dicono che solitamente i ragazzini passano dei guai a causa di persone che appartengono al loro ambiente familiare ed al loro intorno sociale, non a causa di incontri occasionali su Internet. Tuttavia, un minimo di prudenza è necessaria. Il mio personalissimo consiglio è quello di usare i sistemi di parental control per impedire ai ragazzini di accedere ai siti di socializzazione (MySpace, web chat, etc.) finché non hanno almeno 14 o 15 anni. A quel punto, ogni tentativo di proteggerli dalla loro curiosità diventerebbe controproducente e bisogna lasciarli fare. Tuttavia, prima dei 14 anni, ci sono veramente poche ragioni per permettere ad un minore di accedere a questo tipo di risorse. Non si tratta quindi di una rinuncia drammatica e non compromette certamente lo sviluppo di chi la subisce. Tenete presente che gli insegnanti dei vostri figli, alle scuole elementari e medie, devono essere (per legge) laureati nella loro disciplina specifica (ad esempio in matematica) e specializzati in pedagogia (scienza della formazione). Si tratta quindi di persone dotate di un altissimo livello di preparazione tecnica (psicologica) e che conoscono i vostri figli bene quasi quanto voi. Nel dubbio, potete chiedere loro se pensano che i vostri figli siano abbastanza maturi da permettere loro l'accesso a queste risorse. I compiti a casa e Wikipedia Esiste un modo semplicissimo per sapere da quale sacco arriva la farina: basta scegliere una frase a caso dai compiti di vostro figlio, digitarla su Google e vedere cosa salta fuori. Se si ottiene un documento simile od identico al compito di vostro figlio, è tempo di sospendere la paghetta. Lo sapete voi, lo sanno anche gli insegnanti di vostro figlio e naturalmente lo sa benissimo anche vostro figlio. Questa “tecnica” viene abitualmente usata da molti insegnanti, per cui non vi dovete preoccupare eccessivamente dell'uso “smodato” che vostro figlio fa di Internet. Natu- ralmente, potete (e forse dovete) contribuire a questo tipo di controlli. Basta che prendiate l'abitudine di fare una rapida verifica una volta alla settimana per disincentivare questo tipo di comportamenti. Il vero problema, però, è un altro: si può “studiare” qualcosa anche senza provare nessun interesse per esso. In questo caso, il tipo di “erudizione” che si acquisisce è molto superficiale ed è destinata a sparire in breve tempo. Internet, da questo punto di vista, aggrava solo marginalmente un problema che esiste da sempre: la mancanza di interesse. Non si può provare interesse per qualcosa che è palesemente inutile e, purtroppo, agli occhi dei nostri figli quasi tutta la cultura scolastica è completamente inutile. L'unico modo di “motivare” vostro figlio consiste quindi nel farlo sentire utile ed importante per ciò che sa e che impara a scuola. Solo se ciò che egli impara è utile ed importante per voi, potrà esserlo anche per lui. Se gli fate delle domande, lo invitate a “insegnarvi” ciò che sa e lo state ad ascoltare, gli darete un motivo per studiare. Vi prego di notare che non si tratta di una mia opinione: questo è ciò che hanno scoperto gli studiosi americani che negli anni '80 e '90 hanno studiato i motivi per cui gli studenti asiatici (indiani e cinesi) stavano superando quelli americani negli studi. I ragazzini cinesi, ad esempio, studiano a tamburo battente per poter poi insegnare ai loro genitori (nati e cresciuti in Cina) ciò che imparano nelle scuole americane (a partire dalla lingua inglese, che a loro serve moltissimo). Da questo loro ruolo di guida in famiglia traggono lo stimolo allo studio. Non possiamo fare altro che seguire l'esempio. I bambini ed i cellulari Fino all'ingresso alla scuola media (11 anni), solitamente i nostri figli non vengono mai lasciati da soli. Non ha quindi nessun senso dotarli di un telefono cellulare. L'unico momento in cui potrebbero usarlo sarebbe durante le ore di lezione, a scuola, e gli unici usi che potrebbero farne sono per disturbare i compagni durante la lezione o per passarsi le risposte dei compiti. Non sono usi da promuovere. Ha senso regalare un telefono cellulare ad un ragazzino solo quando comincia a muoversi da solo, ad esempio per andare a nuoto. Da quel momento in poi, la disponibilità di un cellulare è effettivamente un elemento di rassicurazione per i genitori e per il ragazzino (oltre che uno strumento di socializzazione). Tuttavia, non ha assolutamente nessun senso regalare a dei ragazzini di 12 anni un telefono dotato di fotocamera o di telecamera. La presenza di questi strumenti invita ad un uso anche troppo “creativo” del cellulare ed espone il ragazzino ad una serie di rischi francamente inutili. Il mio personalissimo consiglio è di non regalare uno strumento dotato di microcamera prima dei 14 o 15 anni (sarebbe meglio 18, ma chi ci riesce?). Gli “altri” Ho un vecchio PC, dotato di interfaccia Wi-Fi. Il mio vicino di casa ha una connessione Wi-Fi non protetta a cui riesco ad accedere. Ho deciso che lascerò questo PC, privo di antivirus e di firewall, nelle mani di mio nipote, che ha 12 anni. Gli permetterò di accedere ad Internet attraverso la Wi-Fi del vicino e di installare tutti i giochi che vuole. Tanto, anche se si becca un virus, il mio PC resta protetto sulla mia rete di casa, dietro al mio firewall. Non c'è motivo di spendere soldi in antivirus e cose simili. Sarà qualcun altro a subire le conseguenze della incompetenza di mio nipote e della mia totale mancanza di senso di responsabilità. Sono una vera carogna, non è vero? Un lurido bastardo che permette ad un innocente di spargere infezioni e di fare danni ad altri inno- centi solo per non dedicare alla sicurezza quel minimo di attenzioni che sarebbero necessarie. Ecco: questo è ciò che penseranno di voi se permetterete ad un ragazzino di accedere ad un PC senza alcun controllo e di spargere delle infezioni in Rete. Dal vostro punto di vista, gli altri sono le persone come me. Ma dal nostro punto di vista, gli altri siete voi. Se voi non vi occupate di noi, noi non ci occuperemo di voi. Cercate di capire questo banale concetto una volta per tutte e di comportarvi in maniera socialmente responsabile. Conclusioni Spero di non avervi strapazzato troppo. Certi artifizi verbali sono necessari per “attraversare lo schermo” ma non vanno presi troppo sul serio. Spero anche di esservi stato di aiuto nel gestire il difficile rapporto tra voi, i vostri figli e la tecnologia digitale. Tenete presente che basta cercare “internet bambini sicurezza” da Google per trovare migliaia di pagine in italiano che possono aiutarvi ad approfondire questo tema. Ci sono anche molte mailing list a cui è possibile rivolgersi per scambiare qualche opinione e trovare aiuto. Internet è la vostra migliore amica, ricordatevelo. Intercettazioni telefoniche: solo un problema di tutela della privacy? di Piero Calabrò La materia dei rapporti tra indagini giudiziarie e diritti dell’informazione ha nuovamente ripreso il centro dell’attenzione nel dibattito politico-istituzionale. In particolare, l’ostentata indignazione di numerosi esponenti politici ha investito le modalità di utilizzazione e pubblicizzazione di quel delicatissimo strumento d’indagine che è rappresentato dall’intercettazione di conversazioni o comunicazioni telefoniche, regolato dal Codice di Procedura Penale. Non è, pertanto, inopportuno ribadire alcune considerazioni ed aggiornare le nostre opinioni, anche alla luce di norme e dati numerici. Le norme Come è noto, l’intercettazione è “consentita”, previa autorizzazione concessa con decreto motivato al P.M. dal G.I.P., solo in relazione a ben delimitate gravi ipotesi delittuose (analiticamente indicate dall’art. 266 c.p.p.) e solo “quando vi sono gravi indizi di reato e l’intercettazione è assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini” (art. 267 c.p.p.). Dal punto di vista normativo, la possibilità di pubblicare le trascrizioni delle intercettazioni eseguite in modo legittimo incontra, innanzitutto, i limiti sanciti dallo stesso codice del rito penale, in modo particolare dagli artt. 114 c.p.p. (che disciplina il divieto di pubblicazione degli atti coperti da segreto ovvero di quelli non piu’ coperti da segreto, consentendo invece la pubblicazione del contenuto degli atti non coperti dal segreto), 115 c.p.p. (che, in aggiunta alla sanzione penale, impone la trasmissione degli atti all’organo titolare del potere di instaurare l’azione disciplinare) e 329 c.p.p. (che indica quali sono gli atti coperti da segreto, prevedendo la ulteriore possibilità per il P.M. della secretazione in caso di necessità d’indagine). Il Disegno di Legge n. 1638, predisposto dall’allora ministro Mastella ed approvato il 17.4.2007 da uno solo dei rami del Parlamento, era destinato ad estendere il divieto di pubblicazione fino alla conclusione delle indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare. Il nuovo Esecutivo ha preannunziato un diverso Disegno di Legge, che addirittura dovrebbe essere destinato a restringere la possibilità di disporre intercettazioni telefoniche alle sole ipotesi di reati associativi di stampo mafioso e di terrorismo. Per le intercettazioni acquisite in modo illegale, che qui non interessano, è intervenuto il recente Decreto Legge 22.9.2006 n. 259 Re Salomone e la Regina di Saba convertito nella legge 20.11.2006, n. 281, che ne ha regolamentata la distruzione, disciplinando le conseguenze penali e risarcitorie del loro illecito uso. Quanto, invece, al versante della tutela della riservatezza dei dati personali, parecchie disposizioni sono rinvenibili nel testo del D.Lgs. 30.6.2003 n. 196 (c.d. ”Codice della Privacy”). Il Titolo I, nello stabilire quale principio generale che “chiunque ha diritto alla protezione dei dati personali che lo riguardano” (art. 1), prevede che il trattamento“si svolga nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, nonché della dignità dell’interessato, con particolare riferimento alla riservatezza, all’identità personale e al diritto alla protezione dei dati personali” (art. 2) , intendendosi come dato personale “qualunque informazione relativa a persona fisica, persona giuridica,ente o associazione, identificati o identificabili, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione” (art. 4 lett. b) ivi compresi i dati giudiziari, anche solo rivelatori della “qualità di imputato o di indagato” (art. 4 lett. e). Il Titolo III, nell’indicare le regole per il trattamento dei dati, prevede che il rispetto di quelle che sono contenute nei “Codici di Deontologia” (ivi compreso quello dei giornalisti) “costituisce condizione essenziale per la liceità e correttezza” del trattamento stesso (artt. 3-4). Il Titolo XII, nel disciplinare le regole attinenti l’attività giornalistica, dispone che il Codice di Deontologia relativo al trattamento dei dati debba prevedere “misure e accorgimenti a garanzia degli interessati rapportate alla natura dei dati, in particolare per quelli idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale” e che in caso di violazioni delle prescrizioni contenute nel Codice stesso “il Garante può vietare il trattamento” (art. 139). Pur prevedendo, inoltre, l’esenzione da alcune restrizioni previste per altre categorie (ad esempio, in materia di dati giudiziari), stabilisce che, in ogni caso, debbano restare“fermi i limiti del diritto di cronaca a tutela dei diritti di cui all’art.2 e, in particolare, quello dell’essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico” (art. 137). Il Garante, nell’ipotesi accertata di violazioni del Codice della Privacy (e del Codice Deontologico), può adottare una serie di misure che varia dal blocco al divieto totale o parziale del trattamento (art. 143), che può essere preceduta dalla prescrizione, anche d’ufficio, di ogni cautela opportuna (ivi compreso il divieto o il blocco del trattamento dei dati: art. 154). L’inosservanza dei provvedimenti del Garante è sanzionata penalmente (art. 170). I diritti sanciti dal Codice della Privacy possono, naturalmente, essere fatti valere in via alternativa anche davanti all’autorità giudiziaria (art. 145). Un problema non solo italiano. In verità, la problematica delle intercettazioni telefoniche e dell’uso fattone dalla stampa non è di carattere esclusivamente nazionale. Nel mese di giugno del 2006 il Congresso degli Stati Uniti d’America ha approvato a maggioranza (227 voti contro 183) una risoluzione contro le fughe di notizie considerate “dannose per la sicurezza nazionale” con esplicito invito ai media ad applicare criteri di autocensura. Obbiettivo della maggioranza trasversale creatasi in seno al Parlamento statunitense è stata, in verità, la pubblicazione di intercettazioni telefoniche non autorizzate, riguardanti centinaia di migliaia di persone, anche non residenti negli States, che il governo ha motivato con fini di lotta al terrorismo, non considerati tali da alcuni autorevoli quotidiani (quali: New York Times, Wall Street Journal e Los Angeles Time): è stata, invece, respinta una proposta del senatore repubblicano John Cornyn che prevedeva di investire del problema, con un divieto sanzionato, non i giornali ma i funzionari governativi (considerati colpevoli di trasmettere alla stampa le informazioni sulle intercettazioni). Per tutta risposta, il New York Times ha ribadito di ritenere illegali le intercettazioni e obbligo civile dei mass media rivelarle alla Nazione, mentre il Wall Street Journal, pur ritenendo che “quando un governo manda a processo i giornalisti si finisce nella censura”, ha di fatto accolto l’invito a dare vita ad una propria forma di autocensura. Come si vede, pur con ovvie differenze politiche e culturali, il cuore del problema è ovunque riconducibile al rapporto tra giustizia e informazione o, se si vuole, tra potere e diritti dei cittadini. I protagonisti del nostro sistema: magistrati e giornalisti Se una democrazia tra le più attente alla libertà dell’informazione è divisa su un tema così delicato, per quanto ci concerne credo che occorra prendere lo spunto da recenti fatti di cronaca (che hanno visto, di volta in volta, coinvolti il mondo bancario, del calcio, della nobiltà, dello spettacolo e della politica) al fine di analizzare i comportamenti posti in essere dai veri protagonisti, anche mediatici, di tali vicende. Il nostro Paese ha sovente riconosciuto a magistrati e giornalisti il merito e la capacità di mettere in luce interi settori inquinati della vita civile ed istituzionale: da troppo tempo, peraltro, si rinnova l’immancabile rituale delle reciproche accuse e dei vicendevoli rimbrotti, soprattutto quando l’oggetto del contendere è rappresentato dalla attuazione e dalla pubblicazione delle intercettazioni telefoniche. Ognuno imputa all’altro violazioni di norme di legge ovvero del senso della misura, invocando la corretta applicazione delle regole del diritto e della deontologia professionale. Le ragioni della magistratura vengono, spesso, racchiuse nel seguente assioma: le intercettazioni di conversazioni o comunicazioni telefoniche, oltre che previste e disciplinate dalla legge, sono mezzi di ricerca della prova insostituibili nell’epoca moderna, nella quale sovente chi delinque non lascia ulteriori tracce dei propri comportamenti. Le ragioni del giornalismo sono solitamente riassumibili nel presunto obbligo deontologico di dover pubblicare tutto il materiale in qualunque modo acquisito, allo scopo di rispettare quella sorta di patto etico stipulato con i lettori, che impone il disvelamento della realtà e della verità, ancor piu’ dovuto quando sono coinvolte nei fatti persone di rilievo pubblico. Senza la presunzione di poter stabilire in modo inequivoco da quale parte stia la ragione, non sarà inopportuno offrire alcuni dati e qualche sommaria riflessione su di essi. I dati L’escalation che negli ultimi anni ha vissuto tale strumento di indagine è, oggettivamente, stata così impressionante da indurre alcuni osservatori a qualificarla come forma di vera e propria “bulimia intercettatoria”. In effetti, secondo i dati forniti da Eurispes, l’incremento delle intercettazioni negli ultimi 7 anni è stato notevole: se nell’anno 2001 i telefoni intercettati erano 32.000 circa, nel 2002 sono diventati 45.000, nel 2003 quasi 78.000, nel 2004 quasi 93.000, nel 2005 oltre 107.000, con un ulteriore incremento nell’ultimo biennio sino a giungere al numero di 112.623 nell’anno 2007. La spesa complessiva nel periodo 2001/2007 è stata di € 1.600.000.000,00 e ha raggiunto la somma di € 224.000.000,00 nel 2007, pari a poco meno del 3% del Bilancio del Ministero della Giustizia (percentuale ben diversa dal 33,3% erroneamente indicato dall’attuale Guardasigilli). L’analisi del dato puramente economico, non secondaria anche per il suo impatto sull’opinione pubblica, dovrebbe essere estesa anche al rapporto costi/benefici della spesa sostenuta dallo Stato in questo settore di indagini, nonché alla “qualità” della spesa medesima. A titolo puramente esemplificativo, possono essere segnalati i seguenti dati: - i costi delle indagini variano in relazione alle tariffe praticate dalle società private che, non avendo lo Stato strutture adeguate, si occupano della materiale attività di intercettazione, in assenza di una normativa destinata a calmierare e unificare questo ricco “mercato”; - il costo apparentemente notevole di una singola inchiesta, può essere ampiamente coperto se non addirittura superato dal denaro recuperato attraverso le successive fasi processuali (nel citato caso delle intercettazioni che hanno sconvolto il mondo bancario, la spesa di circa € 7.900.000,00 è stata “surclassata” dalle restituzioni e dai risarcimenti di coloro che hanno patteggiato la pena, giunti ad oggi ad un importo vicino ad € 350.000.000,00). Altri numeri, suscettibili di incutere allarmismo, debbono essere più attentamente verificati. Tenuto conto del tempo medio di ogni intercettazione (circa 45 giorni), ne deriverebbe che ogni anno vengono intercettate oltre 1.500.000 persone, vale a dire una percentuale assai elevata della popolazione del nostro Paese: in realtà, il numero degli “intercettati” è ampiamente inferiore in considerazione del fatto che i dati si riferiscono alle “utenze” e non alle persone, che ogni soggetto può disporre di più numeri sottoposti a controllo e può essere assoggettato ad indagini diverse per differenti ipotesi di reato. Il bilanciamento degli interessi in gioco Dalla lettura di questi dati non può, però, non sorgere il dubbio che, nonostante i rammentati limiti di legge, si ricorra sovente a questo invasivo strumento d’indagine, al solo scopo di evitare altri metodi oggettivamente piu’ difficoltosi, meno rapidi e di effetto non altrettanto evidente. L’escamotage spesso utilizzato, allo scopo di poter disporre le intercettazioni, è la contestazione del reato di associazione a delinquere, grande ombrello idoneo a consentire indagini su reati di minore gravità, che tante volte è poi stato chiuso al termine delle indagini Piero Calabrò stesse. Ricordo a tutti, a titolo di puro esempio, l’accorato lamento pubblico di un noto presidente di un club calcistico retrocesso per illecito sportivo, il quale, dopo l’archiviazione in sede penale dell’accusa associativa e pur con il mantenimento delle imputazioni per tutti gli altri reati minori, ebbe a dolersi di essere stato, a suo dire, indebitamente trattato come un …“delinquente” . Pur non condividendo la facile e spesso superficiale accusa di abuso intercettatorio rivolta alla magistratura inquirente, si dovrebbe, comunque, trarre una prima conclusione: le intercettazioni telefoniche sono certamente necessarie per le indagini, ma non tutte le indagini necessitano dell’uso dello strumento delle intercettazioni. Peraltro, se l’eventuale abuso d’indagine incide, come è ovvio, su diritti fondamentali del cittadino (in primis quello sancito dall’art. 15 della Costituzione, laddove è prescritto che “la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili”), assai piu’ pericoloso e dannoso è l’uso distorto che sovente viene fatto, attraverso la pubblicazione sulla stampa, delle trascrizioni delle intercettazioni. Il diritto a mantenere il segreto sulla “fonte” delle notizie (ribadito, in materia di dati personali, dal Garante della Privacy con provvedimento in data 30.3.2005) consente, per di piu’, al giornalista di non svelare eventuali abusi e violazioni di legge perpetrati dagli stessi magistrati, dalla polizia giudiziaria ovvero dai difensori degli indagati (magari allo scopo, quanto a questi ultimi, di porre un qualche ostacolo alle indagini, anche mediante il clamore suscitato dalla pubblicazione degli atti). In verità, spesso vengono pubblicati fatti, circostanze, dettagli e nomi di persone che nulla hanno a che vedere con le indagini stesse, ma che si trovano in rapporto di mera occasionalità con l’intercettazione e che, però, solleticano maggiormente la curiosità dell’opinione pubblica. Le vicende giudiziarie e mediatiche che hanno visto come protagonisti uno dei membri di “Casa Savoia” ed il fotografo Corona sono, al riguardo, assai eloquenti. Negli articoli di stampa, lo spazio dedicato alle notizie dell’inchiesta vera e propria è stato minimo, se rapportato a quello, assai piu’ ampio e dettagliato, riservato a storie di sesso vero o presunto, a millanterie, a turpiloqui, a carriere di persone non indagate e via dicendo. L’inchiesta ribattezzata “Calciopoli” ha visto, per settimane intere, tutti i quotidiani dedicare molte pagine alla pubblicazione delle intercettazioni e, addirittura, un noto editore pubblicare, al prezzo certamente remunerativo di € 5,90 cadauno, ben due volumi (rispettivamente di 426 e 243 pagine) aventi il medesimo integrale oggetto. L’accusa di abuso del diritto di informazione, di scandalismo e voyeurismo mediatico, da piu’ parti sollevata, trova nelle predette vicende un qualche sicuro fondamento ed impone meditate ma non meno ferme riflessioni. L’obbiettivo ineludibile è, ovviamente, quello di trovare un punto di equilibrio tra il diritto di cronaca e il diritto di ogni individuo ad essere rispettato nella propria dignità, nella propria identità e nella propria intimità. Le possibili soluzioni Nel conflitto tra interessi egualmente garantiti dalla Costituzione, il bilanciamento tra il diritto alla riservatezza ed il diritto di informazione non pare, però, suscettibile di soluzioni aprioristiche ovvero di una qualsivoglia minuziosa codificazione di regole preventive. In effetti, la molteplicità e la varietà delle vicende di cronaca e dei soggetti che ne sono coinvolti non consentono di stabilire ex ante ed in modo categorico quali particolari e quali notizie possano essere raccolti e diffusi. Spesso, anzi, la pubblicazione che appare legittima in un determinato contesto, non potrebbe esserlo in un contesto diverso. Dunque, come evidenziato dal Garante della Privacy con un documento datato 11.6.2004, appare inevitabile che “il bilanciamento tra i diritti e le libertà di cui sopra resta in sostanza affidato in prima battuta al giornalista il quale, in base a una propria valutazione (che può essere sindacata) acquisisce, seleziona e pubblica i dati utili ad informare la collettività su fatti di rilevanza generale, esprimendosi nella cornice della normativa vigente -in particolare, del Codice Deontologicoe assumendosi le responsabilità del proprio operato”. Peraltro, con specifico riferimento alla pubblicazione delle intercettazioni telefoniche, con una precedente decisione datata 29.10.1997 il Garante ebbe a precisare: - che “il giornalista ha il dovere di acquisire lecitamente i documenti relativi alla trascrizione di intercettazioni effettuate nel corso di una inchiesta giudiziaria e di utilizzarli nel rispetto delle finalità perseguite”; ch e “la dif fusi on e di int er ce tt azi oni telefoniche deve tener conto dei limiti del diritto di cronaca posti a tutela della riservatezza anche quando il fatto rivesta un interesse pubblico”; - che “la notizia ed il dato personale pubblicato senza il consenso dell’interessato deve rispettare il principio della essenzialità della informazione”; - che, pertanto, l’interessato “ha diritto a che rimangano riservate quelle parti delle conversazioni intercettate che attengono a comportamenti strettamente personali non connessi alla vicenda giudiziaria o che possono riguardare la sfera della sua vita intima”. Né dovrebbe sottacersi, quanto alle stesse persone indagate, che con deliberazione in data 8.11.2004 il Garante ebbe a stabilire che “i nomi degli indagati e degli arrestati possono essere resi noti, ma il giornalista deve valutare con cautela i giudizi sulle persone indagate nei primi passi dell’indagine e la stessa necessità di divulgare subito le generalità complete di chi si trova interessato da una indagine ancora in fase iniziale”. Volgendo per un attimo nuovamente il pensiero alle vicende mediatiche alle quali s’è fatto cenno, quand’anche l’acquisizione dei documenti relativi alla trascrizione delle intercettazioni sia avvenuta in modo lecito, appare arduo sostenere che la loro pubblicazione abbia avuto luogo, in tutto o in parte, nel rispetto di tali principi (con particolare riguardo a persone e fatti estranei alle vicende giudiziarie, nonché al carattere intimo e riservato di alcune delle conversazioni date alla stampa). Facile è, pertanto, sospettare che, sovente, anziché il diritto all’informazione venga privilegiato l’interesse, non altrettanto nobile e tutelato, al c.d. gossip ovvero, il che è ancor peggio, alla piu’ crudele pruderie legata alle miserie altrui, soprattutto se l’altro è un personaggio pubblico. Non si comprenderebbe, altrimenti, la ratio in forza della quale il magistrato inquirente, per disporre l’intercettazione, debba contestare gravi ipotesi di reato, mentre il giornalista possa poi diffondere conversazioni captate nel medesimo contesto aventi ad oggetto fatti di nessuna rilevanza penale e protagoniste persone non indagate (conversazioni che, senza la grave contestazione di reato prevista dall’art. 266 c.p.p., non sarebbero mai state intercettate). E’ ben vero che lo stato delle attuali norme processuali, relative alla acquisizione agli atti delle sole conversazioni rilevanti nel processo penale, non può ritenersi adeguato rispetto alle esigenze della informazione, non essendo previsto un sicuro e rapido meccanismo di selezione e valutazione del vasto materiale delle intercettazioni. Ciò non esime, peraltro, chi intende dare diffusione al testo delle trascrizioni dall’onere del rispetto dei principi stabiliti dal D.Lgs. n. 196/2003, dal Codice Deontologico dell’attività giornalistica, nonché dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, così riassumibili: - garantire, anche in relazione ai fatti di interesse pubblico, l’essenzialità dell’informazione; - divulgare, anche in modo dettagliato, notizie di rilevante interesse pubblico o sociale solo quando l’informazione sia indispensabile per l’originalità dei fatti o per la qualificazione dei protagonisti; - evitare riferimenti a congiunti o ad altre persone non interessate ai fatti; - garantire il pieno rispetto della dignità delle persone; - tutelare la sfera sessuale dei soggetti coinvolti. Principi, giova rammentarlo, ribaditi dallo stesso Garante con prescrizione adottata il 21.6.2006, ai sensi dell’art. 154 del Codice della Privacy, proprio in relazione all’eccesso di pubblicazione di trascrizioni di intercettazioni telefoniche, che ha altresì evidenziato il dovere per tutti i mezzi di informazione“di procedere ad una valutazione piu’ attenta ed approfondita, autonoma e responsabile, circa l’effettiva essenzialità dei dettagli pubblicati, nella consapevolezza che l’affievolita sfera di riservatezza di persone note o che esercitano funzioni pubbliche non esime dall’imprescindibile necessità di filtrare comunque le fonti disponibili per la pubblicazione, che vanno valutate dal giornalista, anche alla luce del dovere inderogabile di salvaguardare la dignità delle persone e i diritti dei terzi”. Quale sarà la sorte effettiva di tali prescrizioni lo dirà il futuro. Ciò che rileva, nell’intersecarsi tra abusi di chi intercetta ed abusi di chi pubblica le intercettazioni, è segnalare l’effetto perverso che ne deriva a danno di molti soggetti, per nulla colpevoli e molto poco tutelati. Considerazioni conclusive Il Guardasigilli On. Alfano, nel preannunziare le ragioni dell’imminente intervento legislativo di pertinenza del Governo, ha esternato quella che i padri del diritto romano avrebbero qualificato come una excusatio non petita: non sarebbe intenzione dell’Esecutivo limitare il potere d’indagine del Pubblico Ministero, né il diritto d’informare della stampa. Spuntare le armi dei magistrati e/o le penne dei giornalisti, però, è da sempre un sogno appartenente a tanti, in epoche ed in contesti assai diversi. Certo, in un Paese nel quale l’illegalità, soprattutto dei colletti bianchi, sembra moltiplicarsi in modo esponenziale, invocare un drastico ridimensionamento dello strumento d’indagine delle intercettazioni suonerebbe come un segnale di resa o di rassegnazione alla criminalità d’élite. Parimenti, il diritto-dovere di informare e di essere informati potrebbe essere vanificato da astratte previsioni limitative, magari dettate dall’indignazione estemporanea di qualche potentato. A mio modesto parere, gli strumenti esistenti (magari integrati dalla previsione di una udienza o di un’altra istanza procedurale destinata a stralciare le intercettazioni non rilevanti ai fini del processo) sarebbero piu’ che sufficienti a garantire un corretto equilibrio tra necessità investigative, diritto di informazione e tutela della privacy. Il rispetto, da parte dei magistrati, delle limitazioni di legge in materia di intercettazioni e l’utilizzo di tale strumento d’indagine solo in ipotesi di concreta ed effettiva necessità, ne costituirebbero il necessario presupposto. L’effettivo adeguamento, da parte dei giornalisti, ai principi stabiliti nel Codice della Privacy e nel Codice Deontologico, ne rappresenterebbe il coronamento. Il timore è che, nel frattempo, altri riescano ad imporre soluzioni ben più drastiche e difficilmente rimediabili. Piero Calabrò Biografia Piero Calabrò classe 1954, in magistratura dal 1979 è Presidente f.f. della IV Sezione Civile del Tribunale di Monza E' il fondatore, capitano ed anima della squadra. Ala destra nel periodo eroico della Nazionale Italiana Magistrati, gioca da tempo come regista abbinando buone doti tecniche ad una grinta da combattente. Le sue giocate migliori sono gli assist per le punte e le punizioni dal limite dell'area. Prima di dar vita alla Nazionale, il Capitano ha giocato nelle giovanili del Monza ed e' stato Campione d'Italia con la squadra del Foro di Monza. Nel corso della trasmissione Blog del 4 giugno 2088, diretta da Raffaele Festa Campanile, l’avvocato Francesco Elia e l’avvocato(già magistrato) Gennaro Francione hanno avanzato l’idea del Giudice di Quartiere ovvero di un giudice decentralizzato che, in civile e penale, sia a diretto contatto col territorio, cioè a stretto ridosso delle zone dove sorgono le situazioni sociali conflittuali. Questa figura, secondo diverse modalità, è già realizzata in alcuni paesi europei e corrisponde alla necessità di realizzare una più efficiente “giustizia di prossimità”. Si tratterebbe in Italia di creare questa figura autonoma e valorizzarla appieno in tutte le sue potenzialità, facilmente accessibile dal cittadino per risolvere velocemente e con spesa irrisoria se non gratis sia conflitti civili che penali di minimo rilievo. In civile i due avvocati, ideatori del blog “Le avanguardie del diritto” http://flash.studiolegaleelia.it/index_resize.html), hanno individuato figure già esistenti quali il conciliatore e l’arbitro, in funzione il primo di mediatore secondo equità e conciliatore delle controversie; il secondo di vero giudice parallelo a quello ordinario, veloce e facilmente accessibile. Al conciliatore e all’arbitro di quartiere civilisti si affiderebbe una funzione conciliativo-mediatoria-decisoria nei casi più comuni come le controverse di condominio, le liti di vicinato etc..Si tratta di situazioni talora esplosive acuite dalla lentezza della procedura normale che porta all’impossibilità pratica di rivolgersi a un giudice ordinario. Proprio la tensione protratta e il senso di non giustizia portano spesso questi contrasti a degenerare, creando “reati di cortile”(ingiurie, minacce, lesioni etc.), talora sfociati in veri e propri omicidi. In penale i due avvocati hanno avanzato il progetto di un nuovo giudice ad hoc che gestisca reati minori o comunque con pena minima con un criterio assolutamente nuovo e rivoluzionario, espresso da Francione nel suo recente libro IL DIRITTO PENALE TRA REALTA' E UTOPIA, (Herald Editore, Roma 2008). Francione ha creato il Movimento per il Neorinascimento della Giustizia(http://www.antiarte.it/eugius/) che si batte per una giustizia sostituente al medioevale “diritto penitenziale”(fondato sulla punizione) il nuovo “diritto medicinale”, basato su cura, sanzioni e misure di sicurezza per la repressione dei reati con l'au- Cristo giudice (Michelangelo.Cappella Sistina) silio delle nuove tecnologie(es. braccialetti elettronici), della psicoterapeutica, e grazie all'estensione del controllo dei devianti direttamente sul territorio. Nel crimine, in prospettiva neoumanistica, non deve più contare quello che si è fatto, ma perché lo si è fatto e quale il rimedio per prevenire e guarire. Questa la chiave di volta di un processo medicinale e microstrutturato. Punire semplicemente il deviante e abbandonarlo all’uscita del carcere significherebbe ritrovarselo addosso peggio e più attrezzato di prima. Un compito di prevenzione e recupero tanto più facile da realizzare quanto più il giudice sia a stretto contatto col territorio assegnatogli che controlla e gestisce con equipe di esperti. Un modello immediato di giudice di prossimità è stato avanzato da Francione nel SEMINARIO SULLO STALKING ALLA REGIONE LAZIO tenutosi il 10 giugno 2008 a Roma. Là andando controcorrente, ma riscuotendo ampi consensi, il relatore ha contestato la necessità di un nuovo reato di stalking (persecuzione) in esame al parlamento, ritenendo che siano sufficienti le norme già esistenti(violenza privata art. 610 c.p., minacce, 612 c.p., molestia o disturbo alle persone art. 660 c.p.). Integrando la proposta di legge regionale del consigliere Claudio Bucci, ha invece avanzato la necessità di instaurare un dialogo tra la vittima e l’autore del comportamento deviante, spesso una persona normale disturbata da eccesso d’amore, ricorrendo alla nuova figura del Giudice Mediatore di Quartiere. Si tratta di un giudice con funzioni confidenziali amministrativo-pregiurisdizionali di prevenzione e conciliazione, attrezzato per le sue capacità comunicative e multisciplinari ma soprattutto con l’ausilio di esperti di intervenire sui fatti illeciti prima del loro insorgere. Un autentico Pacificatore Sociale di Quartiere. La class action di ADUC per il rimborso Windows intervista a Claudia Moretti di Federico Bruni L'impegno di ADUC in relazione al rimborso Windows è iniziato con la causa contro Hp, vinta nel novembre 2005. Puoi raccontarci brevemente quella vicenda? ..che, se non sbaglio, non è ancora conclusa... La vicenda nasce da una iniziativa di un collaboratore dell'ADUC, il consulente informatico Marco Pieraccioli, che, dopo aver acquistato un portatile Hp con Windows preinstallato, ha deciso di provare ad ottenere un rimborso del prezzo di mercato per le licenze sia di Windows che di altri software preinstallati (come Works). Come spesso accade in questi casi, il produttore hardware – in questo caso Hp - ha posto una serie di ostacoli ad un rimborso equo (tra i quali l'obbligo di inviare il computer presso la propria sede). Così si è giunti alla causa presso il giudice di Pace di Firenze, che dopo qualche udienza ha risolto il caso riconoscendo il diritto al rimborso, chiaramente enunciato nella licenza Microsoft. Deriva infatti dallo stesso contratto incluso nell'acquisto del pc la possibilità di non concludere tale contratto, ovvero di leggere le clausole, decidere di non accettarle e di non attivare la licenza d'uso e procedere quindi al rimborso. Il Giudice di Pace non ha fatto altro che applicare il contratto, un contratto che coinvolge il singolo utente finale e l'azienda che produce questi computer, pur essendo predisposto fondamentalmente da Microsoft. Quando ho saputo della vostra vittoria, anch'io ho provato a contattare il produttore di un portatile che avevo da poco acquistato e su cui avevo installato da subito GNU/Linux. Il produttore (Acer) mi ha risposto indicandomi due requisiti per ottenere il rimborso: 1) chiederlo entro un mese dall'acquisto (accidenti, erano passati 33 giorni!); 2) non accettare la licenza EULA di Microsoft (accidenti, io non l'ho neanche vista, l'ha accettata per me chi ha installato il sistema operativo!). Insomma, messa così, sembra un'impresa impossibile vedersi riconosciuto il diritto al rimborso.. Questi comportamenti sono inaccettabili. Un conto è acquistare un computer e avere la possibilità di accettare o meno la licenza al primo avvio del sistema. Se invece qualcuno ha accettato per te la licenza, è questo qualcuno che si dovrà in qualche misura prendere le responsabilità...perché la licenza è un'attivazione personale che deve essere fatta in prima persona dall'utente che usa il computer e quindi il sistema operativo. Tornando alla causa contro Hp, non si è ancora conclusa... La causa è già in corso di appello presso la corte di appello del Giudice di Pace di Firenze. Hp, anziché sborsare 150€, ha preferito pagare ben quattro avvocati per portare avanti una causa il cui interesse a noi pare evidente: proteggere gli accordi che hanno con Microsoft per evitare che si crei per l'utente uno spazio di scelta su quali software installare. Purtroppo i tempi di appello sono sconosciuti; c'è stata una prima udienza poi rinviata ad ottobre e quindi siamo in attesa. In seguito alla sentenza Hp, ADUC ha invitato i consumatori a seguire il suo esempio e a far causa ai produttori hardware. Non avendo ADUC le risorse per seguire tante singole cause, ogni singolo consumatore ha dovuto sobbarcarsi il rischio e le spese del procedimento giudiziario. Fatta questa premessa, in quanti hanno avuto il coraggio di far causa ai produttori? E con quali risultati? I dati non li sappiamo. Noi diamo i consigli quando le persone ci chiamano o ci scrivono, e poi mettiamo a disposizione gli atti dei nostri procedimenti giudiziari. Inoltre, trattandosi di cause che hanno un valore di circa 150€, il cittadino può far causa per conto suo. Capiamo e comprendiamo la difficoltà di affrontare la giustizia per conto proprio, però è anche vero che purtroppo gli avvocati costano e comunque anche una piccola causa comporta delle perdite di tempo e di energie di non poco conto. Non abbiamo avuto segnalazioni di persone che hanno portato avanti cause; magari lo hanno fatto, ma non ne sappiamo ancora gli esiti. E del resto i tempi sono lunghi. Immagino che siano state tutte queste difficoltà a spingervi a tentare la strada della class action.. Certo, perché fare una causa di 150€ è di per sé antieconomico, e quindi poco conveniente fatta eccezione per chi è mosso da una questione di principio. Chi può permettersi o ha voglia di perdere le mattinate in udienza, nonché altro tempo ed energie per capire la questione e prepararsi? L'idea della class action nasce proprio dal fatto che, pur essendo una questione giuridicamente semplice - c'è un contratto che deve essere rispettato - le difese della controparte sono così forti e così tenaci che abbiamo pensato che i cittadini singoli non possano sfondare questo muro da soli. La class action – a parte il fatto che ora la vogliono rinviare e nonostante i difetti e i limiti della nostra legge – rappresenta sicuramente lo strumento giusto, perchè noi portiamo avanti la vittoria da un punto di vista giuridico, dopodiché nella camera di conciliazione che si crea a seguito della sentenza, i cittadini che hanno aderito (anche fino all'ultimo) possono chiedere un rimborso sulla base della propria vicenda e quindi trattare in quella sede il proprio rimborso senza doversi accollare costi e tempi che comporta un processo individuale. E ottenere subito il rimborso? No, non subito. La class action è divisa in due fasi. La prima è quella dell'analisi delle questioni giuridiche al termine della quale il giudice giunge a una conclusione (se l'azienda è tenuta a rimborsare i consumatori oppure no). Nella seconda fase, postgiudiziale, l'azienda, stante la sentenza, si mette d'accordo con i singoli aderenti sulle modalità con cui adempiere alle decisioni del giudice. Se questa camera di conciliazione non funziona – magari perché l'azienda non partecipa – a quel punto il cittadino deve fare causa individuale...magari facendosi forte della sentenza della class action, ma comunque deve fare una causa individuale per ottenere quanto gli spetta. Alcuni ritengono che una class action contro Microsoft non sia legittima, perché di fatto sono i produttori hardware a negare/ostacolare il rimborso. Ma la class action è contro i produttori, non contro Microsoft. Se leggi bene il sito, vedi che l'idea è quella di raccogliere per ora preadesioni, per capire quali sono i produttori contro cui fare la class action. Nessuno farà causa a MS, perché MS non è chiamabile in causa. L'atteggiamento vessatorio è dei produttori...a nostro avviso perché soggiogati dal potere e dalla posizione dominante di MS; però tale questione compete il garante dell'Antitrust, non è una que- stione giudiziale. Quindi la class action sarà tecnicmente rivolta ai produttori hardware. Quindi il form presente sul sito dell'ADUC serve proprio a questo.. Sì, per darci modo di preselezionare il materiale, decidere contro chi fare la class action e iniziare a raccogliere anche persone motivate che, nel momento in cui noi facciamo questa azione collettiva, diano il sostegno documentale e l'adesione immediata fin dalle prime parti del processo. Insomma, siano di pari passo con noi. In fondo, noi non la facciamo per noi, la facciamo per loro. Quali sono i limiti della class action italiana (rispetto al modello americano, ritenuto superiore)? Sembra che l'attuale governo voglia rinviare l'attuazione della legge sulla class action perché ritenuta inadeguata. La senatrice Donatella Poretti dei Radicali-PD, in collaborazione con l'ADUC, sta elaborando un nuovo disegno di legge: ci puoi sintetizzare i punti chiave di questa proposta? Sul secondo punto non sono molto preparata, perché di quella proposta di legge si stanno occupando altri collaboratori di ADUC. Posso invece sintetizzarti i limiti della legge italiana sulla class action. Il primo è la distinzione – che già abbiamo visto – tra fase giudiziale e fase conciliativa. Si introduce un assurdo logico: una volta che è intervenuta una sentenza, non vedo cosa ci sia da trattare; una sentenza può stabilire un risarcimento e fare in modo che questo risarcimento venga attuato immediatamente, quindi dall'ufficiale giudiziario e non in camera di conciliazione. Questa distinzione allunga i tempi e rende necessarie successive azioni individuali che non dovrebbero esistere, visto che si fa la class action apposta per evitare ai cittadini l'onere delle difese individuali. A nostro avviso è un modo per ritardare le “mazzate” per le aziende. Un altro punto è che limita l'ambito di applicazione ai contratti dei consumatori, e non ne vediamo il motivo francamente: perché il contratto business non ha diritto ad aver una tutela giudiziaria al pari del contratto dei consumatori? Insomma, l'ambito applicativo ci lascia un po' perplessi. E poi il ruolo dell'azienda in questo processo, perché l'azienda può negare la sua presenza, non difendersi oppure difendersi solo in parte e rifiutarsi di fare la camera di conciliazione, e non è prevista alcuna possibilità che a questo comportamento segua una condanna, coattiva a quel punto, di risarcimento. Questo può vanificare e far annullare tutto il lavoro fatto in sede giudiziale se la compagnia non si mette a sedere e tratta con le singole posizioni. È anche vero che l'idea di scorporare la fase giudiziale da quella conciliativa ha una sua ragione pratica, che è quella di evitare che all'interno del processo ci si metta a guardare una per una le singole carte e quindi si rallentino le decisioni. Ma a questa eccezione si può replicare dicendo che lo si deve comunque fare dopo; e poi farla nella fase giudiziale, per quanto lunga, fa sì che il giudice abbia il potere di mettere nero su bianco qualcosa che potrà essere speso immediatamente da chi ha aderito. Cosa che ora non avviene, perché per far valere una sentenza emessa in class action, bisognerebbe andare da un altro giudice e fare un'altra causa individuale, portare la sentenza della class action e le proprie carte e quindi duplicare i tempi del processo. Dicono che la legge sia stata bloccata perché ritenuta inadeguata. Si tratta ovviamente di un pretesto, quali sono i veri motivi secondo te? Noi ci siamo fatti un'idea molto chiara. A questa class action si è opposto fin dall'inizio tutto il mondo imprenditoriale, perché ha visto crollare i suoi privilegi legati all'incapacità della giustizia civile di far fronte ai problemi dei cittadini. Pensiamo solo alle truffe 899: un cittadino per 80 euro non va dal giudice di Pace e quindi, proprio contando sul vuoto di tutela che riguarda le cause antieconomiche, le aziende vanno avanti. Non vediamo altri motivi, né si sono preoccupati di darli. Quali sono le differenze del modello americano rispetto alla nostra legge? Una differenza sostanziale è legata agli effetti di una class action. In Italia una class action può essere fatta più volte nei confronti della stessa azienda e per gli stessi motivi da soggetti diversi. Il giudice – che è sempre il solito, perché è quello del foro dell'azienda – dovrà decidere se riunirle, ma potrà anche lasciarle separate, e valutare la rappresentatività di chi le porta in cau- sa. Negli Stati Uniti invece il giudice, nel momento in cui si vede investire di una class action, dovrà valutare se questa è effettivamente rappresentativa degli interessi in causa peché, una volta presentata una class action, tutte le questioni attinenti al caso saranno rappresentate in quella class action, e nessun altro potrà fare una class action simile, e i suoi effetti investiranno tutti, chi ha partecipato e chi non ha partecipato. Quindi è una sorta di strumento diverso nel diritto rispetto all'Italia: per noi è un'opzione – se farla in class action, da soli, aderire ad una piuttosto che a un'altra, replicarla, etc. quindi è uno strumento un po' più debole. Per loro invece chi propone una class action si assume la responsabilità di risolvere il problema a tutto il paese. È un'azione molto più forte e anche più competitiva fra i promotori, è un'azione in cui chi promuove rischia in proprio, insomma ha un'altra filosofia alla base che è quella di risolvere una volta per tutte le cose. E funzionano? Funzionano, sì. Ci sono anche dei difetti, dei ripensamenti, perché ci sono degli squilibri, dei conflitti di interesse tra chi promuove l'azione e chi poi deve usufruirne..in termini di beneficio, perché chi promuove l'azione può anche a un certo punto fare il proprio interesse e accontentarsi pur di chiuderla. Quindi anche in USA ci sono magari aspetti discutibili...si tratta comunque di strumenti che sono ancora in corso di sperimentazione e di perfezionamento. Cosa vi aspettate dalla class action contro i produttori? Ci sono margini di vittoria? Quali saranno i tempi di questa azione collettiva? Attualmente nulla, considerato il rinvio della legge. Se la legge venisse poi attuata, ci aspetteremmo che i giudici interpellati rispondessero nel più breve tempo possibile e senza perdersi nelle argomentazioni a nostro avviso ridicole della difesa, e quindi che risolvessero velocemente le questioni di diritto, affermando naturalmente il diritto al rimborso; dopodiché che fosse possibile che i singoli produttori non perdessero tempo e procedessero a questi rimborsi, e anche che adeguassero successivamente le proprie attitudini conformemente alla pronuncia del giudice. Un'altra possibile strada per cambiare le cose sono forse gli esposti alle autorità competenti. L'Antitrust italiano nell'agosto 2006 vi ha risposto picche, negando l'esistenza di un monopolio MS. Nel febbraio 2008 avete fatto un nuovo esposto all'Antitrust della Commissione Europea, che – considerate precedenti sentenze proprio contro MS – dovrebbe dimostrarsi più deciso a tutelare la libertà di mercato. Siete ottimisti su questa risposta? Quando dovrebbe arrivare? Quali effetti potrebbe produrre un'eventuale risposta positiva? Noi non abbiamo fatto nessun comunicato su questa cosa, però l'autorità ci ha risposto. L'autorità ci ha risposto che si sta occupando di altre cose, cioè sta valutando Microsoft sotto altri profili. E comunque l'Antitrust solitamente impone delle multe anche molto salate, ma in sostanza la situazione non cambia, il monopolio non viene scalfito... Infatti, le azioni dell'Antitrust non cambiano la situazione, assolutamente. Almeno l'Antitrust italiano ci aveva dato la soddisfazione di riconoscere il diritto al rimborso. Quali sono state le motivazioni che vi hanno spinto a intraprendere questa battaglia? Questa iniziativa è partita da Pieraccioli, che lavorando con Linux e quindi facendo parte della sua comunità, ha a cuore lo sviluppo del Software Libero e della concorrenza in materia di software. Queste sono battaglie che nascono per passione. Richiedono un grande dispendio di tempo e di energie, ma, essendo cause pilota, fanno sì che il nostro lavoro – in termini di atti, di scritture, di presenze dal Giudice di Pace, etc. - possa servire ad altri che vogliano seguire il nostro esempio. Sicuramente, se rimane un caso isolato, si arriva poco lontano; la battaglia è appena iniziata e non è neppure finita giudizialmente.. speriamo in una conferma della sentenza in appello..ma anche se si arrivasse ad una sentenza definitiva, è una..i tribunali sono tanti (in Italia, nel mondo). E purtroppo i comportamenti vessatori delle aziende non cessano se tutti, o almeno coloro che ci credono, non si impegnano in questo tipo di azioni, spendendo un po' del proprio lavoro e del proprio tempo. Comprendiamo che sono questioni di principio, ma in Italia è così. La lotta si fa su vari fronti: c'è la lotta parlamentare, come quella giurisdizionale. Speravo in una risposta di questo tipo. Nel senso che chi è lontano dal mondo dell'informatica potrebbe pensare che sia solo una questione di riavere indietro un centinaio di euro. Credo quindi che sia importante riuscire a comunicare in modo chiaro il fatto che la class action non è tanto un'iniziativa contro MS né un qualcosa che si limiti alla richiesta di un rimborso e basta, bensì un'iniziativa a favore della liberalizzazione del mercato e quindi dei sistemi operativi alternativi e delle economie locali che stanno nascendo intorno ad essi (come indicato nel punto 2.8 del vostro esposto alla Commissione Europea). Certo, e questa è una motivazione importante perché dietro alla libertà del software ci sono tante realtà intellettuali, lavorative, creative. Senza entrare nel merito della bontà dei programmi proprietari rispetto a quelli liberi...è un principio. E in ogni caso è anche una questione di legalità: se ho una licenza che mi dice che ho diritto a un rimborso, non vedo perché questo diritto debba essere negato. Ci si potrebbe fermare anche al contratto, tralasciando il problema dell'abuso di posizione dominante. Ti ringrazio per l'impegno che hai dedicato finora a questa causa, che sta a cuore da anni a tutta la comunità del Software Libero. E in bocca al lupo! Crepi! Nuovo manuale gratuito, con video-guide: “Linux per tutti - Ubuntu facile Manuale” Liberamente accessibile dalla home: http://www.istitutomajorana.it o direttamente dal link: http://www.istitutomajorana.it/index.php?option=com_content&task=view&id=358&Itemid=33 Un modo facile ed inaspettato per passare a "Linux" Sono già disponibili i primi capitoli dell'opera e presto seguiranno gli altri. Impariamo ad utilizzare, gratuitamente, le enormi risorse che ci offre il software libero.