numero 18 anno VII – 13 maggio 2015

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LE AREE EXPO NON SONO UNA MARGHERITA DA SFOGLIARE
Luca Beltrami Gadola
L’ultimo intervento sul Corriere della
Sera di lunedì scorso riguardo al
futuro destino delle aree di Expo è
quello Giovanni Azzone e Alessandro Balducci, rispettivamente rettore
e prorettore del Politecnico di Milano. Immagino che con loro non si
chiuderà la serie delle proposte e
forse, proprio per questo, sono opportune alcune riflessioni sul modo
di procedere nel prendere decisioni
di questa portata anche da parte del
Governo, le cui scelte dovranno
comunque avere una solida base
metodologica per essere credibili
anche ad evitare estemporanee uscite del di Maroni che non ha ancora capito che il semplice possesso
maggioritario di un’area (pubblica)
non te ne fa il dominus assoluto.
Una prima riflessione riguarda un
fatto emblematico: l’Avviso di manifestazione d’interesse finalizzata
all’affidamento dell’incarico di sviluppo di metodologie di analisi e valutazione delle potenzialità del sito
expo post evento, avviso col quale
Arexpo invita i soggetti interessati a
candidarsi per offrirle indicazioni e
suggerimenti sul destino delle aree
rispetto alle quali non sembra nutrire alcun pensiero autonomo.
Nell’Avviso, di conseguenza, pur
dilungandosi come sempre nelle
procedure del genere in precisazioni
e definizioni sul chi e sul come si
possa partecipare al bando, non dà
invece alcuna indicazione sullo stato di fatto delle aree al momento
della loro nuova utilizzazione, non
solo ma non indica in alcun modo
quale sarà lo stato giuridico delle
stesse visto che la società Arexpo
ha parecchi debiti generati dall’acquisto delle aree: questo normalmente comporta una qualche
garanzia offerta ai creditori, magari
con un privilegio sulle aree o una
garanzia di terzi alla quale far fronte, garanzia che avrà termini e condizioni.
Non si sfiora nemmeno il problema
dei padiglioni che resteranno sull’area, quali e con che logica in mo-
do che chiunque faccia una proposta non possa ignorare quest’aspetto, come non possa ignorare cosa
resterà delle infrastrutture fisiche, di
sottoservizi e informatiche delle
quali è stato dotato il sito ma soprattutto chi deciderà in merito, viste
anche le regole dettate dal BIE. Su
Arexpo come decisore finale della
partita poi, ancorché proprietario
delle aree, nutro forti dubbi perché
le sue scelte sono assolutamente
vincolate a quelle di altri soggetti
istituzionali e la decisione di pubblicare l’Avviso, del quale abbiamo
accennato all’inizio, sembra principalmente dettata dal desiderio di
prendere tempo oltre che una manifestazione di inesistenza di visione
che comunque porta a delegare ad
altri le proprie scelte. Siamo di fronte alla classica strategia di chi non
sa decidere, anche se sarebbe invece suo compito il farlo.
Una perplessità poi ancora maggiore nasce dalle dichiarazioni di Maurizio Martina, Ministro delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali,
con delega ad Expo, quando anche
recentemente ribadisce il suo pensiero: “Valuteremo se partecipare al
capitale della società Arexpo, magari con un intervento della Cassa depositi e Prestiti, quando conosceremo le proposte in merito alla destinazione delle aree”.
Ritengo che la delega a Expo si limiti alla gestione dell’evento e non
certo al successivo destino delle
aree, anche se qualche traccia del
passaggio di Expo e del suo tema
possa restare, magari sotto forma di
centro di ricerca e sperimentazione
agricola. Une destinazione assolutamente marginale rispetto al tutto.
Allora chi deve decidere e di concerto con chi?
Probabilmente il Ministero dello Sviluppo Economico (MiSE) con il Ministero dell'Istruzione, dell'Università
e della Ricerca (MIUR). Questi, politicamente, sono i dicasteri che dovrebbero avere competenze sul destino delle aree e sugli investimenti
necessari a una qualsivoglia loro
utilizzazione a meno che non si lasci decidere il tutto a livello regionale o, scendendo, al livello di città
metropolitana ma sarebbe estremamente riduttivo perché questa è
un’operazione che riguarda la politica economica del Paese.
A qualunque livello ci si riferisca,
vanno tenuti ben presenti due obbiettivi di grande rilievo e di assoluta
attualità: il problema della disoccupazione, in particolare quella giovanile, e la necessità di muoversi in un
contesto europeo.
Nel primo caso - la disoccupazione non possiamo avviare progetti che
diano risultati troppo lontani nel
tempo perché il problema non ammette più tempi di attesa, anche se
quest’accelerazione dovesse obbligare a scelte di portata più modesta. Nel secondo caso il contesto
europeo ci obbliga a navigare nello
stesso fiume (Ricerca & Sviluppo)
del resto dei paesi europei e confrontandoci con loro per non subire
l’ennesima emarginazione.
Per finire, qualunque decisione si
prenda, deve confrontarsi con il territorio e le sue istituzioni, Regione e
Città metropolitana: nessuna scelta
può essere fatta senza un’ampia
discussione e condivisione da parte
dei cittadini.
Il pensiero, al di là dell’utopia, sarebbe di poter vedere al più preso
tracciata una road map che, partendo inesorabilmente da gravi errori
iniziali - la scelta di quelle aree per
l’Expo fatta dal duo Moratti Formigoni - ci porti a un loro utilizzo utile
per il Paese e per le collettività locali: la definizione di un percorso critico tra poteri decisionali, competenze, vincoli legislativi, investimenti
pubblici e privati nei quali tutti gli
attori abbiano compiti ben definiti con le relative responsabilità - e
tempi di attuazione ragionevolmente
certi e controllabili cammin facendo.
Non si tratta di sfogliare una margherita come si è fatto sinora.
LA CARTA DI MILANO E I SUOI CRITICI
Salvatore Veca
L’eloquente articolo di Marco Ponti
sulla Carta di Milano merita
un’attenta considerazione. Ponti è
convinto che le questioni e le indicazioni contenute nella Carta siano
irrilevanti e che le uniche questioni
rilevanti siano quelle assenti.
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L’irrilevanza dei contenuti della Carta è esemplificata, secondo Ponti,
dalla natura lapalissiana dei suoi
enunciati, a partire dall’assunzione
relativa al diritto al cibo inteso come
diritto umano fondamentale. Sono
convinto che l’assunzione relativa al
diritto al cibo sia sfortunatamente
ben lungi dall’essere lapalissiana e
mi auguro che il difficile lavoro in cui
è impegnata Livia Pomodoro con il
suo Centro per il diritto al cibo consegua i risultati normativi auspicati
in sede internazionale. Asserire o
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ascrivere un diritto non equivale a
renderlo esigibile in modo cogente.
Ma non è di questo che mi interessa
discutere a proposito delle tesi di
Marco Ponti sull’irrilevanza dei contenuti della Carta. Vorrei difendere
la rilevanza della Carta proprio
muovendo dall’ipotesi che i suoi
contenuti siano lapalissiani. Mostrerò in che senso Jacques de la Palice non è vissuto invano. La Carta di
Milano è l’esito di un processo di
elaborazione, cui hanno partecipato
un gran numero di istituzioni, centri
e agenzie, che ha avuto come scopo principale quello di predisporre
un documento di cittadinanza globale che prevede e chiede assunzioni
di responsabilità nei confronti del
tema di Expo 2015, “Nutrire il pianeta. Energia per la vita”.
È una proposta rivolta ai cittadini e
alle cittadine del mondo che possono sottoscriverla esercitando la
voice, per dirla con Albert Hirschman. Non è un protocollo intergovernativo, né un’agenda di policies. Questo rende conto del fatto
elementare che mancano nella Carta “quantificazioni” o “priorità”, come
osserva Ponti. E rende anche conto
del fatto che espressioni come “difesa del suolo”, “ difesa del reddito
degli agricoltori” e “uso di fonti energetiche pulite” siano inevitabilmente vaghe ed esposte a interpretazioni controverse, come sottolinea
Ponti (solo il suo riferimento ironico
ai pescatori che distruggono la fauna ittica è infelice, dato che nella
Carta è lapalissianamente definito
inaccettabile che “più del 30% del
pescato soggetto al commercio sia
sfruttato oltre la sua capacità di rigenerazione”).
In parole povere, la Carta mira a
mettere a fuoco le nostre responsabilità elementari per delineare un
futuro sostenibile e più equo. Ecco
perché il nostro Jacques de la Palice è all’opera: proprio perché proposte e misure e provvedimenti alternativi siano messi al centro della
discussione pubblica e del confronto
globale delle idee e delle pratiche.
Marco Ponti ce ne dà un ottimo esempio nella sua risoluta critica
dell’agricoltura tradizionale e nella
sua difesa, senza se e senza ma,
degli OGM. Ma ciò è sorprendentemente una prova della rilevanza della Carta.
Rilevante è ciò che ha qualche effetto in un contesto dato. E si ha effetto di contesto, e quindi rilevanza,
quando in un contesto si dà interazione fra vecchia e nuova informazione e ciò produce un effetto moltiplicatore di conoscenze e prospettive. Conoscenze e prospettive dissonanti e differenti, anche confliggenti, com’è naturale quando siamo
di fronte a sfide e dilemmi tanto ineludibili quanto difficili e quando siano in gioco questioni che attraversano i confini, assumendo profili di-
versi in contesti diversi, come lo
stesso Ponti riconosce e come mostrano - inter alia - gli esiti dei quattro percorsi di ricerca di Laboratorio
Expo, cui sono molto affezionato.
L’idea base della Carta si può formulare allora così: muoviamo da
assunzioni deboli e condivise per
includere e non escludere ex ante, e
per aprire lo spazio alla critica,
all’innovazione, alle visioni e alle
pratiche alternative. Con una precisazione: nella sua versione attuale
la Carta è corredata da una vasta
gamma di allegati. Si tratta dei rapporti, degli esiti di ricerca e dei contributi che ne hanno accompagnato
il percorso sino alla sua presentazione pubblica il 28 aprile scorso
all’Università degli Studi di Milano.
Ora, durante tutto il semestre di Expo, la Carta è aperta a nuovi contributi, a nuove proposte, a ulteriori
approfondimenti. Ed è in questa
nuova veste che la Carta di Milano
sarà consegnata in ottobre al segretario generale delle Nazioni Unite.
Come dire: ce n’est qu’un début.
E questa è la mia modesta proposta, non sorprendentemente lapalissiana: che contributi del tipo di quello abbozzato nell’articolo di Marco
Ponti aggiungano un bel po’ di tessere al mosaico di un futuro sostenibile, al cui centro vi sia il diritto
umano fondamentale al cibo per
chiunque, ovunque. Nella gran città
del genere umano.
UN LAVORO COMUNE DOPO IL NO DEFINITIVO DI PISAPIA
Carlo Alberto Rinolfi
L’articolo di Giuseppe Longhi invita
riflettere su come realizzare un nuovo modello di leadership e propone
quattro sfide tra le quali c’è anche
quella di “Accettare che i cittadini
abbiano identità e prospettive molto
frammentate, e che solo una minoranza sia coinvolta nei processi politici, in quanto è diminuita la coscienza di classe, e con essa il baluardo della politica di massa ...”.
Il tema è delicato anche perché l'identità delle classi non è mai stata
del tutto scontata. Anche negli anni
in cui il conflitto sociale era più forte,
l’identificazione in una visione del
mondo in cui la propria classe potesse migliorare richiedeva continui
risultati in termini di maggior reddito
e sicurezza. Di qui passava il legame che univa i lavoratori alla propria
formazione politica. Anche gli operai
e gli impiegati più sindacalizzati
guardavano sempre di buon occhio i
vantaggi del mercato ed era
l’esperienza collettiva del confronto
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sindacale a cementare la solidarietà
necessaria per il cosiddetto “spirito
di classe”. La società dei consumi si
è diffusa anche grazie ai risultati ottenuti e quell’epoca di sviluppo economico, democratico e sociale è definitivamente terminata. Con la sua
fine si sono inaridite anche le fonti
ideologiche che fondavano i vecchi
partiti.
Nuove forme di aggregazione sono
nate catalizzate da leader che di
volta in volta hanno colto uno specifico bisogno di cambiamento più
sentito dai cittadini che dai vecchi
partiti nazionali. Più valore ai territori, più libertà per l’attività privata autonoma, più contrasto al rischio di
fallimento dello Stato, meno corruzione e sprechi, più trasparenza degli enti pubblici, sono condizioni di
sopravvivenza di sistema e non implicano particolari visioni del mondo
di carattere ideologico.
L’importanza dei tradizionali partiti
nazionali è crollata, i votanti si sono
ridotti quasi della metà mentre la
funzione degli apparati politici è stata demolita dalla forza innovativa
della televisione e di internet. La
caduta del muro di Berlino e il nuovo assetto internazionale hanno ridotto drasticamente l’importanza di
Roma e del mediterraneo mentre
l’Europa stenta ancora a decollare.
In questo contesto anche in Italia
“… è diminuita la coscienza di classe, e con essa il baluardo della politica di massa ...”.
Non a caso l’articolo citato fa riferimento sempre al binomio” città - cittadini” e non a “fabbrica - lavoratori”.
Quasi a sottolineare che la città metropolitana è divenuta il nuovo sistema di produzione e consumo in
cui la linea che separa i cittadini dalle élite divide l’asse del consumo di
beni e opportunità, tra chi ne ha di
meno e chi ne ha di più.
Per tutti il benessere di tutti gli attori
però diventa sempre più importante
il modo in cui è gestito il capitale
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comune della città le sue risorse attuali e potenziali. È da quel capitale
che dipendono molte delle loro opportunità. L’attenzione va dunque
sulle politiche amministrative gestite
dalla burocrazia municipale e orientate dalle forze politiche locali in
un’ottica funzionale a una crescente
competizione metropolitana internazionale. Un’ottica totalmente differente dalla pura amministrazione del
suolo pubblico e della sicurezza urbana che pure rimangono precondizioni essenziali.
Con la trasformazione della città ne
esce potenziato il ruolo del primo
cittadino la cui leadership non può
più essere in alcun modo voce di
”parte” né tantomeno condizionata
da apparati politici non autoctoni.
Questo tipo di leader non si avvale
di un’ideologia oppositiva né di
un’ottica centrata sulla dimensione
nazionale. Deve essere per forza il
leader di tutti gli abitanti e instaurare
con loro un rapporto diretto se vuole
mediare al meglio le spinte delle élite e dei gruppi di pressione locali e
internazionali .
Ne deriva una leadership a cavallo
tra la frammentazione necessaria
per connettersi alle varietà delle posizioni locali dei cittadini e un agire
strategico che sviluppa il livello
competitivo del sistema città. Il sindaco ideale è il “figlio” che più riesce
a interpretare la città e a spingerla
nella giusta direzione in un mondo
che sta correndo. Per svolgere un
compito simile occorre però disporre
di uno staff compatto e capace di
superare le inevitabili resistenze
degli apparati burocratici amministrativi e politici. Uno staff che ripropone in forma nuova la forma organizzata di partito. Come fare, se il
cemento dell’ ideologia è sparito dai
magazzini?
Non di un’ideologia ma di un comune sentire c'è bisogno comunque
per qualsiasi comunità cittadina che
non desideri il suo declino o la sua
spaccatura. Il fuoco dell’attenzione
va posto dunque sui tratti della genialità e sensibilità civica che distingue Milano dal resto delle metropoli
italiane, europee e mondiali. Nel
nostro caso si tratta di definire lo
spirito più coerente con il carattere
di macro impresa meneghina aperta
di livello internazionale. Che questo
spirito esista da sempre è evidente
e l’affermazione di Giuliano Pisapia
ne è stata il fenomeno recente più
evidente.
L’aggregazione “arancione” che l’ha
scelto è la stessa che ha riconquistato la Darsena e serenamente
camminato con “Nessuno tocchi Milano“, un’aggregazione che va oltre
gli schieramenti partitici nazionali
anche nella loro più recente versione. Occorre dunque considerare
seriamente Franco D’Alfonso quando ci parla di un “partito municipalista ambrosiano ”che le dimissioni
annunciate dal Sindaco sembrano
rendere indispensabile”.
Imparare a camminare in questo
nuovo
contesto
senza
una
leadership
catalizzatrice
come
l’attuale non sarà impresa facile.
Dopo il no definitivo del sindaco,
possiamo incominciare a dichiararci
disponibili per affrontare questo tema. In attesa che il dibattito si sviluppi ci auguriamo che una start up
di giovani inventori riesca a clonare i
tratti migliori del buon Pisapia, se
poi la nuova release avesse qualche freccia in più al suo arco, sarebbe l’ideale.
TRE MAGGIO: LA PRIMAVERA NO TAG DELLA GIUNTA PISAPIA?
Paolo Hutter
Cosa sta succedendo a Milano? La
primavera No Tag della Giunta Pisapia? I danni provocati dai black
block anti-Expo non sono senza
precedenti, anzi sono stati relativamente modesti se paragonati con
quanto accade in occasioni analoghe in altre città, non ultima Francoforte. La cosa veramente originale,
singolare - ovvero senza, che io
sappia, precedenti analoghi - è stata
la manifestazione di protesta contro
i danni del black block con ben 20
mila partecipanti: “Nessuno tocchi
Milano”. Anche fossero stati la metà, ripensandoci continuo a stupirmi.
A fronte di meno di 100 tra auto e
vetrine distrutte.
Il successo di questa manifestazione è stato determinato da un mix di
ingredienti che meritano un'analisi
differenziata. Innanzitutto c'è stato
un bombardamento o meglio un
gioco di rimbalzo tra social media,
web, tv e mondo politico che hanno
fatto a gara a ingigantire la gravità
di quello che stava succedendo e a
esasperare i toni. Se si faceva notare che non solo non era la strage d
Charlie Hebdo, ma neanche un episodio paragonabile agli anni '70 si
rischiava di esser presi per giustificazionisti.
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Ci è toccato difendere la saggezza
della polizia dagli strali di un visceralismo che evocava anche da sinistra cariche botte o peggio. Lo ricordo ora, a distanza, perché l'opinione pubblica di questa città dovrebbe essere consapevole che
nessuna polizia in nessuna metropoli occidentale può metterci del tutto al riparo da un gruppo di kamikaze assassini né tantomeno da un
gruppo di sfascia vetrine. Capiterà
ancora. Mantenere sempre il senso
delle proporzioni è un antidoto essenziale per evitare il delirio del panico, della reazione autoritaria.
La singolare manifestazione del 3
maggio comunque non ci sarebbe
stata, o non avrebbe avuto successo senza l’abile mossa creativa di
chi a Palazzo Marino l'ha inventata
e accortamente l'ha collegata all'idea che occorresse "pulire Milano"
con l'aiuto dei cittadini. Non si è parlato subito di corteo, si è evitato di
politicizzare apertamente l'appuntamento, si è evitato un corteo che
gridasse "vendetta", si è puntato
sulla virtù civica del pulire (i muri). Il
riferimento alla pulizia è stato molto
più metaforico che reale, perché
poco preparato tecnicamente, e alcuni manifestanti credevano davve-
ro che si potessero pulire le tag col
Cif.
Ma ha funzionato e ha valorizzato
ed esaltato - credo per la prima volta così tanto nella storia di una città
italiana - il mondo dell'antigraffitismo
militante e/o professionale , appunto
i No Tag. Che sul loro sito spiegano
come vi siano almeno 8 modi diversi
di pulire o coprire le scritte sui muri,
a seconda di dove sono state fatte.
Mentre il Nucleo specializzato del
Comune raccomanda di non improvvisarsi pulitori e l'Amsa rivendica la superiorità del suo servizio
dedicato.
Per capire il successo del "Nessuno
tocchi Milano", che non a caso si è
concluso in Darsena, occorre tener
presente il successo dell’operazione
Darsena stessa, "liberata il 26 aprile" con una grande festa nazional
popolare e un forte orgoglio di governo (come se solo la Giunta Pisapia avrebbe voluto e potuto "restituire la Darsena ai cittadini".)
La terza tappa di questo momento
felice del rapporto tra la Giunta e "la
città" potrebbe essere il weekend
prossimo di "Prendiamoci cura della
città", dedicato ad attività No Tag.
Mossa felice anche questa perché
dribbla in anticipo un eventuale mugugno sul Comune che non fa "ab-
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bastanza per pulire i muri" e riduce,
si spera, gli ingenti costi pubblici
previsti per l'operazione. É quanto
meno curioso che la riscossa
dell’identità politico amministrativa
popolare della Giunta Pisapia si
giochi sull'inaugurazione di opere
avviate dalla Moratti come la Darsena e la MM 5 e sul movimento No
Tag, temi assenti o quasi dal pro-
gramma del 2011 perché giudicati
poco caratterizzanti.
Mentre una iniziativa popolare ma
un pochino più di parte ed ecologista come le domeniche a spasso sia
stata lasciata del tutto cadere. Sta
succedendo forse alla Giunta di Milano qualcosa di simile al Pd di
Renzi, ovvero tanto successo ma
con un pubblico diverso da quello
iniziale? Intendiamoci, l'esaltazione
di un nuovo spazio pedonale a bordo acqua e la voglia di cancellare le
scritte dai muri non sono di per sé
un tradimento di princìpi più validi.
Si tratta però di capire se e quanto
questo trend di successo di #BellaMilano sia in grado di ricomprendere le aspirazioni ecologiche, sociali,
urbanistiche più avanzate e di promuovere un dibattito più impegnato
e consapevole sulla città.
TRA MILANO E PD: UN RACCONTO DI “SINTONIA”
Anna Scavuzzo
Ripercorrere i passaggi importanti
dell’esperienza amministrativa milanese degli ultimi cinque anni dà
grande soddisfazione: stiamo vivendo una stagione entusiasmante,
estremamente faticosa, ma entusiasmante. Molti prima di me si sono prodigati nell’elencare i successi
e i passi avanti che Milano ha saputo compiere fino ad arrivare alla
grande inaugurazione di Expo del 1
maggio.
Guardo la mia generazione: se andiamo a rileggere in chiave critica
come eravamo, alla luce anche di
ciò che oggi siamo diventati ci accorgiamo di quanto siamo cambiati.
Abbiamo sperimentato che cosa
significhi fare politica da protagonisti con onestà e passione civile.
Conosciamo il peso e la fatica
dell’ascoltare per poi progettare,
valutare e decidere. Abbiamo portato il peso della responsabilità,
l’importanza dell’essere presenti, la
possibilità di fare la differenza. Abbiamo attraversato questa stagione
di governo e ne siamo usciti temprati, liberati da un velleitarismo che
poco si addice a chi non si ferma
alla parola, ma ha la responsabilità
dell’azione. Di questa scossa il centrosinistra aveva bisogno, questo
Milano ci ha chiesto. E Giuliano Pisapia è stato l’interprete dell’incontro fra Milano e un centrosinistra
che ha voluto uscire dalle retrovie
della contestazione per fare un
passo avanti.
I cittadini ci hanno dato fiducia e
ciascuno di noi si è impegnato a
interpretare il proprio ruolo con
questa prospettiva. Non senza errori, non sempre con una visione
d’insieme ambiziosa e audace, certamente con ampi margini di miglioramento: ma finalmente con la consapevolezza di essere forza politica
che ha il coraggio di muoversi in
uno scenario non facile, in modo
responsabile, credibile, autorevole.
Quel socialismo municipale a cui
tanto ci siamo richiamati in questi
anni, finalmente è tornato ad avere
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interpreti e attori. A noi il compito di
proseguire un percorso appena iniziato, impegnandoci nel formare
una nuova classe dirigente capace
di consolidare quanto abbiamo cominciato a fare in questi anni.
La rivoluzione arancione del 2011
ha anticipato il vento di cambiamento che di lì a qualche tempo avrebbe attraversato il nostro Paese. Non
si ferma il vento con le mani. E come spesso accade, Milano lo ha
avvertito in anticipo e si è data da
fare per interpretarlo e prepararsi a
proseguire il cammino insieme a
tutto il Paese. Il centrosinistra aveva bisogno di uscire da quei rigidi
steccati in cui i dissidi interni
l’avevano rinchiuso, da quell’autismo politico che lo aveva reso incapace di essere con la gente e fra
la gente, da quella autoreferenzialità che rende asfittici i progetti, meschine le ambizioni, inadeguati al
ruolo molti degli attori.
Guardare alla città e non alle tessere, guardare al Paese e non alle
correnti o ai propri interessi, guardare al futuro in modo coraggioso e
ambizioso per portare l’Italia fuori
da una palude politica che diventa
stasi economica, sociale e culturale: questa, a mio avviso, la riforma
più importante. Anzi, una rivoluzione copernicana del punto di vista e
della percezione di sé. E il Partito
Democratico ha avuto un ruolo fondamentale, a livello politico e a livello istituzionale, nell’aprire una stagione riformista che non si ferma di
fronte alla retorica, che non retrocede di fronte ai ricatti, che non si
annacqua nel consociativismo che
impedisce qualsiasi vera riforma.
Le elezioni europee del 2014 raccontano una Milano che chiede al
Partito Democratico di questo Paese - oltre che a quello cittadino - di
essere all’altezza della sfida europea, e di fatto gli affida il compito di
misurarsi con la responsabilità di
governo, esprimendo la volontà di
rimettere in moto l’Italia - e Milano -
con determinazione ed energia.
Che sia finalmente #lavoltabuona.
Milano è per vocazione inserita in
quel virtuoso tessuto connettivo che
la rende snodo cruciale per l’economia e per la cultura, per l’innovazione politica e la sperimentazione
sociale. E quindi Milano guarda con
grande attenzione la stagione delle
riforme che sta attraversando il nostro Paese. Milano o è riformista o
non è Milano, abbiamo avuto occasione di ripetercelo più e più volte,
consapevoli del fatto che non si può
avere un vero e profondo cambiamento se i cittadini non ne fanno
parte.
La straordinaria risposta all’iniziativa #nessunotocchimilano è figlia di
questa consapevolezza: nelle ore
che sono seguite agli incidenti del 1
maggio in tanti ci siamo chiesti non
se, ma come Milano avrebbe potuto
rispondere a ciò che era accaduto.
Decine e decine le sollecitazioni
che arrivavano a ciascuno di noi:
che cosa fare? È in questo contesto
che nasce #nessunotocchimilano.
Solo qualche giorno prima, il 25 aprile, abbiamo ricordato i Quindici
Martiri a Piazzale Loreto: credo che
la domenica successiva ci fosse in
piazza quella stessa Milano che oggi come allora - non si piega alla
violenza e alla barbarie, ma sa rialzarsi e ricominciare, ricordare e impegnarsi, affermare ciò che si è
mettendosi al lavoro in prima persona.
Non mi interessa la polemica sulla
paternità - o maternità! - dell’iniziativa. È stata un’ottima idea, ha interpretato correttamente il bisogno
di rivalsa nonviolenta e attiva che i
milanesi chiedevano: siamo finalmente riusciti a essere in sintonia
con la città, questo a mio avviso il
dato politico più importante. E la
città ha risposto con tutto l’entusiasmo e la partecipazione di chi si
sente ascoltata e compresa.
Non sono più i tempi in cui si gridava allo scandalo perché la stazione
Leopolda non esondava di bandiere
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e simboli di partito. Quella domenica non era il caso di scendere in
piazza con le bandiere, semplicemente perché non servivano. Abbiamo scelto di sfilare per la città
senza alcun segno distintivo, senza
bisogno di marcare la differenza.
Milanesi e democratici, siamo stati
persone fra le persone, società civile ed esponenti dei partiti finalmente insieme: non abbiamo avuto bi-
sogno di dividerci, distinguerci e
chiuderci ciascuno nei propri confini. Abbiamo tutti aperto le porte. E
allo stesso tempo ci siamo sentiti
più forti, più uniti, capaci di metterci
tutti insieme al servizio della nostra
città in modo efficace e discreto.
Questo è il Partito Democratico che
stiamo costruendo: disponibile al
dialogo con le altre forze politiche,
aperto al contributo di quelle forze
socialiste e riformiste che per troppo tempo sono rimaste orfane nella
nostra città, capace di interpretare i
bisogni dei cittadini e di meritare la
loro fiducia. Questo è il Partito Democratico che guarda al futuro di
Milano Metropolitana e che si prepara a raccogliere tutte le forze che
serviranno a riportare il centrosinistra a vincere nel 2016.
TRA PD E PISAPIA: “NESSUNO TOCCHI MILANO”, RIFLESSIONE
Sergio Vicario
Sul perché del successo della manifestazione “Nessuno tocchi Milano”
si confrontano due letture, a mio avviso entrambe limitate e, dunque,
fuorvianti. La prima è quella secondo cui il segno dominante della
straordinaria risposta popolare sia
da ascriversi all’accumulo di credibilità conquistato dalla Giunta sobria e
onesta, guidata da Giuliano Pisapia,
nei suoi quattro anni di governo della città. La seconda, invece, ne attribuisce il merito alla riconquistata
credibilità del PD e alla sua capacità
organizzativa.
Come sempre in ogni racconto di un
determinato avvenimento, senza
scomodare Luigi Pirandello e Naguib Mahfouz, ci sono pezzi di verità, sicuramente sinceri ma, appunto,
parziali. Entrambe hanno una loro
logica, però solo in rapporto al posizionamento in vista delle elezioni
comunali del 2016, e rischiano, se si
cristallizzano, di portare il centrosinistra a sbattere.
Sostenere, di fatto, che la manifestazione non sia stata altro che la
conseguenza del riemergere carsico
del grande movimento che aveva
portato Giuliano Pisapia prima a
vincere le primarie e poi la sfida con
Letizia Moratti, è sicuramente utile
per la propaganda nel breve periodo
ma pericoloso in prospettiva perché
quel movimento, per tante ragioni, è
purtroppo vissuto solo per una
campagna elettorale. Altrettanto pericoloso è, però, il tentativo di cercare
di
avvalorare
l’idea
di
un’autosufficienza nel rapporto con
la città che il PD, a partire dalle diverse sigle che lo hanno figliato,
non ha mai avuto. E che non ha
neppure l’attuale PD milanese a trazione renziana.
Sono stato e sono tuttora un convinto, ma non cieco, sostenitore di Matteo Renzi. Nelle prime primarie che
perse con Bersani andai a fare il
rappresentante di seggio a Paderno
Dugnano perché lì allora non s’era
trovato un rappresentante renziano.
Detto questo, non sono iscritto al
PD perché fatico tuttora a comprendere quale sia il tasso di renzismo
del PD milanese che, mi sembra,
non abbia ancora capito che Milano,
per struttura sociale, ruolo economico e tradizione politica, non è riconducibile aprioristicamente “all’ordine” romano. Di Renzi si possono e
si devono discutere le scelte, ma è
difficile metterne in discussione il
carattere innovativo. Il PD milanese,
al contrario, a partire dai problemi di
Milano e della sua area metropolitana e dalle opportunità che vi si presentano, non ha, finora, avanzato
proposte adeguate, per non entrare
in fibrillazione con le scelte politiche
nazionali del Governo e del partito.
I contenuti programmatici che avevano accompagnato l’istituzione della Città metropolitana e l’assenza di
un pensiero sul dopo Expo sono lì,
impietosamente, a dimostrarlo. In
questo, a onor del vero, in compagnia del movimento civico rappresentato in Giunta che, scavando in
silenzio come la talpa di marxiana
memoria, avrebbe scatenato la mobilitazione del 3 Maggio. A innescare quella risposta, in realtà, avevano
contribuito molto di più i comportamenti spontanei del giorno prima da
parte di tantissime persone rimaste
danneggiate dalle devastazioni cri-
minali del 1° maggio che, senza attendere aiuti e rimborsi, si erano
rimboccate le maniche dandosi da
fare per ripristinare il ripristinabile.
Un segnale che, nell’occasione, è
stato capito e raccolto con prontezza dal Sindaco Pisapia e dal PD milanese, ma che avrebbe bisogno di
una riflessione cultural-politica non
casuale e di prospettiva.
L’incapacità di far leva sulla grande
disponibilità e responsabilità civica
dei milanesi e, più in generale, dei
lombardi, per contribuire a dare risposte a molti problemi e bisogni,
piuttosto che pensare di risolverli
entrando nella stanza dei bottoni, è
sicuramente il deficit cultural-politico
più grande che accomuna da sempre la sinistra nelle sue diverse articolazioni. Milano e la sua area metropolitana, per tornare a svolgere
appieno il ruolo di locomotiva del
Paese, hanno bisogno di una forte
iniezione di sussidiarietà e di federalismo nell’organizzazione della
vita pubblica, ridando dignità strategica a valori diffusi ma sperperati
dalle cattive prassi cielline e leghiste.
Dal loro concreto rilancio politico
dipenderanno, in buona misura,
l’individuazione del candidato sindaco di centrosinistra e l’esito vittorioso della sfida del 2016, anche
grazie a un po’ di sana concorrenza
tra alleati, consapevoli però che
nessuno da solo ce la può fare. Fortunatamente non si parte da zero.
Ma alle condizioni necessarie bisogna far seguire quelle sufficienti per
rivincere. E chi avrà più filo da tessere, tesserà.
RESTITUIRE SIGNIFICATO AL PERCHÉ DELLA TASSAZIONE IMMOBILIARE
Giuseppe Bonomi
Numerosi e fantasiosi sono gli acronimi di nuove tasse, o forse di vecchie tasse con nomi nuovi, che si
sono affollate, dettate dalle esigen-
n. 18 VII - 13 maggio 2015
ze di gettito, e spiegate in maniera
sommaria: IMU, ICI, ISI, TARSU,
TARI, certo ne sfugge qualcuna; e
attualmente si parla di Local Tax
come occasione di maggiore trasparenza fiscale, ma è forte il timore
che possa essere soltanto “una bella rimescolata di carte utile per con-
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fondere le acque” (Achille Colombo
Clerici, presidente di Assoedilizia),
preludio di un nuovo aggravio fiscale.
Cresce l’incomprensibilità del sistema impositivo, forse perché è venuta meno la correlazione chiara tra il
significato delle parole usate nelle
norme fiscali e il contenuto dei
provvedimenti stessi. Ciò appare
dovuto a una serie di motivi concomitanti quali un impianto normativo
basato su presupposti sorpassati in
una realtà in profondo rinnovamento
(es. le rendite catastali), al ricorso a
logiche di emergenza, a una certa
improvvisazione e confusione normativa forse voluta per nascondere
la crescita della pressione fiscale
sottraendo amministratori e politici
all’onere di rendere conto delle scelte. Sarebbe quindi urgente la cosiddetta “revisione del presupposto impositivo”, e il varo della “local tax”
potrebbe essere un buon passo in
direzione della trasparenza se i legislatori a livello centrale e locale (la
tassazione è prevalentemente centrale, le tariffe sono locali) si impegnassero a spiegare bene il perché
della tassazione separandolo dal
quanto e dal come.
Si può provare una schematizzazione del perché del carico fiscale sugli
immobili (senza la presunzione di
essere esperti della materia) pensando che esso sia connesso a
possesso, uso e costruzione.
La tassazione di un immobile posseduto può essere sul valore o sul
reddito, ed è possibile sostenere
che quella sul valore, tipicamente di
tipo patrimoniale, sia il criterio contributivo più trasparente e coerente
con il principio di proporzionalità
della tassazione (art. 53 della Costituzione) oltre che quello più diffuso
nei paesi evoluti; anche l’imposta di
registro ha una funzione di tassazione del valore e quindi del patrimonio, ma questo tipo di tassazione, attraverso il famigerato reddito
catastale (che peraltro speriamo di
non dover rimpiangere nei prossimi
anni) ha effetti impropri e iniqui proprio nella definizione del quanto.
La tassazione sull’uso è quella che
forse disorienta e irrita di più i contribuenti, e ciò è probabilmente dovuto all’abitudine di usufruire di ser-
vizi sostanzialmente a carico degli
Enti Locali (es. i trasporti), in buona
parte coperti da trasferimenti dello
Stato e attinti dalla tassazione generale riscossa, in una partita di giro.
Ora, vuoi per la scelta politica del
decentramento, vuoi per sopravvenute vacche magre, i contribuenti
sono messi di fronte a un impennata
della tassazione locale che in buona
misura è funzione dell’uso. Ma il risultato non appare affatto a parità di
saldo, e forte è il sospetto che
nell’impennata della tassazione
sull’uso si cerchi nascondere componente - impropria e iniqua - sul
possesso, forse proprio grazie
all’opacità del suo perché. Grazie
alla TARSU (e ai conteggi che tutti
abbiamo fatto su quote condominiali, vicini single o famiglie numerose,
etc.) abbiamo cominciato a conoscere la tariffazione dei servizi, ma
continua a esserci una zona grigia
di generici costi indivisibili (es.
l’illuminazione stradale, la manutenzione del verde etc.) che alimenta il
sospetto all’interno si nascondano
spese di gestione dell’apparato burocratico, investimenti e migliorie, o
altre voci improprie, rendendo così
impossibile valutare l’efficienza,
l’efficacia e la correttezza dell’azione amministrativa.
Discorso a parte quello dell’IVA, che
per la sua natura è una sorta di “extraover” neutro e rientra nella categoria del quanto.
Un capitolo più specialistico (perché
non impatta direttamente sul cittadino) è quello sulla tassazione sui lavori di costruzione/ristrutturazione.
Oggi sopravvivono oneri di urbanizzazione (primaria, secondaria, straordinaria) e contributi sul costo di
costruzione secondo una logica nata negli anni sessanta a contenimento delle dinamiche di ricostruzione post-bellica. Nel frattempo è
cambiato tutto: non si urbanizzano
più aree verdi, il focus è sulla trasformazione dell’esistente. Non ha
più senso mantenere come riferimento determinati metri cubi a persona insediata che generano metri
quadrati di parcheggi e verde, di
asili e ambulatori; anche i costi di
costruzione sono oggi strutturalmente diversi, e molti costi hanno
valenze sociali e ambientali (tra
l’altro oggetto di decontribuzioni o di
sovvenzioni che danno dopo aver
tolto o viceversa).
Quanto sia inadeguato (e fuorviante) tale impianto lo provano le norme permissive e portatrici di confusione amministrativa che consentono alle stesse Amministrazioni Locali di deviare il 50% o addirittura il
75% di tali proventi a copertura della spesa corrente, cancellando così
qualsiasi collegamento logico con il
loro perché.
La sostituzione del nome potrebbe
essere uno stimolo concettuale: invece di oneri di urbanizzazione si
potrebbe ricorrere al concetto di
contributo di trasformazione, da cui
poi derivare un metodo: il territorio
oggi non viene più urbanizzato ma
trasformato, e i processi di trasformazione sono molto più ricchi e
sfaccettati, con impatti diversissimi
(in alcuni casi possono essere addirittura “creditori” di contributi). Sistematizzando il concetto di trasformazione urbana si può quindi
associare al tipo di trasformazione
un coerente e proporzionato carico
di oneri.
Ragionare sul quanto della tassazione immobiliare (se sia eccessivo
o meno in assoluto, se sia equilibrato rispetto alla tassazione di altre
forme di ricchezza) sarebbe complesso, velleitario, e fuori luogo andando ben oltre i limiti di questa riflessione; vale solo la pena di sottolineare che se il quanto viene correlato a un perché chiaro, una tassa
può essere relativamente facile da
calcolare e soprattutto più accettabile (se ragionevole) da parte del contribuente. Infine, se si è chiarito il
perché e il quanto, si può ritenere
che il come non debba essere difficile da ridisegnare, possibilmente
all’insegna della trasparenza.
Forse questa riflessione può riuscire
a convincere chi legge dell’importanza di restituire coerenza tra parola e significato, ossia tra definizione
di una tassa (o imposta), la sua motivazione e il suo scopo: può sembrare un obiettivo banale, ma senza
una chiarezza concettuale prodromica della trasparenza difficilmente
si può ottenere una buona Amministrazione Pubblica.
DARSENA: SE DA UN MATTONCINO ROSSO PUÒ RINASCERE UNA CITTÀ
Andrea Bonessa
L'acqua ci affascina, non c'è che
dire. Fin da quando siamo piccoli,
una pozza, una piscina, un rigagnolo ci attirano e ci incantano. Le città
d'acqua hanno una magia che nes-
n. 18 VII - 13 maggio 2015
sun'altra metropoli riesce ad avere.
Milano, il lago, il fiume, e tantomeno
il mare non li ha aveva. Se li è costruiti, ma, nella più pragmatica tradizione meneghina, persa la loro
funzione, li ha abbandonati al loro
destino.
Onore a questa amministrazione di
averci ridato il nostro lago, i nostri
fiumi, la nostra spiaggia. Questo è
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un merito che nessuno può negare
a chi, dopo il tragico governo di
donna Letizia, ha trovato una città
bloccata in contenziosi, fallimenti,
litigiosità di ogni tipo. Un merito a
cui i Milanesi hanno risposto con un
entusiasmo sorprendente, accogliendo in massa la riapertura della
Darsena. Un progetto che, nato da
un Concorso Internazionale del
2005 sotto la direzione Albertini, si
era impantanato sulla polemica del
previsto parcheggio interrato, e che
questa Amministrazione ha ripreso,
liberato, realizzato.
Ma i progetti, come tutti noi , sentono i segni dell'età. E ancora di più
un progetto figlio di una tendenza
architettonica che, perso il suo nume ispiratore (l'unico in grado di
dominarne la povertà espressiva
con alcuni gesti originali e poetici),
stava ormai finalmente scomparendo. Non prima di aver infettato, grazie a emuli e imbarazzanti imitatori,
la provincia italiana di centri comunali e civici simili a centri commerciali (e viceversa).
Un progetto di cui si era nel frattempo perso il Capo Progetto, il francese Bodin e probabilmente anche
l'ottimo design Paolo Rizzato che
doveva curarne l'arredo urbano e la
progettazione illuminotecnica. Un
orfano che l'Amministrazione ha dovuto comunque adottare per non
dover ripartire con un processo epocale che avrebbe dilatato ,oltre
qualsiasi immaginazione, i tempi.
Una realizzazione che, affidata alla
gestione dei tecnici del Comune (gli
stessi del Mudec?), seppur sotto la
supervisione dei progettisti Guazzoni e Rossi, dimostra, in tutta la sua
evidenza, i segni ma soprattutto le
stigmate di ogni Assessorato coinvolto. Ognuno interessato a risolvere il proprio problema specifico senza una visione d'insieme necessaria
a rendere l'opera equilibrata.
Una sommatoria disordinata di funzionalità, percorsi, blocchi, volumi,
edifici, (il mercato assolutamente
sovradimensionato è difficilmente
accettabile), che, per fare un esempio si palesa in tutta la sua schizofrenia nella palificazione selvaggia.
Si intuisce come, senza nessun collegamento, senza una regia e un
controllo, come chicchessia sia
passato a puntualizzare il territorio
dei suoi simboli o segnali. Stessa
sorte la viabilità in cui ognuno ha
avuto soddisfazione, pedoni, bici,
auto, camioncini in uno shaker senza una minima gerarchia o decisione, o la distribuzione delle attività
commerciali che risponde a specifiche esigenze di cassa.
E allora buttiamo tutto? Passiamo il
nostro tempo a criticare, operazione
facilissima e di grande soddisfazione, ogni particolare, ogni angolo,
ogni errore? O invece proviamo a
dimenticarci del luogo come spazio
singolo, intercluso, "vasca" in cui i
milanesi passeggiano in senso circolare quasi che fossero finalmente
abitanti di una tranquilla città di provincia? Non è farina del mio sacco,
ma una suggestione che mi ha regalato Giuseppe Longhi in una
chiacchierata di qualche giorno fa.
Una suggestione che ci può veramente far fare un salto di qualità nel
modo di affrontare la complessità
metropolitana, dove spazi, persone,
vite, sensazioni, luoghi privati e
pubblici convivono. La Darsena (ma
così tutti i luoghi rigenerati di Milano) dovrebbero diventare i centri da
cui far partire un processo di progettazione continua, collettiva e possibilmente condivisa dai più, che non
si fermi con le inaugurazioni ufficiali.
Il taglio del nastro deve essere il
punto di partenza di un'espansione
del progetto, di qualsiasi progetto,
che raggiunga le aree limitrofe, che
colleghi e ampli a macchia d'olio gli
effetti di trasformazione. Un processo che ripari agli errori, imparando
da questi, e che modifichi gli spazi
ma anche le modalità di vita in un
processo dinamicamente in evoluzione
Guardare avanti significa questo.
Significa superare l'errore con la
sua soluzione, far seguire alla diagnosi una terapia. Ed espandere
questa terapia in ogni direzione. E
quindi accettare la Darsena, appropriarsene per prendersene cura,
vedere al di là del ponte verso la
stazione di Porta Genova o pensarla in espansione verso la Conca del
Naviglio. O arrivare, attraverso
Piazza General Cantore fino al parco Solari e così via.
E interessarsi di cosa ci vive intorno, a fianco, di lato, sovrapponendosi spesso in una condizione di
conflittualità. Imparare a vivere la
città come un qualcosa di animato,
in continua evoluzione, che non si
ferma mai, senza soffermarci su un
orrendo bastione in mattoncini rossi.
Certamente esteticamente fastidioso ma di più facile digeribilità se incidente di un percorso e non confine
di uno spazio definito.
LA CITTÀ CHE CAMBIA E LE OPINIONI ATTENDISTE
Cristoforo Bono
Non c’è dubbio che Expo sia una
grande vetrina (anche se avevamo
sperato nel grande fondaco, più intricato o correlato, quale luogo di
uno scambio nuovo con il mondo) e
che questa sia, per ora, la sua principale attrattiva. In questo senso
anche la sua configurazione spaziale è coerente, e l’evocazione di cardo e decumano, in questo luogo sostanzialmente antiurbano, o per
meglio dire antistorico, è più che
logica. Diciamo che la grande vetrina non è propriamente in Regent
Street, e il mancato fondaco non
utilizza i rapporti e le distanze, e le
vecchie cascine della Bassa, che
pure storia lo sono: eccome.
Ciò è un fatto: ma attorno a questo
fatto, per mimesi o per assecondamento (e a volte per conformismo),
n. 18 VII - 13 maggio 2015
è avvenuto un fatto meno spiegabile, meno giustificabile. Sembra infatti che tutta la città sia diventata una
vetrina, anche nel giudizio o nella
considerazione dei commentatori i
più avvertiti. Quale città poi? Non è
mai detto, ma si tratta essenzialmente della la città storica, la cosiddetta città compatta, quella che conta poco più di un milione di abitanti:
a fronte della ben più vasta città
reale: cui peraltro lo stesso luogo
espositivo appartiene.
Dentro quei ristretti confini, la Milano nuova, la “Milano che sale”, la
Milano di vetro, o in quale altro modo sia chiamata, è accettata nella
sua sostanziale inutilità, ed è vista
appunto come una vetrina da descrivere in quanto fenomeno, e non
da comprendere come storia: che
sarebbe soprattutto la storia del declino del ruolo di Milano come centro di un vasto mondo produttivo. Il
fenomeno della sostituzione (tutto
quanto ha rimpiazzato l’opificio o la
vecchia infrastruttura) è descritto e
a volte esaltato, senza un giudizio
circa l’effettivo – il più delle volte
mancato – rinnovamento.
Basti pensare che il complesso di
Cesar Pelli non è che la sede di una
assicurazione (o di una banca?),
mentre doveva forse essere la Città
della moda, e che tutta Porta Nuova
è stata venduta a un improbabile
straniero; e così via. Anche Fulvio
Irace sulle colonne del Sole 24 Ore
di domenica 3 maggio, lui in genere
così sottile negli articoli sul domenicale, cede, per la prima volta sul
quotidiano, a quest’andazzo della
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descrizione acritica, a questa sorta
di sospensione del giudizio, quasi a
dire: vediamo come va a finire prima
di posizionarci.
Nel pezzo titolato “Vette di una nuova città che sale”, ad esempio, ci
dice: “… il contestato gate di Expo
incornicia la prospettiva sul Castello
con un segno nuovo che potrà spiacere ai nostalgici a ogni costo, ma
indubbiamente, insieme ai ‘fiocchi di
neve’ da poco installati nell’area pedonale di Foro Bonaparte, consente
di vedere con occhi nuovi il lascito
dell’eredità storica, creando un temporaneo contrasto con l’austera mole di mattoni.” È per l’appunto una
descrizione che non prende posizione; ma, al di là degli occhi e le
seste, il nuovo vero, là, non è forse
ancora tutto quanto è avvenuto e
costruito al Castello dopo Napoleone, con la sia pur timida e bassotta
torre del Beltrami, cosiddetta del
Filarete? Non è ancora, oltre quei
nuovi e ridondanti tubi, ancora la
città moderna?
Mi convince di più la satira di Crozza nel Paese delle Meraviglie quando dice che pensava fossero ancora
le impalcature: ed invece era già un
finito. Ma Irace stesso, non ci aveva
altre volte ricordato come, con una
centesima parte di quei tubi, Edoardo Persico prima e i BBPR poi, con
il monumento a Banfi al Monumentale, hanno fatto delle cose bellissime?
Poi dice: “il MUDEC, sistemato dal
britannico David Chipperfield nel
cuore dello storico complesso industriale dell’Ansaldo. Una nuvola luminosa fa da cuore e corte interna
delle gallerie espositive, configurandosi con la forza di un motore gentile dentro la carcassa derelitta delle
acciaierie da cui una volta uscivano
locomotive e ora entrano opere
d’arte e reperti della storia”. Ecco:
qui, più che l’esaltazione del nuovo
avrei preferito, derelitte o no, un serrato confronto storico tra opere
d’arte d’epoca diversa: le locomotive prima, e le immagini ora. Ciò che
voglio dire è che la descrizione, e
l’esclamazione, riducono la storia, la
impoveriscono, la semplificano in
modo non accettabile.
Come del resto fa un altro illustre
commentatore, Philippe Daverio,
dalle colonne di Style, supplemento
del Corriere della Sera (maggio
2015). Capisco che si tratti di un
pezzo divulgativo, ma il Daverio non
ci aveva forse abituato a più sottili
differenze e sfumature? Anche in
questa sede, e giustamente, ricorda
le torri di Piazza Piemonte, del geniale Borgato che nessuno mai cita:
ma poi, sommando le semplificazioni, ne esce solo un’agiografia non
conseguente. Riprendendo un concetto già espresso in altra sede,
conferma, sia pure implicitamente,
che il Fascismo ha prodotto bellissime architetture: il che è verissimo,
ma a patto di aggiungere che il Fascismo, specie agli inizi, era, come
disse Pirandello, un “tubo vuoto”,
che raccoglieva tutto quando s’era
incubato nel tempo precedente (basti pensare allo straordinario lascito
del Sindaco Nathan a Roma, come
documentato nel bel libro della Fraticelli); e che le grandi quantità della
fabbricazione hanno portato ai risultati di qualità che vediamo. Del resto
non c’era ancora omologazione,
c’erano ancora le “cento città”, e
quindi anche Podestà illuminati,
come il Melzi d’Eril a Torino.
Di seguito ci ricorda che c’è stata a
Milano l’epoca della qualità, con la
Velasca e il Pirelli, senza dirci che
quelli (e altri) erano fiori rari, nel
massimo momento della quantità a
tutti i costi, quando in dieci anni furono costruiti a Milano cinquecentomila vani in deroga al Piano regolatore, che nelle sue visioni migliori
fu interrotto o disatteso. Quindi fa
seguire il momento dell’edilizia senza qualità, quando invece fu quello il
momento (gli anni ’80 del secolo
scorso) di certa progettualità, soffocata e tradita dalle relazioni di potere perverse che portarono a Tangentopoli. Infine rileva che Milano è
di nuovo terra di Architetti, solo perché nella babele che ne è seguita, e
nella completa resa sia della classe
dirigente, sia delle professionalità o
creatività milanesi (a parte episodi
come la Bicocca), qualcosa che si
fa notare è pure emerso. (anche se,
per dire, il Palazzo della Regione,
che guarda caso nessuno cita, grazie al concorso svoltosi, avrebbe
potuto essere quello decisivo di
Norman Foster, e non quello solo
esornativo che abbiamo …).
Sarà una parentesi, sarà il momento, e mi aspetto dai nostri una prossima lettura più approfondita, che al
di là della descrizione superficiale e
della serena agiografia, colga invece il vero “dramma” di una città, attraversando il quale, e la sua complessa narrativa con tanto di critica
e autocritica, possa infine darci le
ragioni di un vero riscatto.
PS.: Milano non può ricominciare
sempre da zero: concordo con Bisio
che Pisapia debba (o possa) ripensarci.
L’ONDATA DI PROFUGHI ERITREI A MILANO E I NOSTRI OCCHI CHIUSI
Cristina Giudici
A Milano sta arrivando un’altra onda
anomala di profughi. Arrivano in treno, soprattutto dalla Sicilia, ma anche dalla Puglia, dalla Calabria,
provenienti dal porto in cui sono
sbarcati. In gruppo, o alla spicciolata, in modo spontaneo. Le cifre sono le seguenti: dal 18 ottobre del
2013, da quando cioè è stata avviata la missione Mare Nostrum, ad
oggi sono arrivati 59.590 migranti di
cui 40.667 siriani e 14.671 eritrei (e
14mila minorenni). Dall’inizio del
2015 ad oggi, invece ne sono arrivati 5.587, di cui 2.432 siriani e
2.012 eritrei. Solo negli ultimi tre
giorni 559, di cui 404 eritrei e 155
siriani.
n. 18 VII - 13 maggio 2015
Il nuovo esodo della nuova emergenza umanitaria sta cambiando i
connotati. Sono soprattutto gli eritrei, ora, a sbarcare in Sicilia.Sono
quasi tutti giovani, senza famiglia, e
raccontano sempre la stessa storia.
E cioè che fuggono dal servizio di
leva permanente del regime militare, che li sequestra, sottraendo presente e futuro ad intere generazioni,
segregandoli nelle caserme. Oppure, che scappano alla fame. E infatti, a guardarli mentre fanno la fila
per ricevere il pasto nel centro di
accoglienza di via Aldini, a Quarto
Oggiaro, gestito dalla Fondazione
Progetto Arca, dove oggi ce ne sono 350, si nota immediatamente che
si tratta di giovani denutriti, e molto
affamati.
Un altro film, rispetto all’esodo siriano dell’anno scorso, quando a
scendere della navi era l’élite di un
Paese, dilaniato dalla guerra civile.
Con le famiglie, molta disponibilità
economica e una professione da
offrire ai governi dei Paesi ai quali
volevano chiedere rifugio, in Nord
Europa. Ora invece l’umanità dolente di questo nuovo esodo, ci mostra
un volto affamato e silenzioso.
Gli eritrei parlano poco della loro
traversata nel deserto, fino alla Libia. Con il terrore di trovare sul loro
cammino i miliziani dello Stato Islamico. Tutti raccontano sempre la
stessa storia. Come un ragazzo di
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28 anni, accolto nel centro di accoglienza della Fondazione Progetto
Arca, a Quarto Oggiaro, che spiega
a Linkiesta.it di essere arrivato in
Sicilia il 4 maggio, di non ricordare il
porto in cui è sbarcato, dopo 24 ore
di viaggio in mare. Racconta di avere avuto paura, in Libia, per gli
scontri fra milizie armate, di aver
temuto di incontrare le milizie
dell’Isis. Spiega di aver pagato i trafficanti duemila dollari, grazie ai soldi
pagati da suo fratello, che vive in
Nord Europa. La macchina comunale dell’assessorato alle Politiche Sociali del Comune si è messa in mo-
to, creando un hub mobile, fra la
stazione centrale e l’ex Cie, l’ex
centro di identificazione ed espulsione, riconvertito in un centro di
accoglienza, per ricevere i profughi.
Dietro il volto denutrito dell’esodo
eritreo - che provocherà qualche
fastidio ai visitatori diExpo, in cerca
di una Milano europea e poco interessata al tema dell’esposizione universale della lotta alla fame nel
mondo - esiste, però, un aspetto
ignoto, conosciuto da pochi. Perché
nel backstage dei porti di approdo,
si trova anche l’altra faccia della fame o della paura dipinta sul volti di
questi ragazzi arrivati a Milano. E
infatti la direzione distrettuale antimafia di Catania ha emesso diverse
ordinanze di custodia cautelare, fra
il 2014 e il 2015, per associazione a
delinquere nei confronti di bande di
trafficanti eritrei. Che, mescolandosi
fra i profughi, hanno beffato i salvatori, per lucrare sul traffico di esseri
umani. Per creare organizzazioni,
che dal Sudan hanno condotto migliaia di eritrei fino al Nord Europa.
Con basi in Sudan, in Libia, a Roma
e a Milano. .... Per continuare a leggere l'articolo su LINKIESTA clicca
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NUOVI SPAZI DISCUTIBILI PER LA PIETÀ RONDANINI
Antonio Piva
Il 12 aprile di quest’anno la Repubblica dava notizie di una lettera
dell’architetto Francesco Scoppola,
direttore generale del Ministero di
Beni Culturali inviata ad Antonella
Rinaldi, neo soprintendente per le
Belle Arti, in cui si chiedevano precisazioni sulle motivazioni del trasferimento della Pietà Rondanini di
Michelangelo dalla sala degli Scarlioni alla sala dell’ex ospedale spagnolo sempre del Castello Sforzesco. Nella stessa si ipotizzava che il
trasferimento si dovesse considerare provvisorio e che, alla chiusura di
Expo, la Pietà dovesse ritornare da
dove era partita. Non so se a questa
lettera sia stata data una risposta.
Ora che il nuovo spazio è stato aperto al pubblico è possibile fare
ulteriori riflessioni e rendere forse
maggiormente auspicabili i suggerimenti ministeriali. Il progetto del
trasferimento dell’opera michelangiolesca aveva incontrato molte ostilità, dall’inizio del suo percorso
attuativo, da chi sosteneva non si
potesse interrompere il progetto
museologico e museografico realizzato dopo l’ultima guerra, sottraendo, a un’esposizione conclusa,
l’opera più importante. Costantino
Baroni, responsabile del progetto
museologico e BBPR del progetto
museografico, avevano creato un
museo diventato famoso in tutto il
mondo entrando nella storia dei
modelli più celebrati del XX secolo.
Si era detto che la sottrazione del
gruppo michelangiolesco equivaleva
alla modifica di un verso dell’Infinito
di Leopardi o di alcune note di uno
spartito mozartiano! In sintesi, molti
articoli sui giornali nazionali, lettere
n. 18 VII - 13 maggio 2015
e discussioni non erano riusciti a
distogliere gli organizzatori e responsabili dal portare a compimento
un nuovo allestimento in un nuovo
spazio che in questi giorni è stato
aperto al pubblico. Ora possiamo
valutare l’operato osservando il risultato del restauro della sala
dell’ospedale che appare garbato
per la semplicità e misura degli interventi fatta eccezione per i pavimenti lignei che sembrano estranei
ai materiali presenti in tutto il Castello.
Il sistema di illuminazione artificiale
adottato purtroppo risulta annullare
gli effetti della luce naturale. La luce
artificiale colpisce il gruppo marmoreo da tutti i lati tanto che, in assenza di ombre il modellato si appiattisce e assume un aspetto gessoso
privo di drammaticità. Se osserviamo i repertori fotografici realizzati
negli anni da grandi fotografi ci accorgeremo che la drammaticità del
modellato è raggiunta dalla distribuzione sapiente delle ombre. Del resto la nicchia predisposta dai BBPR
a fondale di contenimento della Pietà si avvaleva della luce naturale
proveniente dal finestrone alla sinistra di chi guarda. Quella luce lavorava il marmo e modellava le superfici scabre e valorizzava il senso
delle espressioni che a loro volta
variavano a seconda delle stagioni
e delle ore destinate alla aurora e al
tramonto. La luce artificiale è di per
sé povera e può essere di aiuto
purché non vada a interferire o ad
annullare gli effetti della luce naturale. Chi entra dunque nel salone
dell’ex ospedale percepisce un bagliore, un gruppo marmoreo informe
(si è scelto di dare al retro della statua molto rilievo), il pubblico che
vuole vedere la Pietà accelera il
passo e la maggiore concentrazione
si realizza di fronte, in asse con la
Madonna che regge il figlio che con
il suo peso le sta scivolando dalle
braccia.
Tobia Scarpa a Castelvecchio aveva insegnato a vedere una figura
marmorea anche dal retro ma in
quel caso si trattava di una splendida fanciulla la cui veste cade rigonfia a incorniciare trecce di capelli
lunghi e leggeri. Del resto la visibilità del retro era assicurata nel tutto
tondo anche dai BBPR. Da qualunque parte lo si voglia vedere inoltre l
supporto non pare avere relazione
alcuna con il sostenuto.
Prima di entrare nell’ex ospedale ho
ripercorso il museo lapideo gremito
di persone. Ho riguardato con entusiasmo il Barnabò Visconti nella sua
regale maestà e via via le pietre
tombali, i crocifissi e gli angeli, le
opere del Bambaia sino a quella
mano di pietra che proteggeva la
Pietà. Un percorso ancora vivo e
così vitale da far sentire la forza di
tanta sapienza ed eleganza oggi
come allora, mezzo secolo fa. Ho
vissuto in quegli spazi a lungo per
studiare e proteggere, con la speranza di vedere sparire l’impossibile
bar a cavallo di tre corti ducali. Incidente da cancellare al più presto
ascoltando le voci del dissenso in
un momento in cui Milano sta aprendo nuovi spazi museali come
quello della Fondazione Prada:
nuovi interessanti paesaggi della
cultura.
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TERRITORIO E CITTADINI: LA PREVARICAZIONE DELLE MULTINAZIONALI
Giuseppe Gario
«La cittadinanza è un progetto e un
modo di vita. La progettualità della
cittadinanza l’avvicina e la salda al
governo del territorio, cioè alla progettualità dei processi politici che
sovrintendono alle decisioni di ordinamento e controllo dell’uso dello
spazio». Luigi Mazza individua e
analizza una questione oggi ineludibile [Spazio e cittadinanza, Roma
2015, pp. 3-4]. Dopo lo spazio celeste con Sputnik (1957) e Apollo
(1969) dobbiamo conquistare quello
terrestre. «Ho sognato a lungo di
acquistare un’isola che non fosse di
proprietà di alcuna nazione […] e di
stabilire, sul suolo davvero neutrale
di quest’isola, la sede centrale
mondiale della Dow, esente da obblighi nei confronti di qualunque nazione e società. […] Saremmo persino in grado di ricompensare generosamente gli abitanti del luogo perché si trasferiscano altrove» [Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo,
Milano, 20142, pp. 92-93]. Il sogno
del presidente della Dow Chemical
Carl A. Gerstacher (1974) è divenuto realtà: un numero crescente di
imprese è «esente da obblighi nei
confronti di qualunque nazione e
società», e senza alcuna ricompensa, anzi.
L’attuale caos neoliberista nasce
dall’incapacità di nazioni e società di
farsi rispettare. Incapacità culturale
– di usare la tecnologia invece di
esserne usati – ma anzitutto pratica.
Lo Stato non è più in grado di costruire la cittadinanza sul proprio
territorio, dove le imprese dovrebbero contribuire al benessere collettivo
e non dettare legge.
La perdita del progetto di una cittadinanza condivisa da tutti sullo
stesso territorio sta incrinando persino il Regno Unito. La City prevarica tanto da provocare movimenti
separatisti. Da noi la lotta a Roma
ladrona, divenuta clinicamente dipendenza, fa spazio al razzismo.
Ma il risultato è lo stesso: nel mondo globalizzato lo Stato non riesce
più a imporre rispetto alle imprese
multinazionali e in ossequio ai mercati bastona i cittadini, mostrando
così tutta la sua impotenza.
Eppure il Regno Unito si fece Stato
come unione di nazioni su un unico
territorio. In La sovranità assente
(Torino 2014) Barbara Spinelli ricorda che così è anche per Francia,
Svizzera e Stati Uniti; noi e i tedeschi lo fummo nell’Ottocento romantico: dall’inglese romantick, inverosimile (“is partly true, partly romantick”, Il nuovo etimologico Zanichelli,
n. 18 VII - 13 maggio 2015
1999). «In altre parole, la storia ci
dice che il principio territoriale, come lo chiama lo storico inglese Lewis B. Namier, fu nella maggioranza
dei casi più forte, e soprattutto più
duraturo, del principio della nazionalità fondato sulla lingua, la religione
e il diritto del sangue. L’Unione [Europea] si apparenta all’esperienza
dello Stato territoriale, e ha per
l’appunto un’identità istituzionale
(nel futuro, si spera, anche costituzionale). Non è terra incognita, ma
ha dietro di sé una lunga e ricca storia di regni e - qui è forse la sua potenzialità vera - di imperi» [pp. 4344]. Impero, dal latino imperare,
“comandare”: sovrano.
Perciò, precisa Spinelli, «ogni volta
che si sente parlare di Stati che si
riprendono la sovranità, che reclamano il rimpatrio del potere da Bruxelles alle singole capitali (è la battaglia di David Cameron in Inghilterra, è stata la battaglia di Nicolas
Sarkozy in Francia, ed è la battaglia
non confessata dal cancelliere Angela Merkel) si può star certi di avere a che fare con illusionisti della
politica, che mentono sapendo di
mentire, […] pretendono di governarci, e di difendere nei vertici comunitari interessi solo in apparenza
nazionali, quando in realtà quegli
interessi non sono né europei né
nazionali» [p. 38]. Gli inconsistenti
leader europei generano quelli antieuropeisti (belgi francesi inglesi
italiani olandesi tedeschi ungheresi
…) che fanno carriera a servizio,
retribuito, dell’impero russo di Putin.
La guerra fredda non è finita, anzi è
sfociata in una guerra calda in Ucraina e in una guerra economica
che porta l’Europa al trattato di libero scambio transatlantico sotto la
guida sovrana degli USA, che nel
loro spazio includono gli oceani. La
logica è sempre quella di imprese
“esenti da obblighi nei confronti di
ogni nazione e società”, dedite solo
a servire i loro ponti di comando.
Nel libero mercato transatlantico
potranno chiedere compensazioni
agli Stati che contro i loro interessi
commerciali tuteleranno legalmente,
ad esempio, la salute dei cittadini e
l’ambiente. Il se e il quanto dipenderà da un foro internazionale sul modello del Fondo Monetario Internazionale, che così brillantemente
continua a tutelare i ricchi a spese
dei poveri.
Ci faranno capire a muso duro che
la sovranità degli Stati non è più
neppure finzione giuridica. La controprova viene dalla Grecia, per un
pugno di dollari spinta alla rovina da
interessi elettorali di partiti al potere
(in Spagna e Portogallo anzitutto,
ma ovunque) minacciati da movimenti di protesta sociale in grado,
come in Grecia, di arrivare al governo. Stati ridotti a gruppi di interesse,
coriandoli nel gran carnevale della
globalizzazione, guardano solo ai
mercati anche se la crisi greca «dimostra per l’ennesima volta quanto i
mercati finanziari siano inebriati dalle iniezioni di liquidità e quanto siano ormai dipendenti dalle banche
centrali. Per loro, ormai, un’alzata di
ciglia di Mario Draghi o di Janet Yellen è più importante di un Paese
europeo sull’orlo dell’abisso economico-finanziario. A pensarci bene, è
terrificante» [Morya Longo, “La Bce
anestetizza la crisi greca”, Il Sole 24
Ore, 19/04/2015 p. 2]. Lo è.
L’Unione Europea è il nostro unico
spazio di cittadini sovrani nel mondo
dove sovrane sono solo imprese e
potenze globali: spazio politico oltre
che economico, finanziario, giuridico. Il parlamento c’è, le istituzioni di
giustizia, monetarie e burocratiche
pure: manca il governo. E manca
una forte opinione pubblica europea, anche se è facile informare, essere informati e discutere di ciò che è
meglio per noi europei, oltre i recinti
di vicinato. Il nostro futuro è informarci, discutere e eleggere un governo democratico che ha giurisdizione su tutta l’Unione Europea.
«Infatti, tra governo del territorio e
cittadinanza esiste un rapporto circolare per cui il governo del territorio è lo spazio politico per la costruzione o ricostruzione di un’idea di
cittadinanza, ma a sua volta l’idea di
cittadinanza è il mondo normativo in
cui il governo del territorio si colloca» [Mazza, p. 181].
È un investimento, il solo vero tra
tanti gadget. Le imprese, snodi di
sovranità privata, ci dicono che le
crisi gravi si superano realizzando
innovazioni e investimenti con tutte
le risorse disponibili, incluse dignità
e speranza, che sono risorse di cittadinanza.
Primi e principali interessati a questo investimento siamo noi italiani. Il
nostro debito complessivo è tra i più
bassi del mondo, ma la pessima
fama del nostro debito pubblico ci fa
bersagli privilegiati delle speculazioni anti-euro dopo un default greco. Ma c’è di più e peggio. Siamo gli
europei più esposti al caos africano,
paradiso del business delle armi e
inferno della guerra generale tra
Stati non sovrani che, se non li am-
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mazzano, trasformano i cittadini in
rifugiati e clandestini. L’Unione europea è nata dopo due bestiali guer-
re mondiali, se stavolta procedessimo in pace sarebbe premio alla
nostra intelligenza morale, politica,
economica, finanziaria. Facce dello
stesso tetrapak, insegna Adam
Smith, padre del mercato moderno.
MUSICA
questa rubrica è a cura di Paolo Viola
[email protected]
Senza Direttore
Un amico musicista, con una grande esperienza di primo violino nelle
migliori orchestre italiane, mi segnala un articolo a firma di Sandro
Cappelletto (Lucca), comparso su
“La Stampa” on line di pochi giorni
fa, che riporto tal quale per il suo
straordinario interesse. Sentite un
po’.
«Spira Mirabilis è composta da 123
giovani e già affermati strumentisti.
Li unisce la scelta di non avere una
guida: ed è tutta un’altra musica.
Hanno trent’anni, si chiamano Katharina, Lorenza, Igor, Matej, Salvador, Paolo, Renate, Yumi, William,
Luise … Vengono dall’Asia, dalle
Americhe, da tutta Europa. Si sono
conosciuti lavorando in orchestra, in
ottime orchestre. Ma a loro non bastava e hanno deciso di formarne
una tutta nuova e senza direttore e
l’hanno chiamata Spira Mirabilis .
Venerdì sera, al Teatro del Giglio
per il festival Lucca Classica, Spira
Mirabilis ha osato l’incredibile: la
Nona sinfonia di Beethoven. Centoventitre persone sul palco e un vuoto al centro, quello del direttore che
non c’era. L’esecuzione è stata travolgente; un continuo guardarsi,
scambiarsi cenni d’intesa, nella totale concentrazione di ciascuno e di
tutti, perché senza direttore ogni
singolo musicista, per non sbagliare, deve conoscere non solo la propria parte, ma anche quella dei colleghi.
Infinite traiettorie di sguardi complici, consapevoli, felici, mentre scorreva la musica e il pubblico si lasciava trasportare da un’onda di
energia ed emozione. In quella sala
si stava realizzando l’utopia della
Nona: l’Ode alla gioia di Schiller,
messa in musica da Beethoven, diventata l’inno dell’Europa sempre
promessa: “Ogni uomo sia fratello, o
milioni abbracciatevi”.
Quelle parole, quell’orchestra, quel
coro, quei solisti e l’assenza del direttore, oltre a far nascere motivati
dubbi sulla reale necessità del maestro solo al comando e dei suoi gesti così spesso troppo teatrali e oggi
rivolti alle telecamere più che posti
al servizio della musica, assumevano il valore simbolico di una scelta
condivisa e realizzata, nata tentativo
dopo tentativo, confronto dopo confronto, fino a raggiungere il miglior
risultato possibile.
I componenti della Spira Mirabilis perché questo sia il nome
dell’orchestra è più semplice visitare
il loro sito - sono accomunati anche
da una sana follia: vengono da tutto
il mondo e si incontrano a Formigine, un paese in provincia di Modena
dove l’amministrazione comunale li
ospita; fanno dieci giorni di prova e
magari un solo concerto, in un meccanismo del tutto estraneo alle logiche attuali del mercato della musica.
Per ritrovarsi a lavorare assieme,
sacrificano qualche giorno di ferie e
se serve si tassano per coprire le
spese. Più che il risultato, gli applausi e l’entusiasmo contagioso
che sempre suscitano, a loro interessa il processo: capire come tutti
assieme possono arrivare a dare il
meglio.
Diceva ai propri allievi Hans Swarowsky, grande didatta di direzione:
«Signori, l’ottanta per cento di voi
peggiorerà le orchestre, il quindici
per cento sarà ininfluente, solo il
cinque per cento le migliorerà». La
Spira Mirabilis rinuncia anche a quel
cinque per cento. Con buona pace
dell’attesa mistica di una parte non
piccola del pubblico: «Caro, avvisami quando Karajan comincia a
diventare sublime», è la leggendaria
battuta pronunciata da un’abbonata
ai concerti dei Berliner Philharmoniker. La stessa orchestra che, riunita
in segreto e mediatico conclave,
proprio oggi eleggerà il prossimo
direttore musicale, nella speranza
che appartenga a quella esigua minoranza».
In realtà, come sappiamo, anche i
Berliner Philharmoniker fanno fatica
a mettersi d’accordo sul nuovo direttore e hanno dovuto rinviare il loro
famoso conclave. Auguri, dunque,
non vorremmo essere al loro posto.
Ma perché, vista l’enorme esperienza maturata in 133 anni di lavoro
insieme, non tentano di imitare Spira Mirabilis?
ARTE
questa rubrica è a cura di Benedetta Marchesi
[email protected]
La Fondazione Prada e la rigenerazione culturale di Milano
Il 9 maggio il sempre più vasto mosaico culturale di Milano si è arricchito di un importantissimo e preziosissimo tassello: la Fondazione
Prada. La celebre stilista Miuccia
Prada e il marito Patrizio Bertelli
hanno regalato al capoluogo lom-
n. 18 VII - 13 maggio 2015
bardo uno dei più interessanti interventi culturali visti in Italia in materia
di arte, ma anche di architettura e,
soprattutto, di rigenerazione urbana.
Le vecchie distillerie di inizio Novecento sono state restaurate, ristrutturate, trasformate e integrate per
offrire ai visitatori una superficie di
19.000 mq dove trovano posto non
soltanto spazi espositivi per le varie
mostre temporanee, ma anche un
cinema, un’area didattica dedicata
ai bambini, una biblioteca e il Bar
Luce concepito dal regista Wes An-
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derson che si ispira ai celebri caffè
meneghini e già diventato “cult” nel
giro di pochi giorni.
La molteplicità e la versatilità degli
spazi della Fondazione consentono
un’offerta culturale estremamente
variegata. Sono attualmente aperte
al pubblico le mostre “An Introduction”, nata da un dialogo fra Miuccia
Prada e Germano Celant, “In Part” a
cura di Nicholas Cullinan e le installazioni permanenti di Robert Gober
e di Louise Bourgeois presso la
“Haunted House”, una struttura preesistente che, rivestita di uno strato
di foglia d’oro, acquista un’aura altamente immaginifica e imprime un
segno forte ed evidente nel paesaggio urbano di Milano. Ma è
“Serial Classic” la mostra più sorprendente: Miuccia Prada abbandona momentaneamente la passione
per il contemporaneo per rivolgersi
al passato, all’arte antica dove sono
scolpite le origini della nostra cultura. Salvatore Settis e Anna Anguissola curano magistralmente una
mostra che presenta l’ambiguo rapporto fra l’originale e la copia
nell’arte greca e romana.
Un allestimento geniale presenta
più di sessanta opere che dialogano
fra di loro e con lo spazio esterno
circostante attraverso ampie vetrate. Il modello perduto, giustamente
sfocato, giunge ai nostri giorni attraverso le innumerevoli imitazioni,
emulazioni o interpretazioni commissionate dalla ricca aristocrazia
romana. Ed ecco che il solido blocco di marmo prende vita e si circonda di un’aura di sacralità ancora oggi percettibile. Gli spazi rivisti da
Rem Koolhaas e dal suo studio
OMA consentono a una vecchia
fabbrica di trovare nuova vita in un
tempio che ospita personaggi della
mitologia, guerrieri e divinità quali
Venere e Apollo con opere provenienti dai più importanti musei del
mondo, dai Vaticani al Louvre. La
Fondazione Prada diventa oggi il
modello di quella inevitabile e illuminata collaborazione che deve esserci fra pubblico e privato per il beneficio dei cittadini milanesi, italiani
e di tutti i visitatori stranieri che iniziano a intravedere nel laboratorio
creativo di Milano la nuova Capitale
Europea.
Giordano Conticelli
Fondazione Prada - Largo Isarco 2
Milano (M3 Lodi T.I.B.B.) orari: tutti i
giorni h10-21 biglietti: 10€ ridotto 8€
gratuito minori 18 anni e maggiori di
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Parigi è a Milano grazie agli scatti di Brassaï
In tempo di Expo Palazzo Morando
porta Brassaï a Milano: dal 20 marzo al 28 giugno 2015 sono esposte
al piano terra del palazzo di via S.
Andrea 260 immagini di una Parigi
onirica e poetica attraverso lo
sguardo innamorato dell’artista ungherese che fece sua la capitale
francese.
Nato nel 1899 a Brasso (l’attuale
Braşov) in Transilvania, Gyula Halász - che prenderà il nome di Brassaï quando inizierà a fotografare,
nel 1929 - arriva la prima volta a Parigi a soli 4 anni, con il padre, professore di letteratura che vi trascorre un anno sabbatico. I ricordi di
quegli anni, come "petites madeleines" di proustiana memoria, rimarranno in lui riaffiorando talvolta e
lasciandogli perennemente dentro
uno sguardo incantato nei confronti
della città.
Le prime tre sale portano il visitatore
in una Parigi dolce, malinconica:
dove i bambini dai calzini bianchi giocano con le barchette al Jardin du Luxembourg o i leoni di pietra
hanno criniere di neve nel parco
delle Tuileries. La Tour Eiffel luccica
nella notte e a Longchamp si pesano i cavalli da corsa. Passano gli
anni e lo sguardo muta, giunge il
disincanto ma rimane l’accuratezza
e le assenza di giudizio nel raccontare la notte e i suoi protagonisti.
Brassaï inizia a inseguire, nella luce
notturna della città, una Parigi insolita, sconosciuta e finora non degna
di attenzione. Durante le sue lunghe
passeggiate che lo portano solo o in
compagnia di Henry Miller, Blaise
Cendrars e Jacques Prévert, complici nell’alimentare le sue curiosità,
rende visibili le prostitute dei quartieri “caldi” o i lavoratori della notte
alle Halles, o ancora i quarti di animali appesi dai macellai.
Brassaï in quegli anni ricerca gli oggetti più ordinari e ne trasforma il
significato, osa giustapposizioni insolite e defamiliarizza la percezione,
togliendo il reale dal suo contesto. Il
suo pensiero si concentra nel trasformare il reale in decoro irreale, è
a partire dal 1929 che nascerà la
sua ostinata ricerca dei graffiti.
Circo, nudi femminili, ancora Parigi,
Picasso e molti altri artisti sono i
soggetti degli scatti del grande fotografo (ma anche scrittore e cineasta) che testimoniano il tanto profondo quanto fecondo rapporto che
per oltre cinquanta anni lo ha legato
alla Ville lumière, fino alla sua
scomparsa nel 1984.
Brassaï. Pour l’amour de Paris
Palazzo Morando | Costume Moda
Immagine via Sant’Andrea 6, piano
terra, spazi espositivi 20 marzo – 28
giugno 2015, mart. – dom., ore 10 19 Biglietteria € 10,00 / 8,50 / 5,00
Pietà Rondanini: la nuova casa aspetta i milanesi
Dopo una vicenda travagliata durata
alcuni anni, la Pietà Rondanini trova
finalmente pace in un Museo a lei
interamente dedicato. Dopo sessant’anni trascorsi nell’allestimento
di BBPR nella Sala degli Scarlioni
del Museo d’Arte Antica, l’ultimo lavoro di Michelangelo, quello forse
più intimo ed emozionante, raggiunge
una
nuova
collocazione,
anch’essa densa di valore e simbologia. È l’antico Ospedale Spagnolo
del Castello Sforzesco, realizzato
nella seconda metà del Cinquecento per i soldati della guarnigione
spagnola colpiti dalla peste, che
n. 18 VII - 13 maggio 2015
porta in sé, per sua natura,
l’essenza del dolore e della sofferenza. Termina così il percorso durato tre anni, da quando si è riconosciuta l’esigenza di dare rinnovato
valore alla scultura michelangiolesca, che l’ha vista al centro di accesi dibattiti sia nel mondo politico che
in quello culturale e si conclude in
un evento di grande festa cittadina
dove l’opera preziosa torna a Milano
e ai milanesi in occasione
dell’inaugurazione del palinsesto di
Expoincittà.
«Il nuovo allestimento ribalta completamente la visione a oggi con-
sueta dell’opera: entrando i visitatori
vedranno infatti la scultura di spalle
e scorgeranno per prima cosa ciò
che Michelangelo scolpì per ultima,
la schiena della Madonna ricurva
sul Cristo, rendendo ancora più intensa l’emozione per l’opera», afferma l’architetto Michele De Lucchi,
cui è stato affidato il progetto allestitivo. «Solo girando attorno alla statua si vedrà la parte anteriore, con il
Cristo cadente sostenuto dalla Madre: una prospettiva assolutamente
inedita, voluta per mettere in risalto
quella dimensione della scultura,
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incompiuta, prima impossibile da
osservare nella sua completezza».
Un allestimento che invita alla contemplazione e al raccoglimento di
fronte all’opera incompiuta di Michelangelo e che forse, più di ogni altra,
racchiude nell’abbraccio dei due
corpi il senso dell’amore. L’ingresso
nel museo conduce ad un’immersione che coinvolge tutti i sensi gra-
zie al profumo del legno, il silenzio
che inevitabilmente cala di fronte
alla scultura e alla penombra che
avvolge la sala concentrando la luce
solo sulla statua.
Museo Pietà Rondanini_ Michelangelo - Milano, Castello Sforzesco, Cortile delle Armi
Ingresso gratuito al Museo Pietà
Rondanini tutti i giorni fino al 31
maggio)
Da giugno 2015 l’ingresso al Museo
della Pietà Rondanini è compreso
nel biglietto unico per i Musei del
Castello Sforzesco al costo di 5 euro (ridotto 3 euro) acquistabile presso la biglietteria dei Musei del Castello Sforzesco
L’Africa si mostra a Milano
L’Africa approda a Milano con una
mostra allestita nel nuovo Mudec, il
Museo delle Culture che ha finalmente aperto i suoi battenti dopo 12
anni di agognati lavori. Il capoluogo
lombardo, a breve al centro del
mondo come sede dell’Esposizione
Universale, afferma la propria identità di città multietnica, bacino delle
tante culture che negli ultimi decenni si sono andate a integrare
nell’antico e complesso tessuto urbano di Milano. “Africa. Terra degli
spiriti” è un interessante progetto
espositivo che raccoglie circa 270
manufatti e che da il via alla vivace
stagione culturale milanese organizzata durante i mesi di EXPO
2015.
La mostra si articola in vari ambienti
presentando le affascinanti sfaccettature della cultura subsahariana
dalle figure reliquiario alle armi, dagli altari vudu alle celeberrime maschere utilizzate durante le danze e
le cerimonie religiose. Sorprendenti
risultano essere alcuni manufatti
come cucchiai e olifanti realizzati
interamente in avorio ed eseguiti
con un altissimo e raffinatissimo livello qualitativo. Interessante è an-
che il progetto d’allestimento che
tenta di creare un’atmosfera intima
e infondere un profondo senso religioso nel visitatore. Convincente è
la soluzione adottata nella prima
sala dove sono esposte figure custodite all’interno di teche cilindriche
sorrette da una struttura che vuole
forse richiamare le affascinanti e
impenetrabili foreste di questo continente. Da notare anche l’utilizzo di
alcuni effetti sonori come il frinire
dei grilli o il penetrante ritmo delle
percussioni, espedienti che aiutano
il visitatore a immergersi nella ancestrale cultura africana. Unica interazione tra opere esposte e pubblico è
la possibilità che ha quest’ultimo di
far rivivere le divinità di un altare
vudu. Come suggerisce Claudia Zevi attraverso l’audio guida distribuita
gratuitamente, il visitatore è invitato
a lasciare un oggetto personale in
segno di devozione per manufatti
che riescono ancora oggi a serbare
in sé un elevato valore sacrale.
La fretta di inaugurare ha, però, determinato la presenza di alcuni errori, minimi dettagli a cui bisognerebbe prestare sempre la massima attenzione. Grazie a una buona e
suggestiva illuminazione, i singoli
reperti sono facilmente fruibili nonostante la presenza, in alcuni casi, di
polvere e di impronte lasciate sulla
superficie delle teche. Di difficile lettura risultano essere, inoltre, alcuni
pannelli, ora velati da un sottile tessuto reticolato, ora posti in una zona
d’ombra, lontano del cono di luce.
Alcune didascalie sono poste al livello della superficie di calpestio,
elemento che porta il visitatore a
doversi sforzare per leggerle. Tutti
questi aspetti di disturbo non vanno,
comunque, a intaccare una mostra
che nel complesso risulta essere un
ottimo progetto curatoriale, di enorme interesse per Milano che si conferma città internazionale e che si
affaccia con prepotenza sulla società globale contemporanea.
Giordano Conticelli
Africa - la terra degli spiriti fino al
30 agosto 2015 MUDEC Museo delle culture via Tortona 56 Milano orari lunedì 14.30-19.30 martedì/mercoledì/venerdì /domenica 9.3019.30 giovedì e sabato 9.30-22.30 biglietti 15/13 euro
Italia Inside Out: i maestri della fotografia raccontano l'Italia
Dal 21 marzo al 27 settembre 2015,
Palazzo della Ragione ospita Italia
Inside Out, la grande mostra di fotografia interamente dedicata all’Italia con più di 500 immagini dei più
importanti fotografi del mondo.
Un’unica iniziativa articolata in due
successivi allestimenti, dal 21 marzo al 21 giugno con i fotografi italiani e dal 1° luglio al 27 settembre con
i fotografi del mondo, che raccontano a chi li visita le trasformazioni e
le emozioni di un’Italia che cambia
dal secondo dopoguerra fino ai
giorni nostri. E il cambiamento si
percepisce in ogni cosa: nelle tecniche, nell’uso del bianconero e del
colore, nei ritratti e nelle storie dei
protagonisti ritratti.
Promossa e prodotta dal Comune di
Milano - Cultura, Palazzo della Ragione, Civita, Contrasto e GAmm
Giunti, curata da Giovanna Calven-
n. 18 VII - 13 maggio 2015
zi; l’allestimento si deve a un progetto scenografico di Peter Bottazzi
dove ogni autore è una carrozza di
un immaginario treno che porta il
visitatore alla scoperta del Bel Paese.
Il viaggio inizia da Milano con le
immagini storiche di Paolo Monti e
qui si conclude con le vedute della
nuova Milano di Vincenzo Castella;
su ciascuna carrozza si scopre
un’Italia differente per geografia
(dalla Venezia degli anni cinquanta
di Berengo Gardin alla Palermo della Battaglia, passando per il delta
del Po di Pietro Donzelli); per epoche (la Sardegna dei primi anni ’60
di Franco Pinna, gli estemporanei
anni ’80 della Via Emilia di Luigi
Ghirri, ma anche il terremoto
dell’Aquila ritratto da Marta Sarlo);
per progetti (Io parto di Paola de
Pietri, Gli ultimi Gattopardi di Sho-
bha, Florence versus the World di
Riverboom).
La prima parte - INSIDE - accoglie
dal 21 marzo al 21 giugno 2015 una
selezione di oltre 250 immagini di
quarantadue fotografi. Nella seconda parte - OUT -, dal 1° luglio al 27
settembre 2015, saranno protagoniste le fotografie dei grandi maestri
internazionali, quali Henri CartierBresson, David Seymour, Alexey
Titarenko, Bernard Plossu, Isabel
Muñoz, John Davies, Abelardo Morell e altri.
Quella ospitata negli spazi del Palazzo della Ragione è una mostra
davvero ricca, piena di punti vista e
sguardi, quasi troppo: al punto che il
visitatore talvolta si smarrisce, vista
l’assenza di un percorso definito,
rischiando di non vedere alcuni degli autori. L’allestimento, poi, pare
incompleto (o la scelta molto curio-
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sa) laddove solo alcuni pannelli con
le fotografie hanno le didascalie
mentre altri no. E va aggiunto che al
terzo giorno dall’apertura le audioguide sono ancora non pervenute,
causa corriere. Si perdona tutto da-
vanti alla bellezza di questa italianità per immagini?
Italia Inside Out - I fotografi italiani fino al 21 giugno 2015 Palazzo
della Ragione Fotografia Milano,
Piazza Mercanti, 1 Martedì, mercoledì, venerdì e domenica 9.30 –
20.30/ Giovedì e sabato 9.30 –
22.30 Biglietto €12/10/6 Congiunto
€18/16/9
Gli scatti di David Bailey: star system (e non solo) al PAC
Varcare la soglia del PAC in questi
giorni (fino al 2 giugno) è fare un
tuffo tra i volti pop degli ultimi 50
anni: nella mostra Stardust sono
esposti più di 300 scatti di David
Bailey tra divi del cinema, grandi
artisti visivi, top model ma anche
persone normali e scatti sociali per
risvegliare le più pigre coscienze.
Curata dallo stesso artista e realizzata in collaborazione con la National Portrait Gallery di Londra e con
il magazine ICON, la mostra contiene una vasta serie di fotografie, selezionate personalmente da Bailey
come le immagini più significative o
memorabili della sua carriera, che
ha attraversato più di mezzo secolo.
Nello spazio progettato da Ignazio
Gardella si articolano per temi alcuni dei progetti più interessanti del
grande fotografo: dagli scatti realizzati per Vogue che lo hanno reso
famoso nei primi anni ’60, alle immagini realizzate per i dischi dei
Rolling Stones o ai gemelli pugili
Reggie e Ronnie Kray; i grandi ritratti che hanno per protagonista
Catherine Dyer, talvolta straordinaria modella talaltra moglie e madre
dei loro tre figli, sempre donna di
straordinaria femminilità. L’arte di
Bailey non si limita però alle celebrità: sono una decina le fotografie
appartenenti al progetto “Democracy”, realizzato tra il 2001 e il
2005, dove un gruppo di sconosciuti, a turno, ha posato nudo per 10
minuti; ci sono le immagini degli anziani con i costumi tradizionali scattate durante il viaggio nella regione
indiana di Naga Hills; ci sono gli
scatti dedicati ai teschi; c’è il reportage realizzato negli anni ’80 per
portare l’attenzione mondiale sulla
situazione in Sudan.
Non l’ordine cronologico ma quello
tematico sancisce ancora una volta
la profondità e la qualità del lavoro
del grande artista inglese, che attraverso le proprie immagini racconta
non solo le storie dei protagonisti
ritratti, ma anche del mondo attorno
che li circonda.
Unica pecca della mostra: l’assoluto
divieto di usare gli smartphone e di
fare fotografie all’interno degli spazi,
curioso e un po’ anacronistico in un
mondo dove la promozione e la comunicazione dell’arte passano anche attraverso la condivisione digitale.
Stardust. David Bailey fino al 2
giugno 2015 PAC Via Palestro 14,
Milano Da martedì a domenica 9.30
– 19.30, giovedì fino alle 22.30 Biglietti € 8,00/ 6,50 /4,00
Medardo Rosso alla Gam, con molti dubbi
Medardo Rosso, torna ad essere
protagonista di una mostra monografica a Milano dopo 35 anni
dall'ultima. Organizzata e prodotta
dalla Galleria d'Arte Moderna di Milano, da 24 ore Cultura - Gruppo 24,
insieme al Museo Rosso di Barzio,
la mostra è a cura di Paola Zatti,
conservatore della Galleria d’Arte
Moderna di Milano.
Rosso è l'artista della forma che
prende vita: nel percorso espositivo,
tra gessi, bronzi e modelli in cera,
oltre ad immagini d’archivio, i personaggi ritratti sono vive idee che si
animano, con l’intento di perseguire
non una verosimiglianza ma una
rappresentazione dell’impressione.
Le 15 opere di Rosso della GAM
sono affiancate da una selezione
significativa proveniente dal Museo
Rosso di Barzio, che ha partecipato
alla curatela della mostra, e una serie di prestiti nazionali e internazionali (Musée d’Orsay e Musée Rodin
di Parigi, Staatliche Kunstammlungen di Dresda, il Museo d’Arte di
Winthertur, Szepmuveszeti Muzeum
di Budapest).
L’insieme di queste opere consente
di avere una visione ampia sia dei
soggetti affrontati dall’artista sia della sua evoluzione interpretativa e
della sua competenza e passione
per la tecnica fotografica. Infatti ad
arricchire l’esposizione è presente
un cospicuo contributo iconografico
che documenta il lavoro di Medardo:
l’artista infatti quando esponeva i
propri lavori creava loro intorno una
sorta di scenografia che ne accresceva, o addirittura modificava, il
senso. La straordinaria Madame X,
opera del 1896, è al centro della
terza sezione della mostra, e dialoga con due versioni a confronto in
bronzo e cera dell’Enfant Malade,
documento della fase sperimentale
di Rosso.
Seppur interessante il dialogo che si
va a creare tra le sale della galleria
e i lavori dell’artista, dove i grandi
specchi consentono di osservare da
diversi punti di vista le stesse opere,
gli spazi danno poca aria alle sculture che ne risultano penalizzate e
laddove vi siano dei gruppi guidati la
visita risulta estremamente complessa, quasi impossibile. Il costo
dell’ingresso è piuttosto alto (12€)
considerando che si tratta di una
mostra articolata in sole sei sale e
che poi per visitare gli altri spazi della Galleria deve essere acquistato
un ulteriore biglietto. Purtroppo si
deve notare che il livello della conoscenza della lingua inglese da parte
degli operatori della biglietteria non
è adeguato, elemento invece che
dovrebbe essere curato e seguito
da ogni organizzazione in particolar
modo nell’anno di Expo.
Medardo Rosso la luce e la materia - fino al 31 maggio Galleria d'Arte Moderna di Milano via Palestro
16 - Lunedì 14.30 – 19.30 Martedì,
mercoledì, venerdì, sabato e domenica 9.30 – 19.30 Giovedì 9.30 –
22.30
Food. Quando il cibo si fa mostra
Food | La scienza dai semi al piatto,
non è solo una mostra dedicata
all’alimentazione: è un percorso di
avvicinamento e scoperta del processo di produzione di ciò che
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mangiamo. Anche questa definizione è riduttiva: le quattro sezioni accompagnano il visitatore dalla scoperta dei cibo, dall’origine quando è
seme fino alle reazioni chimiche che
sottendono la cottura, passando attraverso dettagliate spiegazioni su
provenienza
storico-geografica,
suggerimenti sulle modalità di conservazione o exhibit interattivi.
15
www.arcipelagomilano.org
La mostra, in corso fino al 28 giugno
2015 e allestita nelle sale del Museo
di Storia Naturale Milano, rappresenta il più importante evento di divulgazione scientifica promosso dal
Comune di Milano sul tema di Expo
2015. “Nutrire il Pianeta, Energia
per la Vita” e costituisce una delle
più importanti iniziative del programma di “Expo in Città”.
Tutto nasce dai semi è il titolo della
prima sala, nella quale vengono
raccontate le diverse classi e famiglie con caratteristiche, provenienza
e utilizzo. Decine e decine di barattoli mostrano, portando, in alcuni
casi per la prima volta, esemplari
che appartengono alle più importanti banche dei semi italiane. Si prosegue poi con Il viaggio e
l’evoluzione degli alimenti dove mele, agrumi, riso, caffè e cacao non
avranno più segreti: tra giochi inte-
rattivi e alberi genealogici, tutto è
facilmente accessibile e non superficiale. Grande elemento positivo
della mostra è infatti la capacità di
rendere fruibili le nozioni più scientifiche a un pubblico differenziato,
senza per questo incorrere nel rischio di semplicismo.
Che la cucina sia un’arte è risaputo
da tempo, ma che alla base di tante
ricette vi siano principi di chimica e
fisica passa spesso inosservato: la
terza sezione della mostra illustra
come funzionano alcuni degli elettrodomestici più comuni, con consigli sulla conservazione degli alimenti (sapevate che i broccoli hanno un
metabolismo più veloce delle cipolle
e che per meglio conservarli andrebbero avvolti in una pellicola di
plastica?!) e soluzioni fisico-chimiche ai problemi di chi cucina (cosa
fare se la maionese impazzisce?).
Quando poi sembra che niente in
materia di cibo possa più sorprenderci si giunge all’ultima sala I sensi. Non solo gusto ovvero niente è
come sembra: vista, olfatto e tatto
anche nel mangiare giocano un ruolo determinante, al punto talvolta di
allontanare il gusto dalla reale percezione.
Il costo del biglietto è medio alto
(12/10 euro), ma la visita merita
davvero il prezzo d’ingresso se non
altro per cominciare ad affacciarsi
nel tema che, grazie ad Expo, ci accompagnerà per tutto il 2015.
Food. La scienza dai semi al piatto fino al 28 giugno 2015 Lunedì
09.30 – 13.30 / Martedì, Mercoledì,
Venerdì, Sabato e Domenica 9.30 –
19.30 / Giovedì 9.30 – 22.30 Biglietto 12/10/6 euro
LIBRI
questa rubrica è a cura di Marilena Poletti Pasero
[email protected]
Lella Ravasi Bellocchio
I sogni delle donne
Utet 2015 pp. 376, euro 15
Il saggio verrà presentato mercoledì
20 maggio, ore 18, presso Palazzo
Sormani, Sala del Grechetto, a cura di Unione Lettori Italiani Milano.
Introduce Lina Sotis, interviene Luigi
Zoja.
"Gnose seauton" conosci te stesso,
secondo Socrate era il viaggio più
aspro che ogni essere umano avrebbe dovuto intraprendere per disvelare il dilemma sulla propria identità: filosofi, scrittori, sin dal sec.
V a.C., poi egiziani, su su fino a
Freud e Jung con la psicanalisi.
Il sogno, figlio dell'immaginazione, è
parso un ottimo grimaldello per entrare nella "porta occulta dell'anima", come dice Jung. E junghiana è
l'autrice Lella Ravasi Bellocchio,
analista, scrittrice, allieva di Bauman, nipote di Jung.
In questo saggio l'autrice racconta
con brio, curiosità,leggerezza, grande poesia, la materia dei sogni, per
cercare la nostra identità (Musatti):
la verità del "sè", il nostro irrazionale, l'inconscio, sfondando il muro del
buio nel quale siamo immersi sin
dall'origine del mondo.
Quando Lella Ravasi, all'inizio della
sua carriera, va in analisi dal grande
Musatti, alla domanda cosa fanno
loro due insieme, essendo di due
scuole diverse, lui risponde in veneziano: "discutèmo, discutèmo".Non
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più per interpretare i sogni, ma per
costruire un racconto poetico: ecco
spiegato perché ogni capitolo è introdotto da una poesia, per orientare noi lettori alla "pratica luminosa
della solitudine".
L'importanza della musica nei sogni,
la amata musica della autrice, è "una specie di colonna sonora dell'inconscio", tanto più assordante.
quanto i morti sono muti, ma con la
bocca aperta, nelle tombe egiziane,
una specie di maschera pazza a
difesa "del lago ghiacciato della solitudine". Nell'Enrico IV di Shakespeare, trasposto nel film Oblivion di
Marco Bellocchio, il re, ossessionato dalla sua bruttezza, è paragonato
da Elvio Facchinelli, con un ossimoro folgorante, a una "freccia ferma".
I sogni dunque sono ambasciatori
dell'inconscio-istinto,per tentare di
ricostruire la nostra identità, frutto di
scontri violenti di opposti, dentro di
noi. Per dare un senso alle "frantumaglie" nella testa, che ti fanno
piangere. Per capire il senso
dell'andare, nel tandem-coppia, per
scalzare l'antico bisogno di sottomissione- passività. Liberazione
femminile anche grazie al sogno,
processo di crescita, di cambiamento, di svolta, che racconta la diversità tra pedagogia e psicologia delle
relazioni, per uno scambio autono-
mo del desiderio, in quel "pollaio
che è la vita".
Perché infine il problema è sempre
come sottomettere l'altro, come modulare la pulsione distruttiva (della
guerra) che è in noi, ricorrendo all'Eros, superando "lo scoglio maledetto
dell'anaffettività", originato spesso
dall'assenza di una madre amorosa.
Servirebbero gesti minimi, essenziali, come "un bicchiere d'acqua." "Assenza, più acuta presenza" diceva
Bertolucci. "La signoria del femminile" può liberare la vita dai troppi vincoli del quotidiano, essendo la nostra vita "polvere di stelle", "un cerchio dopo l'altro" .
Infine un omaggio onirico di Fellini a
Pasolini. Termini che ritornano
sempre come l'immagine dell'acqua
per le donne del carcere, la paura
dell'abbandono, il buio, l'eros, la
madre, la musica,i film, il teatro e su
tutto aleggia la poesia dei massimi
poeti, tutti nominati nell'indice. Un
repertorio di sogni femminili e non
solo. Chissà se dobbiamo aspettarci
dalla Ravasi un prossimo saggio di
sogni ... maschili. Visioni profondamente radicate, echi dalla notte dei
tempi.
Marilena Poletti Pasero
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SIPARIO
questa rubrica è a cura di E. Aldrovandi e D.Muscianisi
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Segnalazioni d'autore: It Festival 2015
Dal 15 al 17 maggio alla Fabbrica
del Vapore torna IT - Indipendente
Theater, il festival del teatro indipendente milanese. Si tratta di una
maratona di spettacoli che andrà
avanti, ognuno dei tre giorni, dalle
19 alle 23:30, accompagnato da incontri, talk, dibattiti e momenti di festa.
Le proposte e i gruppi teatrali sono
moltissimi, da quelli già rappresentati in altri teatri cittadini che presen-
tano studi e nuovi progetti, a quelli
che debuttano e - senza questa occasione - non avrebbero nessun altra visibilità.
La grande offerta può rendere difficile orientarsi per il pubblico, ma il
grande merito di questo festival sta
nel tentare di proporre un approccio
originale alla cultura dello spettacolo
dal vivo: gli organizzatori non hanno
avuto paura di scrivere nella presentazione "perché il teatro possa
emergere come un evento cool per
tutta la cittadinanza” e i prezzi bassi
dei biglietti (con i quali è possibile
vedere molti spettacoli) sono un invito trasversale, a tutte le fasce di
pubblico, per partecipare a questa
festa.
Emanuele Aldrovandi
Per informazioni:
http://www.itfestival.it/2015/
CINEMA
questa rubrica è curata da Anonimi Milanesi
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Trento Film Festival 2015 a Milano
La montagna arriva in città (18/24 maggio)
Anche quest’anno i milanesi appassionati di vette e montagna, potranno vedere un’ampia selezione di
filmati provenienti da tutto il mondo
presentati al Trento Film Festival
2015, e ammirare immagini delle
montagne più affascinanti del mondo. Grazie alla collaborazione con la
Cineteca Italiana, dal 18 al 24 maggio, presso Spazio Oberdan, partirà
infatti la rassegna Trento Film Festival 2015 a Milano.
Tra i film in sala molti documentari
altrimenti invisibili. Ampia panoramica che racconta il fascino della
montagna ma anche spazio per i
temi di attualità e ricostruzioni storiche, come Qui di Daniele Gaglianone, sul rapporto tra gli abitanti della
Val Susa e gli attivisti No Tav; Alberi
che camminano di Mattia Colombo,
da un’idea di Erri De Luca, che indaga il rapporto tra gli alberi e
l’uomo, distribuito da Feltrinelli Real
Cinema, o Senza sole, nè luna, ,
film del 1963 restaurato, che racconta la costruzione del Traforo del
Monte Bianco attraverso le storie
dei minatori che lo hanno realizzato.
I filmati con la montagna e
l’alpinismo protagonisti, tradizionalmente ospitati dal Festival di Trento,
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coprono gran parte della rassegna e
raccontano di esperienze da tutto il
mondo, dagli scenari spettacolari
poco conosciuti della Nabibia, ai
ghiacci del Canada, al Monte Bianco.
Dedicati a grandi protagonisti
dell’alpinismo come Jeff Lowe’s Metanoia, sulle imprese straordinaria di
Lowe alpinista eccezionale, colpito
da una malattia degenerativa, e costretto su una sedia a rotelle, o Ninì,
di Gigi Giustiniani e Raffaele Rezzonico, storia Ninì Pietrasanta una
delle prime donne alpiniste, con
grande talento di documentarista.
Film di ricerca che ricostruiscono
momenti drammatici della storia della montagna, come Grimpeurs di
Andrea Federico, che raccontala
tragedia del Pilone Centrale del
Freney sul Monte Bianco, o Valley
Uprising, documentario ambientato
tra le pareti delle cime della Yosemite Valley, sull’arrampicata come
strumento di libertà quasi beat.
Fondazione Cineteca Italiana presenta poi una rarità, Tra le nevi eterne del 1925, 20 minuti di film muto, sull'escursione di alcuni alpinisti
nella zona del monte Ost fino alla
valle del Reno, passando rifugi
d’alta quota e cime mozzafiato.
E ancora un omaggio originale di
Folco Quilici nell’anno del centenario dell’anniversario della I Guerra
Mondiale, Animali nella Grande
Guerra, dedicato alle sorti spesso
crudeli degli animali negli scontri
militari.
Occasione anche per poter rivedere
L’ultimo lupo di Jean-Jacques Annaud, straordinario e spettacolare
racconto girato in Mongolia, del
rapporto tra un insegnante nella Cina contadina e un cucciolo di lupo
da lui salvato dal massacro della
specie ordinato dal governo.
Adele H.
MODALITÀ D’INGRESSO: Biglietto
d’ingresso: intero € 7,00 Biglietto
d’ingresso ridotto per possessori di
Cinetessera, possessori di tessera
CAI e studenti universitari: € 5,50
Proiezione pomeridiana feriale: intero € 5,50, ridotto per possessori di
Cinetessera o studenti universitari €
3,50. Cinetessera annuale: € 6,00,
valida anche per le proiezioni al MIC
– Museo Interattivo del Cinema - e
all’ Area Metropolis 2.0 – Paderno
Dugnano.
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IL FOTO RACCONTO DI URBAN FILE
foto Bas Princen
FONDAZIONE PRADA: RIGENERAZIONE A MILANO
http://blog.urbanfile.org/2015/05/11/zona-vigentino-la-fondazione-prada/
MILANO È. 10 CLIP PER 10 STORIE
LA STORIA DELLO CHEF CESARE BATTISTI
https://youtu.be/b_gd5Pzkozo
n. 18 VII - 13 maggio 2015
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