numero 18 anno VII – 13 maggio 2015
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numero 18 anno VII – 13 maggio 2015
www.arcipelagomilano.org numero 18 anno VII – 13 maggio 2015 edizione stampabile www.arcipelagomilano.org LE AREE EXPO NON SONO UNA MARGHERITA DA SFOGLIARE Luca Beltrami Gadola L’ultimo intervento sul Corriere della Sera di lunedì scorso riguardo al futuro destino delle aree di Expo è quello Giovanni Azzone e Alessandro Balducci, rispettivamente rettore e prorettore del Politecnico di Milano. Immagino che con loro non si chiuderà la serie delle proposte e forse, proprio per questo, sono opportune alcune riflessioni sul modo di procedere nel prendere decisioni di questa portata anche da parte del Governo, le cui scelte dovranno comunque avere una solida base metodologica per essere credibili anche ad evitare estemporanee uscite del di Maroni che non ha ancora capito che il semplice possesso maggioritario di un’area (pubblica) non te ne fa il dominus assoluto. Una prima riflessione riguarda un fatto emblematico: l’Avviso di manifestazione d’interesse finalizzata all’affidamento dell’incarico di sviluppo di metodologie di analisi e valutazione delle potenzialità del sito expo post evento, avviso col quale Arexpo invita i soggetti interessati a candidarsi per offrirle indicazioni e suggerimenti sul destino delle aree rispetto alle quali non sembra nutrire alcun pensiero autonomo. Nell’Avviso, di conseguenza, pur dilungandosi come sempre nelle procedure del genere in precisazioni e definizioni sul chi e sul come si possa partecipare al bando, non dà invece alcuna indicazione sullo stato di fatto delle aree al momento della loro nuova utilizzazione, non solo ma non indica in alcun modo quale sarà lo stato giuridico delle stesse visto che la società Arexpo ha parecchi debiti generati dall’acquisto delle aree: questo normalmente comporta una qualche garanzia offerta ai creditori, magari con un privilegio sulle aree o una garanzia di terzi alla quale far fronte, garanzia che avrà termini e condizioni. Non si sfiora nemmeno il problema dei padiglioni che resteranno sull’area, quali e con che logica in mo- do che chiunque faccia una proposta non possa ignorare quest’aspetto, come non possa ignorare cosa resterà delle infrastrutture fisiche, di sottoservizi e informatiche delle quali è stato dotato il sito ma soprattutto chi deciderà in merito, viste anche le regole dettate dal BIE. Su Arexpo come decisore finale della partita poi, ancorché proprietario delle aree, nutro forti dubbi perché le sue scelte sono assolutamente vincolate a quelle di altri soggetti istituzionali e la decisione di pubblicare l’Avviso, del quale abbiamo accennato all’inizio, sembra principalmente dettata dal desiderio di prendere tempo oltre che una manifestazione di inesistenza di visione che comunque porta a delegare ad altri le proprie scelte. Siamo di fronte alla classica strategia di chi non sa decidere, anche se sarebbe invece suo compito il farlo. Una perplessità poi ancora maggiore nasce dalle dichiarazioni di Maurizio Martina, Ministro delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, con delega ad Expo, quando anche recentemente ribadisce il suo pensiero: “Valuteremo se partecipare al capitale della società Arexpo, magari con un intervento della Cassa depositi e Prestiti, quando conosceremo le proposte in merito alla destinazione delle aree”. Ritengo che la delega a Expo si limiti alla gestione dell’evento e non certo al successivo destino delle aree, anche se qualche traccia del passaggio di Expo e del suo tema possa restare, magari sotto forma di centro di ricerca e sperimentazione agricola. Une destinazione assolutamente marginale rispetto al tutto. Allora chi deve decidere e di concerto con chi? Probabilmente il Ministero dello Sviluppo Economico (MiSE) con il Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca (MIUR). Questi, politicamente, sono i dicasteri che dovrebbero avere competenze sul destino delle aree e sugli investimenti necessari a una qualsivoglia loro utilizzazione a meno che non si lasci decidere il tutto a livello regionale o, scendendo, al livello di città metropolitana ma sarebbe estremamente riduttivo perché questa è un’operazione che riguarda la politica economica del Paese. A qualunque livello ci si riferisca, vanno tenuti ben presenti due obbiettivi di grande rilievo e di assoluta attualità: il problema della disoccupazione, in particolare quella giovanile, e la necessità di muoversi in un contesto europeo. Nel primo caso - la disoccupazione non possiamo avviare progetti che diano risultati troppo lontani nel tempo perché il problema non ammette più tempi di attesa, anche se quest’accelerazione dovesse obbligare a scelte di portata più modesta. Nel secondo caso il contesto europeo ci obbliga a navigare nello stesso fiume (Ricerca & Sviluppo) del resto dei paesi europei e confrontandoci con loro per non subire l’ennesima emarginazione. Per finire, qualunque decisione si prenda, deve confrontarsi con il territorio e le sue istituzioni, Regione e Città metropolitana: nessuna scelta può essere fatta senza un’ampia discussione e condivisione da parte dei cittadini. Il pensiero, al di là dell’utopia, sarebbe di poter vedere al più preso tracciata una road map che, partendo inesorabilmente da gravi errori iniziali - la scelta di quelle aree per l’Expo fatta dal duo Moratti Formigoni - ci porti a un loro utilizzo utile per il Paese e per le collettività locali: la definizione di un percorso critico tra poteri decisionali, competenze, vincoli legislativi, investimenti pubblici e privati nei quali tutti gli attori abbiano compiti ben definiti con le relative responsabilità - e tempi di attuazione ragionevolmente certi e controllabili cammin facendo. Non si tratta di sfogliare una margherita come si è fatto sinora. LA CARTA DI MILANO E I SUOI CRITICI Salvatore Veca L’eloquente articolo di Marco Ponti sulla Carta di Milano merita un’attenta considerazione. Ponti è convinto che le questioni e le indicazioni contenute nella Carta siano irrilevanti e che le uniche questioni rilevanti siano quelle assenti. n. 18 VII - 13 maggio 2015 L’irrilevanza dei contenuti della Carta è esemplificata, secondo Ponti, dalla natura lapalissiana dei suoi enunciati, a partire dall’assunzione relativa al diritto al cibo inteso come diritto umano fondamentale. Sono convinto che l’assunzione relativa al diritto al cibo sia sfortunatamente ben lungi dall’essere lapalissiana e mi auguro che il difficile lavoro in cui è impegnata Livia Pomodoro con il suo Centro per il diritto al cibo consegua i risultati normativi auspicati in sede internazionale. Asserire o 2 www.arcipelagomilano.org ascrivere un diritto non equivale a renderlo esigibile in modo cogente. Ma non è di questo che mi interessa discutere a proposito delle tesi di Marco Ponti sull’irrilevanza dei contenuti della Carta. Vorrei difendere la rilevanza della Carta proprio muovendo dall’ipotesi che i suoi contenuti siano lapalissiani. Mostrerò in che senso Jacques de la Palice non è vissuto invano. La Carta di Milano è l’esito di un processo di elaborazione, cui hanno partecipato un gran numero di istituzioni, centri e agenzie, che ha avuto come scopo principale quello di predisporre un documento di cittadinanza globale che prevede e chiede assunzioni di responsabilità nei confronti del tema di Expo 2015, “Nutrire il pianeta. Energia per la vita”. È una proposta rivolta ai cittadini e alle cittadine del mondo che possono sottoscriverla esercitando la voice, per dirla con Albert Hirschman. Non è un protocollo intergovernativo, né un’agenda di policies. Questo rende conto del fatto elementare che mancano nella Carta “quantificazioni” o “priorità”, come osserva Ponti. E rende anche conto del fatto che espressioni come “difesa del suolo”, “ difesa del reddito degli agricoltori” e “uso di fonti energetiche pulite” siano inevitabilmente vaghe ed esposte a interpretazioni controverse, come sottolinea Ponti (solo il suo riferimento ironico ai pescatori che distruggono la fauna ittica è infelice, dato che nella Carta è lapalissianamente definito inaccettabile che “più del 30% del pescato soggetto al commercio sia sfruttato oltre la sua capacità di rigenerazione”). In parole povere, la Carta mira a mettere a fuoco le nostre responsabilità elementari per delineare un futuro sostenibile e più equo. Ecco perché il nostro Jacques de la Palice è all’opera: proprio perché proposte e misure e provvedimenti alternativi siano messi al centro della discussione pubblica e del confronto globale delle idee e delle pratiche. Marco Ponti ce ne dà un ottimo esempio nella sua risoluta critica dell’agricoltura tradizionale e nella sua difesa, senza se e senza ma, degli OGM. Ma ciò è sorprendentemente una prova della rilevanza della Carta. Rilevante è ciò che ha qualche effetto in un contesto dato. E si ha effetto di contesto, e quindi rilevanza, quando in un contesto si dà interazione fra vecchia e nuova informazione e ciò produce un effetto moltiplicatore di conoscenze e prospettive. Conoscenze e prospettive dissonanti e differenti, anche confliggenti, com’è naturale quando siamo di fronte a sfide e dilemmi tanto ineludibili quanto difficili e quando siano in gioco questioni che attraversano i confini, assumendo profili di- versi in contesti diversi, come lo stesso Ponti riconosce e come mostrano - inter alia - gli esiti dei quattro percorsi di ricerca di Laboratorio Expo, cui sono molto affezionato. L’idea base della Carta si può formulare allora così: muoviamo da assunzioni deboli e condivise per includere e non escludere ex ante, e per aprire lo spazio alla critica, all’innovazione, alle visioni e alle pratiche alternative. Con una precisazione: nella sua versione attuale la Carta è corredata da una vasta gamma di allegati. Si tratta dei rapporti, degli esiti di ricerca e dei contributi che ne hanno accompagnato il percorso sino alla sua presentazione pubblica il 28 aprile scorso all’Università degli Studi di Milano. Ora, durante tutto il semestre di Expo, la Carta è aperta a nuovi contributi, a nuove proposte, a ulteriori approfondimenti. Ed è in questa nuova veste che la Carta di Milano sarà consegnata in ottobre al segretario generale delle Nazioni Unite. Come dire: ce n’est qu’un début. E questa è la mia modesta proposta, non sorprendentemente lapalissiana: che contributi del tipo di quello abbozzato nell’articolo di Marco Ponti aggiungano un bel po’ di tessere al mosaico di un futuro sostenibile, al cui centro vi sia il diritto umano fondamentale al cibo per chiunque, ovunque. Nella gran città del genere umano. UN LAVORO COMUNE DOPO IL NO DEFINITIVO DI PISAPIA Carlo Alberto Rinolfi L’articolo di Giuseppe Longhi invita riflettere su come realizzare un nuovo modello di leadership e propone quattro sfide tra le quali c’è anche quella di “Accettare che i cittadini abbiano identità e prospettive molto frammentate, e che solo una minoranza sia coinvolta nei processi politici, in quanto è diminuita la coscienza di classe, e con essa il baluardo della politica di massa ...”. Il tema è delicato anche perché l'identità delle classi non è mai stata del tutto scontata. Anche negli anni in cui il conflitto sociale era più forte, l’identificazione in una visione del mondo in cui la propria classe potesse migliorare richiedeva continui risultati in termini di maggior reddito e sicurezza. Di qui passava il legame che univa i lavoratori alla propria formazione politica. Anche gli operai e gli impiegati più sindacalizzati guardavano sempre di buon occhio i vantaggi del mercato ed era l’esperienza collettiva del confronto n. 18 VII - 13 maggio 2015 sindacale a cementare la solidarietà necessaria per il cosiddetto “spirito di classe”. La società dei consumi si è diffusa anche grazie ai risultati ottenuti e quell’epoca di sviluppo economico, democratico e sociale è definitivamente terminata. Con la sua fine si sono inaridite anche le fonti ideologiche che fondavano i vecchi partiti. Nuove forme di aggregazione sono nate catalizzate da leader che di volta in volta hanno colto uno specifico bisogno di cambiamento più sentito dai cittadini che dai vecchi partiti nazionali. Più valore ai territori, più libertà per l’attività privata autonoma, più contrasto al rischio di fallimento dello Stato, meno corruzione e sprechi, più trasparenza degli enti pubblici, sono condizioni di sopravvivenza di sistema e non implicano particolari visioni del mondo di carattere ideologico. L’importanza dei tradizionali partiti nazionali è crollata, i votanti si sono ridotti quasi della metà mentre la funzione degli apparati politici è stata demolita dalla forza innovativa della televisione e di internet. La caduta del muro di Berlino e il nuovo assetto internazionale hanno ridotto drasticamente l’importanza di Roma e del mediterraneo mentre l’Europa stenta ancora a decollare. In questo contesto anche in Italia “… è diminuita la coscienza di classe, e con essa il baluardo della politica di massa ...”. Non a caso l’articolo citato fa riferimento sempre al binomio” città - cittadini” e non a “fabbrica - lavoratori”. Quasi a sottolineare che la città metropolitana è divenuta il nuovo sistema di produzione e consumo in cui la linea che separa i cittadini dalle élite divide l’asse del consumo di beni e opportunità, tra chi ne ha di meno e chi ne ha di più. Per tutti il benessere di tutti gli attori però diventa sempre più importante il modo in cui è gestito il capitale 3 www.arcipelagomilano.org comune della città le sue risorse attuali e potenziali. È da quel capitale che dipendono molte delle loro opportunità. L’attenzione va dunque sulle politiche amministrative gestite dalla burocrazia municipale e orientate dalle forze politiche locali in un’ottica funzionale a una crescente competizione metropolitana internazionale. Un’ottica totalmente differente dalla pura amministrazione del suolo pubblico e della sicurezza urbana che pure rimangono precondizioni essenziali. Con la trasformazione della città ne esce potenziato il ruolo del primo cittadino la cui leadership non può più essere in alcun modo voce di ”parte” né tantomeno condizionata da apparati politici non autoctoni. Questo tipo di leader non si avvale di un’ideologia oppositiva né di un’ottica centrata sulla dimensione nazionale. Deve essere per forza il leader di tutti gli abitanti e instaurare con loro un rapporto diretto se vuole mediare al meglio le spinte delle élite e dei gruppi di pressione locali e internazionali . Ne deriva una leadership a cavallo tra la frammentazione necessaria per connettersi alle varietà delle posizioni locali dei cittadini e un agire strategico che sviluppa il livello competitivo del sistema città. Il sindaco ideale è il “figlio” che più riesce a interpretare la città e a spingerla nella giusta direzione in un mondo che sta correndo. Per svolgere un compito simile occorre però disporre di uno staff compatto e capace di superare le inevitabili resistenze degli apparati burocratici amministrativi e politici. Uno staff che ripropone in forma nuova la forma organizzata di partito. Come fare, se il cemento dell’ ideologia è sparito dai magazzini? Non di un’ideologia ma di un comune sentire c'è bisogno comunque per qualsiasi comunità cittadina che non desideri il suo declino o la sua spaccatura. Il fuoco dell’attenzione va posto dunque sui tratti della genialità e sensibilità civica che distingue Milano dal resto delle metropoli italiane, europee e mondiali. Nel nostro caso si tratta di definire lo spirito più coerente con il carattere di macro impresa meneghina aperta di livello internazionale. Che questo spirito esista da sempre è evidente e l’affermazione di Giuliano Pisapia ne è stata il fenomeno recente più evidente. L’aggregazione “arancione” che l’ha scelto è la stessa che ha riconquistato la Darsena e serenamente camminato con “Nessuno tocchi Milano“, un’aggregazione che va oltre gli schieramenti partitici nazionali anche nella loro più recente versione. Occorre dunque considerare seriamente Franco D’Alfonso quando ci parla di un “partito municipalista ambrosiano ”che le dimissioni annunciate dal Sindaco sembrano rendere indispensabile”. Imparare a camminare in questo nuovo contesto senza una leadership catalizzatrice come l’attuale non sarà impresa facile. Dopo il no definitivo del sindaco, possiamo incominciare a dichiararci disponibili per affrontare questo tema. In attesa che il dibattito si sviluppi ci auguriamo che una start up di giovani inventori riesca a clonare i tratti migliori del buon Pisapia, se poi la nuova release avesse qualche freccia in più al suo arco, sarebbe l’ideale. TRE MAGGIO: LA PRIMAVERA NO TAG DELLA GIUNTA PISAPIA? Paolo Hutter Cosa sta succedendo a Milano? La primavera No Tag della Giunta Pisapia? I danni provocati dai black block anti-Expo non sono senza precedenti, anzi sono stati relativamente modesti se paragonati con quanto accade in occasioni analoghe in altre città, non ultima Francoforte. La cosa veramente originale, singolare - ovvero senza, che io sappia, precedenti analoghi - è stata la manifestazione di protesta contro i danni del black block con ben 20 mila partecipanti: “Nessuno tocchi Milano”. Anche fossero stati la metà, ripensandoci continuo a stupirmi. A fronte di meno di 100 tra auto e vetrine distrutte. Il successo di questa manifestazione è stato determinato da un mix di ingredienti che meritano un'analisi differenziata. Innanzitutto c'è stato un bombardamento o meglio un gioco di rimbalzo tra social media, web, tv e mondo politico che hanno fatto a gara a ingigantire la gravità di quello che stava succedendo e a esasperare i toni. Se si faceva notare che non solo non era la strage d Charlie Hebdo, ma neanche un episodio paragonabile agli anni '70 si rischiava di esser presi per giustificazionisti. n. 18 VII - 13 maggio 2015 Ci è toccato difendere la saggezza della polizia dagli strali di un visceralismo che evocava anche da sinistra cariche botte o peggio. Lo ricordo ora, a distanza, perché l'opinione pubblica di questa città dovrebbe essere consapevole che nessuna polizia in nessuna metropoli occidentale può metterci del tutto al riparo da un gruppo di kamikaze assassini né tantomeno da un gruppo di sfascia vetrine. Capiterà ancora. Mantenere sempre il senso delle proporzioni è un antidoto essenziale per evitare il delirio del panico, della reazione autoritaria. La singolare manifestazione del 3 maggio comunque non ci sarebbe stata, o non avrebbe avuto successo senza l’abile mossa creativa di chi a Palazzo Marino l'ha inventata e accortamente l'ha collegata all'idea che occorresse "pulire Milano" con l'aiuto dei cittadini. Non si è parlato subito di corteo, si è evitato di politicizzare apertamente l'appuntamento, si è evitato un corteo che gridasse "vendetta", si è puntato sulla virtù civica del pulire (i muri). Il riferimento alla pulizia è stato molto più metaforico che reale, perché poco preparato tecnicamente, e alcuni manifestanti credevano davve- ro che si potessero pulire le tag col Cif. Ma ha funzionato e ha valorizzato ed esaltato - credo per la prima volta così tanto nella storia di una città italiana - il mondo dell'antigraffitismo militante e/o professionale , appunto i No Tag. Che sul loro sito spiegano come vi siano almeno 8 modi diversi di pulire o coprire le scritte sui muri, a seconda di dove sono state fatte. Mentre il Nucleo specializzato del Comune raccomanda di non improvvisarsi pulitori e l'Amsa rivendica la superiorità del suo servizio dedicato. Per capire il successo del "Nessuno tocchi Milano", che non a caso si è concluso in Darsena, occorre tener presente il successo dell’operazione Darsena stessa, "liberata il 26 aprile" con una grande festa nazional popolare e un forte orgoglio di governo (come se solo la Giunta Pisapia avrebbe voluto e potuto "restituire la Darsena ai cittadini".) La terza tappa di questo momento felice del rapporto tra la Giunta e "la città" potrebbe essere il weekend prossimo di "Prendiamoci cura della città", dedicato ad attività No Tag. Mossa felice anche questa perché dribbla in anticipo un eventuale mugugno sul Comune che non fa "ab- 4 www.arcipelagomilano.org bastanza per pulire i muri" e riduce, si spera, gli ingenti costi pubblici previsti per l'operazione. É quanto meno curioso che la riscossa dell’identità politico amministrativa popolare della Giunta Pisapia si giochi sull'inaugurazione di opere avviate dalla Moratti come la Darsena e la MM 5 e sul movimento No Tag, temi assenti o quasi dal pro- gramma del 2011 perché giudicati poco caratterizzanti. Mentre una iniziativa popolare ma un pochino più di parte ed ecologista come le domeniche a spasso sia stata lasciata del tutto cadere. Sta succedendo forse alla Giunta di Milano qualcosa di simile al Pd di Renzi, ovvero tanto successo ma con un pubblico diverso da quello iniziale? Intendiamoci, l'esaltazione di un nuovo spazio pedonale a bordo acqua e la voglia di cancellare le scritte dai muri non sono di per sé un tradimento di princìpi più validi. Si tratta però di capire se e quanto questo trend di successo di #BellaMilano sia in grado di ricomprendere le aspirazioni ecologiche, sociali, urbanistiche più avanzate e di promuovere un dibattito più impegnato e consapevole sulla città. TRA MILANO E PD: UN RACCONTO DI “SINTONIA” Anna Scavuzzo Ripercorrere i passaggi importanti dell’esperienza amministrativa milanese degli ultimi cinque anni dà grande soddisfazione: stiamo vivendo una stagione entusiasmante, estremamente faticosa, ma entusiasmante. Molti prima di me si sono prodigati nell’elencare i successi e i passi avanti che Milano ha saputo compiere fino ad arrivare alla grande inaugurazione di Expo del 1 maggio. Guardo la mia generazione: se andiamo a rileggere in chiave critica come eravamo, alla luce anche di ciò che oggi siamo diventati ci accorgiamo di quanto siamo cambiati. Abbiamo sperimentato che cosa significhi fare politica da protagonisti con onestà e passione civile. Conosciamo il peso e la fatica dell’ascoltare per poi progettare, valutare e decidere. Abbiamo portato il peso della responsabilità, l’importanza dell’essere presenti, la possibilità di fare la differenza. Abbiamo attraversato questa stagione di governo e ne siamo usciti temprati, liberati da un velleitarismo che poco si addice a chi non si ferma alla parola, ma ha la responsabilità dell’azione. Di questa scossa il centrosinistra aveva bisogno, questo Milano ci ha chiesto. E Giuliano Pisapia è stato l’interprete dell’incontro fra Milano e un centrosinistra che ha voluto uscire dalle retrovie della contestazione per fare un passo avanti. I cittadini ci hanno dato fiducia e ciascuno di noi si è impegnato a interpretare il proprio ruolo con questa prospettiva. Non senza errori, non sempre con una visione d’insieme ambiziosa e audace, certamente con ampi margini di miglioramento: ma finalmente con la consapevolezza di essere forza politica che ha il coraggio di muoversi in uno scenario non facile, in modo responsabile, credibile, autorevole. Quel socialismo municipale a cui tanto ci siamo richiamati in questi anni, finalmente è tornato ad avere n. 18 VII - 13 maggio 2015 interpreti e attori. A noi il compito di proseguire un percorso appena iniziato, impegnandoci nel formare una nuova classe dirigente capace di consolidare quanto abbiamo cominciato a fare in questi anni. La rivoluzione arancione del 2011 ha anticipato il vento di cambiamento che di lì a qualche tempo avrebbe attraversato il nostro Paese. Non si ferma il vento con le mani. E come spesso accade, Milano lo ha avvertito in anticipo e si è data da fare per interpretarlo e prepararsi a proseguire il cammino insieme a tutto il Paese. Il centrosinistra aveva bisogno di uscire da quei rigidi steccati in cui i dissidi interni l’avevano rinchiuso, da quell’autismo politico che lo aveva reso incapace di essere con la gente e fra la gente, da quella autoreferenzialità che rende asfittici i progetti, meschine le ambizioni, inadeguati al ruolo molti degli attori. Guardare alla città e non alle tessere, guardare al Paese e non alle correnti o ai propri interessi, guardare al futuro in modo coraggioso e ambizioso per portare l’Italia fuori da una palude politica che diventa stasi economica, sociale e culturale: questa, a mio avviso, la riforma più importante. Anzi, una rivoluzione copernicana del punto di vista e della percezione di sé. E il Partito Democratico ha avuto un ruolo fondamentale, a livello politico e a livello istituzionale, nell’aprire una stagione riformista che non si ferma di fronte alla retorica, che non retrocede di fronte ai ricatti, che non si annacqua nel consociativismo che impedisce qualsiasi vera riforma. Le elezioni europee del 2014 raccontano una Milano che chiede al Partito Democratico di questo Paese - oltre che a quello cittadino - di essere all’altezza della sfida europea, e di fatto gli affida il compito di misurarsi con la responsabilità di governo, esprimendo la volontà di rimettere in moto l’Italia - e Milano - con determinazione ed energia. Che sia finalmente #lavoltabuona. Milano è per vocazione inserita in quel virtuoso tessuto connettivo che la rende snodo cruciale per l’economia e per la cultura, per l’innovazione politica e la sperimentazione sociale. E quindi Milano guarda con grande attenzione la stagione delle riforme che sta attraversando il nostro Paese. Milano o è riformista o non è Milano, abbiamo avuto occasione di ripetercelo più e più volte, consapevoli del fatto che non si può avere un vero e profondo cambiamento se i cittadini non ne fanno parte. La straordinaria risposta all’iniziativa #nessunotocchimilano è figlia di questa consapevolezza: nelle ore che sono seguite agli incidenti del 1 maggio in tanti ci siamo chiesti non se, ma come Milano avrebbe potuto rispondere a ciò che era accaduto. Decine e decine le sollecitazioni che arrivavano a ciascuno di noi: che cosa fare? È in questo contesto che nasce #nessunotocchimilano. Solo qualche giorno prima, il 25 aprile, abbiamo ricordato i Quindici Martiri a Piazzale Loreto: credo che la domenica successiva ci fosse in piazza quella stessa Milano che oggi come allora - non si piega alla violenza e alla barbarie, ma sa rialzarsi e ricominciare, ricordare e impegnarsi, affermare ciò che si è mettendosi al lavoro in prima persona. Non mi interessa la polemica sulla paternità - o maternità! - dell’iniziativa. È stata un’ottima idea, ha interpretato correttamente il bisogno di rivalsa nonviolenta e attiva che i milanesi chiedevano: siamo finalmente riusciti a essere in sintonia con la città, questo a mio avviso il dato politico più importante. E la città ha risposto con tutto l’entusiasmo e la partecipazione di chi si sente ascoltata e compresa. Non sono più i tempi in cui si gridava allo scandalo perché la stazione Leopolda non esondava di bandiere 5 www.arcipelagomilano.org e simboli di partito. Quella domenica non era il caso di scendere in piazza con le bandiere, semplicemente perché non servivano. Abbiamo scelto di sfilare per la città senza alcun segno distintivo, senza bisogno di marcare la differenza. Milanesi e democratici, siamo stati persone fra le persone, società civile ed esponenti dei partiti finalmente insieme: non abbiamo avuto bi- sogno di dividerci, distinguerci e chiuderci ciascuno nei propri confini. Abbiamo tutti aperto le porte. E allo stesso tempo ci siamo sentiti più forti, più uniti, capaci di metterci tutti insieme al servizio della nostra città in modo efficace e discreto. Questo è il Partito Democratico che stiamo costruendo: disponibile al dialogo con le altre forze politiche, aperto al contributo di quelle forze socialiste e riformiste che per troppo tempo sono rimaste orfane nella nostra città, capace di interpretare i bisogni dei cittadini e di meritare la loro fiducia. Questo è il Partito Democratico che guarda al futuro di Milano Metropolitana e che si prepara a raccogliere tutte le forze che serviranno a riportare il centrosinistra a vincere nel 2016. TRA PD E PISAPIA: “NESSUNO TOCCHI MILANO”, RIFLESSIONE Sergio Vicario Sul perché del successo della manifestazione “Nessuno tocchi Milano” si confrontano due letture, a mio avviso entrambe limitate e, dunque, fuorvianti. La prima è quella secondo cui il segno dominante della straordinaria risposta popolare sia da ascriversi all’accumulo di credibilità conquistato dalla Giunta sobria e onesta, guidata da Giuliano Pisapia, nei suoi quattro anni di governo della città. La seconda, invece, ne attribuisce il merito alla riconquistata credibilità del PD e alla sua capacità organizzativa. Come sempre in ogni racconto di un determinato avvenimento, senza scomodare Luigi Pirandello e Naguib Mahfouz, ci sono pezzi di verità, sicuramente sinceri ma, appunto, parziali. Entrambe hanno una loro logica, però solo in rapporto al posizionamento in vista delle elezioni comunali del 2016, e rischiano, se si cristallizzano, di portare il centrosinistra a sbattere. Sostenere, di fatto, che la manifestazione non sia stata altro che la conseguenza del riemergere carsico del grande movimento che aveva portato Giuliano Pisapia prima a vincere le primarie e poi la sfida con Letizia Moratti, è sicuramente utile per la propaganda nel breve periodo ma pericoloso in prospettiva perché quel movimento, per tante ragioni, è purtroppo vissuto solo per una campagna elettorale. Altrettanto pericoloso è, però, il tentativo di cercare di avvalorare l’idea di un’autosufficienza nel rapporto con la città che il PD, a partire dalle diverse sigle che lo hanno figliato, non ha mai avuto. E che non ha neppure l’attuale PD milanese a trazione renziana. Sono stato e sono tuttora un convinto, ma non cieco, sostenitore di Matteo Renzi. Nelle prime primarie che perse con Bersani andai a fare il rappresentante di seggio a Paderno Dugnano perché lì allora non s’era trovato un rappresentante renziano. Detto questo, non sono iscritto al PD perché fatico tuttora a comprendere quale sia il tasso di renzismo del PD milanese che, mi sembra, non abbia ancora capito che Milano, per struttura sociale, ruolo economico e tradizione politica, non è riconducibile aprioristicamente “all’ordine” romano. Di Renzi si possono e si devono discutere le scelte, ma è difficile metterne in discussione il carattere innovativo. Il PD milanese, al contrario, a partire dai problemi di Milano e della sua area metropolitana e dalle opportunità che vi si presentano, non ha, finora, avanzato proposte adeguate, per non entrare in fibrillazione con le scelte politiche nazionali del Governo e del partito. I contenuti programmatici che avevano accompagnato l’istituzione della Città metropolitana e l’assenza di un pensiero sul dopo Expo sono lì, impietosamente, a dimostrarlo. In questo, a onor del vero, in compagnia del movimento civico rappresentato in Giunta che, scavando in silenzio come la talpa di marxiana memoria, avrebbe scatenato la mobilitazione del 3 Maggio. A innescare quella risposta, in realtà, avevano contribuito molto di più i comportamenti spontanei del giorno prima da parte di tantissime persone rimaste danneggiate dalle devastazioni cri- minali del 1° maggio che, senza attendere aiuti e rimborsi, si erano rimboccate le maniche dandosi da fare per ripristinare il ripristinabile. Un segnale che, nell’occasione, è stato capito e raccolto con prontezza dal Sindaco Pisapia e dal PD milanese, ma che avrebbe bisogno di una riflessione cultural-politica non casuale e di prospettiva. L’incapacità di far leva sulla grande disponibilità e responsabilità civica dei milanesi e, più in generale, dei lombardi, per contribuire a dare risposte a molti problemi e bisogni, piuttosto che pensare di risolverli entrando nella stanza dei bottoni, è sicuramente il deficit cultural-politico più grande che accomuna da sempre la sinistra nelle sue diverse articolazioni. Milano e la sua area metropolitana, per tornare a svolgere appieno il ruolo di locomotiva del Paese, hanno bisogno di una forte iniezione di sussidiarietà e di federalismo nell’organizzazione della vita pubblica, ridando dignità strategica a valori diffusi ma sperperati dalle cattive prassi cielline e leghiste. Dal loro concreto rilancio politico dipenderanno, in buona misura, l’individuazione del candidato sindaco di centrosinistra e l’esito vittorioso della sfida del 2016, anche grazie a un po’ di sana concorrenza tra alleati, consapevoli però che nessuno da solo ce la può fare. Fortunatamente non si parte da zero. Ma alle condizioni necessarie bisogna far seguire quelle sufficienti per rivincere. E chi avrà più filo da tessere, tesserà. RESTITUIRE SIGNIFICATO AL PERCHÉ DELLA TASSAZIONE IMMOBILIARE Giuseppe Bonomi Numerosi e fantasiosi sono gli acronimi di nuove tasse, o forse di vecchie tasse con nomi nuovi, che si sono affollate, dettate dalle esigen- n. 18 VII - 13 maggio 2015 ze di gettito, e spiegate in maniera sommaria: IMU, ICI, ISI, TARSU, TARI, certo ne sfugge qualcuna; e attualmente si parla di Local Tax come occasione di maggiore trasparenza fiscale, ma è forte il timore che possa essere soltanto “una bella rimescolata di carte utile per con- 6 www.arcipelagomilano.org fondere le acque” (Achille Colombo Clerici, presidente di Assoedilizia), preludio di un nuovo aggravio fiscale. Cresce l’incomprensibilità del sistema impositivo, forse perché è venuta meno la correlazione chiara tra il significato delle parole usate nelle norme fiscali e il contenuto dei provvedimenti stessi. Ciò appare dovuto a una serie di motivi concomitanti quali un impianto normativo basato su presupposti sorpassati in una realtà in profondo rinnovamento (es. le rendite catastali), al ricorso a logiche di emergenza, a una certa improvvisazione e confusione normativa forse voluta per nascondere la crescita della pressione fiscale sottraendo amministratori e politici all’onere di rendere conto delle scelte. Sarebbe quindi urgente la cosiddetta “revisione del presupposto impositivo”, e il varo della “local tax” potrebbe essere un buon passo in direzione della trasparenza se i legislatori a livello centrale e locale (la tassazione è prevalentemente centrale, le tariffe sono locali) si impegnassero a spiegare bene il perché della tassazione separandolo dal quanto e dal come. Si può provare una schematizzazione del perché del carico fiscale sugli immobili (senza la presunzione di essere esperti della materia) pensando che esso sia connesso a possesso, uso e costruzione. La tassazione di un immobile posseduto può essere sul valore o sul reddito, ed è possibile sostenere che quella sul valore, tipicamente di tipo patrimoniale, sia il criterio contributivo più trasparente e coerente con il principio di proporzionalità della tassazione (art. 53 della Costituzione) oltre che quello più diffuso nei paesi evoluti; anche l’imposta di registro ha una funzione di tassazione del valore e quindi del patrimonio, ma questo tipo di tassazione, attraverso il famigerato reddito catastale (che peraltro speriamo di non dover rimpiangere nei prossimi anni) ha effetti impropri e iniqui proprio nella definizione del quanto. La tassazione sull’uso è quella che forse disorienta e irrita di più i contribuenti, e ciò è probabilmente dovuto all’abitudine di usufruire di ser- vizi sostanzialmente a carico degli Enti Locali (es. i trasporti), in buona parte coperti da trasferimenti dello Stato e attinti dalla tassazione generale riscossa, in una partita di giro. Ora, vuoi per la scelta politica del decentramento, vuoi per sopravvenute vacche magre, i contribuenti sono messi di fronte a un impennata della tassazione locale che in buona misura è funzione dell’uso. Ma il risultato non appare affatto a parità di saldo, e forte è il sospetto che nell’impennata della tassazione sull’uso si cerchi nascondere componente - impropria e iniqua - sul possesso, forse proprio grazie all’opacità del suo perché. Grazie alla TARSU (e ai conteggi che tutti abbiamo fatto su quote condominiali, vicini single o famiglie numerose, etc.) abbiamo cominciato a conoscere la tariffazione dei servizi, ma continua a esserci una zona grigia di generici costi indivisibili (es. l’illuminazione stradale, la manutenzione del verde etc.) che alimenta il sospetto all’interno si nascondano spese di gestione dell’apparato burocratico, investimenti e migliorie, o altre voci improprie, rendendo così impossibile valutare l’efficienza, l’efficacia e la correttezza dell’azione amministrativa. Discorso a parte quello dell’IVA, che per la sua natura è una sorta di “extraover” neutro e rientra nella categoria del quanto. Un capitolo più specialistico (perché non impatta direttamente sul cittadino) è quello sulla tassazione sui lavori di costruzione/ristrutturazione. Oggi sopravvivono oneri di urbanizzazione (primaria, secondaria, straordinaria) e contributi sul costo di costruzione secondo una logica nata negli anni sessanta a contenimento delle dinamiche di ricostruzione post-bellica. Nel frattempo è cambiato tutto: non si urbanizzano più aree verdi, il focus è sulla trasformazione dell’esistente. Non ha più senso mantenere come riferimento determinati metri cubi a persona insediata che generano metri quadrati di parcheggi e verde, di asili e ambulatori; anche i costi di costruzione sono oggi strutturalmente diversi, e molti costi hanno valenze sociali e ambientali (tra l’altro oggetto di decontribuzioni o di sovvenzioni che danno dopo aver tolto o viceversa). Quanto sia inadeguato (e fuorviante) tale impianto lo provano le norme permissive e portatrici di confusione amministrativa che consentono alle stesse Amministrazioni Locali di deviare il 50% o addirittura il 75% di tali proventi a copertura della spesa corrente, cancellando così qualsiasi collegamento logico con il loro perché. La sostituzione del nome potrebbe essere uno stimolo concettuale: invece di oneri di urbanizzazione si potrebbe ricorrere al concetto di contributo di trasformazione, da cui poi derivare un metodo: il territorio oggi non viene più urbanizzato ma trasformato, e i processi di trasformazione sono molto più ricchi e sfaccettati, con impatti diversissimi (in alcuni casi possono essere addirittura “creditori” di contributi). Sistematizzando il concetto di trasformazione urbana si può quindi associare al tipo di trasformazione un coerente e proporzionato carico di oneri. Ragionare sul quanto della tassazione immobiliare (se sia eccessivo o meno in assoluto, se sia equilibrato rispetto alla tassazione di altre forme di ricchezza) sarebbe complesso, velleitario, e fuori luogo andando ben oltre i limiti di questa riflessione; vale solo la pena di sottolineare che se il quanto viene correlato a un perché chiaro, una tassa può essere relativamente facile da calcolare e soprattutto più accettabile (se ragionevole) da parte del contribuente. Infine, se si è chiarito il perché e il quanto, si può ritenere che il come non debba essere difficile da ridisegnare, possibilmente all’insegna della trasparenza. Forse questa riflessione può riuscire a convincere chi legge dell’importanza di restituire coerenza tra parola e significato, ossia tra definizione di una tassa (o imposta), la sua motivazione e il suo scopo: può sembrare un obiettivo banale, ma senza una chiarezza concettuale prodromica della trasparenza difficilmente si può ottenere una buona Amministrazione Pubblica. DARSENA: SE DA UN MATTONCINO ROSSO PUÒ RINASCERE UNA CITTÀ Andrea Bonessa L'acqua ci affascina, non c'è che dire. Fin da quando siamo piccoli, una pozza, una piscina, un rigagnolo ci attirano e ci incantano. Le città d'acqua hanno una magia che nes- n. 18 VII - 13 maggio 2015 sun'altra metropoli riesce ad avere. Milano, il lago, il fiume, e tantomeno il mare non li ha aveva. Se li è costruiti, ma, nella più pragmatica tradizione meneghina, persa la loro funzione, li ha abbandonati al loro destino. Onore a questa amministrazione di averci ridato il nostro lago, i nostri fiumi, la nostra spiaggia. Questo è 7 www.arcipelagomilano.org un merito che nessuno può negare a chi, dopo il tragico governo di donna Letizia, ha trovato una città bloccata in contenziosi, fallimenti, litigiosità di ogni tipo. Un merito a cui i Milanesi hanno risposto con un entusiasmo sorprendente, accogliendo in massa la riapertura della Darsena. Un progetto che, nato da un Concorso Internazionale del 2005 sotto la direzione Albertini, si era impantanato sulla polemica del previsto parcheggio interrato, e che questa Amministrazione ha ripreso, liberato, realizzato. Ma i progetti, come tutti noi , sentono i segni dell'età. E ancora di più un progetto figlio di una tendenza architettonica che, perso il suo nume ispiratore (l'unico in grado di dominarne la povertà espressiva con alcuni gesti originali e poetici), stava ormai finalmente scomparendo. Non prima di aver infettato, grazie a emuli e imbarazzanti imitatori, la provincia italiana di centri comunali e civici simili a centri commerciali (e viceversa). Un progetto di cui si era nel frattempo perso il Capo Progetto, il francese Bodin e probabilmente anche l'ottimo design Paolo Rizzato che doveva curarne l'arredo urbano e la progettazione illuminotecnica. Un orfano che l'Amministrazione ha dovuto comunque adottare per non dover ripartire con un processo epocale che avrebbe dilatato ,oltre qualsiasi immaginazione, i tempi. Una realizzazione che, affidata alla gestione dei tecnici del Comune (gli stessi del Mudec?), seppur sotto la supervisione dei progettisti Guazzoni e Rossi, dimostra, in tutta la sua evidenza, i segni ma soprattutto le stigmate di ogni Assessorato coinvolto. Ognuno interessato a risolvere il proprio problema specifico senza una visione d'insieme necessaria a rendere l'opera equilibrata. Una sommatoria disordinata di funzionalità, percorsi, blocchi, volumi, edifici, (il mercato assolutamente sovradimensionato è difficilmente accettabile), che, per fare un esempio si palesa in tutta la sua schizofrenia nella palificazione selvaggia. Si intuisce come, senza nessun collegamento, senza una regia e un controllo, come chicchessia sia passato a puntualizzare il territorio dei suoi simboli o segnali. Stessa sorte la viabilità in cui ognuno ha avuto soddisfazione, pedoni, bici, auto, camioncini in uno shaker senza una minima gerarchia o decisione, o la distribuzione delle attività commerciali che risponde a specifiche esigenze di cassa. E allora buttiamo tutto? Passiamo il nostro tempo a criticare, operazione facilissima e di grande soddisfazione, ogni particolare, ogni angolo, ogni errore? O invece proviamo a dimenticarci del luogo come spazio singolo, intercluso, "vasca" in cui i milanesi passeggiano in senso circolare quasi che fossero finalmente abitanti di una tranquilla città di provincia? Non è farina del mio sacco, ma una suggestione che mi ha regalato Giuseppe Longhi in una chiacchierata di qualche giorno fa. Una suggestione che ci può veramente far fare un salto di qualità nel modo di affrontare la complessità metropolitana, dove spazi, persone, vite, sensazioni, luoghi privati e pubblici convivono. La Darsena (ma così tutti i luoghi rigenerati di Milano) dovrebbero diventare i centri da cui far partire un processo di progettazione continua, collettiva e possibilmente condivisa dai più, che non si fermi con le inaugurazioni ufficiali. Il taglio del nastro deve essere il punto di partenza di un'espansione del progetto, di qualsiasi progetto, che raggiunga le aree limitrofe, che colleghi e ampli a macchia d'olio gli effetti di trasformazione. Un processo che ripari agli errori, imparando da questi, e che modifichi gli spazi ma anche le modalità di vita in un processo dinamicamente in evoluzione Guardare avanti significa questo. Significa superare l'errore con la sua soluzione, far seguire alla diagnosi una terapia. Ed espandere questa terapia in ogni direzione. E quindi accettare la Darsena, appropriarsene per prendersene cura, vedere al di là del ponte verso la stazione di Porta Genova o pensarla in espansione verso la Conca del Naviglio. O arrivare, attraverso Piazza General Cantore fino al parco Solari e così via. E interessarsi di cosa ci vive intorno, a fianco, di lato, sovrapponendosi spesso in una condizione di conflittualità. Imparare a vivere la città come un qualcosa di animato, in continua evoluzione, che non si ferma mai, senza soffermarci su un orrendo bastione in mattoncini rossi. Certamente esteticamente fastidioso ma di più facile digeribilità se incidente di un percorso e non confine di uno spazio definito. LA CITTÀ CHE CAMBIA E LE OPINIONI ATTENDISTE Cristoforo Bono Non c’è dubbio che Expo sia una grande vetrina (anche se avevamo sperato nel grande fondaco, più intricato o correlato, quale luogo di uno scambio nuovo con il mondo) e che questa sia, per ora, la sua principale attrattiva. In questo senso anche la sua configurazione spaziale è coerente, e l’evocazione di cardo e decumano, in questo luogo sostanzialmente antiurbano, o per meglio dire antistorico, è più che logica. Diciamo che la grande vetrina non è propriamente in Regent Street, e il mancato fondaco non utilizza i rapporti e le distanze, e le vecchie cascine della Bassa, che pure storia lo sono: eccome. Ciò è un fatto: ma attorno a questo fatto, per mimesi o per assecondamento (e a volte per conformismo), n. 18 VII - 13 maggio 2015 è avvenuto un fatto meno spiegabile, meno giustificabile. Sembra infatti che tutta la città sia diventata una vetrina, anche nel giudizio o nella considerazione dei commentatori i più avvertiti. Quale città poi? Non è mai detto, ma si tratta essenzialmente della la città storica, la cosiddetta città compatta, quella che conta poco più di un milione di abitanti: a fronte della ben più vasta città reale: cui peraltro lo stesso luogo espositivo appartiene. Dentro quei ristretti confini, la Milano nuova, la “Milano che sale”, la Milano di vetro, o in quale altro modo sia chiamata, è accettata nella sua sostanziale inutilità, ed è vista appunto come una vetrina da descrivere in quanto fenomeno, e non da comprendere come storia: che sarebbe soprattutto la storia del declino del ruolo di Milano come centro di un vasto mondo produttivo. Il fenomeno della sostituzione (tutto quanto ha rimpiazzato l’opificio o la vecchia infrastruttura) è descritto e a volte esaltato, senza un giudizio circa l’effettivo – il più delle volte mancato – rinnovamento. Basti pensare che il complesso di Cesar Pelli non è che la sede di una assicurazione (o di una banca?), mentre doveva forse essere la Città della moda, e che tutta Porta Nuova è stata venduta a un improbabile straniero; e così via. Anche Fulvio Irace sulle colonne del Sole 24 Ore di domenica 3 maggio, lui in genere così sottile negli articoli sul domenicale, cede, per la prima volta sul quotidiano, a quest’andazzo della 8 www.arcipelagomilano.org descrizione acritica, a questa sorta di sospensione del giudizio, quasi a dire: vediamo come va a finire prima di posizionarci. Nel pezzo titolato “Vette di una nuova città che sale”, ad esempio, ci dice: “… il contestato gate di Expo incornicia la prospettiva sul Castello con un segno nuovo che potrà spiacere ai nostalgici a ogni costo, ma indubbiamente, insieme ai ‘fiocchi di neve’ da poco installati nell’area pedonale di Foro Bonaparte, consente di vedere con occhi nuovi il lascito dell’eredità storica, creando un temporaneo contrasto con l’austera mole di mattoni.” È per l’appunto una descrizione che non prende posizione; ma, al di là degli occhi e le seste, il nuovo vero, là, non è forse ancora tutto quanto è avvenuto e costruito al Castello dopo Napoleone, con la sia pur timida e bassotta torre del Beltrami, cosiddetta del Filarete? Non è ancora, oltre quei nuovi e ridondanti tubi, ancora la città moderna? Mi convince di più la satira di Crozza nel Paese delle Meraviglie quando dice che pensava fossero ancora le impalcature: ed invece era già un finito. Ma Irace stesso, non ci aveva altre volte ricordato come, con una centesima parte di quei tubi, Edoardo Persico prima e i BBPR poi, con il monumento a Banfi al Monumentale, hanno fatto delle cose bellissime? Poi dice: “il MUDEC, sistemato dal britannico David Chipperfield nel cuore dello storico complesso industriale dell’Ansaldo. Una nuvola luminosa fa da cuore e corte interna delle gallerie espositive, configurandosi con la forza di un motore gentile dentro la carcassa derelitta delle acciaierie da cui una volta uscivano locomotive e ora entrano opere d’arte e reperti della storia”. Ecco: qui, più che l’esaltazione del nuovo avrei preferito, derelitte o no, un serrato confronto storico tra opere d’arte d’epoca diversa: le locomotive prima, e le immagini ora. Ciò che voglio dire è che la descrizione, e l’esclamazione, riducono la storia, la impoveriscono, la semplificano in modo non accettabile. Come del resto fa un altro illustre commentatore, Philippe Daverio, dalle colonne di Style, supplemento del Corriere della Sera (maggio 2015). Capisco che si tratti di un pezzo divulgativo, ma il Daverio non ci aveva forse abituato a più sottili differenze e sfumature? Anche in questa sede, e giustamente, ricorda le torri di Piazza Piemonte, del geniale Borgato che nessuno mai cita: ma poi, sommando le semplificazioni, ne esce solo un’agiografia non conseguente. Riprendendo un concetto già espresso in altra sede, conferma, sia pure implicitamente, che il Fascismo ha prodotto bellissime architetture: il che è verissimo, ma a patto di aggiungere che il Fascismo, specie agli inizi, era, come disse Pirandello, un “tubo vuoto”, che raccoglieva tutto quando s’era incubato nel tempo precedente (basti pensare allo straordinario lascito del Sindaco Nathan a Roma, come documentato nel bel libro della Fraticelli); e che le grandi quantità della fabbricazione hanno portato ai risultati di qualità che vediamo. Del resto non c’era ancora omologazione, c’erano ancora le “cento città”, e quindi anche Podestà illuminati, come il Melzi d’Eril a Torino. Di seguito ci ricorda che c’è stata a Milano l’epoca della qualità, con la Velasca e il Pirelli, senza dirci che quelli (e altri) erano fiori rari, nel massimo momento della quantità a tutti i costi, quando in dieci anni furono costruiti a Milano cinquecentomila vani in deroga al Piano regolatore, che nelle sue visioni migliori fu interrotto o disatteso. Quindi fa seguire il momento dell’edilizia senza qualità, quando invece fu quello il momento (gli anni ’80 del secolo scorso) di certa progettualità, soffocata e tradita dalle relazioni di potere perverse che portarono a Tangentopoli. Infine rileva che Milano è di nuovo terra di Architetti, solo perché nella babele che ne è seguita, e nella completa resa sia della classe dirigente, sia delle professionalità o creatività milanesi (a parte episodi come la Bicocca), qualcosa che si fa notare è pure emerso. (anche se, per dire, il Palazzo della Regione, che guarda caso nessuno cita, grazie al concorso svoltosi, avrebbe potuto essere quello decisivo di Norman Foster, e non quello solo esornativo che abbiamo …). Sarà una parentesi, sarà il momento, e mi aspetto dai nostri una prossima lettura più approfondita, che al di là della descrizione superficiale e della serena agiografia, colga invece il vero “dramma” di una città, attraversando il quale, e la sua complessa narrativa con tanto di critica e autocritica, possa infine darci le ragioni di un vero riscatto. PS.: Milano non può ricominciare sempre da zero: concordo con Bisio che Pisapia debba (o possa) ripensarci. L’ONDATA DI PROFUGHI ERITREI A MILANO E I NOSTRI OCCHI CHIUSI Cristina Giudici A Milano sta arrivando un’altra onda anomala di profughi. Arrivano in treno, soprattutto dalla Sicilia, ma anche dalla Puglia, dalla Calabria, provenienti dal porto in cui sono sbarcati. In gruppo, o alla spicciolata, in modo spontaneo. Le cifre sono le seguenti: dal 18 ottobre del 2013, da quando cioè è stata avviata la missione Mare Nostrum, ad oggi sono arrivati 59.590 migranti di cui 40.667 siriani e 14.671 eritrei (e 14mila minorenni). Dall’inizio del 2015 ad oggi, invece ne sono arrivati 5.587, di cui 2.432 siriani e 2.012 eritrei. Solo negli ultimi tre giorni 559, di cui 404 eritrei e 155 siriani. n. 18 VII - 13 maggio 2015 Il nuovo esodo della nuova emergenza umanitaria sta cambiando i connotati. Sono soprattutto gli eritrei, ora, a sbarcare in Sicilia.Sono quasi tutti giovani, senza famiglia, e raccontano sempre la stessa storia. E cioè che fuggono dal servizio di leva permanente del regime militare, che li sequestra, sottraendo presente e futuro ad intere generazioni, segregandoli nelle caserme. Oppure, che scappano alla fame. E infatti, a guardarli mentre fanno la fila per ricevere il pasto nel centro di accoglienza di via Aldini, a Quarto Oggiaro, gestito dalla Fondazione Progetto Arca, dove oggi ce ne sono 350, si nota immediatamente che si tratta di giovani denutriti, e molto affamati. Un altro film, rispetto all’esodo siriano dell’anno scorso, quando a scendere della navi era l’élite di un Paese, dilaniato dalla guerra civile. Con le famiglie, molta disponibilità economica e una professione da offrire ai governi dei Paesi ai quali volevano chiedere rifugio, in Nord Europa. Ora invece l’umanità dolente di questo nuovo esodo, ci mostra un volto affamato e silenzioso. Gli eritrei parlano poco della loro traversata nel deserto, fino alla Libia. Con il terrore di trovare sul loro cammino i miliziani dello Stato Islamico. Tutti raccontano sempre la stessa storia. Come un ragazzo di 9 www.arcipelagomilano.org 28 anni, accolto nel centro di accoglienza della Fondazione Progetto Arca, a Quarto Oggiaro, che spiega a Linkiesta.it di essere arrivato in Sicilia il 4 maggio, di non ricordare il porto in cui è sbarcato, dopo 24 ore di viaggio in mare. Racconta di avere avuto paura, in Libia, per gli scontri fra milizie armate, di aver temuto di incontrare le milizie dell’Isis. Spiega di aver pagato i trafficanti duemila dollari, grazie ai soldi pagati da suo fratello, che vive in Nord Europa. La macchina comunale dell’assessorato alle Politiche Sociali del Comune si è messa in mo- to, creando un hub mobile, fra la stazione centrale e l’ex Cie, l’ex centro di identificazione ed espulsione, riconvertito in un centro di accoglienza, per ricevere i profughi. Dietro il volto denutrito dell’esodo eritreo - che provocherà qualche fastidio ai visitatori diExpo, in cerca di una Milano europea e poco interessata al tema dell’esposizione universale della lotta alla fame nel mondo - esiste, però, un aspetto ignoto, conosciuto da pochi. Perché nel backstage dei porti di approdo, si trova anche l’altra faccia della fame o della paura dipinta sul volti di questi ragazzi arrivati a Milano. E infatti la direzione distrettuale antimafia di Catania ha emesso diverse ordinanze di custodia cautelare, fra il 2014 e il 2015, per associazione a delinquere nei confronti di bande di trafficanti eritrei. Che, mescolandosi fra i profughi, hanno beffato i salvatori, per lucrare sul traffico di esseri umani. Per creare organizzazioni, che dal Sudan hanno condotto migliaia di eritrei fino al Nord Europa. Con basi in Sudan, in Libia, a Roma e a Milano. .... Per continuare a leggere l'articolo su LINKIESTA clicca qui NUOVI SPAZI DISCUTIBILI PER LA PIETÀ RONDANINI Antonio Piva Il 12 aprile di quest’anno la Repubblica dava notizie di una lettera dell’architetto Francesco Scoppola, direttore generale del Ministero di Beni Culturali inviata ad Antonella Rinaldi, neo soprintendente per le Belle Arti, in cui si chiedevano precisazioni sulle motivazioni del trasferimento della Pietà Rondanini di Michelangelo dalla sala degli Scarlioni alla sala dell’ex ospedale spagnolo sempre del Castello Sforzesco. Nella stessa si ipotizzava che il trasferimento si dovesse considerare provvisorio e che, alla chiusura di Expo, la Pietà dovesse ritornare da dove era partita. Non so se a questa lettera sia stata data una risposta. Ora che il nuovo spazio è stato aperto al pubblico è possibile fare ulteriori riflessioni e rendere forse maggiormente auspicabili i suggerimenti ministeriali. Il progetto del trasferimento dell’opera michelangiolesca aveva incontrato molte ostilità, dall’inizio del suo percorso attuativo, da chi sosteneva non si potesse interrompere il progetto museologico e museografico realizzato dopo l’ultima guerra, sottraendo, a un’esposizione conclusa, l’opera più importante. Costantino Baroni, responsabile del progetto museologico e BBPR del progetto museografico, avevano creato un museo diventato famoso in tutto il mondo entrando nella storia dei modelli più celebrati del XX secolo. Si era detto che la sottrazione del gruppo michelangiolesco equivaleva alla modifica di un verso dell’Infinito di Leopardi o di alcune note di uno spartito mozartiano! In sintesi, molti articoli sui giornali nazionali, lettere n. 18 VII - 13 maggio 2015 e discussioni non erano riusciti a distogliere gli organizzatori e responsabili dal portare a compimento un nuovo allestimento in un nuovo spazio che in questi giorni è stato aperto al pubblico. Ora possiamo valutare l’operato osservando il risultato del restauro della sala dell’ospedale che appare garbato per la semplicità e misura degli interventi fatta eccezione per i pavimenti lignei che sembrano estranei ai materiali presenti in tutto il Castello. Il sistema di illuminazione artificiale adottato purtroppo risulta annullare gli effetti della luce naturale. La luce artificiale colpisce il gruppo marmoreo da tutti i lati tanto che, in assenza di ombre il modellato si appiattisce e assume un aspetto gessoso privo di drammaticità. Se osserviamo i repertori fotografici realizzati negli anni da grandi fotografi ci accorgeremo che la drammaticità del modellato è raggiunta dalla distribuzione sapiente delle ombre. Del resto la nicchia predisposta dai BBPR a fondale di contenimento della Pietà si avvaleva della luce naturale proveniente dal finestrone alla sinistra di chi guarda. Quella luce lavorava il marmo e modellava le superfici scabre e valorizzava il senso delle espressioni che a loro volta variavano a seconda delle stagioni e delle ore destinate alla aurora e al tramonto. La luce artificiale è di per sé povera e può essere di aiuto purché non vada a interferire o ad annullare gli effetti della luce naturale. Chi entra dunque nel salone dell’ex ospedale percepisce un bagliore, un gruppo marmoreo informe (si è scelto di dare al retro della statua molto rilievo), il pubblico che vuole vedere la Pietà accelera il passo e la maggiore concentrazione si realizza di fronte, in asse con la Madonna che regge il figlio che con il suo peso le sta scivolando dalle braccia. Tobia Scarpa a Castelvecchio aveva insegnato a vedere una figura marmorea anche dal retro ma in quel caso si trattava di una splendida fanciulla la cui veste cade rigonfia a incorniciare trecce di capelli lunghi e leggeri. Del resto la visibilità del retro era assicurata nel tutto tondo anche dai BBPR. Da qualunque parte lo si voglia vedere inoltre l supporto non pare avere relazione alcuna con il sostenuto. Prima di entrare nell’ex ospedale ho ripercorso il museo lapideo gremito di persone. Ho riguardato con entusiasmo il Barnabò Visconti nella sua regale maestà e via via le pietre tombali, i crocifissi e gli angeli, le opere del Bambaia sino a quella mano di pietra che proteggeva la Pietà. Un percorso ancora vivo e così vitale da far sentire la forza di tanta sapienza ed eleganza oggi come allora, mezzo secolo fa. Ho vissuto in quegli spazi a lungo per studiare e proteggere, con la speranza di vedere sparire l’impossibile bar a cavallo di tre corti ducali. Incidente da cancellare al più presto ascoltando le voci del dissenso in un momento in cui Milano sta aprendo nuovi spazi museali come quello della Fondazione Prada: nuovi interessanti paesaggi della cultura. 10 www.arcipelagomilano.org TERRITORIO E CITTADINI: LA PREVARICAZIONE DELLE MULTINAZIONALI Giuseppe Gario «La cittadinanza è un progetto e un modo di vita. La progettualità della cittadinanza l’avvicina e la salda al governo del territorio, cioè alla progettualità dei processi politici che sovrintendono alle decisioni di ordinamento e controllo dell’uso dello spazio». Luigi Mazza individua e analizza una questione oggi ineludibile [Spazio e cittadinanza, Roma 2015, pp. 3-4]. Dopo lo spazio celeste con Sputnik (1957) e Apollo (1969) dobbiamo conquistare quello terrestre. «Ho sognato a lungo di acquistare un’isola che non fosse di proprietà di alcuna nazione […] e di stabilire, sul suolo davvero neutrale di quest’isola, la sede centrale mondiale della Dow, esente da obblighi nei confronti di qualunque nazione e società. […] Saremmo persino in grado di ricompensare generosamente gli abitanti del luogo perché si trasferiscano altrove» [Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo, Milano, 20142, pp. 92-93]. Il sogno del presidente della Dow Chemical Carl A. Gerstacher (1974) è divenuto realtà: un numero crescente di imprese è «esente da obblighi nei confronti di qualunque nazione e società», e senza alcuna ricompensa, anzi. L’attuale caos neoliberista nasce dall’incapacità di nazioni e società di farsi rispettare. Incapacità culturale – di usare la tecnologia invece di esserne usati – ma anzitutto pratica. Lo Stato non è più in grado di costruire la cittadinanza sul proprio territorio, dove le imprese dovrebbero contribuire al benessere collettivo e non dettare legge. La perdita del progetto di una cittadinanza condivisa da tutti sullo stesso territorio sta incrinando persino il Regno Unito. La City prevarica tanto da provocare movimenti separatisti. Da noi la lotta a Roma ladrona, divenuta clinicamente dipendenza, fa spazio al razzismo. Ma il risultato è lo stesso: nel mondo globalizzato lo Stato non riesce più a imporre rispetto alle imprese multinazionali e in ossequio ai mercati bastona i cittadini, mostrando così tutta la sua impotenza. Eppure il Regno Unito si fece Stato come unione di nazioni su un unico territorio. In La sovranità assente (Torino 2014) Barbara Spinelli ricorda che così è anche per Francia, Svizzera e Stati Uniti; noi e i tedeschi lo fummo nell’Ottocento romantico: dall’inglese romantick, inverosimile (“is partly true, partly romantick”, Il nuovo etimologico Zanichelli, n. 18 VII - 13 maggio 2015 1999). «In altre parole, la storia ci dice che il principio territoriale, come lo chiama lo storico inglese Lewis B. Namier, fu nella maggioranza dei casi più forte, e soprattutto più duraturo, del principio della nazionalità fondato sulla lingua, la religione e il diritto del sangue. L’Unione [Europea] si apparenta all’esperienza dello Stato territoriale, e ha per l’appunto un’identità istituzionale (nel futuro, si spera, anche costituzionale). Non è terra incognita, ma ha dietro di sé una lunga e ricca storia di regni e - qui è forse la sua potenzialità vera - di imperi» [pp. 4344]. Impero, dal latino imperare, “comandare”: sovrano. Perciò, precisa Spinelli, «ogni volta che si sente parlare di Stati che si riprendono la sovranità, che reclamano il rimpatrio del potere da Bruxelles alle singole capitali (è la battaglia di David Cameron in Inghilterra, è stata la battaglia di Nicolas Sarkozy in Francia, ed è la battaglia non confessata dal cancelliere Angela Merkel) si può star certi di avere a che fare con illusionisti della politica, che mentono sapendo di mentire, […] pretendono di governarci, e di difendere nei vertici comunitari interessi solo in apparenza nazionali, quando in realtà quegli interessi non sono né europei né nazionali» [p. 38]. Gli inconsistenti leader europei generano quelli antieuropeisti (belgi francesi inglesi italiani olandesi tedeschi ungheresi …) che fanno carriera a servizio, retribuito, dell’impero russo di Putin. La guerra fredda non è finita, anzi è sfociata in una guerra calda in Ucraina e in una guerra economica che porta l’Europa al trattato di libero scambio transatlantico sotto la guida sovrana degli USA, che nel loro spazio includono gli oceani. La logica è sempre quella di imprese “esenti da obblighi nei confronti di ogni nazione e società”, dedite solo a servire i loro ponti di comando. Nel libero mercato transatlantico potranno chiedere compensazioni agli Stati che contro i loro interessi commerciali tuteleranno legalmente, ad esempio, la salute dei cittadini e l’ambiente. Il se e il quanto dipenderà da un foro internazionale sul modello del Fondo Monetario Internazionale, che così brillantemente continua a tutelare i ricchi a spese dei poveri. Ci faranno capire a muso duro che la sovranità degli Stati non è più neppure finzione giuridica. La controprova viene dalla Grecia, per un pugno di dollari spinta alla rovina da interessi elettorali di partiti al potere (in Spagna e Portogallo anzitutto, ma ovunque) minacciati da movimenti di protesta sociale in grado, come in Grecia, di arrivare al governo. Stati ridotti a gruppi di interesse, coriandoli nel gran carnevale della globalizzazione, guardano solo ai mercati anche se la crisi greca «dimostra per l’ennesima volta quanto i mercati finanziari siano inebriati dalle iniezioni di liquidità e quanto siano ormai dipendenti dalle banche centrali. Per loro, ormai, un’alzata di ciglia di Mario Draghi o di Janet Yellen è più importante di un Paese europeo sull’orlo dell’abisso economico-finanziario. A pensarci bene, è terrificante» [Morya Longo, “La Bce anestetizza la crisi greca”, Il Sole 24 Ore, 19/04/2015 p. 2]. Lo è. L’Unione Europea è il nostro unico spazio di cittadini sovrani nel mondo dove sovrane sono solo imprese e potenze globali: spazio politico oltre che economico, finanziario, giuridico. Il parlamento c’è, le istituzioni di giustizia, monetarie e burocratiche pure: manca il governo. E manca una forte opinione pubblica europea, anche se è facile informare, essere informati e discutere di ciò che è meglio per noi europei, oltre i recinti di vicinato. Il nostro futuro è informarci, discutere e eleggere un governo democratico che ha giurisdizione su tutta l’Unione Europea. «Infatti, tra governo del territorio e cittadinanza esiste un rapporto circolare per cui il governo del territorio è lo spazio politico per la costruzione o ricostruzione di un’idea di cittadinanza, ma a sua volta l’idea di cittadinanza è il mondo normativo in cui il governo del territorio si colloca» [Mazza, p. 181]. È un investimento, il solo vero tra tanti gadget. Le imprese, snodi di sovranità privata, ci dicono che le crisi gravi si superano realizzando innovazioni e investimenti con tutte le risorse disponibili, incluse dignità e speranza, che sono risorse di cittadinanza. Primi e principali interessati a questo investimento siamo noi italiani. Il nostro debito complessivo è tra i più bassi del mondo, ma la pessima fama del nostro debito pubblico ci fa bersagli privilegiati delle speculazioni anti-euro dopo un default greco. Ma c’è di più e peggio. Siamo gli europei più esposti al caos africano, paradiso del business delle armi e inferno della guerra generale tra Stati non sovrani che, se non li am- 11 www.arcipelagomilano.org mazzano, trasformano i cittadini in rifugiati e clandestini. L’Unione europea è nata dopo due bestiali guer- re mondiali, se stavolta procedessimo in pace sarebbe premio alla nostra intelligenza morale, politica, economica, finanziaria. Facce dello stesso tetrapak, insegna Adam Smith, padre del mercato moderno. MUSICA questa rubrica è a cura di Paolo Viola [email protected] Senza Direttore Un amico musicista, con una grande esperienza di primo violino nelle migliori orchestre italiane, mi segnala un articolo a firma di Sandro Cappelletto (Lucca), comparso su “La Stampa” on line di pochi giorni fa, che riporto tal quale per il suo straordinario interesse. Sentite un po’. «Spira Mirabilis è composta da 123 giovani e già affermati strumentisti. Li unisce la scelta di non avere una guida: ed è tutta un’altra musica. Hanno trent’anni, si chiamano Katharina, Lorenza, Igor, Matej, Salvador, Paolo, Renate, Yumi, William, Luise … Vengono dall’Asia, dalle Americhe, da tutta Europa. Si sono conosciuti lavorando in orchestra, in ottime orchestre. Ma a loro non bastava e hanno deciso di formarne una tutta nuova e senza direttore e l’hanno chiamata Spira Mirabilis . Venerdì sera, al Teatro del Giglio per il festival Lucca Classica, Spira Mirabilis ha osato l’incredibile: la Nona sinfonia di Beethoven. Centoventitre persone sul palco e un vuoto al centro, quello del direttore che non c’era. L’esecuzione è stata travolgente; un continuo guardarsi, scambiarsi cenni d’intesa, nella totale concentrazione di ciascuno e di tutti, perché senza direttore ogni singolo musicista, per non sbagliare, deve conoscere non solo la propria parte, ma anche quella dei colleghi. Infinite traiettorie di sguardi complici, consapevoli, felici, mentre scorreva la musica e il pubblico si lasciava trasportare da un’onda di energia ed emozione. In quella sala si stava realizzando l’utopia della Nona: l’Ode alla gioia di Schiller, messa in musica da Beethoven, diventata l’inno dell’Europa sempre promessa: “Ogni uomo sia fratello, o milioni abbracciatevi”. Quelle parole, quell’orchestra, quel coro, quei solisti e l’assenza del direttore, oltre a far nascere motivati dubbi sulla reale necessità del maestro solo al comando e dei suoi gesti così spesso troppo teatrali e oggi rivolti alle telecamere più che posti al servizio della musica, assumevano il valore simbolico di una scelta condivisa e realizzata, nata tentativo dopo tentativo, confronto dopo confronto, fino a raggiungere il miglior risultato possibile. I componenti della Spira Mirabilis perché questo sia il nome dell’orchestra è più semplice visitare il loro sito - sono accomunati anche da una sana follia: vengono da tutto il mondo e si incontrano a Formigine, un paese in provincia di Modena dove l’amministrazione comunale li ospita; fanno dieci giorni di prova e magari un solo concerto, in un meccanismo del tutto estraneo alle logiche attuali del mercato della musica. Per ritrovarsi a lavorare assieme, sacrificano qualche giorno di ferie e se serve si tassano per coprire le spese. Più che il risultato, gli applausi e l’entusiasmo contagioso che sempre suscitano, a loro interessa il processo: capire come tutti assieme possono arrivare a dare il meglio. Diceva ai propri allievi Hans Swarowsky, grande didatta di direzione: «Signori, l’ottanta per cento di voi peggiorerà le orchestre, il quindici per cento sarà ininfluente, solo il cinque per cento le migliorerà». La Spira Mirabilis rinuncia anche a quel cinque per cento. Con buona pace dell’attesa mistica di una parte non piccola del pubblico: «Caro, avvisami quando Karajan comincia a diventare sublime», è la leggendaria battuta pronunciata da un’abbonata ai concerti dei Berliner Philharmoniker. La stessa orchestra che, riunita in segreto e mediatico conclave, proprio oggi eleggerà il prossimo direttore musicale, nella speranza che appartenga a quella esigua minoranza». In realtà, come sappiamo, anche i Berliner Philharmoniker fanno fatica a mettersi d’accordo sul nuovo direttore e hanno dovuto rinviare il loro famoso conclave. Auguri, dunque, non vorremmo essere al loro posto. Ma perché, vista l’enorme esperienza maturata in 133 anni di lavoro insieme, non tentano di imitare Spira Mirabilis? ARTE questa rubrica è a cura di Benedetta Marchesi [email protected] La Fondazione Prada e la rigenerazione culturale di Milano Il 9 maggio il sempre più vasto mosaico culturale di Milano si è arricchito di un importantissimo e preziosissimo tassello: la Fondazione Prada. La celebre stilista Miuccia Prada e il marito Patrizio Bertelli hanno regalato al capoluogo lom- n. 18 VII - 13 maggio 2015 bardo uno dei più interessanti interventi culturali visti in Italia in materia di arte, ma anche di architettura e, soprattutto, di rigenerazione urbana. Le vecchie distillerie di inizio Novecento sono state restaurate, ristrutturate, trasformate e integrate per offrire ai visitatori una superficie di 19.000 mq dove trovano posto non soltanto spazi espositivi per le varie mostre temporanee, ma anche un cinema, un’area didattica dedicata ai bambini, una biblioteca e il Bar Luce concepito dal regista Wes An- 12 www.arcipelagomilano.org derson che si ispira ai celebri caffè meneghini e già diventato “cult” nel giro di pochi giorni. La molteplicità e la versatilità degli spazi della Fondazione consentono un’offerta culturale estremamente variegata. Sono attualmente aperte al pubblico le mostre “An Introduction”, nata da un dialogo fra Miuccia Prada e Germano Celant, “In Part” a cura di Nicholas Cullinan e le installazioni permanenti di Robert Gober e di Louise Bourgeois presso la “Haunted House”, una struttura preesistente che, rivestita di uno strato di foglia d’oro, acquista un’aura altamente immaginifica e imprime un segno forte ed evidente nel paesaggio urbano di Milano. Ma è “Serial Classic” la mostra più sorprendente: Miuccia Prada abbandona momentaneamente la passione per il contemporaneo per rivolgersi al passato, all’arte antica dove sono scolpite le origini della nostra cultura. Salvatore Settis e Anna Anguissola curano magistralmente una mostra che presenta l’ambiguo rapporto fra l’originale e la copia nell’arte greca e romana. Un allestimento geniale presenta più di sessanta opere che dialogano fra di loro e con lo spazio esterno circostante attraverso ampie vetrate. Il modello perduto, giustamente sfocato, giunge ai nostri giorni attraverso le innumerevoli imitazioni, emulazioni o interpretazioni commissionate dalla ricca aristocrazia romana. Ed ecco che il solido blocco di marmo prende vita e si circonda di un’aura di sacralità ancora oggi percettibile. Gli spazi rivisti da Rem Koolhaas e dal suo studio OMA consentono a una vecchia fabbrica di trovare nuova vita in un tempio che ospita personaggi della mitologia, guerrieri e divinità quali Venere e Apollo con opere provenienti dai più importanti musei del mondo, dai Vaticani al Louvre. La Fondazione Prada diventa oggi il modello di quella inevitabile e illuminata collaborazione che deve esserci fra pubblico e privato per il beneficio dei cittadini milanesi, italiani e di tutti i visitatori stranieri che iniziano a intravedere nel laboratorio creativo di Milano la nuova Capitale Europea. Giordano Conticelli Fondazione Prada - Largo Isarco 2 Milano (M3 Lodi T.I.B.B.) orari: tutti i giorni h10-21 biglietti: 10€ ridotto 8€ gratuito minori 18 anni e maggiori di 65 Parigi è a Milano grazie agli scatti di Brassaï In tempo di Expo Palazzo Morando porta Brassaï a Milano: dal 20 marzo al 28 giugno 2015 sono esposte al piano terra del palazzo di via S. Andrea 260 immagini di una Parigi onirica e poetica attraverso lo sguardo innamorato dell’artista ungherese che fece sua la capitale francese. Nato nel 1899 a Brasso (l’attuale Braşov) in Transilvania, Gyula Halász - che prenderà il nome di Brassaï quando inizierà a fotografare, nel 1929 - arriva la prima volta a Parigi a soli 4 anni, con il padre, professore di letteratura che vi trascorre un anno sabbatico. I ricordi di quegli anni, come "petites madeleines" di proustiana memoria, rimarranno in lui riaffiorando talvolta e lasciandogli perennemente dentro uno sguardo incantato nei confronti della città. Le prime tre sale portano il visitatore in una Parigi dolce, malinconica: dove i bambini dai calzini bianchi giocano con le barchette al Jardin du Luxembourg o i leoni di pietra hanno criniere di neve nel parco delle Tuileries. La Tour Eiffel luccica nella notte e a Longchamp si pesano i cavalli da corsa. Passano gli anni e lo sguardo muta, giunge il disincanto ma rimane l’accuratezza e le assenza di giudizio nel raccontare la notte e i suoi protagonisti. Brassaï inizia a inseguire, nella luce notturna della città, una Parigi insolita, sconosciuta e finora non degna di attenzione. Durante le sue lunghe passeggiate che lo portano solo o in compagnia di Henry Miller, Blaise Cendrars e Jacques Prévert, complici nell’alimentare le sue curiosità, rende visibili le prostitute dei quartieri “caldi” o i lavoratori della notte alle Halles, o ancora i quarti di animali appesi dai macellai. Brassaï in quegli anni ricerca gli oggetti più ordinari e ne trasforma il significato, osa giustapposizioni insolite e defamiliarizza la percezione, togliendo il reale dal suo contesto. Il suo pensiero si concentra nel trasformare il reale in decoro irreale, è a partire dal 1929 che nascerà la sua ostinata ricerca dei graffiti. Circo, nudi femminili, ancora Parigi, Picasso e molti altri artisti sono i soggetti degli scatti del grande fotografo (ma anche scrittore e cineasta) che testimoniano il tanto profondo quanto fecondo rapporto che per oltre cinquanta anni lo ha legato alla Ville lumière, fino alla sua scomparsa nel 1984. Brassaï. Pour l’amour de Paris Palazzo Morando | Costume Moda Immagine via Sant’Andrea 6, piano terra, spazi espositivi 20 marzo – 28 giugno 2015, mart. – dom., ore 10 19 Biglietteria € 10,00 / 8,50 / 5,00 Pietà Rondanini: la nuova casa aspetta i milanesi Dopo una vicenda travagliata durata alcuni anni, la Pietà Rondanini trova finalmente pace in un Museo a lei interamente dedicato. Dopo sessant’anni trascorsi nell’allestimento di BBPR nella Sala degli Scarlioni del Museo d’Arte Antica, l’ultimo lavoro di Michelangelo, quello forse più intimo ed emozionante, raggiunge una nuova collocazione, anch’essa densa di valore e simbologia. È l’antico Ospedale Spagnolo del Castello Sforzesco, realizzato nella seconda metà del Cinquecento per i soldati della guarnigione spagnola colpiti dalla peste, che n. 18 VII - 13 maggio 2015 porta in sé, per sua natura, l’essenza del dolore e della sofferenza. Termina così il percorso durato tre anni, da quando si è riconosciuta l’esigenza di dare rinnovato valore alla scultura michelangiolesca, che l’ha vista al centro di accesi dibattiti sia nel mondo politico che in quello culturale e si conclude in un evento di grande festa cittadina dove l’opera preziosa torna a Milano e ai milanesi in occasione dell’inaugurazione del palinsesto di Expoincittà. «Il nuovo allestimento ribalta completamente la visione a oggi con- sueta dell’opera: entrando i visitatori vedranno infatti la scultura di spalle e scorgeranno per prima cosa ciò che Michelangelo scolpì per ultima, la schiena della Madonna ricurva sul Cristo, rendendo ancora più intensa l’emozione per l’opera», afferma l’architetto Michele De Lucchi, cui è stato affidato il progetto allestitivo. «Solo girando attorno alla statua si vedrà la parte anteriore, con il Cristo cadente sostenuto dalla Madre: una prospettiva assolutamente inedita, voluta per mettere in risalto quella dimensione della scultura, 13 www.arcipelagomilano.org incompiuta, prima impossibile da osservare nella sua completezza». Un allestimento che invita alla contemplazione e al raccoglimento di fronte all’opera incompiuta di Michelangelo e che forse, più di ogni altra, racchiude nell’abbraccio dei due corpi il senso dell’amore. L’ingresso nel museo conduce ad un’immersione che coinvolge tutti i sensi gra- zie al profumo del legno, il silenzio che inevitabilmente cala di fronte alla scultura e alla penombra che avvolge la sala concentrando la luce solo sulla statua. Museo Pietà Rondanini_ Michelangelo - Milano, Castello Sforzesco, Cortile delle Armi Ingresso gratuito al Museo Pietà Rondanini tutti i giorni fino al 31 maggio) Da giugno 2015 l’ingresso al Museo della Pietà Rondanini è compreso nel biglietto unico per i Musei del Castello Sforzesco al costo di 5 euro (ridotto 3 euro) acquistabile presso la biglietteria dei Musei del Castello Sforzesco L’Africa si mostra a Milano L’Africa approda a Milano con una mostra allestita nel nuovo Mudec, il Museo delle Culture che ha finalmente aperto i suoi battenti dopo 12 anni di agognati lavori. Il capoluogo lombardo, a breve al centro del mondo come sede dell’Esposizione Universale, afferma la propria identità di città multietnica, bacino delle tante culture che negli ultimi decenni si sono andate a integrare nell’antico e complesso tessuto urbano di Milano. “Africa. Terra degli spiriti” è un interessante progetto espositivo che raccoglie circa 270 manufatti e che da il via alla vivace stagione culturale milanese organizzata durante i mesi di EXPO 2015. La mostra si articola in vari ambienti presentando le affascinanti sfaccettature della cultura subsahariana dalle figure reliquiario alle armi, dagli altari vudu alle celeberrime maschere utilizzate durante le danze e le cerimonie religiose. Sorprendenti risultano essere alcuni manufatti come cucchiai e olifanti realizzati interamente in avorio ed eseguiti con un altissimo e raffinatissimo livello qualitativo. Interessante è an- che il progetto d’allestimento che tenta di creare un’atmosfera intima e infondere un profondo senso religioso nel visitatore. Convincente è la soluzione adottata nella prima sala dove sono esposte figure custodite all’interno di teche cilindriche sorrette da una struttura che vuole forse richiamare le affascinanti e impenetrabili foreste di questo continente. Da notare anche l’utilizzo di alcuni effetti sonori come il frinire dei grilli o il penetrante ritmo delle percussioni, espedienti che aiutano il visitatore a immergersi nella ancestrale cultura africana. Unica interazione tra opere esposte e pubblico è la possibilità che ha quest’ultimo di far rivivere le divinità di un altare vudu. Come suggerisce Claudia Zevi attraverso l’audio guida distribuita gratuitamente, il visitatore è invitato a lasciare un oggetto personale in segno di devozione per manufatti che riescono ancora oggi a serbare in sé un elevato valore sacrale. La fretta di inaugurare ha, però, determinato la presenza di alcuni errori, minimi dettagli a cui bisognerebbe prestare sempre la massima attenzione. Grazie a una buona e suggestiva illuminazione, i singoli reperti sono facilmente fruibili nonostante la presenza, in alcuni casi, di polvere e di impronte lasciate sulla superficie delle teche. Di difficile lettura risultano essere, inoltre, alcuni pannelli, ora velati da un sottile tessuto reticolato, ora posti in una zona d’ombra, lontano del cono di luce. Alcune didascalie sono poste al livello della superficie di calpestio, elemento che porta il visitatore a doversi sforzare per leggerle. Tutti questi aspetti di disturbo non vanno, comunque, a intaccare una mostra che nel complesso risulta essere un ottimo progetto curatoriale, di enorme interesse per Milano che si conferma città internazionale e che si affaccia con prepotenza sulla società globale contemporanea. Giordano Conticelli Africa - la terra degli spiriti fino al 30 agosto 2015 MUDEC Museo delle culture via Tortona 56 Milano orari lunedì 14.30-19.30 martedì/mercoledì/venerdì /domenica 9.3019.30 giovedì e sabato 9.30-22.30 biglietti 15/13 euro Italia Inside Out: i maestri della fotografia raccontano l'Italia Dal 21 marzo al 27 settembre 2015, Palazzo della Ragione ospita Italia Inside Out, la grande mostra di fotografia interamente dedicata all’Italia con più di 500 immagini dei più importanti fotografi del mondo. Un’unica iniziativa articolata in due successivi allestimenti, dal 21 marzo al 21 giugno con i fotografi italiani e dal 1° luglio al 27 settembre con i fotografi del mondo, che raccontano a chi li visita le trasformazioni e le emozioni di un’Italia che cambia dal secondo dopoguerra fino ai giorni nostri. E il cambiamento si percepisce in ogni cosa: nelle tecniche, nell’uso del bianconero e del colore, nei ritratti e nelle storie dei protagonisti ritratti. Promossa e prodotta dal Comune di Milano - Cultura, Palazzo della Ragione, Civita, Contrasto e GAmm Giunti, curata da Giovanna Calven- n. 18 VII - 13 maggio 2015 zi; l’allestimento si deve a un progetto scenografico di Peter Bottazzi dove ogni autore è una carrozza di un immaginario treno che porta il visitatore alla scoperta del Bel Paese. Il viaggio inizia da Milano con le immagini storiche di Paolo Monti e qui si conclude con le vedute della nuova Milano di Vincenzo Castella; su ciascuna carrozza si scopre un’Italia differente per geografia (dalla Venezia degli anni cinquanta di Berengo Gardin alla Palermo della Battaglia, passando per il delta del Po di Pietro Donzelli); per epoche (la Sardegna dei primi anni ’60 di Franco Pinna, gli estemporanei anni ’80 della Via Emilia di Luigi Ghirri, ma anche il terremoto dell’Aquila ritratto da Marta Sarlo); per progetti (Io parto di Paola de Pietri, Gli ultimi Gattopardi di Sho- bha, Florence versus the World di Riverboom). La prima parte - INSIDE - accoglie dal 21 marzo al 21 giugno 2015 una selezione di oltre 250 immagini di quarantadue fotografi. Nella seconda parte - OUT -, dal 1° luglio al 27 settembre 2015, saranno protagoniste le fotografie dei grandi maestri internazionali, quali Henri CartierBresson, David Seymour, Alexey Titarenko, Bernard Plossu, Isabel Muñoz, John Davies, Abelardo Morell e altri. Quella ospitata negli spazi del Palazzo della Ragione è una mostra davvero ricca, piena di punti vista e sguardi, quasi troppo: al punto che il visitatore talvolta si smarrisce, vista l’assenza di un percorso definito, rischiando di non vedere alcuni degli autori. L’allestimento, poi, pare incompleto (o la scelta molto curio- 14 www.arcipelagomilano.org sa) laddove solo alcuni pannelli con le fotografie hanno le didascalie mentre altri no. E va aggiunto che al terzo giorno dall’apertura le audioguide sono ancora non pervenute, causa corriere. Si perdona tutto da- vanti alla bellezza di questa italianità per immagini? Italia Inside Out - I fotografi italiani fino al 21 giugno 2015 Palazzo della Ragione Fotografia Milano, Piazza Mercanti, 1 Martedì, mercoledì, venerdì e domenica 9.30 – 20.30/ Giovedì e sabato 9.30 – 22.30 Biglietto €12/10/6 Congiunto €18/16/9 Gli scatti di David Bailey: star system (e non solo) al PAC Varcare la soglia del PAC in questi giorni (fino al 2 giugno) è fare un tuffo tra i volti pop degli ultimi 50 anni: nella mostra Stardust sono esposti più di 300 scatti di David Bailey tra divi del cinema, grandi artisti visivi, top model ma anche persone normali e scatti sociali per risvegliare le più pigre coscienze. Curata dallo stesso artista e realizzata in collaborazione con la National Portrait Gallery di Londra e con il magazine ICON, la mostra contiene una vasta serie di fotografie, selezionate personalmente da Bailey come le immagini più significative o memorabili della sua carriera, che ha attraversato più di mezzo secolo. Nello spazio progettato da Ignazio Gardella si articolano per temi alcuni dei progetti più interessanti del grande fotografo: dagli scatti realizzati per Vogue che lo hanno reso famoso nei primi anni ’60, alle immagini realizzate per i dischi dei Rolling Stones o ai gemelli pugili Reggie e Ronnie Kray; i grandi ritratti che hanno per protagonista Catherine Dyer, talvolta straordinaria modella talaltra moglie e madre dei loro tre figli, sempre donna di straordinaria femminilità. L’arte di Bailey non si limita però alle celebrità: sono una decina le fotografie appartenenti al progetto “Democracy”, realizzato tra il 2001 e il 2005, dove un gruppo di sconosciuti, a turno, ha posato nudo per 10 minuti; ci sono le immagini degli anziani con i costumi tradizionali scattate durante il viaggio nella regione indiana di Naga Hills; ci sono gli scatti dedicati ai teschi; c’è il reportage realizzato negli anni ’80 per portare l’attenzione mondiale sulla situazione in Sudan. Non l’ordine cronologico ma quello tematico sancisce ancora una volta la profondità e la qualità del lavoro del grande artista inglese, che attraverso le proprie immagini racconta non solo le storie dei protagonisti ritratti, ma anche del mondo attorno che li circonda. Unica pecca della mostra: l’assoluto divieto di usare gli smartphone e di fare fotografie all’interno degli spazi, curioso e un po’ anacronistico in un mondo dove la promozione e la comunicazione dell’arte passano anche attraverso la condivisione digitale. Stardust. David Bailey fino al 2 giugno 2015 PAC Via Palestro 14, Milano Da martedì a domenica 9.30 – 19.30, giovedì fino alle 22.30 Biglietti € 8,00/ 6,50 /4,00 Medardo Rosso alla Gam, con molti dubbi Medardo Rosso, torna ad essere protagonista di una mostra monografica a Milano dopo 35 anni dall'ultima. Organizzata e prodotta dalla Galleria d'Arte Moderna di Milano, da 24 ore Cultura - Gruppo 24, insieme al Museo Rosso di Barzio, la mostra è a cura di Paola Zatti, conservatore della Galleria d’Arte Moderna di Milano. Rosso è l'artista della forma che prende vita: nel percorso espositivo, tra gessi, bronzi e modelli in cera, oltre ad immagini d’archivio, i personaggi ritratti sono vive idee che si animano, con l’intento di perseguire non una verosimiglianza ma una rappresentazione dell’impressione. Le 15 opere di Rosso della GAM sono affiancate da una selezione significativa proveniente dal Museo Rosso di Barzio, che ha partecipato alla curatela della mostra, e una serie di prestiti nazionali e internazionali (Musée d’Orsay e Musée Rodin di Parigi, Staatliche Kunstammlungen di Dresda, il Museo d’Arte di Winthertur, Szepmuveszeti Muzeum di Budapest). L’insieme di queste opere consente di avere una visione ampia sia dei soggetti affrontati dall’artista sia della sua evoluzione interpretativa e della sua competenza e passione per la tecnica fotografica. Infatti ad arricchire l’esposizione è presente un cospicuo contributo iconografico che documenta il lavoro di Medardo: l’artista infatti quando esponeva i propri lavori creava loro intorno una sorta di scenografia che ne accresceva, o addirittura modificava, il senso. La straordinaria Madame X, opera del 1896, è al centro della terza sezione della mostra, e dialoga con due versioni a confronto in bronzo e cera dell’Enfant Malade, documento della fase sperimentale di Rosso. Seppur interessante il dialogo che si va a creare tra le sale della galleria e i lavori dell’artista, dove i grandi specchi consentono di osservare da diversi punti di vista le stesse opere, gli spazi danno poca aria alle sculture che ne risultano penalizzate e laddove vi siano dei gruppi guidati la visita risulta estremamente complessa, quasi impossibile. Il costo dell’ingresso è piuttosto alto (12€) considerando che si tratta di una mostra articolata in sole sei sale e che poi per visitare gli altri spazi della Galleria deve essere acquistato un ulteriore biglietto. Purtroppo si deve notare che il livello della conoscenza della lingua inglese da parte degli operatori della biglietteria non è adeguato, elemento invece che dovrebbe essere curato e seguito da ogni organizzazione in particolar modo nell’anno di Expo. Medardo Rosso la luce e la materia - fino al 31 maggio Galleria d'Arte Moderna di Milano via Palestro 16 - Lunedì 14.30 – 19.30 Martedì, mercoledì, venerdì, sabato e domenica 9.30 – 19.30 Giovedì 9.30 – 22.30 Food. Quando il cibo si fa mostra Food | La scienza dai semi al piatto, non è solo una mostra dedicata all’alimentazione: è un percorso di avvicinamento e scoperta del processo di produzione di ciò che n. 18 VII - 13 maggio 2015 mangiamo. Anche questa definizione è riduttiva: le quattro sezioni accompagnano il visitatore dalla scoperta dei cibo, dall’origine quando è seme fino alle reazioni chimiche che sottendono la cottura, passando attraverso dettagliate spiegazioni su provenienza storico-geografica, suggerimenti sulle modalità di conservazione o exhibit interattivi. 15 www.arcipelagomilano.org La mostra, in corso fino al 28 giugno 2015 e allestita nelle sale del Museo di Storia Naturale Milano, rappresenta il più importante evento di divulgazione scientifica promosso dal Comune di Milano sul tema di Expo 2015. “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita” e costituisce una delle più importanti iniziative del programma di “Expo in Città”. Tutto nasce dai semi è il titolo della prima sala, nella quale vengono raccontate le diverse classi e famiglie con caratteristiche, provenienza e utilizzo. Decine e decine di barattoli mostrano, portando, in alcuni casi per la prima volta, esemplari che appartengono alle più importanti banche dei semi italiane. Si prosegue poi con Il viaggio e l’evoluzione degli alimenti dove mele, agrumi, riso, caffè e cacao non avranno più segreti: tra giochi inte- rattivi e alberi genealogici, tutto è facilmente accessibile e non superficiale. Grande elemento positivo della mostra è infatti la capacità di rendere fruibili le nozioni più scientifiche a un pubblico differenziato, senza per questo incorrere nel rischio di semplicismo. Che la cucina sia un’arte è risaputo da tempo, ma che alla base di tante ricette vi siano principi di chimica e fisica passa spesso inosservato: la terza sezione della mostra illustra come funzionano alcuni degli elettrodomestici più comuni, con consigli sulla conservazione degli alimenti (sapevate che i broccoli hanno un metabolismo più veloce delle cipolle e che per meglio conservarli andrebbero avvolti in una pellicola di plastica?!) e soluzioni fisico-chimiche ai problemi di chi cucina (cosa fare se la maionese impazzisce?). Quando poi sembra che niente in materia di cibo possa più sorprenderci si giunge all’ultima sala I sensi. Non solo gusto ovvero niente è come sembra: vista, olfatto e tatto anche nel mangiare giocano un ruolo determinante, al punto talvolta di allontanare il gusto dalla reale percezione. Il costo del biglietto è medio alto (12/10 euro), ma la visita merita davvero il prezzo d’ingresso se non altro per cominciare ad affacciarsi nel tema che, grazie ad Expo, ci accompagnerà per tutto il 2015. Food. La scienza dai semi al piatto fino al 28 giugno 2015 Lunedì 09.30 – 13.30 / Martedì, Mercoledì, Venerdì, Sabato e Domenica 9.30 – 19.30 / Giovedì 9.30 – 22.30 Biglietto 12/10/6 euro LIBRI questa rubrica è a cura di Marilena Poletti Pasero [email protected] Lella Ravasi Bellocchio I sogni delle donne Utet 2015 pp. 376, euro 15 Il saggio verrà presentato mercoledì 20 maggio, ore 18, presso Palazzo Sormani, Sala del Grechetto, a cura di Unione Lettori Italiani Milano. Introduce Lina Sotis, interviene Luigi Zoja. "Gnose seauton" conosci te stesso, secondo Socrate era il viaggio più aspro che ogni essere umano avrebbe dovuto intraprendere per disvelare il dilemma sulla propria identità: filosofi, scrittori, sin dal sec. V a.C., poi egiziani, su su fino a Freud e Jung con la psicanalisi. Il sogno, figlio dell'immaginazione, è parso un ottimo grimaldello per entrare nella "porta occulta dell'anima", come dice Jung. E junghiana è l'autrice Lella Ravasi Bellocchio, analista, scrittrice, allieva di Bauman, nipote di Jung. In questo saggio l'autrice racconta con brio, curiosità,leggerezza, grande poesia, la materia dei sogni, per cercare la nostra identità (Musatti): la verità del "sè", il nostro irrazionale, l'inconscio, sfondando il muro del buio nel quale siamo immersi sin dall'origine del mondo. Quando Lella Ravasi, all'inizio della sua carriera, va in analisi dal grande Musatti, alla domanda cosa fanno loro due insieme, essendo di due scuole diverse, lui risponde in veneziano: "discutèmo, discutèmo".Non n. 18 VII - 13 maggio 2015 più per interpretare i sogni, ma per costruire un racconto poetico: ecco spiegato perché ogni capitolo è introdotto da una poesia, per orientare noi lettori alla "pratica luminosa della solitudine". L'importanza della musica nei sogni, la amata musica della autrice, è "una specie di colonna sonora dell'inconscio", tanto più assordante. quanto i morti sono muti, ma con la bocca aperta, nelle tombe egiziane, una specie di maschera pazza a difesa "del lago ghiacciato della solitudine". Nell'Enrico IV di Shakespeare, trasposto nel film Oblivion di Marco Bellocchio, il re, ossessionato dalla sua bruttezza, è paragonato da Elvio Facchinelli, con un ossimoro folgorante, a una "freccia ferma". I sogni dunque sono ambasciatori dell'inconscio-istinto,per tentare di ricostruire la nostra identità, frutto di scontri violenti di opposti, dentro di noi. Per dare un senso alle "frantumaglie" nella testa, che ti fanno piangere. Per capire il senso dell'andare, nel tandem-coppia, per scalzare l'antico bisogno di sottomissione- passività. Liberazione femminile anche grazie al sogno, processo di crescita, di cambiamento, di svolta, che racconta la diversità tra pedagogia e psicologia delle relazioni, per uno scambio autono- mo del desiderio, in quel "pollaio che è la vita". Perché infine il problema è sempre come sottomettere l'altro, come modulare la pulsione distruttiva (della guerra) che è in noi, ricorrendo all'Eros, superando "lo scoglio maledetto dell'anaffettività", originato spesso dall'assenza di una madre amorosa. Servirebbero gesti minimi, essenziali, come "un bicchiere d'acqua." "Assenza, più acuta presenza" diceva Bertolucci. "La signoria del femminile" può liberare la vita dai troppi vincoli del quotidiano, essendo la nostra vita "polvere di stelle", "un cerchio dopo l'altro" . Infine un omaggio onirico di Fellini a Pasolini. Termini che ritornano sempre come l'immagine dell'acqua per le donne del carcere, la paura dell'abbandono, il buio, l'eros, la madre, la musica,i film, il teatro e su tutto aleggia la poesia dei massimi poeti, tutti nominati nell'indice. Un repertorio di sogni femminili e non solo. Chissà se dobbiamo aspettarci dalla Ravasi un prossimo saggio di sogni ... maschili. Visioni profondamente radicate, echi dalla notte dei tempi. Marilena Poletti Pasero 16 www.arcipelagomilano.org SIPARIO questa rubrica è a cura di E. Aldrovandi e D.Muscianisi [email protected] Segnalazioni d'autore: It Festival 2015 Dal 15 al 17 maggio alla Fabbrica del Vapore torna IT - Indipendente Theater, il festival del teatro indipendente milanese. Si tratta di una maratona di spettacoli che andrà avanti, ognuno dei tre giorni, dalle 19 alle 23:30, accompagnato da incontri, talk, dibattiti e momenti di festa. Le proposte e i gruppi teatrali sono moltissimi, da quelli già rappresentati in altri teatri cittadini che presen- tano studi e nuovi progetti, a quelli che debuttano e - senza questa occasione - non avrebbero nessun altra visibilità. La grande offerta può rendere difficile orientarsi per il pubblico, ma il grande merito di questo festival sta nel tentare di proporre un approccio originale alla cultura dello spettacolo dal vivo: gli organizzatori non hanno avuto paura di scrivere nella presentazione "perché il teatro possa emergere come un evento cool per tutta la cittadinanza” e i prezzi bassi dei biglietti (con i quali è possibile vedere molti spettacoli) sono un invito trasversale, a tutte le fasce di pubblico, per partecipare a questa festa. Emanuele Aldrovandi Per informazioni: http://www.itfestival.it/2015/ CINEMA questa rubrica è curata da Anonimi Milanesi [email protected] Trento Film Festival 2015 a Milano La montagna arriva in città (18/24 maggio) Anche quest’anno i milanesi appassionati di vette e montagna, potranno vedere un’ampia selezione di filmati provenienti da tutto il mondo presentati al Trento Film Festival 2015, e ammirare immagini delle montagne più affascinanti del mondo. Grazie alla collaborazione con la Cineteca Italiana, dal 18 al 24 maggio, presso Spazio Oberdan, partirà infatti la rassegna Trento Film Festival 2015 a Milano. Tra i film in sala molti documentari altrimenti invisibili. Ampia panoramica che racconta il fascino della montagna ma anche spazio per i temi di attualità e ricostruzioni storiche, come Qui di Daniele Gaglianone, sul rapporto tra gli abitanti della Val Susa e gli attivisti No Tav; Alberi che camminano di Mattia Colombo, da un’idea di Erri De Luca, che indaga il rapporto tra gli alberi e l’uomo, distribuito da Feltrinelli Real Cinema, o Senza sole, nè luna, , film del 1963 restaurato, che racconta la costruzione del Traforo del Monte Bianco attraverso le storie dei minatori che lo hanno realizzato. I filmati con la montagna e l’alpinismo protagonisti, tradizionalmente ospitati dal Festival di Trento, n. 18 VII - 13 maggio 2015 coprono gran parte della rassegna e raccontano di esperienze da tutto il mondo, dagli scenari spettacolari poco conosciuti della Nabibia, ai ghiacci del Canada, al Monte Bianco. Dedicati a grandi protagonisti dell’alpinismo come Jeff Lowe’s Metanoia, sulle imprese straordinaria di Lowe alpinista eccezionale, colpito da una malattia degenerativa, e costretto su una sedia a rotelle, o Ninì, di Gigi Giustiniani e Raffaele Rezzonico, storia Ninì Pietrasanta una delle prime donne alpiniste, con grande talento di documentarista. Film di ricerca che ricostruiscono momenti drammatici della storia della montagna, come Grimpeurs di Andrea Federico, che raccontala tragedia del Pilone Centrale del Freney sul Monte Bianco, o Valley Uprising, documentario ambientato tra le pareti delle cime della Yosemite Valley, sull’arrampicata come strumento di libertà quasi beat. Fondazione Cineteca Italiana presenta poi una rarità, Tra le nevi eterne del 1925, 20 minuti di film muto, sull'escursione di alcuni alpinisti nella zona del monte Ost fino alla valle del Reno, passando rifugi d’alta quota e cime mozzafiato. E ancora un omaggio originale di Folco Quilici nell’anno del centenario dell’anniversario della I Guerra Mondiale, Animali nella Grande Guerra, dedicato alle sorti spesso crudeli degli animali negli scontri militari. Occasione anche per poter rivedere L’ultimo lupo di Jean-Jacques Annaud, straordinario e spettacolare racconto girato in Mongolia, del rapporto tra un insegnante nella Cina contadina e un cucciolo di lupo da lui salvato dal massacro della specie ordinato dal governo. Adele H. MODALITÀ D’INGRESSO: Biglietto d’ingresso: intero € 7,00 Biglietto d’ingresso ridotto per possessori di Cinetessera, possessori di tessera CAI e studenti universitari: € 5,50 Proiezione pomeridiana feriale: intero € 5,50, ridotto per possessori di Cinetessera o studenti universitari € 3,50. Cinetessera annuale: € 6,00, valida anche per le proiezioni al MIC – Museo Interattivo del Cinema - e all’ Area Metropolis 2.0 – Paderno Dugnano. 17 www.arcipelagomilano.org IL FOTO RACCONTO DI URBAN FILE foto Bas Princen FONDAZIONE PRADA: RIGENERAZIONE A MILANO http://blog.urbanfile.org/2015/05/11/zona-vigentino-la-fondazione-prada/ MILANO È. 10 CLIP PER 10 STORIE LA STORIA DELLO CHEF CESARE BATTISTI https://youtu.be/b_gd5Pzkozo n. 18 VII - 13 maggio 2015 18