Basterebbe tanto poco - Lega Navale Italiana

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Basterebbe tanto poco - Lega Navale Italiana
Basterebbe
tanto poco
di Franco Maria Puddu
A
Il mare, nostra grande
passione, troppo spesso
viene deturpato
e violentato dall’azione
di pochi sconsiderati.
Eppure basterebbe
tanto poco…
ll’alba dei
tempi è avvenuto, anche se non
tutti ne sono pienamente a conoscenza,
che l’uomo, nell’evoluzione della sua specie, prima ancora di
addomesticare il cane
o il cavallo, “ideare”
la ruota o la leva, imparasse a staccarsi (sia
pure di poco, beninteso) dalla coste del
mare o ad attraversare un fiume o una laguna
a cavalcioni di un tronco d’albero, al quale ne
legò poi altri per maggior comodità o stabilità,
spingendosi con un palo, poi con una rozza
pagaia, infine utilizzando una stuoia che gli
permetteva di intrappolare un misero refolo di
vento, prima da solo, poi in compagnia di altri
“avventurosi avventurieri”. Era nata l’arte della
navigazione.
Con questo breve memento, vogliamo riportare
alla mente del lettore che la navigazione fu
una delle primissime grandi attività che coinvolsero “in toto” l’essere umano e lo spronarono
man mano, forse più di tutte le altre, verso il
mondo moderno, senza per questo spingerlo a
compiere spargimenti di sangue, stragi o
genocidi. Questi eventi, semmai, subentrarono
in un secondo tempo, e in genere molto raramente per volontà dei navigatori.
Il fascino
delle navi
Le navi, sin dall’antichità, rivestirono
un’aura di fascino, e,
al contrario di altre
attività del genio
umano, vissero una
loro vera e propria
vita. In altre parole,
mentre il cane, da
quel lunatico guardiano di pecore, arriverà a diventare il”
Commissario Rex”, il
cavallo, pur se già acclamato nella corsa delle
bighe nei circhi, troverà il suo epigono in
Varenne ma rimarrà pur sempre un cavallo,
mentre la ruota, ferrata, falcata o gommata,
ruota era e ruota sarebbe rimasta.
Non così la nave, che avrebbe subito nei secoli
drastiche ed essenziali trasformazioni, passando,
per fare un esempio, da mezzo a remi, ad
essere propulsa a vela, poi a vapore, a turbina,
e infine da un reattore nucleare.
E non dimentichiamoci, anche se siamo nel
campo della fantasia (del resto, a suo tempo,
lo fu anche il Nautilus di Verne), del famoso
serial televisivo che per un cinquantennio ha
dominato le fiction di tutto il mondo, il cui
incipit era, in testa di episodio, “Giornale di
bordo del Capitano, data astrale…”: Star Treck,
l’astronave spaziale in missione quinquennale
nello spazio, nei ruoli, però, di una ipotetica
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Due navi del passato (la corazzata tedesca Bismarck e Il vascello britannico Golden Hind, qui sopra), e una del futuro (l’immaginaria
astronave Enterprise in basso) testimoniano la forza evocativa che da sempre, nella storia dell’uomo, hanno avuto i vascelli; in apertura,
le acque di un porticciolo “deliziosamente” inquinate
futura Marina Astrale comandata e condotta
da personale di Marina con parole, metodi e
consuetudini che erano già in uso nella nelsoniana Royal Navy.
Le navi divennero perciò dei veri punti di riferimento del potere, della potenza e dell’economia delle Marine appartenenti alle varie
Case Regnanti, quando non, con il tempo, dei
veri e propri status symbol di regnanti, imperatori
e armatori di particolari Compagnie (le varie
Società delle indie olandesi, francesi, danesi,
svedesi o britanniche), fino a che, con il
tempo, furono di disponibile accesso anche
alla nobiltà prima, all’alta borghesia poi.
Questo fattore, unito alla nascita delle prime
regate in cui questo gruppo di teste un po’
matte si diede tenzone sugli Oceani, come la
Cumberland Regatta, inaugurata nel 1715, che
si tiene ancora oggi, o, nel 1851, la prima
competizione internazionale detta la Coppa
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delle Cento Ghinee, più nota come Coppa
America.
Tutto ciò, unito all’estremo amore per le scommesse sportive di molti popoli, in primis gli
inglesi, portò alla nascita di una vastissima
classe di appassionati che sapevano per filo e
per segno tutto sulle imbarcazioni e i loro
equipaggi e ne seguivano con costanza le
attività, ma senza intervenirvi in altro modo;
infatti, perché se era vero che le competizioni
veliche erano “il miglior modo per vivere una
vita impossibile”, secondo un detto britannico,
erano anche attività costosissime e alla portata
di veramente pochissimi “happy few”.
Quindi la realtà delle cose, unita alla vulgata
più o meno popolare, creò l’immagine, vera
per molti aspetti e per quei periodi, di uno
sport estremamente di classe e costoso, riservato
solo a quei pochi che se lo potevano permettere,
e che avevano la possibilità di destinare gran
Uno dei primi punti delicati che toccheremo è la cambusa, che da deposito viveri spesso diventa il ricettacolo di cibi scaduti, porcherie
che verranno buttate silenziosamente in mare e così via, grazie all’incoscienza di pseudo armatori
parte delle loro vite a non far altro che navigare
per diletto: cosa che, pur accettandola, il minatore di Glasgow, il coltivatore dell’Andalusia
o il liutaio lombardo difficilmente potevano
capire, mentre la capiva benissimo il pescatore
siciliano, anche se la considerava sotto tutt’altra
ottica.
La vela è uno sport
da ricchi
Il tempo, che non ha problemi, continuò a far
scorrere, lenti e inesorabili, lustri, decenni e
secoli, caddero monarchie e imperi, nacquero
le percezioni di nuovi stati sociali, due Guerre
Mondiali livellarono il terreno dei campi di
battaglia e non solo, ma la passione per il
mare mantenne vive le grandi competizioni
veliche che sopravvissero. Sempre costosissime
e più esclusive che mai.
Ma qualcosa era cambiato: i popoli avevano
iniziato ad avvicinarsi al mare per conto
proprio, era nata la passione per il nuoto, si
erano aperti i primi grandi stabilimenti balneari
a Brighton, in Normandia, a Livorno, ed erano
nati i primi circoli velici. Era iniziata una irreversibile osmosi che in breve, specie nel
secondo dopoguerra dello scorso secolo, avrebbe
portato alla crescita di un attaccamento di vastissimi strati di popolazione al mare e alle
attività a lui correlate.
La vela e le attività veliche non erano più un
sogno impossibile; lo stuolo dei loro appassionati
era andato aumentando a dismisura, sempre
entro certi limiti dovuti anche a ragioni, oltre
che economiche, geografiche; ma la vela, genericamente parlando, continuava ad essere
considerato uno sport per ricchi.
Certo, non era neanche pensabile che un sia
pur ben retribuito medio borghese potesse acquistarsi uno yacht per andare in America o
in Australia, ma era pur vero che anche il
figlio di un portiere poteva oramai, con spese
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Sul civismo ci sarebbe tanto da dire, ma purtroppo in tanti, troppi casi si tratterebbe di parole perse nella pochezza di chi non è in
grado, spesso pericolosamente, di recepirle
affrontabilissime, frequentare corsi nautici, prendere
brevetti o partecipare a regate sociali anche di rilevanza; ma la vela, scusateci
l’ossessiva ripetizione, continuava ad essere uno sport
per ricchi, anche se non era
più vero. D’altra parte ha
ragione il vecchio proverbio
ebraico che cita “Quando la
gente del villaggio mormora
che tua sorella è una poco di
buono, è inutile che tu sia
figlio unico”.
Poi, alla fine, dopo il boom
nato negli Anni 60, arrivò
l’inevitabile crisi economica
a totale discapito del terreno
che l’avvicinamento popolare alla vela aveva guadagnato: quando i soldi levitano e diminuiscono pericolosamente è meglio destinare la proprie attenzioni
ad altri campi.
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Non sono sempre degli zotici buzzurri quelli che contravvengono alle norme del buon vivere;
spesso, infatti, anche belle signore e incantevoli fanciulle dimenticano che tra recarsi in barca
per una breve gita o imbarcare su un transatlantico, c’è una certa differenza…
Pur tuttavia, la “flotta” degli appassionati si
manteneva cospicua e si poteva considerare
quantitativamente più stazionaria che in diminuzione, mentre era da registrare una novità
anche piuttosto notevole, se vogliamo.
Parliamo della calata in massa dei nuovi appassionati del mare che, purtroppo molto
spesso, si rivelavano degli arricchiti, in parte
cafoni, in parte parvenue del settore, quelli,
per intenderci, che possedendo motoscafi oltre
i 10 metri che loro affermano, “filano 30 nodi
all’ora” , sono capaci di salire con gli scarponi
chiodati su un ponte di tek tirato a lucido,
sfrecciano come pazzi con i loro costosissimi
mezzi a venti metri dalla riva fra il terrore e il
pericolo dei bagnanti, e utilizzano in continuazione il wc di bordo mentre sono ormeggiati
all’interno di minuscoli porti dalle acque cristalline, per poi godere di luculliani agape notturni, deliziati dalla musica di casse sonore di
non so quanti megawatt, fino alle tre del
mattino. E chi più ne ha più ne metta.
Purtroppo, infatti, l’interesse per il mare non
è cresciuto di pari passo con l’amore e il
rispetto per il liquido elemento, con la cultura
che alla sua fruizione dovrebbe sposarsi, ma
troppo spesso semplicemente per un edonistico
compiacimento pubblico delle proprie possibilità
economiche, possibilmente “condite” dall’esibizione, come trofei, di un pizzico di bellezze
da spiaggia.
Purtroppo, questa periodica ed estiva calata
dei vandali si ripete di anno in anno con i
“miglioramenti” del caso, come la comparsa
dei “quad”, i motociclettoni a quattro ruote
con i quali distruggere i crinali di splendide
dune per così destinarli ad un sempre maggior
livellamento e, quindi, alla scomparsa, per
tuffarsi poi in acque cristalline dove, con le
moto d’acqua, è agevole rischiare di colpire
bagnanti e subacquei compiendo evoluzioni
pazzesche.
Alla base del problema
Il problema di base non consiste nel punire
questi scriteriati, anche perché la Capitaneria
di Porto / Guardia Costiera ha, specie di questi
tempi, ben altri, maggiori e più importanti
Che dire poi della rumenta, questo vecchio termine giunto a noi dalla marineria di una volta e che a noi rimane, tal quale la rumenta
che gruppi di scriteriati filano a mare ad ogni occasione senza curarsi del danno ecologico che causano
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compiti di cui occuparsi. All’origine di tutta la
questione, invece, si trova un altro problema:
è mai possibile che sia tanto difficile comportarsi
civilmente, una volta che si indossa il costume
da bagno?
Vero è che vandali, teppistelli e delinquenti di
mezza tacca prosperano ovunque, oggigiorno,
ma qua non ci troviamo nell’ambiente degradato
delle periferie di una grande metropoli, ma di
fronte al mare, in uno scenario che è stato
cantato, dipinto, rappresentato musicalmente
da che l’uomo esiste.
Tutto sommato, basterebbe riuscire a mantenere
le regole del rispetto, a terra, a bordo e in
mare: verso l’ambiente e le persone che lo frequentano, verso le proprie imbarcazioni (dalle
quali in determinate circostanze, può anche
dipendere la nostra vita), e quelle degli altri,
non essere invadenti né presuntuosi, accettare
i consigli dei più esperti, evitare le bravate
gratuite e, qualora se ne desse l’occasione,
prestare il massimo soccorso a chi ne ha
bisogno. Se vogliamo, il tutto partendo dalle
norme più elementari della buona educazione
e della convivenza civile.
Queste poche regolette sono il miglior passaporto per una buona vacanza, il mantenimento nelle migliori condizioni del mare e,
ultimo ma non ultimo, per fungere da “biglietto da visita” nei confronti dell’opinione
pubblica di tanti Paesi, sempre pronta (purtroppo qualche volta a ragione) a punzecchiarci.
Basterebbe tanto poco…
Infine, per ultimo, l’argomento spesso più ignorato (e bistrattato) di bordo: il WC. Bene di altissima utilità che però andrebbe curato
e manutenuto, e soprattutto usato solo quando serve, dove si può e con civiltà, tre condizioni elementari che i nostri “capitani
zappaterra” sembrano non conoscere
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