Anni Trenta (1931

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Anni Trenta (1931
Anni Trenta
(1931-1940)
«La nascita è l’evento migliore della nostra vita.»
I
n una casa milanese di viale Papiniano il 21 marzo 1931 alle cinque di
un pomeriggio piovoso nasce Alda Merini. Sarà la seconda di tre fratelli, due femmine e un maschio; una famiglia numerosa, in cui non è
sempre facile tenere a bada i figli.
Il padre fa l’assicuratore, è taciturno, modesto, «un uomo buono
ma debole, un inguaribile romantico» che alla bambina Merini apparirà sempre succube della madre, donna bella e affascinante, ma piuttosto rigida negli affetti. Era stato direttore contabile di San Vittore e,
dopo aver rifiutato una promozione offerta dal Fascio, fu mandato al
confino. Pur non avendo una formazione letteraria, capisce e incoraggia fin da subito il grande amore della figlia per le lettere, tanto da regalarle a soli cinque anni un vocabolario. Alda Merini ne parla come del
suo primo maestro: «A due anni mi mettevo a tavolino con mio padre
che, con pazienza infinita, stringeva tra le mie mani la prima matita»1.
E rammenta come lo aspettasse impaziente, di ritorno dal lavoro, per
arrampicarsi sulle sue ginocchia e chiedere «ogni sera il significato di
almeno dieci parole»2. Insieme a lui, che era un buon tenore, impara
anche ad amare la musica, a frequentare il teatro Lirico e a risentire a
casa «i pezzi più cantabili delle operette».
La madre, figlia di insegnanti di Lodi, nonostante fosse una donna
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Alda Merini, Reato di vita, Milano, Melusine, 1996, p. 17.
Ivi, p. 13.
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alda merini: l’«io» in scena
di «naturale cultura e di grande buon senso»3 ha scarso interesse per lo
studio e ha sempre ostacolato le precoci aspirazioni letterarie della
figlia. Donna di grande bellezza e di carattere volitivo, collerico, «aveva
per i suoi figli un intuito miracoloso e una mano sicura nella disciplina»4 come tutte le madri di quegli anni5. Anche per questo, forse, non
voleva che Alda mettesse mano alla biblioteca paterna in cui erano
custoditi i tanto desiderati «libri proibiti»: la Storia dell’arte e la Divina
Commedia illustrata dal Doré. Sarà proprio quest’ultima a colpire l’attenzione della Merini che in seguito scriverà: «Da bambina, su queste
illustrazioni mi ero soffermata, spinta da non so quale richiamo, affascinata da un preludio che poi doveva avverarmi per quel senso di paranormalità che già possedevo, e che poi sviluppai nelle mie “visioni poetiche”»6. Una biblioteca che sarà distrutta durante la guerra e che a quel
tempo era oggetto delle «rapine di cultura» della ragazzina che a otto
anni aveva letto tutta la Delly: «Quei romanzetti rosa mi tenevano
compagnia, ma il mio entusiasmo era rivolto a Tolstoij, Dostoevskij,
Vicor Hugo e André Gide. Mio padre mi traduceva Les Nourritures
Terrestres e più tardi Paul Valéry fu una vera rivelazione»7.
3
Ibidem.
Ivi, p. 17.
5
«Al tempo del Fascismo, in cui io sono cresciuta, i ragazzi erano forzati alla
disciplina e le nostre madri erano veramente fasciste. Ebbi dunque una madre fascista, donna alta, di singolare bellezza, occhi verdi, capelli nerissimi. Faceva girar la testa
a tutti gli uomini del quartiere (e io mi sentivo una cosa vilissima a suo confronto)
tanto che, per tutta la mia infanzia e oltre, mio padre, quando la guardava, si perdeva in quella contemplazione beata che solo si sente quando sorgono i grandi amori.
Una certa nostalgia del “miracolo” mi ha sempre fatto soffrire fin dall’infanzia. Di
natura malinconica, sempre un po’ vile nei confronti della prepotenza dei miei coetanei, mi ero creata la mia immaginazione segreta e una inveterata solitudine che più
tardi avrebbe generato la mia nevrosi» (Ivi, p. 14).
6 Alda Merini, L’altra verità. Diario di una diversa, [1986], Milano, Rizzoli,
2006, p. 115.
7 Ivi, p. 24. Di quel periodo Alda Merini ricorda: «Io ero incredibilmente
testarda. Se la mamma mi faceva un’osservazione non le parlavo più per almeno una
settimana. Mi chiudevo in un silenzio di protesta. La consideravo una nemica perché ostacolava le mie aspirazioni letterarie. Era figlia di una maestra, veniva da una
famiglia colta, ma non voleva neppure sentir nominare la parola “cultura”. E in casa
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L’infanzia è serena, caratterizzata da un forte senso di appartenenza
alla vita, alla gioia e al «concentrato di amore» di quegli anni. Alda è
una bambina sensibile, timida, malinconica, introversa:
Sin da giovane ero una solitaria. Per farmi uscire, mia madre doveva buttarmi fuori di casa. Io stavo rinchiusa nella mia stanza, volevo
soltanto leggere. Avevo una gran voglia di studiare, di imparare, di
emergere. Il resto non mi importava. «È sempre quella dei tortelli rotti
questa qua», diceva la mamma spazientita. Voleva dire che ero quella
che si accontentava degli avanzi8.
Ma se, da un lato, questi sforzi mentali contribuiranno alla formazione di un personale bagaglio familiare e culturale, dall’altro si riversano su una salute cagionevole. Fin dalla tenera età, infatti, la Merini è
costretta per la malattia a vivere isolata, circondata dall’affetto e dalle
premure, talvolta esasperati, dei familiari. Segregata in casa, rassegnata
quasi a una vita pseudo-sedentaria «con lunghissime assenze da scuola
e lunghe ripetizioni in casa in attesa degli esami esterni»9, Alda si rifugia nei libri, i «piccoli grandi amici». Comincia a scrivere le prime rime
e a disegnare sull’esempio del «Corrierino dei Piccoli» che la madre
non le faceva mai mancare10. Proprio dalle didascalie di queste letture
infantili impara l’endecasillabo e l’esercizio della scrittura: «Ho imparato a scrivere dal “Corrierino dei Piccoli”, seguivo la metrica del
signor Bonaventura. Ricordo ancora: “Per paura della guerra / re
Giorgetto d’Inghilterra / chiese aiuto e protezione / al ministro
Ciurcillone”. Studiavo il ritmo dell’endecasillabo. La poesia è esplosa
nell’adolescenza, come una chiamata»11.
comandava lei» (Alda Merini, La pazza della porta accanto, Milano, Bompiani,
1995, p. 139).
8
Ibidem. Sull’infanzia di Alda Merini e sul rapporto con la madre si legga:
«Da bambina sognavo una cosa: di non essere sua figlia. La timidezza mi ha sempre impedito di dichiararle il mio amore. Sono stata una bambina emarginata. Una
bambina che non legava con nessuno, una bambina sola» (Ivi, p. 82).
9
Alda Merini, Reato di vita, cit., p. 24.
10
«A tre anni, sceglievo la carta della pasta Barilla e un lapis, e disegnavo chiese, chiesette, campanili, viottoli con una persona sola che andava in chiesa. I miei
disegni erano appesi per casa con un chiodo. Disegnavo bene» (Ivi, p. 149).
11
Ibidem.
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alda merini: l’«io» in scena
Il rapporto con i genitori è di grande affetto e ammirazione, tuttavia la madre provocherà sempre nella figlia sentimenti opposti: «Era il
concetto dell’Universale e l’eterno femminino di cui poi mi sarei innamorata»12, ma anche la donna «bugiarda», che non raccontava tutta la
verità al padre e, soprattutto, «minimizzandomi, non creava intorno a
me quell’alone di leggenda che avrei voluto per stupire mio padre»13.
Alla riconosciuta ammirazione per la madre si contrappone una forte
gelosia per il rapporto privilegiato che Alda avverte fra i genitori, tanto
che, anni dopo, in Reato di vita scriverà: «Ero afflitta, per così dire, da
uno straordinario amore per i miei genitori; il loro esempio non finiva
mai di stupirmi e volevo cercar di capire che cosa potesse unire due
esseri umani in un amore così perfetto»14. Si avverte un dualismo entro
cui la ragazza non riesce a collocarsi e la presunta esclusione dal privilegio degli affetti la condanna a uno «specioso rancore» che addolorerà
oscuramente la primissima infanzia. Nonostante il passare del tempo
l’ambiente familiare rimane ancora a lungo legato a un nodo che pare
non potersi sciogliere: «Il più grande dualismo della mia vita furono
mio padre e mia madre. Io, un figlio che non stava nel mezzo, con un
sesso che non mi piaceva. Cercai di avvicinarmi alla povertà del dolore e feci infinite prove di teatro. Ero il centro dell’universo nella sua
angoscia. Ma soprattutto mi sentivo la sua disparità naturale»15.
12 Ivi, pp. 23-24. Questo il ritratto della madre che la Merini affida a una delle
sue opere più conosciute La pazza della porta accanto: «Non ho mai visto una
donna più bella e più altera di mia madre. Da noi la chiamavamo la montenegrina. Era alta, flessuosa e nobile. Il mio complesso di inferiorità cominciò proprio
da lei. Da questa donna dal volto imperdonabile, dotata di quella cattiveria che
cresce fianco a fianco. Ma di una bellezza quasi inimmaginabile. L’educazione di
mia madre era tutta nel terrore che emanava dalla bellezza. Era corposa e nobile a
un tempo, piena di maternità fino all’inverosimile. Quando rideva il suo volto era
pieno di ombre e di luci. Era perfettamente eguale a Monna Lisa. Però più nobile, più peccatrice. […] Mio padre non faceva che guardarmi con occhio estasiato,
quasi cercasse in me un aiuto da questa grande prepotenza stellare che era mia
madre» (Alda Merini, La pazza della porta accanto, cit., p. 82).
13 Alda Merini, Reato di vita, cit., pp. 17-18.
14 Ivi, p. 18.
15 Alda Merini, La pazza della porta accanto, cit., p. 81.