Gennaio 2016 Inserto
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Gennaio 2016 Inserto
SPI CGIL VENEZIA Lega Laguna Nord Est CONFERENZA SUL CLIMA: DA RIO DE JANEIRO A PARIGI INSERTO/1-2016 Dal 30 novembre all’11 dicembre 2015, 195 paesi hanno discusso un nuovo accordo per ridurre le emissioni, in modo da rallentare il riscaldamento globale. I fenomeni meteorologici estremi sono sempre più frequenti ed entro la fine del secolo le temperature potrebbero aumentare di 3 gradi. In buona parte è colpa degli esseri umani. Per salvare il pianeta servono nuovi modelli di produzione e consumo. L’umanità ha iniziato a porsi seriamente il problema dei danni derivati dallo sviluppo delle sue attività produttive in tempi recentissimi. Fino agli anni novanta del Novecento le problematiche legate all’ambiente, all’uso e agli effetti prodotti dalle limitate risorse energetiche naturali del pianeta erano, di fatto, delegate ai singoli Stati. L’occidente nel suo insieme (Usa - Giappone - Europa) era sia troppo occupato e teso al raggiungimento della supremazia economica e tecnologica sia preoccupato di mantenere il proprio benessere per interrogarsi seriamente sul suo limite. I paesi cosiddetti in via di sviluppo, Cina e India in testa, troppo presi a raggiungere lo sviluppo e il benessere negato loro dai primi. Ogni singolo Stato, ogni gruppo di Stati, gli uni contro gli altri. Ciò a partire da ideologie e interessi di parte che nulla avevano di obbiettivo in relazione ai limiti di sfruttamento delle risorse naturali del pianeta in cui tutti viviamo. Nei secoli scorsi, la scarsa conoscenza dello stesso Pianeta, le enormi estensioni di terre ancora inesplorate, le minori capacità e conoscenze scientifiche e una tecnologia pressoché inesistente davano l’impressione che le risorse energetiche della Terra fossero inesauribili. Il mondo si interroga collettivamente sulle energie, il loro uso e spreco e i danni derivati dall’inquinamento prodotto nel 1992 a Rio de Janeiro, nel “Summit della Terra” organizzato dalle Nazioni Unite. Vi presero parte le delegazioni di 154 nazioni, si concluse con la stesura della Convezione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Senza alcun vincolo per i singoli Paesi prevedeva una serie di adeguamenti o protocolli che avrebbero introdotto limiti obbligatori alle emissioni di CO2. Obiettivo del trattato era il raggiungimento, entro il 2000, della stabilizzazione delle concentrazioni di gas serra nell’atmosfera rispetto ai livelli del 1990. I Paesi più industrializzati si attribuirono gran parte delle responsabilità dei cambiamenti climatici. Dal 1994 le delegazioni decisero di incontrarsi annualmente. Da allora le Nazioni Unite hanno organizzato altre tredici Conferenze fino ad arrivare, con ben pochi risultati concreti, alla conferenza tenutasi a Parigi dal 30 novembre al 12 dicembre dello scorso anno. COSA DICE L’ACCORDO SUL CLIMA DI PARIGI Un impegno a mantenere l'aumento di temperatura entro i due gradi, soldi ai paesi più poveri e periodiche conferenze di revisione Il 12 dicembre 2015 a Parigi i delegati di 195 paesi che partecipano alla Conferenza mondiale sul clima hanno firmato un accordo in cui si impegnano a ridurre le emissioni inquinanti in tutto il mondo. L’importanza dell’accordo è data sostanzialmente dal fatto che è stato sottoscritto da tutti i paesi partecipanti: anche da quelli emergenti. L’accordo contiene sostanzialmente quattro impegni per gli stati che lo hanno sottoscritto. • Mantenere l’aumento di temperatura inferiore ai 2 gradi, e compiere sforzi per mantenerlo entro 1,5 gradi. • Smettere di incrementare le emissioni di gas serra il prima possibile e raggiungere nella seconda parte del secolo il momento in cui la produzione di nuovi gas serra sarà sufficientemente bassa da essere assorbita naturalmente. • Controllare i progressi compiuti ogni cinque anni, tramite nuove Conferenze. • Versare 100 miliardi di dollari ogni anno ai paesi più poveri per aiutarli a sviluppare fonti di energia meno inquinanti. segue a pag. 2 I SIAMO GLI UNICI A POTER SALVARE IL PIANETA Segue dalla prima pagina Alcune di queste disposizioni sono legalmente vincolanti, mentre alle altre i vari paesi aderiscono solo in maniera volontaria. Ad esempio, tutti i paesi saranno obbligati dal trattato a fornire l’obbiettivo di riduzione delle emissioni a cui mirano e a partecipare al processo di revisione quinquennale. La maggiore critica che viene avanzata al documento è però il fatto che non sono previste sanzioni nel caso che gli obbiettivi non vengano raggiunti, e che sostanzialmente diversi paesi avranno margine per ignorare le raccomandazioni contenute nel documento. Greenpeace ha detto che il documento è stato “depotenziato” rispetto alle loro aspettative, ma ha aggiunto che comunque mette le società petrolifere e i produttori di carbone “dal lato sbagliato della storia”. Secondo il WWF si tratta di un “forte segnale”, mentre, secondo ActionAid il testo non è abbastanza ambizioso. Oxfam sostiene invece che i paesi ricchi non hanno promesso abbastanza finanziamenti ai paesi in via di sviluppo per bilanciare le perdite che subiranno per l’utilizzo di macchinari meno inquinanti ma più costosi. Inizialmente si temeva l’opposizione dei paesi in via di sviluppo e di quelli che sono importanti esportatori di energia. I delegati cinesi, ritenuti tra i principali oppositori del piano, hanno definito l’accordo “non ideale”, ma “buono”. Cina, India e altri paesi in via di industrializzazione si opponevano da anni a un accordo che imponesse regole troppo severe da rispettare perché in genere le loro industrie sono particolarmente inquinanti e limitare le emissioni potrebbe causare un rallentamento della crescita economica. Per motivi opposti, anche il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha detto che l’accordo non è “perfetto”, ma che è comunque “ambizioso”. Gli Stati Uniti, come l’Europa, hanno da tempo introdotto tecnologie che hanno permesso loro di ridurre le emissioni e durante la conferenza si battevano per l’introduzione di norme severe contro le emissioni. Gli ostacoli più grossi alla trattativa arrivavano non soltanto dai paesi produttori di combustibili fossili e da quelli in via di sviluppo, ma anche dagli Stati Uniti, contrari a qualunque accordo legalmente vincolante perché un accordo di questo tipo avrebbe dovuto essere approvato dal Congresso, dove la maggioranza repubblicana lo avrebbe quasi certamente bocciato. Per risolvere questi problemi Europa e Stati Uniti hanno presentato una coalizione trasversale di 90 paesi che rappresentava nazioni ricche e nazioni in via di sviluppo. Grazie all’aiuto di questo gruppo, i negoziatori sono riusciti a convincere India, Cina e Arabia Saudita ad accettare l’accordo. Le obiezioni americane sono state aggirate quando i negoziatori francesi hanno preparato una bozza di piano “prendere o lasciare”. La bozza, che costringeva tutte le varie parti a rinunciare ad alcune delle loro “linee rosse”, è stata finalmente approvata. Il 12 dicembre 2015 la conferenza dell’Onu di Parigi approva l’accordo. Dovrebbe entrare in vigore nel 2020 e prevede l’impegno a contenere il rialzo della temperatura media globale “ben al di sotto dei 2 gradi centigradi” rispetto ai livelli preindustriali, “sforzandosi di raggiungere 1,5 gradi”. L’accordo, definito “storico” da molti, è stato raggiunto dopo 12 giorni di colloqui tra le delegazioni di 195 paesi. "Il mondo non ha mai affrontato una sfida così grande": con questo monito, il presidente francese Hollande ha aperto il vertice mondiale per la 21ma Conferenza dell'Onu sui cambiamenti climatici che dovrà cercare un accordo per scongiurare una catastrofe ambientale irreversibile. Gli obiettivi sono la riduzione delle emissioni ma anche un aumento degli investimenti nelle energie rinnovabili, in modo da scongiurare un aumento della temperatura terrestre oltre i due gradi rispetto all'era preindustriale. "Il successo è alla nostra portata ma ancora non è stato raggiunto. La posta in gioco è troppo importante per potersi accontentare di un accordo al ribasso”. Il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon ha chiesto di osservare un minuto di silenzio per le vittime delle stragi del 13 novembre. "Abbiamo nelle mani il futuro delle prossime generazioni", ha poi avvertito. Hollande ha esortato a "lottare per il clima come contro il terrorismo" osservando che "i cambiamenti climatici"creano più migrazioni delle guerre". Barack Obama ha ammesso che gli Usa "hanno contribuito a creare il problema" e ha avvertito che "siamo l'ultima generazione che può cambiare le cose". "Dobbiamo avere qui, adesso, il potere di cambiare", ha aggiunto. Il presidente cinese, Xi Jinping, ha assicurato che il suo Paese "si impegna nella campagna mondiale su cambiamenti climatici" e per questo "gli impegni ecologici saranno in cima all'agenda dei prossimi piani pluriennali". Per Vladimir Putin "si può crescere riducendo le emissioni" e il presidente russo ha proposto un Forum mondiale a guida Onu. Per Matteo Renzi il futuro del pianeta è "una sfida che riguarda tutti noi, i nostri figli e i nostri nipoti", ma è ora di "uscire dalla retorica per cui l'Italia non fa abbastanza". L'obiettivo è un contenimento "sotto i 2 gradi" dell'aumento delle temperature, ha avvertito il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon, sottolineando che un'intesa sul clima serve anche a "garantire la pace e la sicurezza internazionale". "Il futuro del mondo è nelle vostre mani", ha aggiunto, invitando i 147 leader mondiali presenti, da Obama a Putin passando per Merkel, Renzi e Cameron, a "mostrare visione e coraggio". Il cambiamento climatico, ha dichiarato il presidente francese Hollande, è insieme al terrorismo una delle due "grandi sfide che dobbiamo affrontare" perché "ai nostri II 179 Paesi, rappresentanti il 95% della popolazione e il 94% delle emissioni globali, hanno presentato le loro "promesse" di riduzione dei gas serra. Sono 2,7 i gradi entro cui si conterrebbe il riscaldamento globale al 2100 stando agli impegni annunciati dagli Stati mentre l'obiettivo è restare sotto i due gradi. Il 2050 è l'anno entro cui i Paesi del G7 si sono impegnati a ridurre del 70% le loro emissioni rispetto al 2010. figli dobbiamo lasciare di più che un mondo libero dal terrore, un pianeta preservato dalle catastrofi, un pianeta sostenibile". Anche perché, ha avvertito il principe Carlo d'Inghilterra chiamato ad aprire i lavori, la Terra "potrà sopravvivere all'aumento dei mari e delle temperature, ma non l'Uomo". Questi i numeri del grande appuntamento: 10.000 delegati e altri 30.000 tra scienziati, giornalisti, osservatori. C’è l’accordo sul clima, ma per gli scienziati non basta: «Il carbone va eliminato del tutto» Non è il miglior accordo possibile, ma nonostante tutti i suoi limiti l’intesa sul clima che è emersa dalla conferenza di Parigi è assolutamente positiva. E segna in modo definitivo lo spartiacque tra la tramontata era del carbone, del petrolio e del gas, e una nuova stagione della storia dell’umanità basata su tecnologie pulite e «low carbon». Sono praticamente concordi gli scienziati presenti nel parco delle Esposizioni di Le Bourget ad attuare un programma di azione per molti anni sollecitato invano dalla scienza. Parigi, ecco cosa prevede l’accordo sul clima «Siamo arrivati ad un progetto che riflette le posizioni delle parti» ha dichiarato Laurent Fabius. «Si tratta di un accordo giusto, sostenibile, dinamico, equilibrato e vincolante. È uno storico punto di svolta». Il testo è stato tradotto in sei lingue prima di essere presentato. «Avete lavorato molto, notte e giorno, e voglio esprimersi la gratitudine della Francia. Ora - ha commentato Hollande diretto alle 195 delegazioni dei paesi presenti al Summit - starà a voi ora dare una conclusione a questo accordo e compiere l’ultimo sforzo. Solo voi potete portare una risposta». «Il testo preparato e che vi è stato presentato è ambizioso e realistico e invita alla responsabilità». «Non tutte le richieste sono state soddisfatte» ha aggiunto, ma «saremo giudicati per un testo non per una parola, non per il lavoro di un giorno ma per un accordo che vale per un secolo» Non quantificabile «È un peccato che non ci siano obiettivi quantificabili», analizza Sergio Castellari, per anni punto di riferimento per l’Italia nell’Ippc dell’Onu. Nella prima versione del testo c’erano, nella seconda si parla di una più generica «neutralità carbonica», ovvero che la riduzione delle emissioni si può ottenere anche attraverso una serie di azioni aggiuntive (riforestazione, cattura e sequestro, e così via, forse compresa anche la temutissima geoingegneria) «Come scienziato sarei stato molto felice se fosse rimasto questo tentativo di avere degli obiettivi in cifre. Ma capisco che l’approccio di questo testo, bottom-up, non li contempli». Per Johan Rockström, direttore del Stockholm Resilience Centre, sarebbe molto meglio reinserire il termine «decarbonizzazione», ovvero chiarire che bisogna «smettere di usare progressivamente le fonti fossili di energia». Rockstrom accetta anche il meccanismo degli Indc, gli obiettivi volontari nazionali di taglio delle emissioni. Ma chiede che siano rivisti ogni anno, e non ogni cinque come attualmente previsto, perché «si deve tenere il passo con la velocità e la rapidità con cui la tecnologia cambia». Anche scetticismo Posizione più critica è quella di Kevin Anderson, vice-direttore del Tyndall Centre di Manchester. «La retorica non servirà a tagliare le emissioni di CO2 - accusa - questo testo è debole, non si fonda su solide basi scientifiche, non considera le emissioni del comparto aereo e navale. L’unica via è arrivare a zero emissioni: entro il 2050 se vogliamo puntare a +1,5 gradi, entro il 2070 se l’obiettivo è quello dei 2 gradi». Castellari comunque osserva un punto qualificante: «l’adattamento, che emerge come un elemento centrale, che è importante poiché anche se riduciamo le emissioni molti impatti sono inevitabili. Adattare significa aumentare la resilienza, chi avrà una maggiore capacità di adattamento subirà meno questi impatti». III LA GUERRA È NEMICA DEL CLIMA: QUAL È L’IMPRONTA CLIMATICA DEGLI ESERCITI? Nella Conferenza di Parigi non si è parlato di armi, perché il complesso militar-industriale, compresi i conflitti in cui gli apparati vengono utilizzati, è esentato dagli obblighi di rendicontazione e riduzione delle emissioni. Il solo Pentagono sarebbe il principale produttore istituzionale di gas serra al mondo, con oltre il 5% del totale. Quanto carburante fossile ha consumato il 3 ottobre 2015 l’aereo AC-130 della United States Air Force per i 45 minuti di bombardamenti sull’ospedale di Medici senza Frontiere a Kunduz (Afghanistan) che hanno fatto molte vittime civili nel quadro della missione Nato (e dunque anche per conto dell’Italia)? Quante emissioni di CO2 e degli altri gas serra provocano le guerre in corso soprattutto in Medioriente? Quanti gas climalteranti emette un carrarmato per avanzare di un chilometro compattando rovinosamente il suolo? Si può calcolare l’impronta climatica globale degli scarponi militari? Fa osservare Mike Berners-Lee, direttore di Small World Consulting e autore di How Bad are Bananas? The Carbon Footprint of Everything: “I costi umani diretti delle guerre sono così tragici che pensare agli impatti ambientali e climatici pare quasi frivolo o insolente. Ma le moderne forze armate e le loro operazioni belliche sono voraci divoratrici di energia ed emettendo carbonio riscaldano il clima, condannando gli umani anche oltre e dopo la fase della guerra”. “Il settore militare non solo inquina ma contamina, trasfigura, rade al suolo. Scrivendo il mio libro mi sono accorto che il destino della Terra e del mondo è nelle mani delle armi. Un concetto impressionante”, ha scritto il saggista Barry Sanders, autore di The Green Zone.The environmental costs of militarism (2009). Non sono certo bruscolini le emissioni climalteranti riconducibili ai sistemi d’arma, agli eserciti, alle loro basi e apparati, agli aerei, alle navi, ai carri armati, alle guerre che ne sono l’acme. In assenza di calcoli globali istituzionali, qualche anno fa la rete ecologista internazionale Friends of the Earth stimò che per minacciare e fare la guerra di terra, di cielo e di mare, in media si provocava l’emissione di due miliardi di tonnellate di CO2 equivalente all’anno. Al tempo della stima, nel 2005, si trattava del 5% delle emissioni annuali mondiali, per tutti i Paesi e i settori. Se si vuole contenere l’aumento della temperatura terrestre in due gradi (e sono già troppi), è necessario non superare il “budget residuo di anidride carbonica”, pari a sole 825 giga-tonnellate fra il 2011 e il 2050, come ricorda il recente rapporto Demilitarization for Deep Decarbonization (settembre 2014) dell’International Peace Bureau (Ipb), una federazione fondata nel 1892, che è perentorio: “Ridurre il complesso militar-industriale e ripudiare la guerra è una condizione necessaria per salvare il clima, destinando le risorse risparmiate all’economia post-estrattiva e alla creazione di comunità resilienti. Le spese militari rubano alla comunità internazionale i fondi di cui ha disperatamente bisogno per la mitigazione e l’adattamento alla crisi climatica”. Nell’ambito delle attività militari, fra le più energivore del pianeta, il complesso militar-industriale statunitense è ovviamente l’imputato principale. Solo 35 Paesi consumano più energia di quest’entità, che secondo Barry Sanders è il principale produttore istituzionale di gas serra al mondo: oltre il 5% del totale. Ma la percentuale sarebbe molto più alta, se si comprendessero i costi energetici di produzione delle armi, il consumo di combustibili fossili e di materiali da parte dei privati contractors e infine l’enorme peso della ricostruzione di quanto distrutto dalle guerre. Il Pentagono è anche “una ragnatela di 1.000 basi, un arco nero dalle Ande al Nordafrica, dal Medioriente all’Indonesia, ricalcando la distribuzione delle principali risorse fossili, e delle rotte commerciali. E con le sue guerre, come quella all’Iraq, che annualmente è stata responsabile di una quantità di emissioni maggiore di quelle che 139 Paesi al mondo producono per vivere” spiega Patricia Hynes in un articolo su Truthout. Senza fare il minimo mea culpa, il Dipartimento Usa alla Difesa sia nel 2004 che di recente ha sottolineato come i cambiamenti climatici siano per la sicurezza nazionale un “fattore di vulnerabilità molto importante, suscettibile di aumentare frequenza, scala di grandezza e complessità delle future missioni”. Quali? Per esempio trattenere i migranti climatici, che nel 2050 potrebbero essere 200 milioni? Ma la stranezza è che del rapporto armi, guerre e clima non si parla mai ai negoziati al capezzale dell’atmosfera. Dice Ben Cramer, docente, giornalista e autore del libro Guerre et paix…et écologie: “È un tabù rispettato dalla maggior parte degli attori, perfino dalle ong. Si ignora questo 10%, per non parlare di chi minimizza come di recente ha fatto un consigliere top del presidente Hollande.” Spiega sempre il rapporto Demilitarization for Deep Decarbonization: “La maggior parte dei consumi di combustibili fossili e le relative emissioni sono escluse dagli obblighi di riduzione. Negli inventari nazionali è riportato solo il carburante usato in patria. Questa esenzione deriva dall’intensa lobby statunitense durante i negoziati per il Protocollo di Kyoto sulla riduzione delle emissioni climalteranti, alla metà degli anni 1990. Per ottenere la ratifica da parte degli Usa, la comunità internazionale accettò il ricatto: escludere l’obbligo di riduzione delle emissioni legate al settore militare”. Si noti che poi il presidente George Bush negò la ratifica del Protocollo. Ma l’esenzione per i bombardieri è rimasta. Non solo. Sempre l’Ipb rileva che “non si parla delle eccessive spese militari come possibile fonte di finanziamento del Fondo Onu per il clima”. Totale condono per un settore ad alta intensità di emissioni climalteranti e dal pesante impatto sull’ambiente, nonché mortale per le persone. Ecco perché i calcoli sulle emissioni del Pentagono sono stime. L’apparato non è tenuto a dichiarare nulla. “Le emissioni del settore militare e delle guerre sono in effetti una questione importante eppure esclusa dalla Convenzione Onu sui cambiamenti climatici” ci conferma Chris Doebbler, giurista internazionale e attivista per la pace. Anche l’ultimo World Energy Statistics dell’International Energy Agency conferma che il megasettore militare è escluso dal conteggio dei consumi di carburante nelle categorie del bunkeraggio marino internazionale e dei trasporti in tutti i Paesi. Maggie Zhou, scienziata climatica alla quale le proteste contro il nesso guerra e clima valsero nel 2010 l’esclusione dai negoziati, sottolinea “lo scarto da cento a uno fra le spese Usa per la Difesa e gli stanziamenti in favore del clima da parte di tutti i Paesi Ocse”. Spiega l’appello “Stop the Wars, Stop the Warming” del luglio 2014: “È un infernale circolo vizioso, l’uso esorbitante di petrolio da parte del settore militare statunitense per condurre guerre per il petrolio e le risorse, guerre che rilasciano gas climalteranti e provocano il riscaldamento globale. È tempo di spezzare questo circolo: farla finita non solo con le guerre per il petrolio, ma con l’uso di petrolio per fare le guerre”. IV Fonte WEB. A cura di Alessandro Filippo Nappi e Giuliano Zanetti