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IL FOGLIO
Redazione e Amministrazione: L.go Corsia Dei Servi 3 - 20122 Milano. Tel 02/771295.1
ANNO XIII NUMERO 299
Morti e saccheggi a Goma
Accuse incrociate tra il leader dei tutsi
Nkunda e il presidente Kabila sui
“padrini” a Pechino e a Washington
Londra insiste per la missione
Kinsasha. Il conflitto in Congo, con morti
e saccheggi nella zona orientale del paese,
ha fatto emergere uno scontro geopolitico,
una “nuova guerra fredda” secondo la definizione di alcuni analisti, tra Cina e Stati
Uniti sul continente africano. Da una parte
c’è l’espansionismo, non soltanto economico, di Pechino a caccia di risorse energetiche e minerarie. Dall’altra c’è il contenimento americano, che prende il posto del
ruolo storico giocato in Africa dai grandi
paesi europei, sempre più spaccati e indecisi. Tre giorni fa, il capo dei ribelli tutsi,
Laurent Nkunda, che ha conquistato ampie
fette del nord Kivu ed è alle porte di Goma,
capoluogo della strategica regione congolese, annunciava un cessate il fuoco unilaterale e la disponibilità a trattare con il governo di Kinshasa. Nkunda, accusato di crimini di guerra, ha fatto alcune rivendicazioni.
Una di queste rivela i riflessi strategici del
conflitto: Nkunda chiede al presidente congolose, Joseph Kabila, di rinegoziare il patto d’acciaio siglato pochi mesi fa con la Cina. Un accordo di 9 miliardi di dollari per
la costruzione di infrastrutture in cambio
dei diritti di sfruttamento delle risorse minerarie. L’intesa prevede un investimento
di Pechino di sei miliardi di dollari per la
costruzione, attraverso imprese cinesi, di oltre seimila chilometri di strade, tremila chilometri di linee ferroviarie, due dighe, ospedali e scuole. I rimanenti tre miliardi saranno investiti nel settore minerario. L’accordo
configura la creazione di una joint venture,
detenuta al 68 per cento dal gruppo di imprese cinesi Railway Group e Sinohydro
Corporation e al 32 dalla
società nazionale congolese Gécamines. I termini
dell’intesa prevedono “l’esenzione totale” da qualsiasi tassa o imposta sullo
sfruttamento e la commercializzazione dei minerali
fino al rimborso dell’investimento iniziale. Un’inL. NKUNDA
chiesta condotta dall’Onu
ha stabilito che le guerre in Congo riguardano da vicino “l’accesso, il controllo e il commercio” dei cinque principali minerali che
si trovano nel sottosuolo del paese (coltan,
diamanti, rame, cobalto e oro). Lo sfruttamento di queste risorse da parte di forze
straniere, spesso intervenute militarmente
in Congo, è risultato “sistematico”. I vicini
Uganda e Ruanda sono stati accusati di avere trasformato le loro forze armate in “eserciti d’affari”.
Il Kivu, dove da anni combatte il generale Nkunda, è uno dei forzieri minerari del
Congo. Il capo dei ribelli è un tutsi legato al
Fronte patriottico ruandese fondato da
Paul Kagame, padre-padrone del Ruanda.
L’appoggio dell’esercito ruandese ai miliziani di Nkunda è un segreto che tutti sanno. Sul fronte opposto, le fatiscenti forze armate congolesi sono alleate con i resti degli hutu che si macchiarono del genocidio
in Ruanda nel 1994. Laurent Kabila, il discusso padre dell’attuale presidente congolese, frequentò ai tempi della Guerra fredda una scuola militare in Cina per poi seminare guerriglia e verbo marxista in Africa. Il giovane erede, che ha perso la fiducia
negli europei, punta ai cinesi per possibili
forniture militari, come elicotteri d’attacco
e addestramento.
DOMENICA 2 NOVEMBRE 2008 - € 1
IL MONDO PERFETTO DI BARACK OBAMA
oi, qui, non abbiamo un “sogno italiano”. Ci risulta difficile credere che il soN
gno americano possa essere moneta corrente, non nei salotti di Manhattan, ma nel paese normale. E che il suo sgretolarsi abbia
provocato un effetto simile a quello di un abbandono del tetto coniugale. Il miliardariofilantropo Carnegie scriveva che sfortunato
è il riccone che muore avvinghiato ai suoi
quattrini, senza aver permesso loro
di riciclarsi in lubrificante sociale.
Warren Buffett, un altro che a un
certo punto ha scaricato il superfluo
dal conto in banca nel circuito della produzione di opportunità, nei
giorni del crollo di Wall Street invitava i connazionali a salvaguardare la dignità, contrariamente ai
pirati della finanza americana. Barack Obama, in quelle stesse ore,
al fatale incontro con Joe l’idraulico, usò l’espressione “distribuzione del benessere” per riassumere la sua
visione per l’America che s’augurava di governare: un posto dove le possibilità tornino
ad aprirsi, le vie per il paradiso siano praticabili e dove chi sta meglio, chi ha già conseguito un assodato benessere, accetti di pagare qualche soldo in più per aiutare chi sta
peggio. Niente di nuovo in questo, niente
che contraddica il credo nella buona volontà
e nell’empatia su cui i Padri fondatori avvia-
rono il loro progetto. Perfino l’espressione
“distribuzione del benessere”, usata da Obama a Toledo, non è originale, è riciclata da
un personaggio di Thornton Wilder che, a un
certo punto, paragona il denaro al concime:
non ha valore se non lo si usa.
Eppure, nel rush della campagna, i repubblicani hanno selezionato il leit-motiv
dell’“Obama socialista”, del redistributore
che ti ficca le mani in saccoccia, per screditare l’avversario e spaventare l’America indecisa. Dimenticando che, come
suggeriscono campioni del capitalismo tipo Carnegie e Buffett, la via
americana non ha mai rischiato
d’intingersi in tentazioni collettivistiche, pur provando a instaurare
una logica e un’etica del pluralismo
che ispirasse la crescita civile. Riallacciarsi a quel filo di generosità e attenzione è uno dei meriti della campagna di Obama per la presidenza, per come
l’ha concertata e per come, interpretando i
suoi desideri, David Axelrod l’ha orchestrata
sul filo della grande rappresentazione. Non è
un caso che, partendo da questa visione e dalla solennità con cui andava presentata, il senatore dell’Illinois abbia generato un movimento popolare che va oltre la questione dell’anacronistica persistenza dei partiti politici. Obama inizia una campagna improbabile
senza quattrini e senza sponsor, ma travolge
le “inevitabili” macchine elettorali avversarie, aggregando tecnologicamente un movimento spontaneo di base attorno alla proposta d’un nuovo vigore nazionale connesso con
quello dell’età d’oro, al tempo stesso chiedendo ai seguaci i quattrini necessari a vincere –
un pozzo di milioni che gli sarebbe stato puntualmente accordato. E se “promessa” e “movimento” sono le prime due parole-chiave
che hanno permesso a Obama d’arrivare sulla soglia della vittoria, il terzo fattore è “razza”: la destabilizzazione di certezze preesistenti, la capacità di indurre gli americani a
scegliere l’uomo “capace”, prima che l’uomo
in scala cromatica prediletta, sono il prodotto di indubbio progresso. L’America, confrontandosi quotidianamente con Obama, ha intrapreso una seduta psicanalitica di massa
Wedding Obama
“A Obama è stato chiesto perché è contro le
nozze gay pure se ha condannato tutte le leggi che avrebbero impedito il matrimonio tra
suo padre nero e sua madre bianca. La dfferenza, ha detto Obama, è la religione. Come
cristiano – è membro dell'United Church of
Christ – Obama crede che il matrimonio sia
un'unione sacra, una benedizione di Dio, intesa esclusivamente per un uomo e una donna”.
New York Times, 1 novembre 2008
che, salvo sorprese, archivierà l’effetto Bradley, consegnando un paese che cerca leadership, anziché appartenenza, come ha ribadito ieri Obama nel suo appello alla radio:
“Cambierò l’America”.
L’estate s’è rivelato il momento in cui il
candidato “rockstar” ha cominciato a esprimere il suo quarto valore assoluto: il proprio
sistema di risposte. Obama ha esposto non
soltanto la sua vasta competenza, ma la capacità di delega e di utilizzo delle competenze disponibili. L’Obama che chiama al suo
fianco Paul Volcker o Larry Summers, l’Obama che ascolta i generali e ne soppesa le
correzione di rotta per il medio oriente, l’Obama pronto a pescare contributi in tutte le
classi anagrafiche e politiche, è prima un
grande coordinatore che un frenetico decisionista, e ciò piace all’America amara di
questi giorni. Obama alla Casa Bianca commetterà errori e sarà immortalato durante
imprevisti inciampi. Il rapporto con un Congresso troppo democratico e bramoso di
sprigionare potere, ormoni e vendette, sarà
per lui una terribile insidia. Ma si percepisce un rassicurante ottimismo alla base d’un
suo insediamento. La sensazione di una ripartenza invocata. Dove le distanze siano
più riavvicinate, le spalle più coperte, gli
estremi meno lontani, i figli più accuditi.
Non è tutta materia prima con cui è stata costruita la più magnifica delle nazioni?
“Lo sforzo finale” di John McCain
Lo staff del candidato repubblicano non molla e segnala riprese negli stati in bilico
New York. A due giorni dalle elezioni presidenziali – con i sondaggi che continuano a
minacciare una débâcle, tranne uno Zogby
che dà addirittura John McCain avanti di un
punto – il manager della campagna elettorale di John McCain ha scritto un memorandum dal titolo “The Final Push - The State of
the Campaign” per spiegare che in queste ultime ore il suo candidato sta recuperando e
che, al contrario di chi lo considera già sconfitto, ha buone possibilità di farcela, martedì
notte. Il fronte Obama sostiene l’esatto contrario e ieri, a dimostrazione che il candidato democratico è competitivo ovunque, ha cominciato a comprare spot televisivi in stati
tradizionalmente repubblicani, come il Nord
Dakota, la Georgia e addirittura l’Arizona, lo
stato di McCain.
Il manager del candidato repubblicano,
Rick Davis, ha spiegato che un elettore su sette è ancora indeciso. Questo vuol dire che se
martedì andranno alle urne 130 milioni di
americani, come si crede, ce ne sono ancora
18 milioni e mezzo da convincere. McCain
pensa di farcela perché finire alla grande, dopo che è stato dato per morto, è una sua antica caratteristica, ma anche perché i sondaggi
cominciano a segnalare un avvicinamento
dei due candidati. La settimana scorsa, ha
scritto Davis, i sondaggi davano McCain indietro di dieci e rotti punti, a metà di questa
settimana almeno quattro rilevazioni nazionali sono rientrate entro il margine di errore.
A livello statale, dove per McCain sarà
più difficile recuperare il vantaggio di Obama, Davis sostiene che si nota un fenomeno
simile, come dimostra l’improvvisa competitività dello Iowa, uno stato considerato da
mesi nella colonna Obama e dove invece venerdì il candidato democratico è stato costretto a fare tappa. Poi ci sono gli stati del
South West – Nevada, New Mexico e Colorado – che in questi mesi sono sembrati l’obiettivo più facile di Obama. In particolare
in Colorado la gara si è fatta più serrata, sostiene la campagna McCain, che vede una
ripresa repubblicana anche in Ohio e Pennsylvania, due stati che insieme fanno 41
grandi elettori. Qui McCain e la sua vice, Sarah Palin, ma anche Arnold Schwarzenegger e Rudy Giuliani, stanno concentrando i
loro ultimi sforzi, puntando proprio sugli indecisi e su chi resta scettico nei confronti
delle ricette fiscali di Obama.
In generale, sostiene il team McCain, Obama fatica a raggiungere quota 50 per cento
anche nei sondaggi che lo segnalano in testa,
ma si assesta sempre sul 45-48 per cento negli stati in bilico. Davis, inoltre, ricorda che
alle primarie democratiche Obama ha spesso preso meno voti rispetto a quelli che gli
assegnavano i sondaggi. Gli obamiani spiegano di avere un vantaggio strategico e demografico, grazie alla mobilitazione dei giovani
e degli afroamericani che solitamente non
votano. Ma le analisi di Davis su chi ha già
votato (dove è consentito il voto anticipato o
per posta) non mostrano un cambiamento
della composizione dell’elettorato: “E’ gente
che molto probabilmente avrebbe comunque votato, a prescindere dall’alto interesse
suscitato da questa campagna”. Il team McCain sostiene inoltre che la mossa obamiana
di spendere soldi nelle ultime ore di campagna in Nord Dakota, Georgia e Arizona è un
segno di debolezza, un tentativo di allargare
il campo di battaglia in extremis perché sono diventati a rischio alcuni stati considerati sicuri fino a pochi giorni fa.
Le ultime ore di McCain e Palin saranno
di fuoco, spiega Davis. Lunedì i due candidati repubblicani toccheranno quattordici
stati e nelle ultime 72 ore scatteranno le delicate operazioni di “get out the vote”, quelle per convincere la gente a recarsi alle urne. I repubblicani sono maestri di questa
tecnica, al punto che Obama sta adottando
il modello bushiano del 2004. Davis però sostiene che la sua organizzazione sta facendo
meglio di Bush 2004 e, a sorpresa, ha svelato che nei rush finali McCain trasmetterà
più spot tv di Obama.
Come uscire dai guai del Grand Old Party
Dopo il voto i leader conservatori si riuniranno in Virginia per riconquistare l’anima del partito
New York. Martedì è il giorno delle elezioni, ma per il Partito repubblicano, qualunque sarà l’esito elettorale, quelli decisivi sono i giorni successivi. Anche se John McCain
THE WRONG NATION
QUARTO DI UNA SERIE DI ARTICOLI
dovesse riuscire a diventare presidente con
un recupero prodigioso, il Partito repubblicano resta a corto di idee e incapace di tenere insieme l’antica coalizione di liberisti,
conservatori sociali e neoconservatori che ha
dominato intellettualmente gli ultimi 28 anni della politica americana. McCain non è un
esponente tipico del suo partito e la sua invece probabile sconfitta contro Barack Obama ha già accelerato la resa dei conti e la
battaglia dietro le quinte per ridefinire l’anima repubblicana. Il quotidiano online The
Politico ha svelato che giovedì, due giorni dopo il voto presidenziale, numerosi leader
conservatori si riuniranno per un lungo
weekend in una casa di campagna della Vir-
ginia per avviare la discussione su come rivitalizzare un partito che con ogni probabilità
perderà la Casa Bianca e subirà un’ulteriore
e pesante sconfitta al Congresso. La fonte
anonima citata da The Politico sostiene che
in caso di vittoria di McCain il gruppo di leader conservatori si porrà il problema di come confrontarsi con la nuova Amministrazione, ben sapendo che il conservatore alla Casa Bianca non sarà McCain, ma Sarah Palin.
Una settimana dopo le elezioni, a Miami, si
riunirà l’associazione dei governatori repubblicani e l’incontro, a cui parteciperanno intellettuali, politici, sondaggisti ed ex generali, è già considerato come il primo appuntamento ufficiale per discutere il futuro del
partito, seguito qualche giorno dopo a Myrtle
Beach da una riunione convocata dal presidente del Grand Old Party della Carolina del
sud, Keaton Dawson, uno che è in lizza per
diventare presidente del partito nazionale. A
gennaio, infine, il partito che in caso di sconfitta di McCain si troverà privo di leadership
dovrà scegliere il suo presidente.
L’idea è che a essere nei guai è il Partito
repubblicano, non il movimento conservatore, come dimostra la campagna di Obama
centrata sul taglio delle tasse (e alla destra
del Partito democratico su famiglia, matrimonio gay, politica estera, sicurezza nazionale, pena di morte). L’America resta un paese
di centrodestra, chiunque vinca le elezioni,
dicono i principali commentatori conservatori. Non c’è, però, una ricetta condivisa su
come riconquistare la leadership del paese.
L’istinto primario è quello di accusare
George W. Bush, e per certi versi anche
John McCain, di aver tradito i principi conservatori per aver perseguito una politica
estera espansiva e tradizionalmente democratica, ampliato la presenza sociale dello
stato, aumentato il debito pubblico, salvato
Wall Street e aperto le frontiere all’immigrazione clandestina. I leader di questo
fronte sono i rumorosi conduttori radiofonici, l’ala populista, isolazionista e tradiziona-
lista del partito a cui pensano di rivolgersi
il presidente del Gop della Carolina del sud
e il governatore Mark Sanford. Secondo
Sanford, i repubblicani devono ritrovare la
loro identità e smetterla di imitare i democratici: “Quella era l’idea del conservatorismo compassionevole di Bush, ed è stato un
disastro”. Il rischio, ha scritto Kimberley
Strassel del Wall Street Journal, è che questa voglia di ritornare alle origini trasformi
i repubblicani nel partito del “no”, relegandoli all’irrilevanza come i Tory inglesi ai
tempi di Tony Blair.
L’altra opzione è quella di puntare sull’anima riformatrice e moderna del partito, sull’apertura agli ispanici e agli afroamericani
e su una nuova generazione di politici, come
Charlie Crist, Eric Cantor e Paul Ryan, capaci di parlare non solo agli americani degli
stati del sud e del mid-west, ma anche a chi
vive nelle metropoli. Mitt Romney si propone come l’unico capace di unificare le due
anime, ma mai sottovalutare Sarah Palin.
Il grande capitalista (finalmente) s’è mosso. Murdoch contro Obama
grande capitalista (finalmente) s’è mosso.
IsolRupert
Murdoch, proprietario di un colosdell’informazione mondiale, con le testate più vendute dall’Australia agli Stati Uniti andata e ritorno, è uscito dall’ortodossia
obamiana imperante e ha dichiarato che la
vittoria di Barack Obama alle elezioni di
martedì può peggiorare la crisi finanziaria.
“I presidenti spesso non mettono in pratica
quel che promettono in campagna elettorale – ha premesso Murdoch parlando all’Australian (quotidiano di sua proprietà) – perché diventano prigionieri di molte cose, delle circostanze e degli eventi”, ma “negli ulti-
mi anni parecchi democratici hanno minacciato di introdurre dazi contro le importazioni cinesi se Pechino non avesse messo mano
alla sua valuta: se ciò dovesse accadere, scatenerebbe azioni di rappresaglia che danneggerebbero seriamente l’economia mondiale”. Che cosa farà Obama naturalmente
non è dato sapere, ma se fa quel che ha annunciato “assisteremo a un reale tracollo
della globalizzazione”. C’è già stato “il precedente di Smoot-Hawley”, ha ricordato il
tycoon australiano, facendo riferimento a
quella legge che, nel 1930, alzò le tariffe su
ventimila prodotti americani scatenando la
NON PROFUMA L’ALITO.
LO AZZANNA.
FISHERMAN’S FRIEND. LA PIÙ FORTE CHE C’È
rappresaglia di tutti i principali partner
commerciali degli Stati Uniti. “Non posso
immaginare che Obama faccia una cosa tanto folle, ma qualsiasi azione in questa direzione può aggiungere tensione al sistema finanziario e commerciale globale, fino a impattare sull’occupazione”.
Con queste parole, Murdoch si pone in
contrapposizione con il pensiero unico di
tutto l’establishment o di uno come Warren
Buffett, tanto per fare un esempio, che ha tirato la volata al candidato democratico alla
Casa Bianca, aiutandolo a incarnare il ruolo del salvatore degli americani in queste
www.fishermansfriend.it
L’addestramento dei ruandesi
La penetrazione di Pechino in Congo e
nel resto del continente africano è vista come una minaccia da Washington. Gli americani considerano alleati di ferro il Ruanda
e l’Uganda, definiti i “prussiani” dell’Equatore. Kagame, nel 1990, frequentò un programma di addestramento a Fort Leavenworth in Kansas. Lo scorso gennaio, il
governo americano ha stanziato 7 milioni di
dollari per addestramento ed equipaggiamento militare alle truppe ruandesi. Consiglieri americani istruiscono gli ufficiali di
Kigali. Sia per le missioni di pace cui partecipano, come quella in Darfur, che nell’ottica della guerra al terrorismo globale.
Il Ruanda è uno degli alleati chiave sui
quali punta il neonato Africom, il sesto comando americano sul teatro strategico globale. Non è un caso che nelle ore cruciali
dell’avanzata di Nkunda su Goma il segretario di stato americano, Condoleezza Rice,
abbia telefonato al presidente ruandese
Kagame per cercare di evitare le violenze.
Francesi e belgi, vicini al governo congolese e odiati dai tutsi ruandesi, hanno ipotizzato l’invio di 1.500 soldati europei per
sostituire i Caschi blu, già in fuga. Se ne discuterà domani a Marsiglia alla riunione
dei capi delle diplomazie dell’Unione europea, ma ci sono già parecchie spaccature. Il
ministro degli Esteri francese, Bernard
Kouchner e il suo collega britannico, David
Miliband, sono in missione in Congo da sabato. Londra insiste per la missione, al momento l’accordo c’è soltanto sull’obiettivo
di organizzare una conferenza di pace a
Nairobi per far sedere allo stesso tavolo
Kabila e Kagame.
Poste Italiane Sped. in Abbonamento Postale - DL 353/2003 Conv. L.46/2004 Art. 1, c. 1, DBC MILANO
Il cambiamento, la crisi, il rock e Wall Street. Così si è imposto l’american dream
Le Balene colpiscono ancora
Nello scontro tra governo
del Congo e ribelli spunta
la questione cinese
quotidiano
DIRETTORE GIULIANO FERRARA
ultime, impanicate settimane. Murdoch no,
non ci sta. Definisce la politica fiscale di
Obama semplicemente “crazy”, folle, soprattutto il piano di aumentare le tasse per
chi guadagna più di 250 mila dollari e quello di distribuire i rimborsi d’imposta al 95
per cento degli americani (quest’ultimo è,
testuale, “rubbish”, spazzatura). “Il 50 per
cento della popolazione non paga le tasse,
come pensa di offrirgli un taglio? Puoi dare
un assegno, come Obama ha promesso, un
sussidio di 500 dollari, ma scomparirà molto velocemente. Non darà certo un contributo per invertire il corso della crisi”. Che cosa fare allora? Una ricetta, Murdoch, non ce
l’ha (o comunque non la dice), ma è sicuro
di due cose, una bella e una meno. L’ottimismo gli fa dire che il mondo “combatterà come un pazzo” per aver un mercato sempre
più libero e per segnare il successo del
Doha Round. Il pessimismo, invece, gli fa dire che le elezioni americane non calmeranno la crisi di fiducia che, “sotto un certo
punto di vista, è al di fuori del margine di
manovra della politica. I politici sono molto
limitati: possono far peggiorare la crisi, ma
non possono fermarla”.
Tutti da Licio il sabato sera
Allarme democratico
per un Grande Vecchio
finito su una tv locale
Gelli torna in prima pagina per via
di un programma. Per Di Pietro pure il
decreto Gelmini “era nel piano P2”
Baudo: “Non si fa più gavetta”
Roma. L’Unità dedica alla notizia il titolo
di apertura, sopra la foto che copre quasi
tutta la prima pagina: “Venerabile Tv – Gelli su Odeon rivaluta il fascismo e chiama
con sé Dell’Utri e Andreotti. ‘Chi è il mio
erede? Berlusconi’”. Più o meno lo stesso fa
Liberazione. Ma la notizia del ritorno sulla
scena di Licio Gelli, capo della famigerata
loggia massonica P2, desta allarme e indignazione su tutta la stampa nazionale. Peccato che sia Marcello Dell’Utri sia Giulio
Andreotti abbiano subito smentito la propria partecipazione (“Licio Gelli? E’ ancora
vivo?”, è stata la prima reazione del senatore a vita). Dettagli che non hanno fermato il
dibattito. “Una volta si faceva la gavetta, c’era una progressione di carriera per i meritevoli che crescevano in autorità e autorevolezza. Oggi non mi pare che sia più così”, ha
commentato Pippo Baudo, evidentemente
amareggiato dalla pericolosa degenerazione
dei palinsesti delle televisioni locali. “Visto
quanto se ne parla, l’operazione ‘Gelli in tv’
parte già in vantaggio. Ma attenzione all’autogol: in televisione talvolta un’aspettativa
troppo alta può essere foriera di successiva
delusione”, ha ammonito Paolo Bonolis, forse preoccupato per il potenziale danno d’immagine a tutta la rete, caratterizzata da programmi quali “Basta un poco di zucchero” e
“Il campionato dei campioni”.
Al centro dell’attenzione sta però la definitiva ammissione di Licio Gelli sull’identità
del suo erede: Silvio Berlusconi. “La scuola,
dopo la giustizia e l’informazione, è un altro
tassello del progetto del venerabile della P2
Licio Gelli, che Berlusconi sta realizzando”,
rilancia subito Antonio Di Pietro. Non che in
molti non l’avessero già insinuato sin dal
1994, a partire dalle analogie tra il programma di Forza Italia e il celebre Piano di rinascita democratica elaborato dalla P2, che tra
molte altre cose (e non poche banalità) prevedeva – udite udite – presidenzialismo e separazione delle carriere. Per la stessa ragione, peraltro, anche Bettino Craxi fu accusato
di essere il vero erede di Gelli. E anche Massimo D’Alema (per via della Bicamerale). E
di recente pure Walter Veltroni (sempre per
via del dialogo sulle riforme).
In realtà, per dirne una, nel piano della
P2 si parlava pure di abolizione del valore
legale del titolo di studio, ma a nessuno è
mai venuto in mente di denunciare i molti
sostenitori di una simile scelta come burattini di Gelli. Né risulta che Marco Travaglio
– tra gli ultimi e più affezionati cantori del
ritornello sui “veri esecutori” del piano piduista – abbia mai fatto serie indagini su
chi, nell’Italia di oggi, voglia segretamente
“aumentare la redditività del risparmio postale elevando il tasso al 7 per cento” (nel
piano era previsto anche questo).
Fatto sta che da più di vent’anni sulla
stampa è tutto un denunciare nuove e vecchie P2, occulti e palesi esecutori del diabolico disegno di Gelli. Il quale sarà stato pure il Grande Vecchio, l’oscuro burattinaio di
tutti i misteri d’Italia, il grande capo della
massoneria internazionale, ma se oggi è finito a illustrare le sue venerabili reliquie
pseudostoriche al pubblico di Odeon tv, evidentemente, le cose sono due: o non se la
passa tanto bene lui, o se la passano anche
peggio la massoneria internazionale e tutti
i servizi deviati del mondo.
Sai che scandalo, sai che
vulnus. Quando Gelli dice: “Se uno ha la maggioranza deve usarla, senza
interessarsi della minoranza”, è quello che Prodi ha fatto. Quando dice,
sul lodo Alfano: “L’immunità ai grandi dovrebbe essere esclusa, perché al governo
dovrebbero andare persone senza macchia”, è quello che sostengono Travaglio,
Scalfaro, Eco, Fo, Veltroni, Di Pietro, Finocchiaro e ci fermiamo qui per comodità.
Quando dice di Fini: “Avevo molta fiducia
in lui, oggi non sono più dello stesso avviso”, quel “molta” a parte, standing ovation.
Se Gelli ripete: “In linea di massima sono
d’accordo con la Gelmini perché ripristina
un po’ d’ordine”, si tratta di un’ovvietà parecchio condivisa. Quel suo “molti ragazzi
vanno in piazza perché non hanno voglia di
studiare”, è quello che ci hanno ripetuto
per decenni l’universalità dei rettori, dei
baroni, dei professori associati, dei supplenti, dei primi della classe, dei farmacisti, dei fruttivendoli e le mamme del mondo praticamente al completo, con l’eccezione sempre di Lidia Ravera. “Se oggi in Italia c’è un potere forte, quello è la magistratura”, bé, del tutto una stronzata forse non
si può dire. “I partiti veri non esistono più”,
chiedete a Macaluso. Però è vero. E’ vero
che quando Gelli afferma: “Se dovesse morire Berlusconi, Forza Italia non andrebbe
avanti”, questo è soltanto per far venire un
colpo al ministro del Tesoro.
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ANNO XIII NUMERO 299 - PAG 2
Sangue television
Guardare Porta a Porta e capire
che cosa si intende quando si parla
di comunismo da prima serata
iovedì sera, veglia in tv. Esce, ed è già
G
stroncato, il film “Il sangue dei vinti”,
dal romanzo di Pansa. La televisione di
Porta a Porta fissa un’altra volta lo sguardo
LA FINESTRA DI FRONTE
sul sangue versato in Italia alla caduta del
fascismo. Fosca puntata di parole schiette
e di parole doppie. 1945-1946, la guerra è finita. Il Duce è morto, italiani ancora tornano dalla Russia. In alcune zone del paese si
scatena un anno di guerra con il silenziatore. Un’ecatombe di vinti: fascisti, cattolici,
anche famiglie, uccisi da irriducibili bande
partigiane. Una stima quieta ci dice: 30 mila morti. Non è certo in questione l’equiparazione tra resistenza e fascismo. Gli storici, e anche noi, gente di buona volontà, vorremmo capire se esistesse un piano per la
rivoluzione italiana e quanta parte del Pci
coinvolgesse; si vorrebbe capire se i corpi
dei vinti e la pace su di loro possano essere considerati sacri. O se i vinti, in piena
pace firmata, possano essere decimati in silenzio e non parlarne più se erano fascisti;
mentre è naturale protestare se i vinti uccisi fan parte del fronte anti imperialista. In
studio c’è Pansa, giornalista che non fa
sconti, quasi umorista, ora coraggioso narratore. C’è Michele Placido, protagonista
del film. Ci sono gli storici Lucio Villari ed
Ernesto Galli della Loggia. E c’è un’anziana signora, che parla un poco da sola. Fu
partigiana, è di Sant’Anna di Stazema. E c’è
l’errore di unire gli eccidi delle bande partigiane al golem inumano del nazifascismo,
che ristagna tra gli occhi della donna di
Sant’Anna. Villari offre baci perugina con
il bigliettino al tritolo. Sorride a Pansa: Sono sicuro che non pensi davvero quello che
dici. Dice: non capisco questo vittimismo. Si
vede bene come sia in gioco la patente del
vecchio comunismo, licenza spesso autocertificata, di forza democratica, esente da
tentativi di fuga dal recinto repubblicano.
Abbiamo scritto la Costituzione, esclama il
direttore di Rifondazione. Sì, ma non è agli
atti cosa facevate con la mano libera dalla
penna e per quanta parte della resistenza
la guerra antifascista fosse un passaggio
verso la rivoluzione. Villari sorride: “Cose
vecchie, via, si sono sempre sapute”.
Nei ristrettissimi circoli intellettuali
Sì, ma sapute in ristretti circoli intellettuali dove avere differenti opzioni sulla
realizzazione del socialismo fu parte fisiologica dello scontro dialettico con i compagni che sbagliano – a meno che le Brigate rosse siano nate sotto ai cavoli. Difficoltà psicanalitica della sinistra davanti
agli eccidi di famiglia. Vespa si aggira paterno come un sacerdote della tv, ah se
l’autocritica comunista avvenisse da lui!
Quando Villari sorride a Pansa che certo
non pensa quello che dice, il professor
Della Loggia fa notare che se la discussione ha questo approccio, è difficile incontrarsi. Al margine dello studio, su una sedia a parte, la vecchia partigiana non capisce. Viene da Sant’Anna, sente parlare
di questo sangue fascista e crede che la tv
metta in dubbio la mostruosità del fascismo. Ode ancora la mitraglia crepitare alla chiesa, quando la gente di Sant’Anna
muore. Lei ha negli occhi il fumo nero che
sale al cielo e si forma una nube. La nube
è rimasta su Sant’Anna e ora è in studio.
In modo brusco, e sinistro, le responsabilità politiche ora s’invertono. C’è una vecchia partigiana lì, un’italiana ancora offesa che non capisce il senso della serata, e
forse della vita. Non glielo fanno capire. Il
fascismo è scomparso, e non può essere in
studio, ma è come se la palla passasse nel
campo della destra storica, dove gli eredi
di Salò hanno appena fatto i primi conti
con se stessi, mentre poco fa, nelle loro
stanze e nelle piazze rivendicavano la gloria del Duce. Poi c’è che gran parte della
popolazione non fu fascista: ma cos’era?
Indossata la divisa da balilla come fosse
una divisa sociale, furono accolti senza
battere ciglio i discorsi alla radio, le leggi
razziali, la soppressione del sindacato e
della democrazia parlamentare. La fine
della libertà. Nei treni, nei bar, dal dentista, dicono che purtroppo il fascismo si alleò con la Germania, ma non fece niente
di male. La storia è un mare in vivo movimento, non fissabile in unico sguardo, e
dalla fine del fascismo, per non dire dalla
fine del comunismo, il tempo è ancora poco. Gridano i morti di Sant’Anna. Gridano
i corpi degli italiani uccisi durante il primo tempo della pace omicida – nelle vie si
gridava viva la libertà. Ancora stentano a
cadere le pietre del Muro di Berlino. C’è
tanto da fare, in Italia.
Alessandro Schwed
PREGHIERA
di Camillo Langone
“Vittorio, Vittorio! Sono Aldo! Sto bene! Sto
bene!”. Vittorio Messori
nel suo “Perché credo” racconta la telefonata di zio Aldo, in una lontana
notte torinese. E’ una pagina che fa
drizzare i capelli: lo zio Aldo era morto esattamente l’anno prima. Cari morti, avrei bisogno anch’io di una telefonata. Oggi vengo io da voi, al cimitero,
ma vorrei che ogni tanto ricambiaste
la visita. Il mondo moderno vi respinge (dai giacobini che nel 1804 vi espulsero dalle città ai nichilisti che oggi vi
espellono dalla realtà con la cremazione) ma voi non fateci caso, venite lo
stesso. Perché se non venite voi vengono gli spiriti di Halloween, festa maligna che sta occupando un vuoto (ennesima prova che non si può vivere senza religione: dove finisce il cristianesimo comincia sempre una qualche forma di satanismo). Cari morti, rifatevi
vivi.
IL FOGLIO QUOTIDIANO
DOMENICA 2 NOVEMBRE 2008
IL 4 NOVEMBRE DEI “TREI CJANTÒNS DA CJASE”
Storia delle mille donne che portarono sulle spalle gli eroi della Grande guerra
MANUELA DI CENTA RACCONTA LA VITA SEGRETA DELLE VOLONTARIE CHE COMBATTERONO COSÌ NELLE TRINCEE DELLA CARNIA
Pubblichiamo l’intervento al convegno della Camera dei deputati del 29 ottobre su “La Grande guerra nella memoria italiana” dell’onorevole Manuela di
Centa, parlamentare del Pdl e campionessa olimpica di sci di fondo.
uando ero impegnata nell’attività sportiva, erano quasi diecimila i chilometri
Q
che percorrevo ogni anno per fare, come si
dice, fiato e gambe. Diecimila chilometri in
prevalenza sugli sci, ma anche correndo e
camminando su e giù lungo i sentieri delle
montagne di casa, della terra dove sono nata, la Carnia. Sentieri che si inoltrano nei boschi di abeti, larici e faggi e aprono a pianori smeraldini, dove un tempo danzavano le
fate, i diavoli goffi e le bizzarre streghe del
Carducci, ma anche sentieri che in alta quota diventano impervi, pietraie sulle quali un
appoggio sbagliato può essere davvero pericoloso. Cercavo di arrivare su, fino alla cima,
per quei sentieri che erano stati i sentieri
della Grande guerra, percorsi da mia nonna,
“none Irme”, con il sole, la pioggia e la neve,
per ventisei mesi di seguito. Mia nonna all’epoca non aveva ancora sedici anni!
Non saliva e scendeva di corsa, perché
non era lì per fare gambe e fiato e per quello, comunque, bastavano ed erano d’avanzo
i quaranta chili che portava sulle spalle, nella gerla. Quaranta chili di viveri, medicinali
e filo spinato, ma anche di proiettili e di
bombe a mano, che facevano di quella gerla
una vera e propria santabarbara, esposta
per lunghi tratti al tiro del cecchino. Quattro, cinque ore di cammino al giorno, salendo oltre i duemila metri, fino alle trincee del
Pal Piccolo, del Freikofel, e scendendo il
più delle volte con il carico dolente di morti e feriti. E al momento del bisogno, a fine
marzo del 1916, sotto i violentissimi attacchi
del nemico, “none Irme” lasciava la gerla
per fare da servente ai pezzi di artiglieria.
Lei, come tante altre donne della mia terra, delle mie montagne, era una “Portatrice”.
Donne non comuni, temprate da una vita difficile in luoghi di montagna dove ogni giorno
sfamare la propria famiglia era una impresa.
Donne che non a caso venivano definite i
“trei cjantòns da cjase”, i tre angoli che sostenevano la casa. Sono quindi particolarmente grata al presidente Fini per l’opportunità che mi viene offerta di ricordare qui, oggi, l’abnegazione, il coraggio e l’eroismo delle Portatrici, di quel migliaio di donne che
senza alcuna costrizione, ma del tutto volontariamente risposero un giorno all’appello
del generale Lequio, comandante della Zona
Carnia. Queste donne combatterono la loro
guerra insieme ai Portatori più giovani, ragazzi pratici della zona e delle loro monta-
gne, e a quelli più anziani, impegnati nella
costruzione e manutenzione di mulattiere,
gallerie, piazzali per l’artiglieria. Era, quello carnico, un settore del fronte italo-austriaco di particolare rilevanza strategica, in
quanto comprensivo del valico di Monte Croce Carnico attraverso il quale passava l’antica via imperiale Julium Augusta, un valico
che il nostro Comando Supremo paventava
come uno dei possibili accessi per l’invasione dell’Italia da parte del nemico, ma era anche un settore lasciato colpevolmente privo
di difese nella convinzione di nascondere così all’ex alleato austriaco le nostre vere intenzioni, cioè di entrare in guerra a fianco
dell’Intesa.
Insomma, nell’illusione di mantenere segreto il Patto che Sonnino aveva firmato a
Londra il 26 aprile, e che ci impegnava a dichiarare guerra all’Austria entro un mese,
non avevamo scavato una sola trincea, né
predisposto una sola teleferica, a differenza
degli austriaci che avevano preparato tutto
nel migliore dei modi. Ma il nostro Comando Supremo aveva fatto d’altro: temendo
possibili connivenze con il nemico, per via
della presenza in Carnia di talune, piccole
isole alloglotte, aveva dapprima predisposto
la destinazione ad altri fronti – Carso e Isonzo – della maggior parte della leva locale,
poi attuato la deportazione, seppure temporanea, della popolazione civile verso l’interno. Cadorna non aveva capito che, se in Carnia qualcuno sapeva parlare, oltre al friulano, anche una sorta di dialetto tedesco, non
era perché “austriacante”, come si diceva
allora, ma semplicemente perché da sempre
l’Austria, più vicina e più facilmente raggiungibile di Udine, Trieste o Venezia, offriva opportunità di lavoro ai nostri muratori,
ai nostri falegnami e ai nostri ambulanti.
Settore Alta Valle del Bùt
Oltre quindi a non aver predisposto rotabili e teleferiche per un adeguato rifornimento delle linee del fronte, possibile allora soltanto con trasporto a spalle lungo le
mulattiere e i sentieri impervi già descritti,
si era provveduto anche a trasferire altrove
chi avrebbe potuto sopperire, con la conoscenza dei luoghi, alle difficoltà logistiche e
alle insidie poste dal nemico.
Il prezzo pagato nei primi mesi di guerra
in vite umane e in salmerie finite nei crepacci o centrate dall’artiglieria nemica risultò talmente alto da costringere il Comando Supremo a fare marcia indietro con le comunità deportate, chiedendo loro aiuto, così come del resto a tutta la popolazione della Carnia. E poiché gli uomini validi erano
già tutti alle armi, l’appello, espresso con
tutta la drammaticità che la situazione
obiettivamente richiedeva, fu raccolto con
slancio commovente dalle donne, molte del-
le quali avevano mariti e talvolta figli impegnati al fronte, dai ragazzi e dagli anziani
del posto. Fu così costituito un vero e proprio Corpo di ausiliarie, la cui età andava
dai quattordici anni delle più giovani, ai sessanta delle più anziane. Suddivise in squadre di 15-20 unità, furono dotate di un bracciale rosso sul quale erano stampigliati sia i
dati identificativi dell’unità militare con la
quale operavano in stretta simbiosi, sia il
numero del libretto personale di lavoro del
quale ogni Portatrice era stata dotata e dove
il furiere del reparto riportava presenze,
viaggi compiuti, natura del materiale trasportato. Partivano tutti i giorni all’alba, dai
depositi e dai magazzini di fondo valle, dove
avveniva il carico delle gerle, senza una guida, e imponendosi autonomamente una disciplina di marcia. In caso di necessità, dovevano essere disponibili anche di notte e
per qualsiasi destinazione. Se le posizioni
della Zona Carnia, settore Alta Valle del
Bùt, non furono mai cedute al nemico, ma
solo inevitabilmente abbandonate dopo Caporetto, lo si deve anche al coraggio, alla abnegazione e al sacrificio delle Portatrici. A
una di loro, Maria Plozner Mentil, madre di
quattro figli, colpita mortalmente da un cecchino austriaco, il presidente Scalfaro ha voluto concedere nel 1997 motu proprio, la Medaglia d’Oro al Valor Militare, appuntandola sul petto della figlia Dorina, orfana di
guerra di entrambi i genitori, e a sua volta
Portatrice. Con legge dello Stato del 1969 veniva conferita l’onorificenza del “Cavalierato di Vittorio Veneto” a tutte le Portatrici,
senza distinzione delle zone in cui avevano
prestato servizio durante il conflitto, con la
singolare conseguenza che il mio paese, Paluzza, annovera il più alto numero di onorificenze al valor militare conferite alle donne. A loro in modo particolare, ma anche a
tutte le Portatrici e i Portatori della grande
Guerra, idealmente uniti dall’amore per la
propria Patria, va oggi il mio commosso pensiero e, sono certa, di tutta questa Assemblea. Grazie.
Manuela Di Centa
L A B E F F A D I L I N A T E E L O S T R A N O C A S O D E L L’ H U B D I M A L P E N S A / 1
Comunque andrà a finire con Cai c’è un partito che ha già perso,quello del nord
Roma. La partita Alitalia si avvia finalmente alla conclusione con l’offerta presentata venerdì sera dai diciannove capitani coraggiosi di Cai. Un romanzo popolare che si
dipana da oltre due anni, dove le prime bozze sull’epilogo consentono di soffermarsi sugli sconfitti. Oltre al sindacalismo corporativo e ricattatorio, nella casella dei perdenti
va annoverato un altro attore molto rumoroso come il partito del nord. La grande Malpensa, sognata da dieci anni, resterà un
obiettivo di difficile attuazione non potendo
poggiare sulla principale compagnia aerea
del paese. Il progetto elaborato per Roberto
Colaninno da Intesa Sanpaolo e Boston Consulting, noto come piano Fenice, prevede il
ritorno in Lombardia dei voli di lungo raggio
solo a condizione che si chiuda (o fortemente ridimensioni) lo scalo di Linate. In caso
contrario, con un aeroporto dentro la città
che cannibalizza Malpensa, Cai non trasferirà quelle risorse che erediterà dislocate a
Fiumicino. L’esigenza di un nuovo assetto sui
cieli sopra Milano è condiviso anche da
Lufthansa e Air France-Klm (British Airways
non si è ancora esposta a riguardo), i due
partner industriali più accreditati per entrare nel capitale azionario della nuova Alita-
lia. Entrambi gli scenari che si prospettano –
Linate aperto o Linate chiuso – ridimensionano fortemente le ambizioni di quel partito
del nord che annovera al suo interno vertici
istituzionali (Roberto Formigoni, Letizia Moratti, Filippo Penati) e mondo dell’impresa
(Emma Marcegaglia, Diana Bracco). La soluzione “meno Linate, più Malpensa” non ha
mai convinto i politici milanesi. O meglio, dopo averla appoggiata in principio, si accorsero che la chiusura del city airport sarebbe
stata impopolare e hanno fatto tutti retromarcia. Nel 1999 l’ex sindaco Gabriele Albertini arrivò a sconfessare in tribunale l’operato dell’ad di Sea (da lui nominato), Tomaso
Quattrin. Oltre al danno di una Linate ridimensionata, si prefigura anche la beffa di un
investimento di risorse da parte di Cai non
sufficienti a fare di Malpensa un hub di livello europeo. Il capo di Sea, Giuseppe Bonomi,
ha già espresso severe riserve sul piano Fenice. Se lo schema di limitare Linate dovesse andare in porto però avrà il placet del
presidente del Consiglio Silvio Berlusconi,
cosa che metterebbe in imbarazzo Moratti e
Formigoni – che più che esprimere dissensi
e distinguo, dovranno presumibilmente gioire per una vittoria mutilata.
Tutt’altro che remota, invece, la possibilità che i veti incrociati suggeriscano all’esecutivo di non dare corso a un ridisegno del
traffico aereo su Milano. In questo scenario,
nonostante le reiterate intenzioni di tornare
al nord espresse a più riprese da Colaninno
e da altri componenti della cordata, Cai non
si discosterà dal vituperato piano Prato,
quello del disinvestimento da Malpensa. La
nuova Alitalia partirà con risorse limitate e
non disporrà di una potenza di fuoco per dislocare aeroplanini, come in un Risiko, su
tre scali (Malpensa, Linate e Fiumicino).
Ecco, ma perché è così indispensabile tagliare le ali a Linate? L’idea di Corrado Passera e Roberto Colaninno non è inedita. Lo
schema ricalca il piano elaborato nel 1996
dall’ex amministratore delegato Domenico
Cempella, che aveva il suo sostentamento
normativo nel decreto del ministro dei Trasporti, Claudio Burlando. Un piano che tre
governi dal corto respiro – Prodi I, D’Alema,
Amato II – non ebbero la forza di difendere
a Bruxelles. Il ragionamento, di ieri e di oggi, è il seguente: i milanesi che volano (specie quelli di business class) per destinazioni
brevi preferiscono utilizzare Linate, per cui
non si può rinunciare ai viaggiatori d’affari
autoemarginandosi a Malpensa. Al contempo se l’aeroporto varesino ambisce a diventare un hub necessita di voli dalla periferia
per “alimentare” le tratte di lungo raggio.
Nessun hub, a eccezione di Londra, può sopravvivere solamente con i residenti dell’area metropolitana. Come si fa dunque a
riempire gli aerei da trecento e passa posti
dei voli intercontinentali? La soluzione è obbligare tutti, anche i concorrenti, a trasferirsi a Malpensa. Certamente Cai non intende
proseguire nello schema ibrido perseguito
da Alitalia negli ultimi dieci anni, lasciando
voli su entrambi gli aeroporti milanesi. Una
strada inefficiente che comporta il raddoppio di costi fissi (due aerei utilizzati, due
equipaggi, due turni di manutenzione). Un
ex ex capoazienda di Alitalia, quando provava a persuadere i suoi interlocutori politici
amava ricorrere al seguente esempio: “Se su
Linate e Malpensa arrivano cinque voli al
giorno e ne partono altrettanti, ogni aeroporto offre venticinque ipotetiche connessioni,
cinquanta quindi in tutta l’area milanese. Se
però, quei dieci voli in arrivo e in partenza
si spostano in un solo scalo, le connessioni
diventano cento”.
Giuseppe Marchini
LE MOSSE INGLESI SULLA COMPAGNIA E IL FUTURO DI LUFTHANSA /2
Cosa succede ai capitani coraggiosi se in Alitalia arriva British Airways
Roma. Si apre un’aerovia per Londra.
Ambienti vicini a Cai sottolineano come
l’opzione British Airways si sia tramutata,
nelle ultime ore, da plausibile a credibile.
Fino a oggi, l’inedita alleanza anglo-italiana
veniva considerata, dagli osservatori, come
un’ipotesi di scuola, e le prudenti dichiarazioni d’interesse da parte di qualche manager inglese come semplici “manovre di disturbo” nei confronti di due antichi rivali:
Air France e Lufthansa. In realtà, fonti qualificate rivelano come dai frequenti contatti
tra gli emissari di Rocco Sabelli e di Willie
Walsh, i due chief executive officers, sia nato un tavolo tecnico con l’obiettivo di stilare
un documento da sottoporre ai rispettivi
consigli di amministrazione. La parola chiave è “visione”, e alti dirigenti delle due delegazioni lavorano su una prospettiva di medio termine condivisa. Si tratta di un dossier
molto ostico, anche perché da parte di BA è
stato più volte ribadito che non c’è disponibilità a entrare nel capitale azionario di Cai.
Una volontà che lascerebbe pensare a un
tiepido interesse e che potrebbe far sbuffare diversi azionisti della cordata italiana,
desiderosi di un impegno stringente da parte del partner straniero. A favore di Londra
però gioca un aspetto non irrilevante legato
alle prospettive di crescita. La compagnia
inglese, infatti, sul mercato italiano ha un
grado di penetrazione molto ridotto rispetto
alle altre due major europee, e quindi potrebbe giovarsi di maggiori margini di crescita alleandosi con la prima compagnia aerea italiana. BA inoltre è leader del mercato sul traffico tra Europa e Stati Uniti, mentre la spagnola Iberia (per la cui acquisizione gli inglesi stanno incontrando alcuni problemi) detiene la palma per i voli diretti verso il sud e centro America. L’area del Mediterraneo è però poco presidiata, e maggiori
spazi di crescita per Cai potrebbero nascere
anche sui voli verso l’oriente. La strada inglese potrebbe quindi essere più profittevole per Colaninno e soci, ma anche più rischiosa. Il tavolo tecnico, nel suo documento sulla visione condivisa, non esclude lo
scenario di una possibile fusione da compiere dopo il periodo di lock up – che vincola i
soci Cai a non vendere le proprie azioni prima di un quinquennio. Un tempo che oltretutto farebbe comodo a Walsh per testare sul
campo il valore che si creerebbe dall’apertura di un fronte italiano. Nel passato gli inglesi qualche tentativo di entrare in maniera più incisiva sul mercato nazionale l’avevano esperito. Nel ’95 avevano avviato fitti
colloqui con il presidente Alitalia, Renato
Riverso, che coinvolgevano anche American
Airlines. Un dossier che seguì personalmente l’allora capo delle strategie, Daniele De
Giovanni, divenuto poi stretto collaboratore
di Romano Prodi durante la passata legislatura. Nel 2000 la compagnia inglese provò
una strada più ambiziosa, dando vita alla
controllata italiana National Jet, alla cui
presidenza insediò l’ex presidente di Confcommercio, Sergio Billè. L’avventura non ebbe successo e la società chiuse i battenti.
Ma un eventuale accordo Cai-Ba cosa potrebbe comportare? Lufthansa e Air France
certamente non resterebbero ad aspettare il
logoramento delle loro quote di mercato. La
compagnia tedesca, come anticipato dal Foglio il 19 ottobre, ha creato una scatola societaria nuova, Lufthansa Italia spa, per poter
sfruttare gli accordi open skies e lanciare
nuovi collegamenti diretti senza passare per
gli scali tedeschi. Jean-Cyril Spinetta potrebbe, al contrario, riallacciare i rapporti
con il principe ismaelita Karim Aga Khan,
per studiare una collaborazione con la sua
Meridiana.
LIBRI PRESIDENZIALI
C’è una campana (letteraria) che suona sia per Obama che per McCain
el 1992, salendo sull’aereo della camN
pagna elettorale, Bill Clinton sventolò un libro del suo scrittore preferito. Le
vendite dei romanzi di Walter Mosley, nero cresciuto nel ghetto di Los Angeles, triplicarono in una settimana. Eletto presidente, Bill Clinton confermò al Wall
Street Journal il nome del suo scrittore
prediletto, consigliandolo a tutti. Mosley
commentò: “Adesso ogni giornalista al
mondo sa chi sono”. Da noi – dove i libri
si scrivono in dosi massicce ma si leggono
in dosi omeopatiche, e dove una campagna elettorale è considerata iattura dai librai, perché le vendite calano a picco – il
“cosa sta leggendo?” non sta tra le legittime curiosità (l’unica scrittrice che abbia
tratto vantaggio dalla politica si chiama
Catherine Dunne: “La metà di niente”, citato di striscio nella lettera a Silvio di Veronica Berlusconi, rientrò prontamente in
classifica).
Sul supplemento libri del New York Ti-
mes, Jon Meacham raccoglie le letture dei
candidati Obama e McCain. Vince McCain, prima ancor di nominare un solo titolo. Quand’era prigioniero in Vietnam,
per tenere la mente sveglia recitava scene di romanzi o film. Più o meno quel che
fa il carcerato Molina nel “Bacio della
donna ragno” di Manuel Puig: per distrarre il compagno di cella, gli racconta “La
donna pantera” e altri film di zombie. Ma
siccome l’altro è un prigioniero politico –
il narratore invece è stato messo dentro
per omosessualità – litigano di continuo.
Uno vorrebbe sapere se i personaggi hanno coscienza sociale, l’altro non vede neppure l’apologia di nazismo in un film dell’UFA, occupato com’è a godersi gli abiti
scintillanti e le pettinature.
John McCain – che ha avuto l’onore di
un ritratto firmato David Foster Wallace,
in “Considera l’aragosta”, Einaudi – legge
e rilegge “Per chi suona la campana” di
Hemingway. “Ho sempre pensato che Ro-
bert Jordan, il protagonista, avesse tutte
le caratteristiche che un uomo deve avere”. Gli piacciono i racconti di William Somerset Maugham, “Niente di nuovo sul
fronte occidentale” di Eric Maria Remarque, “L’ultimo dei Mohicani”. Anche William Faulkner, “purché a piccole dosi”: i
titoli preferiti sono “L’orso” (in “La grande foresta”, Adelphi) e “Turnabout”, portato sullo schermo da Howard Hawks nel
1933, con Joan Crawford e Gary Cooper
(“Today We Live”, ovvero “Rivalità eroica”: una ragazza e tre spasimanti durante
la Seconda guerra mondiale). Nel reparto
saggi, meno ricco, “Declino e caduta dell’Impero romano” di Edward Gibbon (letto due volte).
Barack Obama manda per e-mail una lista con Jefferson, Emerson, Lincoln,
Twain. Sullo scaffale degli afroamericani,
il James Baldwin di “La prossima volta, il
fuoco” e Toni Morrison. Gli piacciono
Graham Greene – titoli segnalati: “Il pote-
re e la gloria”, “Un americano tranquillo”
–, “Il taccuino d’oro” di Doris Lessing,
“Padiglione cancro” di Aleksandr Solzenicyn, l’autobiografia di Gandhi, John
Steinbeck, e nell’elenco ritroviamo “Per
chi suona la campana”. Entrambi i candidati amano Shakespeare, entrambi hanno
letto “Tutti gli uomini del re” di Robert
Penn Warren, ispirato alla storia vera di
Huey P. Long, il democratico populista
che divenne governatore della Louisiana
e fu assassinato nel 1935 (un paio d’anni fa
Steven Zaillian ne ha tratto un film, con il
liberal Sean Penn nella parte del commesso viaggiatore che voleva candidarsi
presidente contro Roosevelt).
Tra i predecessori, il serio Abramo Lincoln leggeva la Bibbia e Shakespeare. Il
giocherellone Franklin Roosevelt combatteva Hitler e recitava i limerick di
Edward Lear a Winston Churchill, che rispondeva a tono.
Mariarosa Mancuso
Ritratto di un negro
La vendita all’asta di un quadro
spiega meglio di ogni altro
sondaggio il futuro americano
una vendita all’asta in cui si disperdeva
A
una celebre collezione di disegni del
Settecento, un mercante francese cercava
invano di aggiudicarsi almeno un foglio di
STRAVAGANZE
Antoine Watteau. Ogni volta veniva battuto
da un collega americano. Il mercante francese non spingeva mai troppo la gara perché aveva deciso di puntare tutto su un piccolo foglio che giudicava particolarmente
interessante. Era deciso a combattere, ma
non si faceva molte illusioni. Tutto quello
che poteva aspettarsi era di costringere il
suo concorrente a sborsare più dollari di
quanti avrebbe voluto. Vista la disinvoltura
con cui inseguiva ogni lotto anche oltre ogni
ragionevole quotazione di mercato, il mercante americano doveva evidentemente lavorare su mandato di un collezionista disposto a pagare qualsiasi cifra per un disegno
di Watteau. Di certo non si sarebbe lasciato
scappare il pezzo più interessante.
Il pezzo più interessante, secondo il mercante francese, era uno studio in cui l’artista aveva disegnato per tre volte la testa di
un moro, da tre prospettive diverse. La qualità del disegno era alta, ma quello che interessava il francese era soprattutto il soggetto. Quando un mercante d’arte acquista
un’opera ha perlopiù in mente il cliente a
cui offrirla. In quel caso il cliente era più di
uno. Da anni tra arredatori e collezioni andava di modo l’esotismo. Gli artisti orientalisti, pur mediocri che fossero, spuntavano
sempre prezzi interessanti. Gli africanisti,
molto più rari, andavano ancora meglio.
Non c’era dubbio che un foglio africanista
di mano di un grande maestro non avrebbe
fatto la polvere in bottega.
Quando il commissaire-priseur propose il
foglio, il mercante francese aspettò. Intimoriti dalla presenza dell’americano, gli altri
commercianti non si muovevano. Ma neanche l’americano si faceva vivo. Prima che il
lotto venisse ritirato, il francese si aggiudicò
il disegno. Aveva ottenuto quello che voleva, ma non era tranquillo. Come mai l’americano si era lasciato scappare un pezzo così interessante? Forse vi aveva visto qualcosa che lui non aveva notato? La carta era
buona, la filigrana era di quelle che si vedevano in trasparenza nei fogli prodotti dal
maestro nel periodo al quale, secondo lui,
PICCOLA POSTA
di Adriano Sofri
Marco Di Domenico ha raccolto un repertorio di “animali e piante senza permesso di
soggiorno” (“Clandestini”, Bollati Boringhieri, 16 euro) che comprende 45 esemplari che si sono stabiliti di nascosto dalle
parti nostre e hanno fatto fortuna. Sono voci svelte, di tre o quattro pagine al massimo, in ordine alfabetico, dunque casuale e
modificabile a piacere. Mosso non da un
interesse scientifico, ma dall’interesse privato e dal fatto personale io ho scelto dall’indice nell’ordine la zanzara tigre, la formica argentina, la nutria, il punteruolo
rosso della palma, l’ailanto, il gambero rosso della Louisiana, il pesce siluro e la vongola filippina. Non so voi.
apparteneva il disegno delle tre teste di moro. La mano era indiscutibilmente di Watteau, le tracce del tempo avevano tutta l’aria di essere autentiche e non prodotte ad
arte. La provenienza del foglio poi era delle più sicure, delle più documentate. Era
un’opera che era stata studiata e pubblicata più volte. Ma se l’americano non l’aveva
degnata di attenzione, dopo essersi aggiudicato di forza tutti gli altri fogli, qualcosa che
non andava doveva esserci.
La sera stessa i due antiquari si trovarono a cenare insieme. Il francese non seppe
attenersi alla buona regola di non parlare
mai di lavoro a tavola. La prese alla larga.
Si complimentò per i buoni acquisti del
collega, cercò di farlo arrivare al suo foglio. Poiché non riusciva a portare il discorso dove voleva, abbandonò la prudenza professionale e gli fece esplicitamente
la domanda. Perché non aveva neppure
tentato di acquistare il disegno delle tre teste? Cosa c’era che non andava? Niente,
non c’era niente che non andava, era un disegno bellissimo, forse il più bello di tutta
la vendita. Se fosse stato per lui l’avrebbe
comperato subito. Ma purtroppo era un
mercante e non poteva permettersi di
scommettere su un’opera poco commerciale. Quanti collezionisti c’erano in America
disposti a sborsare un mucchio di quattrini per il ritratto di un negro? L’episodio mi
è tornato in mente quando hanno chiesto a
me di scommettere su chi avrebbe vinto le
elezioni in America.
Sandro Fusina
ANNO XIII NUMERO 299 - PAG 3
EDITORIALI
Il nero bastardo
E’ vero che il fenomeno Obama è la negazione multietnica dell’identità?
L
a tesi di Gad Lerner, esposta su Repubblica di giovedì in un articolo
pieno di cose interessanti, è questa: il
fenomeno Obama è la negazione multietnica della radice culturale identitaria, una specie di consacrazione del
multiculturalismo e di parola fine apposta al concetto di occidente. Potrebbe non essere la tesi giusta, sebbene
Lerner cerchi di suffragarla vantando
come argomento decisivo il fatto che il
prossimo probabile presidente è figlio
di un keniano e di una americana, e ha
trascorso periodi formativi della sua vita alle Hawaii e in Indonesia. Barack
Obama ha in realtà imposto se stesso
come un mito personale superamericano e ultramericano. Il suo profilo è l’incarnazione del sogno, e il sogno si nutre
certamente del meticciato etnico e culturale, come sempre avviene nei gran-
di imperi globali, ma approda dopo una
esplicita e tormentata ricerca all’identità nazionale e perfino a un patriottismo culturale e religioso che a un “multiculti” europeo alla Lerner, civettuolo
“bastardo” che non è altro, farebbe venire i brividi. Pubblichiamo oggi in prima pagina, solo per un esempio, la citazione della ragione addotta da Obama
per giustificare la sua avversione al matrimonio gay: sono cristiano, la mia è
un’opposizione che nasce dal sentimento religioso. (Va da sé che qualunque
leader europeo pronunci la stessa frase sarebbe seduta stante impiccato alla
sua bigotteria e al suo disprezzo per i
valori laici della Costituzione.) Obama
è un insieme di differenze che si comprime in una fortissima identità culturale e civile: è un white liberal guy di
pelle nera, un perfetto americano.
Ricattini sindacali
Il caso Alitalia dimostra che gli accordi si devono fare dopo, e non prima
C
ai non ha ceduto al ricatto di quelle
cinque sigle sindacali di piloti e assistenti di volo di Alitalia che hanno deciso di non firmare i contratti per il personale della nuova Alitalia. E’ stata così rotta un’assurda regola non scritta
per cui una società che rileva da un
commissario un’azienda dovrebbe sottostare alle condizioni poste da una parte
di quel personale che si trova coinvolto
nella procedura pre fallimentare. Il
commissario deve fare l’interesse dei
creditori, e l’acquirente deve poter rispettare i criteri di economicità senza
veti di chi non ha alcuna voce propria
in questa procedura legale. Nella logica
di rapporti sindacali (coerente con un
sistema d’economia di mercato) gli accordi con i sindacati non si dovrebbero
fare prima dell’acquisto dell’azienda, rilevata da una procedura commissariale,
ma dopo. E quindi il metodo con cui la
trattativa di Cai è stata condotta, e che
l’attuale governo aveva ereditato dal
precedente, è un metodo sbagliato. Si è
perso così molto tempo, ma s’è anche
potuto verificare che il consociativismo
neocorporativo non regge se non ha
l’appoggio del potere politico. La sottoscrizione dei nuovi contratti di lavoro (e
dei criteri di selezione dei lavoratori
della nuova compagnia che agevolano il
governo nel fronteggiare le conseguenze future del ricatto dei sindacati che
non hanno firmato) deriva dal fatto che
le single sindacali si sono rese conto
che il governo, col ritiro dell’offerta Cai,
avrebbe lasciato che Alitalia fallisse –
seguendo così le regole di una economia pubblica che rispetta le regole del
mercato. La logica del mercato, dunque, ha finalmente prevalso su quella
consociativista che ha creato tanti danni e ritardi alla nostra economia. Cai ha
avuto coraggio. Ma nei riguardi dei piloti e degli assistenti di volo che non
vorranno aderire ai nuovi contratti sarà
aiutata, ancora una volta, dalla logica
del mercato. Esiste, infatti, un’offerta
nazionale e internazionale di personale di volo che può rimpiazzare quello
che non accetterà le sue condizioni, che
sono meramente quelle prevalenti nel
mercato europeo.
Muerte al capitale, anzi no
Fronteggiare la crisi o dare il colpo di grazia? Il sud America si divide
R
iuniti nella capitale del Salvador, i
i capi di stato e di governo dei 22
paesi del vertice iberoamericano, hanno dato vita a un confronto che è presto
sfociato in una specie di dialogo tra sordi. La differenza tra quelli che cercano
misure adatte a fronteggiare la crisi dei
mercati per rinsaldare il sistema capitalistico e quelli che pensano che sia
giunto finalmente il momento per dargli il colpo di grazia sono troppo ampie
per consentire qualsiasi tipo di convergenza non puramente verbale. La demagogia dei leader di Bolivia, Nicaragua, Ecuador, per non parlare di Cuba,
si concentra nella denuncia delle inenarrabili nequizie dell’imperialismo
yankee, mentre gli altri si preoccupano
di come evitare la ricaduta della crisi
che ormai minaccia da vicino le loro
economie, come mostrano i nuovi cedimenti del sistema creditizio argentino
(che già era crollato rovinosamente anche quando da Wall Street non venivano venti di crisi). La proposta del presidente messicano Felipe Calderon, per
un nuovo rapporto tra stato e mercato
inserito in un ordine internazionale più
stabile, è caduta nel vuoto, mentre le
politiche di nazionalizzazione delle
compagnie petrolifere straniere adottate dai vari caudillos di sinistra hanno
perso il loro fascino contemporaneamente al crollo del prezzo del greggio.
Il documento approvato, un invito a
nuovi investimenti per combattere la
povertà, è talmente generico da apparire del tutto inutile, com’era inevitabile
visti i punti di partenza sostanzialmente inconciliabili degli estensori.
La baruffa del Piave
La Russa esagera un po’, ma la sinistra si ricordi del volontario Togliatti
I
l ministro La Russa ieri è tornato su
un argomento che ha già suscitato
qualche polemica. “Il 4 Novembre – ha
detto – sta per ridiventare non solo festa
nazionale, perché lo è già, ma giorno di
vacanza, esattamente come lo è il 2 Giugno e come lo è il 25 Aprile”. Se però festa nazionale “lo è già”, viene da domandarsi che bisogno ci sia di agitarsi tanto.
Dopodiché, si finisce per cedere all’impressione di un vago spirito di rivalsa,
neanche troppo nascosto nel paragone
con il 2 giugno e il 25 aprile, foriero di
nuove polemiche sulla gerarchia delle
vacanze, ancora più inutili delle precedenti sul carattere “razzista” della canzone del Piave, denunciato da Liberazione con ottantotto anni di ritardo. Nel celebrare il 4 novembre non c’è nulla di
strano. E infatti lo si è sempre celebrato,
e tutte le principali cariche istituzionali
– indipendentemente dalla loro personale formazione – vi hanno partecipato
con discorsi solenni e con parole adeguate. Non meno pervasi di spirito unitario e aspirazione alla concordia nazionale, per parte nostra, invitiamo dunque
i colleghi di Liberazione a cercare migliori spunti; tanto più che di simili polemiche furono già bersaglio, a sinistra,
Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti
(che alla Grande guerra partecipò da volontario nella Croce rossa, essendo stato
dichiarato inabile per miopia). Ma al
tempo stesso, certi della sua intelligente
comprensione, invitiamo anche il ministro La Russa a ispirarsi nei suoi interventi ad analogo spirito di concordia.
IL FOGLIO QUOTIDIANO
DOMENICA 2 NOVEMBRE 2008
I giovani Cisl spiegano quali risposte si aspettano ora dalla Gelmini
Roma. Dopo la trattativa Alitalia i sindacati non erano certo in cima classifica
alle classifiche dei più amati del paese,
ma il successo dello sciopero di giovedì,
oltre ad avere aiutato la resurrezione di
Veltroni, sembra aver ridato slancio anche alle tre sigle sindacali, tutte in piazza
a braccetto per protestare contro il decreto sulla scuola voluto dal ministro Gelmini. A giorni il ministro dell’Istruzione renderà note le linee guida che daranno un
quadro più completo dell’idea che in viale Trastevere si ha sul futuro degli atenei
italiani. Di questo, delle proteste in piazza, dei blocchi della didattica e di quello
che occorre fare per riformare il mondo
universitario, parla al Foglio Mattia Pirulli, presidente nazionale dell’Associazione
giovani della Cisl (che si occupa, tra l’altro, di accompagnare giovani che hanno
terminato gli studi nella ricerca del lavoro). Ventiseienne laureando in Economia
alla Sapienza di Roma e studente lavoratore da tre anni, Pirulli dice che “il punto
di partenza per giudicare le manifestazio-
ni di questi giorni sono le parole del presidente Napolitano, che ha invitato al dialogo le parti per trovare una soluzione”.
Lo sciopero però non sembrava un invito
al dialogo. “Non è vero – prosegue Pirulli
– lo sciopero è un modo per richiamare
alla contrattazione, ha come obiettivo
proprio il dialogo”. Secondo Pirulli serve
che ci si sieda attorno a un tavolo e si rivedano i punti critici dei tagli all’università: “Sono stati fatti tagli generalizzati a
cui siamo assolutamente contrari”. Che
soluzione ci sarebbe? “Intanto quella di
andare a vedere quali sono gli atenei più
virtuosi e premiarli, non togliere loro la
stessa quantità di fondi che si tolgono a
chi ha una gestione di bilancio dissennata”. C’è anche la previsione della trasformazione in fondazioni private da parte di
alcune università. “Il problema non è se
un università è pubblica o privata, ma se
offre un servizio buono ed è accessibile a
tutti. Non sono contrario a questa trasformazione, anche se diversi punti non sono
chiari e non si capisce la ricaduta che
avrà ad esempio sulla ricerca di base”.
Alzare di molto le tasse a chi se lo può
permettere e creare più borse di studio
per i capaci e meritevoli non sarebbe una
soluzione? “Certo, potrebbe essere una
soluzione, a patto che l’accesso sia davvero garantito a tutti e la qualità sia alta”,
risponde Pirulli. Così come molti rettori
“virtuosi” in tutta Italia, anche il presidente dei giovani della Cisl aspetta le linee guida della Gelmini con grande attenzione. Perché finora i tagli previsti in Finanziaria non lo convincono. Anche se,
non per questo, è d’accordo con certe forme di protesta e con il blocco della didattica attuato in alcuni atenei della penisola, spesso per volontà di professori e rettori: “E’ assurdo che si arrivi alla sospensione delle lezioni – dice Pirulli, e parla
soprattutto da universitario – Questo non
è uno strumento che va a vantaggio degli
studenti, soprattutto quando è imposto,
come nei giorni scorsi. La libertà di scelta deve essere lasciata sempre: chi vuole
aderire a una protesta lo faccia, ma per
questo non penalizzi chi a lezione ci vuole andare”. Continua Pirulli: “Che molte
università italiane siano in crisi è sotto gli
occhi di tutti, e non solo dal punto di vista
dei bilanci. Un cambiamento serve, ma è
ovvio che se imposto dall’alto sarà difficilmente digerito; per questo dico che serve
il dialogo, altrimenti non se ne esce”. La
Gelmini avrà ben parlato con qualcuno
delle linee guida, no? “Che io sappia non
ha parlato con nessuno, questo è il problema”. Secondo Pirulli “è ottuso pensare che non serva una riforma, ma lo è altrettanto farla in modo unilaterale”. E’ vero, conclude Pirulli, “che la situazione attuale è anche eredità delle vecchie riforme, ma a maggior ragione bisogna parlare del ruolo che l’università oggi deve
avere. Per questo dico: calma tutti, capiamo insieme come deve cambiare, avendo
la preoccupazione che il livello della didattica sia elevato e l’università sia sempre accessibile a tutti”. E se bisogna fare
dei tagli? “Si facciano pure, purché sensati e non generalizzati”.
Maradona, quello nuovo, uscito dal massacro del maradonismo
“LA NAZIONALE HA BISOGNO DI UN UOMO CHE FACCIA RIDERE E NON PIANGERE”, HA DETTO IL NUOVO CT DELL’ARGENTINA
iego si stupisce dello stupore. Forse
D
fa finta: con lui non sai mai dove s’incrociano spontaneità e sovrastruttura. Vero, falso, sincero, costruito, sobrio, alteraDI
BEPPE DI CORRADO
to: si tira a caso. Va come va, perché questo è Maradona. Cioè tutto: il romanzo
eterno di uno che a un certo punto è stato
morto da vivo e che adesso torna non si
capisce se per ritrovarsi o per avere una
nuova scusa per autodistruggersi. Che s’aspettava, il silenzio? Lo sapeva, lo voleva.
Allenatore lui. Dai. Le polemiche sono
parte dello show, accompagnano il personaggio e il suo mondo, qualunque sia e
qualunque sia stato. Poi è stato lui a cominciare, come sempre: “Quanto mi piacerebbe rubare il posto a Carlos Bianchi.
Sarebbe come battere con un ko Tyson,
Foreman o Monzon”.
Adesso che vuoi, Diego? L’anonimato?
Uno che non ha mai di fatto vissuto da
anonimo non può chiederlo agli altri. Non
lo vuole, comunque: è tutta scena, tutta coreografia di uno spettacolo che ha lui come protagonista anche quando non l’ha
chiesto. Stavolta sì: s’è preso la panchina
dell’Argentina e adesso si prende i se, i
ma, i forse. Fanno parte del gioco: prendi
sta palla, Diego, e comincia a palleggiare.
Bisognava aspettarlo, perché Maradona
non finisce mai. Questo è un capitolo, un
altro. Prevede nemici, perché senza quelli Diego non sa stare: a Barcellona aveva i
difensori, a Napoli prima la stampa, poi
Ferlaino, a Buenos Aires tutto il mondo, a
Cuba tutto il mondo più Bush. Adesso la
gente. Cioè quel pezzetto di Argentina che
l’ha schiaffeggiato l’altro giorno quando
Clarin ha chiesto se fosse giusto dare la
panchina della Nazionale a Dieguito: 50
mila no, il 73 per cento delle persone che
ha votato. E’ uno stadio intero. Per Maradona sarà quello del River, da sempre pieno di gente che lo detesta. Cerca un pretesto e combatti. Però sa che dentro c’è gente del Boca, dell’Indipendiente, del
Newell’s, gente che lo amava e che non si
fida. E’ così, Diego. Adesso può esaltarsi o
deprimersi, affari suoi: se ti rimetti in gioco accetti di uscire dalla protezione collettiva, dal rispetto infinito verso uno che stava per andarserne, dall’adorazione di un
vincente che ha rischiato di perdere tutto.
Il Diego drogato, quello malato, quello in
clinica avevano compattato il mondo nella
pietà, nella preghiera isterica degli orfani.
I sit-in fuori dall’ospedale, i santini, le tv di
tutto il mondo a fare stand-up di fronte all’ingresso del reparto: “Ecco l’ultimo bollettino medico sulle condizioni del Pibe
de Oro”. Da allenatore non è più un resuscitato: è vero, toccabile, insultabile. E’ l’oleogramma che torna umano per l’ennesima volta.
La risposta al cellulare
Quanti ritorni ha avuto Diego? Non si
contano più, non ci è riuscita neanche l’ex
moglie Claudia, che a un certo punto se ne
è andata. Questo è l’ultimo, per quelli che
adorano la retorica è anche il più bello:
Maradona in campo, anzi in panchina, comunque dentro, protagonista, sano, al lavoro. Sorridente, anche. Questa è la maradoneide: felice al pensiero che l’uomo sbagliato non ci sia più, cancellato da questo
signore tirato e improvvisamente magro,
lucido, normale. Uno che risponde al telefono ai giornalisti dalla macchina un’ora dopo aver avuto la notizia di essere stato scelto come commissario tecnico: “Mi
possibile scrivere un opuscolo turistico su un paese in cui non siete mai
E’
stati? Forse sì, se vi chiamate Erlend Loe
e avete il suo senso dell’umorismo, la sua
abilità nel cogliere il risvolto ironico della banalità quotidiana, la sua capacità di
fare di un dettaglio usuale il punto di partenza di girandole che costringono a sorridere del grottesco che così spesso si nasconde nell’ovvio. In quest’ultima fatica,
Loe aggiunge alla galleria degli stralunati
protagonisti dei suoi romanzi l’improbabile figura di un redattore di brochure.
Trentenne, single, senza amici, libero
professionista attualmente disoccupato e
squattrinato, si vede proporre da due funzionari dell’ambasciata finlandese la stesura di un pieghevole sul loro paese. Non
c’è mai stato, lui, in Finlandia. Ma proprio
quella mattina gli hanno rimosso l’auto in
divieto di sosta, non ha nemmeno i soldi
per ritirarla dal deposito. E allora si inventa sui due piedi una nonna finlandese,
improvvisa un’infanzia trascorsa nel paese dei mille laghi, millanta una competen-
sento come nei giorni nei quali sono nate
Dalma e Giannina… Oddio sto commettendo un’infrazione ed è mancato poco che un
camion mi schiacciasse”. Il cellulare, ec-
tario potranno raccontare davvero.
Non c’è perdono, non c’è comprensione.
Il maradonismo ha massacrato Maradona,
trasformandolo in un’icona, l’ha banalizza-
Sono vent’anni che il campo da calcio non c’entra più niente con Diego,
diventato il totem dei diseredati a caccia di un sogno da vivere. Diego
personaggio che sovrasta Diego calciatore è stato un insulto incancellabile.
Ora si ricomincia dalla panchina, dove non sempre vincono i più bravi
co. Dicono non sia un dettaglio se risponde direttamente lui. Perché mentre guariva, glielo avevano proibito. Lo teneva un
amico che stava sempre con lui. Non Cop-
to, ha offuscato la grandezza dei suoi gesti
tecnici, la bellezza del suo calcio, la straordinaria capacità di far vedere che cosa si
possa fare con un pallone tra i piedi. Die-
pola, un altro. Rispondeva e filtrava le
chiamate per evitare di farlo parlare con
qualcuno che lo tentasse, con qualcun altro che gli offrisse la sua gioia in polvere.
Se adesso risponde lui senza bisogno di
nessuno, allora vuol dire che quell’epoca
è finita. Anche quella. E chi l’ha visto conferma: il look, lo spirito, la voglia sono da
uomo, non da clown a caccia di uno scopo
per fare pena. Non si parla di soldi nel
suo contratto. Non ancora. Diego non ha
problemi economici, è tornato una piccola azienda da tre milioni l’anno di sole
comparsate e pubblicità. La federazione
pagherà, certo. Quanto è ancora da vedere perché pare che Maradona abbia accettato senza neanche sapere quanto fosse l’offerta. Ha fame di se stesso, evidentemente. Lui più dei gufi che hanno sempre alimentato il suo mondo da eroe-sbagliato: perché c’era tanta gente che lo adorava rovinato? Perché hanno cercato sempre di prenderlo come esempio della rivincita, del riscatto, del sud che ce la fa?
E’ così che s’è rovinato, Diego. Sapendo
che c’era un mondo adorante a prescindere, che c’era chi era pronto a stare con lui
senza riserve. Dicevano fosse perché in
campo era stato un dio. Invece sono
vent’anni che il campo non c’entra nulla,
che Maradona è stato preso per il totem
dei diseredati a caccia di un sogno da vivere. Il suo è stato un incubo fatto di fantasmi che nessun film e nessun documen-
go personaggio che sovrasta Diego calciatore è stato un insulto incancellabile. Chi
ha avuto pietà delle sue follie non s’è reso
conto di aver ridotto a persona normale,
uno che normale non era. Adesso sì. A 48
anni si può, forse si deve. Normale, ma
eroe, perché sennò non sarebbe Diego. Ci
dev’essere sempre un pretesto, ci dev’essere sempre un contesto. Ora c’è: l’Argentina
pallonara che barcolla, arranca, si piega.
Sconfitte, sconfitte, sconfitte. Diego è il salvatore, come nell’86, come ogni volta. I nemici non sono gli inglesi delle Malvinas,
non sono gli italiani che fischiano l’inno
argentino nella finale di Italia 90. I nemici
sono ex amici: el pueblo, il suo. E’ incerto,
dubbioso, scettico. Diego è Diego, sì. Ma la
panchina?
LIBRI
Erlend Loe
TUTTO SULLA FINLANDIA
233 pp., Iperborea, euro 14
za immaginaria, esce dall’ambasciata col
contratto in tasca, in testa il miraggio di
scrivere “la madre di tutte le brochure,
quella che si legge comodamente seduti
nella poltrona buona e poi si mette in libreria, accanto ai classici”.
Impresa eroicomica che Loe mostra dall’interno, in presa diretta, squadernando
un ininterrotto flusso di coscienza che continuamente si impegola in infinite digressioni tra il lavoro – c’è da stupirsi che proceda a rilento? – e i mille inciampi che la
vita mette davanti. E pensare che il nostro
La formazione l’ha sempre fatta lui
Qui non servono numeri, non servono i
piedi, non serve la testa, non serve vedere
dove gli altri non vedono. La panchina è
un casino, dove non sempre vincono i più
bravi. Non sono passati neanche due anni
da quando gli chiesero quante chance
avesse di fare l’allenatore della Nazionale. “Zero direi. Non diventerò mai commissario tecnico, perché non so se chiamarmi
conviene ai dirigenti”. Allora Diego allenatore è una scommessa alla quale forse
non crede neanche lui. “La formazione la
faccio io”, ha detto. Il che suona paradossale, visto che Ferlaino dice che la faceva
scrittore di brochure si era presentato con
una tirata contro l’acqua, suo incubo ricorrente, simbolo di instabilità e cambiamento, “siamo in molti a provare disagio per
l’acqua, perché non la si può fermare, come il tempo, al diavolo entrambi”. Suo unico anelito, confessa, sono stabilità e certezze. Ma le certezze non sono che luoghi comuni, la stabilità è un sogno che continuamente gli viene sottratto, l’imprevisto irrompe: l’impiegata dell’ufficio cui si rivolge per riavere l’auto si rivela tanto gentile
che lui passa una notte in un bosco solo
per parlarle, in men che non si dica si ritrova a occuparsi del di lei inquieto fratellino, finisce per doverlo recuperare avventurandosi lungo un fiume su uno sgangherato kayak, costretto a vincere la guerra
contro la propria fobia per l’acqua. E così
via, in un caleidoscopio di situazioni di
surreale quotidianità che invariabilmente
sgretolano le povere sicurezze del nostro e
lo obbligano a fare i conti con quel che accade. Moderno bildungsroman nordico col
dono dell’autoironia e della levità.
anche quando era giocatore. Il che suona
paradossale al quadrato se pensi che Diego non avrebbe mai potuto allenare Maradona, perché sennò chi l’avrebbe fatta la
formazione? Ha fatto sapere che farà fuori Zanetti, Cambiasso e Abbondanzieri.
Non si sa di Aguero, cioè il genero, il fidanzato della figlia, che Diego considerava una mezza tacca fino a poco prima che
scoprisse di ritrovarlo in casa per la cena
di Natale. Giocherà, perché è forte. Giocherà perché fila con Messi, cioè il pupillo di Diego. Il resto è un’incognita che non
sa risolvere nessuno. Sappiamo solo che la
prima frase da commissario tecnico è stata questa: “La Nazionale ha bisogno di un
uomo che faccia ridere e non piangere, di
uno che renda felici e non tristi”. Anche
lui ha bisogno delle stesse cose. Vuole ridere, vuole gioire. Gli altri ex compagni
della generazione 86 lo aiuteranno: la federazione li sta chiamando uno a uno per
farli entrare nel gruppo. Gli hanno messo
Carlos Bilardo a fare da tutore. Avrà un vice, poi forse anche una squadra di consulenti: la protezione contro il rischio, l’assicurazione anti follia. Diego sceglierà, gli
altri consiglieranno. Perché tutti sanno
dei precedenti. Maradona ha allenato la
prima volta nel 1994, subito dopo il Mondiale degli Stati Uniti: prese il Mandiyú,
fece 12 partite 3 punti. Poi il Racing di
Avellaneda: 11 partite 3 sconfitte, 6 pareggi e 2 vittorie. Due appena e una di queste
forse neanche voluta: alla Bombonera contro il suo Boca. Il Racing non lo batteva in
trasferta da vent’anni, ci voleva Diego per
farlo. Non c’è altro, non ci sono avventure
successive, prove con altre squadre, in altri paesi. C’è stata soltanto quella mezza
frase del 1996, poi dimenticata: “Tornerò
in Italia e lo farò per allenare il Napoli”.
All’epoca era un’uscita così. Oggi? Oggi se
chiedi in giro, non aspettano altro. Un capitolo ancora. Il romanzo, l’anti-Gomorra
di Napoli: la faccia di Diego in copertina.
Prima, durante e dopo. Futuro, questo.
Mentre qui qualcuno sta pensando ancora
al passato, ai numeri, alle esperienze, alle
pazzie. Perché dopo quelle prove da mister, c’è stato il Diego folle, quello che alla
Bombonera stava sul suo palco privato a
petto nudo, mentre volteggiava la maglia
del Boca come una ballerina di un night
da quattro soldi. Quello con gli occhi spiritati e poi depressi, spenti, bui. Questo
Diego ce li ha normali. Allora che fai, non
gli credi? Non costa molto, in fondo. Se
non ti illudi, Maradona è ancora il massimo della vita, è sempre quell’immagine
del pallone attaccato al piede, è lo spot del
calcio, il più bello che si possa avere. Dove lo trovi un altro che si divertiva a sporcarsi nel fango? Dov’è un altro che non cadeva mai, che barcollava dopo un fallo, ma
restava in piedi? Dov’è chi calciava come
lui, chi dribblava come lui? Bisogna tenersi tutto: videocassette, dvd, ricordi, foto, ritagli di giornale. Diego è un altro,
ora. Il terzo, il quarto, il quinto Diego della sua vita. La panchina, la Nazionale,
venti chili in meno, assomiglia a quello di
metà anni Ottanta: non s’è capito se vuole
provare a diventare adulto, o se cerca il
modo per restare piccolo per sempre.
Non sappiamo se il ritorno nel calcio è il
ritorno all’inferno. Bisogna aspettare.
Guardare. Spettatori di uno show che tanto va in onda lo stesso, anche se non lo vede nessuno. Se tradisce, peggio per lui.
Qui ci sono le immagini. Qui c’è lui. Eterno. Può fallire Diego, chissenefrega. Noi
avremo sempre Maradona.
IL FOGLIO
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ANNO XIII NUMERO 299 - PAG 4
La Giornata
* * *
In Italia
BOSSI: “SU CAI INTERVENGA IL CAV.”.
PILOTI E ASSISTENTI RESISTONO. Ieri il
ministro per le Riforme, Umberto Bossi, ha
detto che per sbloccare la trattativa di Cai
con i sindacati di piloti e assistenti, “deve
scendere in campo Berlusconi”. Sull’ipotesi della necessità di un nuovo finanziatore nell’acquisto di Alitalia, Bossi ha detto:
“La Cai secondo me non molla la partita. I
sindacati devono stare attenti a non esagerare: se falliscono Alitalia e Malpensa sarebbe uno smacco enorme per loro”. Per il
ministro dell Infrastrutture, Altero Matteoli, “Cai volerà, nessuno può permettersi veti”. In una nota i rappresentanti di piloti e hostess hanno ribadito la loro contrarietà all’accordo con Cai alle attuali
condizioni e hanno detto che “la resa incondizionata di Cgil, Cisl, Uil e Ugl rappresenta un’azione diretta contro i lavoratori” e che è in atto “una campagna mediatica piena di falsità” contro di loro. Lunedì il commissario straordinario di Alitalia, Augusto Fantozzi, esaminerà l’offerta
Cai e a Fiumicino si svolgerà un’assemblea
dei piloti e degli assistenti di volo. Anche
il presidente della Camera, Gianfranco Fini, è intervenuto sulla vicenda chiedendo
che “piloti e assistenti di volo si assumano
le proprie responsabilità”.
Secondo Pierluigi Bersani, ministro ombra dell’Economia del Pd “il problema di
fondo è che l’offerta Cai è troppo debole per
risolvere le esigenze reali del lavoro e per
garantire un servizio adeguato interno ed
internazionale”. Per Antonio Di Pietro, leader dell’Idv, “è l’ennesima fregatura”.
* * *
“Veltroni ammetta i suoi errori”. Così Emma Bonino ha commentato l’assenza del segretario del Pd al congresso dei Radicali italiani a Chianciano. “Alle elezioni hai scambiato la tua fretta con l’urgenza del Paese –
ha detto Bonino rivolgendosi metaforicamente a Veltroni – Ammettilo, o ti troverai a
rincorrere un populismo che non porta da
nessuna parte”. Sul ruolo dei radicali nel
Pd, Bonino ha aggiunto: “Non c’è un contatto di partito”. E sul referendum sul dl Gelmini: “Ci avete sempre detto che i referendum si fanno sulle grandi questioni di principio. E ora su cosa lo facciamo, sul grembiule?”. Su Alitalia: “Il governo ha detto bugie colossali. Non so come andrà a finire”
Per Paolo Gentiloni, responsabile comunicazione del Partito democratico, “i rapporti tra gli eletti radicali e il Pd sono improntati a una collaborazione positiva”.
* * *
“Prezzo della pasta troppo alto”. Il garante
dei prezzi ha convocato i maggiori produttori: “Gli operatori adottino comportamenti virtuosi per ridurre i listini”, ha detto.
* * *
Quattro feriti a Pordenone per un’esplosione al poligono di tiro.
IL FOGLIO QUOTIDIANO
DOMENICA 2 NOVEMBRE 2008
Combattenti pro McCain, un appello fervoroso per voi tutti
Al direttore - E dopo i piloti kamikaze speriamo in un finale col botto.
Maurizio Crippa
già hanno manifestato qualche giorno fa i docenti del liceo Manini di Roma.
Stefano Viale, Torino
Al direttore - Spero solo che tra quaranta anni non ci saranno articoli commemorativi del
vergognoso 2007+1.
Maurizio Genoese Zerbi, Roma
Mi sarei aspettato anch’io una manovra
selettiva, e proteste favorevoli all’uniformità
corporativa. E’ andata altrimenti. I tagli, si
sa, non hanno anima.
Al direttore - Molti tra i critici della protesta
di sinistra sui decreti Gelmini commentano che
l’opposizione avrebbe invece potuto responsabilmente attaccare la formula indiscriminata dei
tagli alle università. Siamo d’accordo. Il modello scelto dal governo è sempre quello frusto dell’egalitarismo, alla faccia delle chiacchiere sulla
meritocrazia. Solo che è difficile trovare un
esempio più clamoroso di suggerimento rivolto
al soggetto sbagliato. Se il governo avesse mai
distinto tra università virtuose e no, la protesta
a sinistra si sarebbe arricchita di tutto il repertorio di allarmi contro la spirale discriminazione-razzismo. Con la benedizione del Pd. Di sicuro tra i 250 milioni di manifestanti al Circo Massimo avrebbero sfilato sotto il palco di Veltroni
un po’ di professori e studenti, più qualche bambino, con appuntata la stella gialla. Così come
Al direttore - Penso, direttore, che Berlusconi
debba rassegnarsi. O se ne va, scioglie il Pdl e,
vista la maggioranza di cui dispone, fa votare
un provvedimento con il quale i partiti del centrodestra vengono messi fuori legge (e quindi sono impediti dal partecipare alle elezioni) oppure deve mettere in conto e sopportare gli scioperi della Cgil.
Giuliano Cazzola, deputato del Pdl
Al direttore - Dopo sono tutti buoni. Io, invece, le dico prima che, secondo i miei personali
sondaggi, è assolutamente certo che il prossimo
presidente degli Stati Uniti sarà McCain (e, se
Dio vuole, gli succederà Sarah Palin per otto
anni, salvo imprevisti imprevedibili). Non può
che essere così: solo una mutazione antropologica del popolo americano potrebbe indurlo, an-
che semplicemente disertando le urne (ed è invero questa l’unica chance di Obama), a bersi
un altro “prodotto Carter”. E dei “Clinton” e dei
clintonismi gli americani hanno fatto ormai
esperienza. Cioè, né l’Obama visionario e sognatore, né quello calcolatore e opportunista,
hanno la speranza di vincere. Certo, potrebbe
perdere McCain. Ma poiché in tal caso vincerebbe Obama, non accadrà: il popolo americano – quello vero, non quello un po’ polverizzato
e poi massificato che vive tra New York e Los
Angeles – non può permetterlo. Perché non può
permettere che venga confermata, o addirittura
consolidata, per un decennio ancora, la maggioranza che volle la sentenza “Roe vs Wade”,
Alta Società
Weekend a Milano. Penna stilografica, inchiostro blu, calligrafia affettuosa,
dediche mirate. Alberto Arbasino ha
mandato agli amici il suo meraviglioso
“La vita è bassa”. Da leggere, per rallegrarsi, in queste uggiose giornate
novembrine.
ma anzi vuole che venga finalmente rovesciata,
e quindi vuole McCain-Palin. E non può succedere nulla di diverso. E quando avrà vinto McCain, licenzierete finalmente quel disfattista alla Colin Powell di David Frum (un’altra Sua
‘nziria alla Vito Mancuso), che sono almeno
quattro anni che ci frantuma il frantumabile
sulla crisi della right nation, sul declino dei social conservative, sulla perdita di peso delle issues antropologiche (vita, famiglia, matrimonio,
libertà d’educazione), sui fallimenti di Bush e
sul tramonto della coalizione reaganiana. Naturalmente, se a essere smentito, il 4 novembre,
non sarà il disfattista – e con lui tutto l’obamismo planetario (godo già al solo pensiero, soprattutto se lo rivolgo a quello italico, e in particolare ai neo-obamisti di Alleanza nazionale)
– ma il sottoscritto, allora sarò io ad aver meritato il licenziamento. Ma non credo.
Cordialmente
Giovanni Formicola, via Web
Mi piace la sua combattività. In ogni combattente deve esserci una parte di immaginazione, di fervore, perfino di delirio. Diciamo che nella sua lettera questi ingredienti non mancano.
Il nuovo idraulico Joe è un giornalista-pilota che non può che votare McCain
T
ra i pasticci di Alitalia, le elezioni americane e una certa sconclusionatezza per il futuro
non resta che rivolgersi a
un esperto e sperare in bene, e cioè che l’esperto riL’AEROPLANINO DI CARTA
DI EDOARDO CAMURRI
sponda. Per i fatti miei, quando tento di
stabilire uno scenario, mi lascio andare a
fantasie speranzose tipo: per quanto riguarda il trasporto aereo, considerando
anche la crisi di Alitalia, generalizzandola
un po’, come sbloccare definitivamente la
situazione? Ecco, a domande del genere,
se mi si lascia solo, cioè senza l’esperto
che risponde, immagino che il futuro non
potrà che essere pneumatico, cioè volto all’esplorazione gnostica di nuovi sistemi di
trasporto, privi di ali, ma ancor più veloci
e efficaci. Penso infatti alla posta pneumatica su larga scala, a grandi capsule dentro
le quali chiudere i passeggeri da spedire
di qua e di là all’interno di tubazioni con
basso attrito (la propulsione delle capsule
potrebbe essere realizzata per mezzo di
motori lineari sincroni, il sostentamento e
la guida invece si realizzerebbero attraverso sistemi a sublimazione e levitazione
magnetica). Faccio anche i miei calcoli: un
sistema di questo tipo (che ovviamente, essendo quasi tutto automatizzato, farebbe a
meno di molti rompiscatole come piloti e
assistenti di volo) consentirebbe di percorrere la tratta New York-Los Angeles in
quarantacinque minuti, la tratta Washington-Pechino in due ore circa, eccetera. Così su due piedi mi sembrerebbe una soluzione efficace e insomma mi verrebbe da
chiedere come mai pochi ci abbiano pensato mentre la maggior parte degli esperti
s’incaponisce con le solite soluzioni. Penso, volendo tenere insieme i sempreverdi
problemi di Alitalia, il trasporto aereo e
anche le elezioni americane, a uno dei più
famosi esperti aerei del pianeta, cioè a Patrick Smith, pilota e autore della fortunata
rubrica “Ask the Pilot” della rivista americana Salon.com. Ecco, Smith è famoso
per rispondere periodicamente a questioni piuttosto semplici come: “Quando un aereo atterra, sembra quasi che appena tocINNAMORATO FISSO
DI MAURIZIO MILANI
Oggi lei mi ha lasciato
perché le ho detto che
ho fatto due anni in uno.
Cioè terza e quarta geometra in un anno scolastico, per rimediare una
bocciatura e tirarmi in
pari. Lei: “Dovevi dirmelo la prima sera che ci
siamo conosciuti, anzi
era la prima notizia che
dovevi darmi su di te”. Io: “Sì, sta attento
che io adesso conosco una in spiaggia e
la prima cosa che le dico non è il mio no-
ca la pista i motori vadano su di giri. Non
è che per caso i motori vanno in retromarcia?”, oppure “Perché i voli transcontinentali notturni vanno solo
verso est e non viceversa?”, oppure “E’ vero che il contenuto
delle toilette viene scaricato
durante il volo? Nessuno si è
mai lamentato di essere stato investito dai liquami?”. Ecco, quando
Smith affronta questi argomenti è
bravo, sensibile e arguto. Diverso il
caso, come anche insegna l’esperienza italiana, quando trasporto aereo e politica si intrecciano gordianamente. Nell’ultimo numero di Salon,
Smith, discutendo del rapporto tra voli aeme, non dove lavoro o in che albergo soggiorno, ma: ‘Senti bella, venticinque anni
fa alle superiori sono stato bocciato in
terza, per cui…”.
Le donne in effetti sono un po’ strane.
Nemmeno tanto. Il massimo è quando
credono di essere originali e dicono: “A
me quelli belli non piacciono”. Alcune
arrivano al colmo di dire: “A me piacciono i brutti, sono sempre stata fidanzata con uomini bruttissimi”. Senti, donna che pensa di essere eccentrica, se ti
passa di fianco George Clooney e per
sbaglio ti invita a bere un aperitivo, portatelo a casa. Poi con le amiche discuti
se pensavo meglio, peggio; ma intanto te
lo blindi tu.
rei e nuovo presidente degli Stati Uniti,
prima spiega che per i piloti sarebbe auspicabile una vittoria di Obama, poi nota
come invece molti piloti finiscano con il
preferire McCain. Scrive: “I piloti appartengono a quel tipo di americani che si caratterizza per il fatto di votare
contro i propri interessi. (…) Ho
chiesto a un mio amico pilota,
un conservatore evangelico, come fa a votare per un candidato che, molto più dell’altro, minaccia i suoi mezzi di sussistenza. ‘Quello che i miei colleghi liberal non capiscono’ mi ha risposto ‘è che io non voto contro quelli
che considero i miei interessi più importanti. Gli interessi per la mia carriera non
sono superiori alla mia fede conservatrice,
al mio desiderio per un governo più leggero, per tasse più basse, per un esercito forte, eccetera”. Quasi come l’idraulico Joe,
questo pilota è un uomo tutto d’un pezzo e
Patrick Smith non riesce a farsene una ragione. Si capisce che ne rimane sconvolto.
Al punto che, verso la fine del suo articolo,
perdendo la calma, il bravo esperto smarrisce pure ogni residuo di buon senso. Diventa superstizioso. Ammette che tutti i
candidati democratici alla presidenza che
negli ultimi anni sono stati sconfitti, lui,
Patrick Smith, li aveva incontrati poco prima di ogni elezione. Insomma, l’esperto teme di portare sfortuna. E scrive: “Mi chiedo se la cosa più sicura da fare non sia, in
questi giorni, di barricarmi in cantina”.
Per un pilota è il massimo.
La Giornata
* * *
Nel mondo
L’IRAQ HA DESTINATO 15 MILIARDI
DI DOLLARI ALLA RICOSTRUZIONE.
Il ministro delle Finanze di Baghdad,
Bayan Jabr, ha annunciato ieri che il 25 per
cento della Finanziaria del 2009 (che è ancora una bozza) è destinato alle infrastrutture. Secondo uno studio del governo, l’Iraq
ha bisogno di 400 miliardi di dollari per la
ricostruzione. “Ecco perché abbiamo bisogno di investimenti nel paese, in molti settori, inclusi quello dell’elettricità, della raffineria, del petrolio, delle case e delle banche”, ha detto Jabr. I trenta istituti di credito del paese sono a corto di capitale a
causa della crisi e il governo segnala che,
dipendendo al 90 per cento dal petrolio, l’economia irachena è in un periodo delicato.
Il Times ha rivelato ieri che Saddam
Hussein sarebbe stato accoltellato sei volte
prima dell’impiccagione. La fonte è il capo
delle guardie alla tomba dell’ex rais. Il governo ha smentito.
* * *
La tenda di Gheddafi al Cremlino. Il leader libico Gheddafi si è recato ieri a Mosca,
dove ha incontrato il presidente russo Medvedev. Al centro dell’incontro la cooperazione energetica per gas e petrolio. Secondo una fonte vicina agli ambienti della Difesa russa, citata da Interfax, saranno anche discusse vendite di armamenti per oltre 1,5 miliardi di euro.
Medvedev ha nominato Yunus-Bek
Yevkurov, un paracadutista, come presidente dell’Inguscezia a sostituzione di Zyazikov, fedele a Mosca. La nomina segnala
la difficoltà della Russia a controllare i ribelli di tutto il Caucaso del nord.
* * *
Scissione dell’Anc in Sudafrica. I dissidenti dell’Anc, fedeli all’ex presidente
Mbeki, sono pronti a lanciare un nuovo partito per opporsi a Zuma e hanno aperto una
convention a Johannesburg. La nuova formazione sarà lanciata il 16 dicembre.
* * *
Aveva 13 anni la ragazza lapidata in Somalia ed era stata violentata. Amnesty ha rivelato che è questa l’età della ragazza uccisa
a pietrate a Chisimaio, la settimana scorsa,
con l’accusa di adulterio.
E’ rientrato in Somalia un capo delle
Corti islamiche, Sheik Ahmed. Aveva trovato asilo politico in Yemen.
* * *
Morales sospende le attività della Dea. Il
presidente boliviano si è mosso contro ll’agenzia antidroga statunitense, accusandola
di aver fomentato la rivolta civile nel paese.
* * *
Thaksin telefona alla folla in uno stadio a
Bangkok. Novantamila sostenitori dell’ex
premier thailandese hanno applaudito contro “la sentenza politica” di due settimane
fa: “Non posso tornare a casa perché mi
hanno condannato a due anni di prigione”.
ANNO XIII NUMERO 299 - PAG I
IL FOGLIO QUOTIDIANO
DOMENICA 2 NOVEMBRE 2008
UNA
CHIESA
MALATA
DI
BIOLOGISMO
Mancuso vede “una strana convergenza” tra neodarwinisti e gerarchie ecclesiastiche, a scapito della libertà
di
Vito Mancuso
S
empre più mi vado convincendo di
una strana convergenza, l’esposizione della quale costituisce la tesi di
questo articolo. Si tratta di qualcosa
di inaspettato e di sorprendente che
riguarda due attori molto distanti l’uno dall’altro, anzi in continua reciproca polemica: mi riferisco al pensiero
neodarwinista ortodosso da un lato e
alle prese di posizione della gerarchia
cattolica in tema di bioetica dall’altro.
A prima vista sembra non ci debba essere nulla di più distante, ma le cose,
forse, non stanno così.
Martedì scorso, 28 ottobre, ho assistito all’inaugurazione dell’anno accademico della mia università, l’Università Vita Salute San Raffaele di Milano, ascoltando nell’occasione la lectio
magistralis che il rettore don Luigi
Verzé aveva affidato per quest’anno al
genetista di fama internazionale Luca
Cavalli Sforza, professore emerito nell’Università americana di Stanford e
docente presso la mia stessa facoltà di
Filosofia.
L’aula era gremita da studenti, docenti, autorità. Benché arrivato in
orario, a me è toccato assistere in piedi all’intera celebrazione, avendo
però la fortuna di condividere la non
Se per la vita biologica siamo quasi
identici alla scimmia, per la nostra
vita spirituale non abbiamo nessuna
analogia con il mondo animale
comoda posizione con il collega Andrea Tagliapietra, insigne filosofo e
vulcanico creatore di motti di spirito.
Cavalli Sforza ha esordito dicendo
che la vita “non è più un mistero”
perché ora noi sappiamo bene che cosa essa è, sappiamo che è Dna, cioè
una molecola in grado di replicare se
stessa. Sappiamo anche, ha continuato Cavalli Sforza, come la vita si evolve: si evolve mediante errori di copiatura che avvengono casualmente nella replicazione del Dna. Senza errori,
niente evoluzione. Ma grazie agli errori l’evoluzione si mette in moto, essendo l’evoluzione nient’altro che il
progressivo adattamento degli organismi mutanti e mutati all’ambiente circostante. Nulla di nuovo in tutto ciò,
sia chiaro, solo una brillante riproposizione del paradigma ortodosso del
neodarwinismo. Ciò che a me qui preme sottolineare è il fatto che la tesi
naturalista colloca la verità di noi
stessi nelle molecole di Dna del nostro patrimonio genetico. Ovvero: l’uomo è definito dalla sua biologia, l’uomo è bios.
A Cavalli Sforza, e in genere al pensiero che lui rappresenta (che nella
nostra facoltà è portato avanti anche
da Edoardo Boncinelli), non è difficile replicare che è evidente che l’uomo è vita biologica, ma che è altrettanto evidente che l’uomo non è solo
vita biologica. Il contesto stesso nel
quale Cavalli Sforza affermava l’equivalenza dell’uomo a mero bios, cioè
la luce). Qualunque realtà si nomini
dicendo “Dio” o “divino”, l’intuizione
esistenziale cui questa categoria rimanda è la libertà spirituale dell’uomo rispetto alla sua biologia e alla
sua socialità. Noi siamo bios, noi siamo relazioni sociali, è evidente; ma
né il bios né le relazioni sociali ci definiscono ultimamente: ognuno di noi,
ultimamente, è la sua libertà, la sua
anima spirituale, la sua irripetibile
individualità. E’ per questo ed è in
questo che siamo, come dice il libro
biblico della Genesi, “a immagine e
somiglianza di Dio”. Dio infatti è spirito, insegna il Vangelo, e noi siamo a
sua immagine non in quanto bios, ma
in quanto pneuma, in quanto spirito,
cioè libertà.
Le occasioni della vita hanno voluto che il giorno prima di sentire Cavalli Sforza al San Raffaele io partecipassi alla nota trasmissione televisiva
di Gad Lerner, “L’Infedele”, dedicata
al caso di Eluana Englaro. Questa volta ero seduto, ma devo confessare che
il giorno dopo in piedi accanto a Tagliapietra mi sarei sentito più comodo che non lì, su una poltroncina rossa accanto a Beppino Englaro, straordinario esempio di dedizione paterna, e all’onorevole Eugenia Roccella
sottosegretario con delega alla Salute. Quali esponenti della dottrina cattolica ufficiale in tema di bioetica vi
erano Marina Casini e Gian Luigi Gigli, autorevoli esponenti di “Scienza e vita”, l’organismo emanazione della Conferenza episcopale
italiana. In quella occasione
mi sono ritrovato ad ascoltare
argomentazioni che, nella sostanza antropologica, il giorno
dopo avrei ritrovato nella lectio magistralis di Cavalli Sforza.
Per Marina Casini e il professor Gigli, e in genere per l’impostazione
bioetica assunta in questi anni dalla
gerarchia cattolica, la dignità dell’uomo è altra cosa dalla sua libertà, nel
senso che tale dignità non consiste
nell’esercizio della libertà ma nella
sua dimensione biologica. La vita
umana è sacra non in quanto spirito libero, ma in quanto vita
biologica. Per questo, si sostiene, all’uomo non spetta
l’ultima parola sulla sua vita.
“Non spetta alla persona decidere”, ha dichiarato mons.
Giuseppe Betori il 30 settembre scorso nel suo ultimo intervento da segretario della Cei,
specificando di parlare “con il
pieno consenso del presidente Bagnasco”. Dire questo equivale a sostenere che la verità dell’uomo non
sta in alto, cioè nella libertà descritta
classicamente con i termini di anima
e di spirito, ma in basso, cioè nella
sua biologia. I vertici della Cei negano alla libertà potere sulla biologia, e
affermano che è piuttosto la biologia
a vincolare la libertà: infatti “non
spetta alla persona decidere”. A chi
spetta allora? Ai medici, risponde la
gerarchia. Ma qual è il criterio in base al quale i medici decidono? La biologia, è evidente, e non può che essere così, se i medici fanno il loro me-
un’aula universitaria, così come la
musica del grande Händel che aveva
accompagnato l’ingresso del senato
accademico, sono una prova del suo
contrario, una prova cioè che l’uomo,
oltre a essere bios, è anche psyché e
pneuma, vita dell’anima e dello spirito. Senza il Dna, niente anima e niente spirito, è chiaro. Ma siccome l’anima e lo spirito si danno (oltre all’università e alla musica, prova ne sia il
giornale che ora tenete in mano e il
desiderio di conoscere che vi porta a
leggerlo, e centomila altre cose che è
sufficiente alzare la testa per individuare) ne viene che l’essere umano è
maggiore del suo patrimonio genetico,
non è riducile alla vita biologica.
I genetisti
dicono che
condividiamo con lo
scimpanzé
il 98,5 per
cento
del
dna. Bene. Essendo sotto gli
occhi di tutti che
(con tutto il rispetto
per lo scimpanzé) la storia e la civiltà
dell’essere umano sono abbastanza
diverse da quella dello scimpanzé,
molto probabilmente non è il nostro
Dna con quel suo piccolo 1,5 per cento di differenza a spiegare l’evoluzione che ci ha differenziato, e ci differenzierà sempre più, dallo scimpanzé. Il Dna è la base necessaria da
cui emergono livelli superiori dell’essere-energia che ci costituisce, per
designare i quali la filosofia classica
ha coniato altri termini oltre a
“bios”: ha parlato di “zoé”, “psyché”, “pneuma”, “nous”. La
tradizione cristiana e anche
quella ebraica (Tommaso d’Aquino per la prima, Mosè Maimonide per la seconda) hanno
accolto totalmente questa visione antropologica, ponendo la verità ultima
dell’uomo non in basso, cioè nella sua
vita biologica, ma in alto, cioè nella
sua vita spirituale. Se infatti per la vita biologica siamo quasi identici allo
scimpanzé, per la nostra vita spirituale non abbiamo nessuna, non
dico identità, ma neppure
analogia, col resto del
mondo animale. E’
questo più alto livello dell’essere a fare
dell’essere
umano qualcosa di unico,
qualcosa di
così stupefacente nel mondo dei
viventi davanti a cui la mente umana di tutti i tempi e di tutti i
luoghi, per poterne dare conto, ha inferito un suo legame con una sfera
del tutto particolare dell’essere, non
rintracciabile nella dimensione naturale, e chiamata convenzionalmente
“Dio” (termine che deriva dalla realtà
più pura di cui abbiamo esperienza,
stiere. Negare il principio di autodeterminazione della persona suppone
quindi un’antropologia che, al pari
del paradigma naturalistico, pone lo
specifico umano nella biologia. Questa è la strana convergenza antropologica che riscontro tra l’attuale vertice
della chiesa cattolica italiana e il più
agguerrito naturalismo neodarwinista. E’ chiaro che poi se ne traggono
conseguenze opposte, perché per gli
uni la natura non ha altra logica che
non sia quella che consegue dagli errori di copiatura e dall’adattamento
all’ambiente, mentre per gli altri la
natura è lo strumento tramite cui Dio
esercita direttamente la sua sovranità; la base antropologica però (ovvero: uomo = bios) è la medesima. Il che
un po’ mi inquieta e mi porta a chiedere come mai il pensiero cattolico
ufficiale si stia tanto pericolosamente
trasformando all’insegna di un biologismo che la tradizione non ha mai
conosciuto – prova ne sia che l’affermazione di monsignor Betori con il
consenso del cardinal Bagnasco, secondo cui “non spetta alla persona
decidere”, è contraria rispetto all’articolo 2278 del Catechismo (“le decisioni devono essere prese dal paziente”); è contraria rispetto al documento “Iura et bona” della Congregazione
per la dottrina della fede (“prendere
Questa bioetica ecclesiastica
conosce solo il corpo e la sua
necessità, e ignora l’anima e la sua
libertà. Contro Vangelo e tradizione
delle decisioni spetterà in ultima
istanza alla coscienza del malato o
delle persone qualificate per parlare
a nome suo, oppure anche dei medici”, laddove tutti vedono chi viene al
primo posto per il documento magisteriale del 1980); è contraria rispetto
al fondamento della coscienza morale delineato dal Vaticano II in “Gaudium et spes” 16-17 (“L’uomo può volgersi al bene soltanto nella libertà”),
è contraria all’architettura del giudizio morale elaborata da Tommaso
d’Aquino, ed è soprattutto contraria
all’immenso rispetto per la libertà
umana da parte di Dio come emerge
dalla Bibbia: “Egli da principio creò
l’uomo e lo lasciò in balìa del suo proprio volere. Se vuoi, osserverai i comandamenti; l’essere fedele dipenderà dal tuo buonvolere. Egli ti ha posto davanti il fuoco e l’acqua; la dove
vuoi, stenderai la tua mano” (Siracide
15,14-16). Mi chiedo il motivo di questa scivolosa trasformazione dell’antropologia sottesa alla bioetica oggi
maggioritaria nella chiesa cattolica, e
non so rispondere. Vedo solo una
chiesa la cui bioetica è sempre meno
capace di rendere conto delle parole
di Gesù: “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima” (Matteo 10,28). Questa bioetica ecclesiastica, in singolare armonia con il neodarwinismo, conosce solo il corpo e la
sua necessità, e ignora l’anima e la
sua libertà.
L’Osservatore non lo sa, ma l’ID è un parente abbastanza stretto della Provvidenza
T
ra scienza e fede è in corso un duello appassionante. In palio nientemeno che la parola
definitiva sull’uomo e il mondo. Gli spettatori sono pregati di schierarsi per l’una o per l’altra
squadra, senza farsi distrarre da alcunché. Stando a certe cronache, all’assemblea plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze, l’altroieri, è accaduto qualcosa del genere. Finalmente
scienziati e uomini di chiesa si sono messi gli uni
di fronte agli altri, ognuno con la propria verità
ben scolpita ma in qualche modo da condividere
dal momento che l’epoca delle contrapposizioni
sanguinose, grazie al cielo, è finita. Purché, da
una parte e dall’altra, non ci si scambi colpi bassi e nessuno si azzardi a invasioni di campo.
In questo senso c’è da registrare la strana convergenza tra Repubblica e Osservatore Romano
nel mettere fuori gioco l’Intelligent Design (ID)
come elemento di disturbo di un dialogo-serio-ecostruttivo. La fretta con cui si vuole sgombrare
il campo dai guastatori d’Oltreoceano insinua
però qualche dubbio. Forse le esigenze del religiosamente corretto impongono una politica della distensione nei confronti dell’establishment
scientifico, e di conseguenza un aggiustamento
delle posizioni espresse anche da autorevoli
esponenti ecclesiastici. Come il cardinale di
Vienna, Cristoph Schoenborn, teologo di vaglia
(è stato uno dei più brillanti allievi del professor
Ratzinger), che nel luglio del 2005 scrisse un editoriale sul New York Times, intitolato “Scoprire
il progetto nella natura”, in cui sosteneva che “i
difensori del dogma neodarwiniano hanno spesso invocato la supposta accettazione – o almeno
acquiescenza – del cattolicesimo romano quando essi difendono la loro teoria come fosse compatibile con la fede cristiana. Ma questo non è
vero. La chiesa cattolica, mentre lascia alla
scienza molti dettagli circa la storia della vita
sulla terra, proclama che con la luce della ragione l’intelletto umano può chiaramente discernere uno scopo e un progetto nel mondo naturale e
negli esseri viventi. Potrebbe essere fondata
un’evoluzione intesa come discendenza comune;
ma non un’evoluzione concepita in senso neodarwiniano, come processo non guidato, che non
risponde a un progetto, ed è mossa soltanto dalla selezione naturale e dalle variazioni casuali.
Ogni sistema di pensiero che neghi o cerchi di rifiutare l’imponente evidenza di progetto in biologia è ideologia non scienza. (…) Ora all’inizio
del XXI secolo, in contrapposizione a posizioni
scientifiche come il neo-darwinismo e l’ipotesi
del multiverso in cosmologia inventato per evitare la sovrabbondante evidenza di scopo e progetto che si trova nella scienza moderna, la chiesa cattolica difenderà di nuovo la ragione umana proclamando che il progetto immanente che
è evidente nella natura è reale. Teorie scientifiche che cercano di negare l’evidenza di progetto
come il risultato di caso e necessità non sono per
niente scientifiche, ma, come affermato da Gio-
vanni Paolo II, un’abdicazione dell’intelligenza
umana”.
Lo stesso Joseph Ratzinger nel 1969 tenne su
questo tema una lezione, “Fede nella creazione
e teoria dell’evoluzione”, in cui osservava che
“effettivamente il passaggio alla contemplazione
evolutiva del mondo rappresenta il passo verso
quella forma positiva della scienza che si limita
consapevolmente a ciò che è dato, concreto, dimostrabile all’uomo ed esclude dalla sfera della
scienza la riflessione sulle vere ragioni del reale come una riflessione sterile. In questo, fede
nella creazione e idea dell’evoluzione indicano
non appena due diverse dimensioni di ricerca,
ma due diverse forme di pensiero”. Più nello
specifico, il professor Ratzinger formulava una
diagnosi sull’“umanazione”, cioè il momento in
cui l’uomo diventa tale: “Il primo tu che fu pronunciato – balbettando come sempre – nei confronti di Dio dalle labbra dell’uomo, indica l’istante in cui lo spirito era nato nel mondo. Qui
fu attraversato il Rubicone dell’umanazione. (…)
Questo stabilisce la dottrina della particolare
creazione dell’uomo. Soprattutto qui sta il centro della fede nella creazione. Sta qui anche la
ragione per cui l’istante dell’umanazione non
può essere fissato dalla paleontologia: l’umanazione è l’insorgenza dello spirito, che non si può
dissotterrare con la vanga”.
Sull’Osservatore Romano dell’altro giorno, invece, dettava la linea proprio un paleontologo,
don Fiorenzo Facchini dell’Università di Bologna, nemico dichiarato dell’ID che vede come un
intralcio al dialogo serio tra addetti ai lavori, addirittura una minaccia al bene supremo dell’“armonia delle conoscenze”. Repubblica coglieva al
volo l’assist e sentenziava la fine di nocive “invenzioni” come l’ID. Scongiurate le “invasioni di
campo autoritarie”, finalmente si può celebrare
la lezione sull’origine dell’universo gentilmente
impartita da Hawking e soci agli alti prelati. Il
giorno dopo uno di loro, monsignor Sanchez Sorondo, cancelliere della Pontificia Accademia
delle Scienze, si è spinto a dire che “la teoria dell’evoluzione non solo non è incompatibile con il
progetto di Dio, ma è più vicina a quanto leggiamo nella Bibbia di tante altre teorie”.
Eppure la molteplicità delle immagini del
mondo, catalogo di cui la stessa Bibbia è ben fornita, sconsiglierebbe di escluderne qualcuna, anche la più eterodossa e inclassificabile. Qualcuno ha notato l’ironia di un manipolo di scientisti,
quali in fondo sono i sostenitori duri e puri dell’ID, che corrode dall’interno i precetti dell’evoluzionismo. Prendendo più o meno alla lettera alcuni passi della Bibbia, hanno voluto vedere un
intervento diretto e puntuale del divino nel corso dell’evoluzione. Forse non ci sono riusciti, ma
intanto hanno ottenuto molto di più incrinando i
due pilastri del darwinismo: la modificazione genetica frutto del puro caso e la selezione naturale con il suo corollario di ingegneria genetica.
Con l’ID gli americani, pragmatici anche nelle loro investigazioni epistemologiche, hanno senza
dubbio smosso le acque di un sapere scientifico
spesso arroccato in pseudodogmi che l’informazione provvede poi a rivendere.
In realtà, le continue e inevitabili pretese di
senso che gli scienziati avanzano non possono
essere ignorate dai credenti in nome del fair
play o del quieto convivere, a tal punto che l’incontro tra il Papa e Stephen Hawking si riduce
a una photo op. Eppure su Repubblica si legge
che “Hawking nel suo discorso non entra in
queste questioni. Non fa ideologia né filosofia,
neanche di tipo scientista. Traccia socraticamente il percorso delle scoperte, delle ipotesi,
degli errori, dei risultati aggiunti. Evidenzia ciò
che si sa e ciò che si ignora”. Socrate, però, ci
porta nei pressi della filosofia e la frase successiva dell’astrofisico inglese è illuminante: “Il
mio è un approccio positivista”. Positivista, dice, e non positivo. C’è quindi tutta una teoria
dietro, una visione del mondo – e non delle più
brillanti. La chiesa ha uno sguardo più ampio,
e lo chiama Provvidenza. Se lo dimentica scivola nella retorica del dialogo, dove i contendenti si pongono in maniera così perfettamente
speculare che il rischio di confonderli è altissimo. Il che spiega il vantaggio argomentativo che
si prende la tesi del professor Vito Mancuso sul
biologismo che accomuna chiesa e scienza.
Marco Burini
ANNO XIII NUMERO 299 - PAG II
IL FOGLIO QUOTIDIANO
DOMENICA 2 NOVEMBRE 2008
LA GRANDE CRISI MONDIALE DEI FUMETTI
Weeklypedia. Dove si parla delle strisce americane, del più bel disco della stagione, di Maus e delle migliori cento meteore
Il fumetto Opus è stato disegnato da Berkeley Breathed tra il 2003 e il 2008
di
Luca Sofri
Opus era il titolo di una tavola domenicale disegnata da Berkeley Breathed
per circa cinque anni tra il 2003 e il
2008. Fu la quarta striscia di Breathed,
dopo Academia Waltz, Bloom County e
Outland. Ambientata nella Bloom
County, la striscia raccontava le avventure del popolare pinguino Opus, prendendo in giro parallelamente temi della
cultura pop e della politica. All’inizio di
ottobre 2008 l’autore ha dichiarato che
avrebbe chiuso la serie in seguito ai suoi
timori di tempi duri in arrivo per gli
Stati Uniti e al suo desiderio di separarsi dal suo personaggio più famoso “con
leggerezza”.
Dice Berkeley Breathed che sono
tempi grami per le strisce a fumetti.
Berkeley Breathed dice che il
momento così così dei giornali
rappresenta la principale minaccia
per il mondo dei fumetti
Anche in America, dove lo spazio offerto ai comics è una tradizone dei
quotidiani, di tutti i quotidiani. Dice
Berkeley Breathed che la crisi dei
giornali di carta travolge le strisce,
che sono difficilmente convertibili
alle abitudini di lettura sul Web. Dice Berkeley Breathed che è da un
quarto di secolo – ovvero dalla nascita di Calvin & Hobbes – che il fumetto a strisce non crea qualcosa di “storico”, che rimane. Dice Berkeley
Breathed che poi si annunciano tempi grami in generale, e allora meglio
andarsene prima di doverli raccontare: “Ho una parte Michael Moore di
me che mi fa diventare cattivo”. E insomma, Opus, l’ultima serie delle
strisce di Breathed col pinguino omonimo chiude oggi. Oggi esce l’ultima
tavola domenicale sui quotidiani che
lo pubblicano. In Italia arrivò tramite Linus, come tutte le grandi strisce
americane. Opus deve il suo nome a
una canzone dei Kansas: “E se siete
troppo giovani per sapere chi fossero
i Kansas, beh, peggio per voi”, ha detto Breathed.
Ivor Churchill Guest, primo Visconte
di Wimborne (16 gennaio 1873 – 14 giugno 1939) fu un politico britannico e
uno degli ultimi Lords Luogotenenti di
Irlanda, titolare della carica ai tempi
della Rivolta di Pasqua.
In realtà io non cercavo questo
Ivor Guest: quello che cercavo io è il
produttore del nuovo disco di Grace
Jones e suo fidanzato (per quanto si
possa essere “fidanzati” con Grace
Jones). Ma non ha una pagina su
Wikipedia, e su di lui ho trovato poco.
Se non che dev’essere un aristocratico discendente di questo Ivor Guest
(è quarto Visconte di Wimborne), oltreché imparentato con la famiglia
reale. Però, siccome tutto si tiene, il
fu Ivor Churchill Guest è risultato essere il terzultimo rappresentante della Corona sul Regno d’Irlanda prima
dell’indipendenza, ovvero quello in
carica all’inizio del film Michael Collins, che già fu raccontato in una pagina di Weeklypedia, ad agosto.
“What I am” è una canzone scritta
da Edie Brickell e Kenny Withrow e
incisa da Edie Brickell & the New
Bohemians nel loro primo disco,
Shooting rubberbands at the stars
(1988). Arrivò al numero trentuno in
Inghilterra e al settimo posto nella
classifica di Billboard negli Stati
Uniti. Fu classificata al settantunesimo posto nella lista delle migliori 100
Meteore della rete VH1, ed era stata
usata in un episodio del 1989 di Miami Vice. Edie Brickell fece un bel
colpo con “What I am” e con un’altra
bella canzone in quel disco: “Circles”. E poi, meteora appunto, scomparve. Aveva ventidue anni ed era di
Dallas. Quest’anno ha pubblicato un
nuovo disco con il suo figliastro, ma
non se n’è accorto nessuno.
Comunque, capita a molte coppie
di avere una canzone con la quale ci
si è innamorati. Ma la canzone con
sui si innamorò Edie Brickell era
sua, e la stava cantando lei: e questo
non capita a molti. Successe che l’avevano invitata a cantare “What I
am” al Saturday Night Live, in televisione. Quando venne il loro momento, lei e la band attaccarono la canzone: ma a un certo punto fu distratta
da una faccia, un uomo in piedi davanti a un cameraman, e quasi sbagliò le parole. Quell’uomo era un altro ospite dello show, Paul Simon.
Paul Simon di Simon & Garfunkel, insomma. Aveva venticinque anni più
di lei. Si sposarono quattro anni dopo
e stanno ancora assieme.
Cesare Cardini (24 febbraio 1896 – 3
novembre 1956) era un ristoratore e albergatore di origine italiana a cui è attribuita l’invenzione della Caesar Salad.
Era nato sul lago Maggiore e aveva almeno quattro fratelli: Alessandro, Carlotta, Caudencio e Maria. Mentre le sorelle rimasero in Italia, i tre fratelli emigrarono in America. Alessandro e Caudencio entrarono nella ristorazione a
Città del Messico. Alessandro poi divenne socio di Cesare a Tijuana. Cesare aveva lavorato in Europa e si era trasferito
negli Stati Uniti a vent’anni. Aprì un ristorante a Sacramento, e poi si spostò a
San Diego. Contemporaneamente aprì
anche a Tijuana, dove si poteva sfuggire
alle regole del proibizionismo.
Dice il New York Times che il ristorante di Tijuana fa fatica a vendere le sue leggendarie insalate. La
Caesar Salad sarebbe stata inventata
da Cardini una sera del 1924 che non
c’era più niente da dare ai clienti: così aveva preso quel che c’era – insalata, pezzi di pane, aglio – e l’aveva buttato in una scodella. Le acciughe le
avrebbe aggiunte Alessandro, secondo una versione. Il problema è che
oggi ai turisti americani è sconsigliato di mangiare verdure crude in Messico, per timore che l’acqua con cui
sono lavate non sia sufficientemente
pulita. E così l’attuale gestore del ri-
storante di Tijuana che ha ereditato
il nome cerca di proporre il piatto ai
clienti che arrivano dall’altra parte
del confine, ma loro sono diffidenti. Il
cronista del New York Times si è fidato e l’ha trovata buonissima (adesso ha dentro anche parmigiano, aceto, salsa Worcester, uova e senape).
Nessuna corrispondenza nei titoli delGabriel Kahane”
le pagine. La pagina “G
non esiste. E’ possibile crearla ora. Attenzione! L’indice del database viene aggiornato ogni 40 ore circa: le pagine
scritte recentemente potrebbero non
comparire ancora tra i risultati della ricerca.
Niente: la pagina su Gabriel Kahane non c’è. Eppure a me il suo sembra il più bel disco di questa stagione. Ho dovuto fare senza Wikipedia:
Il musicista americano Gabriel Kahane è stato elogiato la scorsa settimana dal Wsj
esperienza straniante. Ho scoperto
che vive a Brooklyn, fa anche l’attore
e l’autore teatrale, si attacca a ricche
e colte citazioni letterarie, ma prima
aveva anche messo in musica degli
annunci trovati sul sito web Craigslist. Aveva suonato il piano e cantato
con Sufjan Stevens, genio creativo
musicale di gran culto in questi anni,
e un po’ si sente. Il Wall Street Journal gli ha fatto un sacco di complimenti, due settimane fa, ricordando
che è figlio di un grande pianista
classico e direttore dell’Orchestra
Sinfonica del Colorado. Io intanto sono diventato suo fan su Facebook:
siamo ottantadue.
Art Spiegelman (Stoccolma, 1948) è
un autore di fumetti statunitense. Spiegelman è codirettore della rivista di fumetti e grafica Raw, di cui è stato uno
dei fondatori, ed è tra gli artisti che hanno compilato e illustrato graficamente i
lemmi del Futuro dizionario d’America
(The Future Dictionary of America, pubblicato da McSweeney’s nel 2005). Ha
pubblicato svariati lavori su riviste statunitensi come New York Times, Village
Voice e New Yorker. In Italia le sue storie sono pubblicate dal settimanale Internazionale. Nel 1982 ha ricevuto il
Premio Yellow Kid a Lucca. Attualmente insegna alla School of Visual Arts di
New York. Art Spiegelman deve la sua
fama principalmente ad un’unica opera, Maus, un romanzo (auto)biografico
in fumetti pubblicato tra il 1973 ed il
1991, dove si narra la storia del padre,
Vladek Spiegelman, un ebreo polacco
sopravvissuto alla Shoah.
Maus, appunto. Qualche giorno fa
Slate, il giornale online, ha analizzato la sua opera per cercare di capire
se sia possibile per Spiegelman disegnare qualcos’altro di valido dopo
Maus (che vinse un Pulitzer nel 1992).
Di recente è stata ripubblicata una
sua vecchia raccolta di storie, Breakdowns. Secondo Slate la metà della
storia mancante in Maus (il diario di
sua madre, bruciato da suo padre) è
anche la metà della storia che manca
a Spiegelman: Anja si suicidò nel
1968. Spiegelman ne parla nell’introduzione a Breakdowns, e racconta di
come lei gli comprò la sua prima rivista a fumetti (era Mad): “Ma non dirlo a tuo padre”. Nella postfazione,
Spiegelman dice di avere nostalgia
per quel disegnatore più eclettico e
arrogante che era ai tempi delle storie di Breakdowns, prima di Maus.
Secondo l’articolo di Slate è un’invidia che cela un senso di colpa, quello di ogni grande artista che ha creato una grande opera raccontando le
sofferenze dei suoi cari. E gli schizzi
che aveva dato al penultimo numero
di McSweeney’s, la rivista di Dave Eggers, sembrano raccontare un uomo
pieno di ansie e consapevolezza di sé
e delle sue inadeguatezze. “Se la tua
opera è l’Olocausto”, dice Slate, “dopo che fai?”.
Fiorenzo Bava Beccaris (Fossano, 17
marzo 1831 – Roma, 8 aprile 1924) è stato un generale italiano, noto soprattutto per la feroce repressione dei moti milanesi da lui guidata nel 1898. Dopo
aver partecipato alla Guerra di Crimea
e alle Guerre d’Indipendenza del 1859 e
del 1866 (ottenendo il 6 dicembre 1866 il
Cavalierato dell’Ordine Militare d’Italia), divenne Direttore generale d’artiglieria e genio al ministero della Guerra,
e tenne il comando del VII° e del III°
Corpo d’Armata.
Nel maggio 1898, in occasione dei
Art Spiegelman è un disegnatore
americano, ha vinto il Pulitzer e la
rivista Slate si chiede se sarà in
grado di creare un nuovo Maus
gravi tumulti milanesi – passati alla storia come la “Protesta dello stomaco” – il
governo guidato da Antonio di Rudinì
proclamò lo Stato d’Assedio e il generale, in qualità di Regio Commissario
Straordinario, ordinò di sparare cannonate sulla folla provocando una strage.
In segno di riconoscimento per quella
che dalla monarchia fu giudicata una
brillante azione militare, Bava-Beccaris
ricevette il 5 giugno 1898 dal re Umberto I la Gran Croce dell’Ordine Militare di
Savoia, e il 16 giugno 1898 ottenne un
seggio al Senato. Il 29 luglio del 1900, a
Monza, Umberto I venne assassinato
dall’anarchico Gaetano Bresci, che dichiarò esplicitamente di aver voluto vendicare i morti del maggio 1898 e l’offesa
della decorazione a Bava Beccaris, il
quale definì il regicida “Un folle che meriterebbe di subire lo squartamento”. Fu
collocato a riposo nel 1902.
Bava Beccaris almeno lo collocarono a riposo, mica lo fecero senatore a
vita.
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