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Fondazione Bruno Kessler
Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento
Quaderni, 91
1
I lettori che desiderano informarsi
sui libri e sull’insieme delle attività
della Società editrice il Mulino
possono consultare il sito Internet:
www.mulino.it
L’avvio della società liquida?
Il passaggio degli anni Settanta
come tema per la storiografia tedesca e italiana
a cura di
Thomas Großbölting
Massimiliano Livi
Carlo Spagnolo
Società editrice il Mulino
Bologna
FBK - Istituto storico italo-germanico
Il presente volume è pubblicato con il contributo dell’Exzellenzcluster
«Religion und Politik» della Westfälische Wilhelms-Universität Münster.
Redazione e impaginazione:
Editoria FBK
Traduzioni di Beatrice Rabaglia, Anna Zangarini e Chiara Zanoni Zorzi
L’AVVIO
della società liquida? : il passaggio degli anni Settanta come tema
per la storiografia tedesca e italiana. - Bologna : Il mulino, 2014 - 374 p. ;
22 cm. - (Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento. Quaderni;
91)
Nell’occh.: Fondazione Bruno Kessler
ISBN 978-88-15-24631-8
1. Mutamento sociale - 1950-1990 2. Postmoderno 3. Storia moderna
e contemporanea - 1950-1990 - Storiografia italiana 4. Storia moderna e
contemporanea - 1950-1990 - Storiografia tedesca I. Großbölting, Thomas
II. Livi, Massimiliano III. Spagnolo, Carlo
303.409 04 (DDC 22.ed)
Scheda bibliografica: FBK - Biblioteca
ISBN 978-88-15-24631-8
Copyright © 2013 by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i diritti
sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata, riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsiasi forma o
mezzo – elettronico, meccanico, reprografico, digitale – se non nei termini
previsti dalla legge che tutela il Diritto d’Autore. Per altre informazioni si
veda il sito www.mulino.it/edizioni/fotocopie
4
Sommario
Introduzione, di Thomas GROSSBÖLTING, Massimiliano
LIVI e Carlo SPAGNOLO
p.
7
PARTE PRIMA: CATEGORIE INTERPRETATIVE
Il postmoderno come categoria storiografica. Osservazioni sul passaggio all’età del debito, di Carlo
SPAGNOLO
19
Moderno/postmoderno. Riflessioni su un dibattito alla
luce della problematica della storia politica dell’età
contemporanea, di Paolo POMBENI
55
La modernità in molte forme, di Paolo JEDLOWSKI
83
Il concetto di «modernità»: nuove prospettive comparate per la storia contemporanea italo-tedesca?, di
Lutz RAPHAEL
109
Ognuno è artefice del proprio destino? La storicizzazione del paradigma dell’individualizzazione, di Detlef
SIEGFRIED
129
Limiti dell’individualizzazione. Adattamenti sociali e
pluralizzazioni negli anni 1970-1980, di Frank BÖSCH
145
Il postulato sociologico della ricerca storica sul «mutamento dei valori». Valori familiari e religione, di
Thomas GROSSBÖLTING
169
5
PARTE
SECONDA:
INDAGINI
SUL MUTAMENTO DEI
VALORI
La «modernizzazione», fase suprema della modernità? Evoluzione e crisi dell’ideologia socialdemocratica
nel secondo dopoguerra (1945-1973), di Giovanni
BERNARDINI
p. 195
Analisi del «pericoloso»: sulla securizzazione della
natura negli anni Settanta, di Nicolai HANNIG
213
Il ruolo del potere politico e la formazione della norma sociale nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta, di
Fiammetta BALESTRACCI
237
Le tribù del desiderio: individualizzazione e crisi politica nell’Italia degli anni Settanta, di Massimiliano LIVI
259
I consumi e le nuove strutture commerciali di individualizzazione. Il caso del fitness, di Roberta SASSATELLI
297
Consuetudini di consumo e valori dei lavoratori migranti
italiani a Torino e Monaco, di Olga SPARSCHUH
335
APPENDICE
Moderno e postmoderno: una bibliografia tematica, a
cura di Massimiliano LIVI
361
Indice dei nomi
371
6
La modernità in molte forme
di Paolo Jedlowski
1. Introduzione
Nel 1979 Jean-François Lyotard pubblicò La condizione postmoderna. Per quanto fosse già in uso in altri campi, il termine
«postmoderno» ha iniziato allora a conoscere un certo successo
nelle scienze sociali. Il suo significato è tutto fuorché univoco.
È un significato innanzitutto critico, o negativo: esprime la
percezione di una inadeguatezza delle categorie con cui fino
ad oggi abbiamo descritto il mondo sociale, la sensazione di
essere ai limiti di ciò che possiamo comprendere con il bagaglio
delle nozioni fin qui disponibili1.
Le novità del presente non sembrano convergere tuttavia verso
un’unica grande discontinuità, una cesura dai contorni ben
definiti. Alla maggior parte degli studiosi non pare dunque
che questo bagaglio di nozioni sia da buttare. Come scrisse
Alberto Melucci, uno dei sociologi italiani più influenti alla
fine del secolo scorso, il ricorso alla nozione di postmoderno è
forse «più importante come sintomo che per i suoi contributi
sostantivi alla conoscenza dei fenomeni contemporanei»2.
Ciò non significa rigettare le acquisizioni e le sfide proposte dal
pensiero postmoderno. Si tratta però di distinguere i contenuti
Le argomentazioni presenti in questo testo sono state parzialmente elaborate
dall’autore in due precedenti studi: Modernità multiple: quale molteplicità?,
in C. CORRADI - D. PACELLI (edd), Dalla modernità alle modernità multiple,
Soveria Mannelli (Catanzaro) 2011, pp. 95-108; e In un passaggio d’epoca.
Esercizi di teoria sociale, Napoli 2012.
1
C. LECCARDI (ed), Limiti della modernità. Trasformazioni del mondo e
della conoscenza, Roma 1999.
2
A. MELUCCI (ed), Fine della modernità?, Milano 1998, p. 15.
83
di questo pensiero dalla pretesa di definire la fase attuale della
storia mondiale come una «post-modernità». Mentre questa
pretesa non è convincente, i contenuti del pensiero postmoderno non sono trascurabili: appartengono alla costellazione
culturale entro cui ci troviamo a pensare3. È vero che è difficile
circoscrivere questi contenuti, ma in buona sostanza questi
corrispondono al riconoscimento del carattere discorsivo delle
pratiche di descrizione, comprensione e spiegazione della realtà.
Si tratta di un riconoscimento utile a non feticizzare le nostre
categorie. È vero che può prestarsi a usi ingenui e ideologici,
ma a chi vi si oppone criticando questi ultimi e richiamando
la necessità di un «nuovo realismo» (si veda recentemente e in
modo esemplare Ferraris)4 si può rispondere che non conduce
logicamente alla dismissione di ogni pretesa della conoscenza,
bensì all’accettazione della ineludibilità della mediazione linguistica nella conoscenza stessa5.
Discorrendo del mondo noi ne costruiamo certe rappresentazioni; queste rappresentazioni costituiscono una riduzione della
complessità e della multiformità della vita, tale per cui ogni
nuovo processo conoscitivo non è in fondo che una critica delle
rappresentazioni di volta in volta assodate, in un ricorrente
tentativo di elaborare di nuovo lo scarto fra le parole e le cose.
Nel quadro dei tentativi di rielaborare le rappresentazioni di
cui disponiamo, almeno in sociologia, una nozione che sembra
aver acquistato ultimamente un rilievo crescente è quella delle
«modernità multiple». Credo sia utile rivisitarla: se da un lato
infatti permette di criticare certe visioni troppo unilaterali della
modernità (a cui di fatto l’idea del «postmoderno» reagisce),
dall’altro trattiene dal correre troppo frettolosamente all’idea
che siamo in una «post-modernità» dai caratteri vaghi.
3
F. JAMESON, Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo,
Milano 1989 (ed. orig. Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism, Durham NC 1991).
4
5
M. FERRARIS, Manifesto del nuovo realismo, Roma - Bari 2012.
F. RIGOTTI (ed), New Realism: molto rumore per nulla, numero monografico di «Paradoxa», 6, 2012, 3.
84
2. Dalla modernità alla modernizzazione
La nozione delle modernità multiple è stata proposta alle
scienze sociali in particolare da Shmuel N. Eisenstadt. Prima
di discuterla, va riconosciuto però che una certa multiformità
è immanente alla modernità dal principio.
«Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria»: in questa frase
Marshall Berman6, nel titolo di un libro piuttosto celebre,
sintetizzava alcuni anni fa l’esperienza della modernità. È
la traduzione di una frase di Marx ed Engels, e coglie l’elemento più vistoso della modernità: il mutamento. Non quello
imprevedibile o accidentale, ma il mutamento come norma del
divenire, come regola, come sistema di attese. Poiché muta
incessantemente, la modernità è multiforme per definizione.
Marx ed Engels in verità non usavano la parola «modernità»,
che si diffuse solo alla fine del XIX secolo. Diffondendosi,
questa parola venne a esprimere l’autocoscienza di un mondo:
innanzitutto quello delle grandi metropoli dell’Europa a cavallo
tra Otto e Novecento. Un mondo che si comprendeva come
un’epoca: l’epoca del nuovo, o meglio del sempre-nuovo,
un’epoca la cui sostanza è la messa in questione di ogni risultato
acquisito, e in cui il mutamento in se stesso ha un valore ed
ha un senso (in genere identificati con il «progresso»).
Trasferito nel campo delle scienze sociali, il termine ha ricevuto significati più o meno determinati e variabili da autore
ad autore. In ogni caso, nessuno dei classici della sociologia
(penso a Durkheim, a Weber, e soprattutto a Simmel) vide la
modernità come un monolite. La vedevano come una costellazione di processi e come il prodotto di una molteplicità di
fattori; la vedevano cioè come un insieme di tendenze solidali
fra loro ma in qualche misura anche autonome, e a volte
contraddittorie. E ne coglievano l’ambivalenza: se con essa
qualcosa si guadagna, qualcos’altro si perde, o si genera anche
qualcosa di non desiderabile.
6
M. BERMAN, L’esperienza della modernità, Bologna 1985 (ed. orig. All
That is Solid Melts into the Air, New York 1982).
85
L’ambivalenza è una renitenza alla classificazione: ciò che si
intende descrivere e collocare in una certa griglia interpretativa salta fuori dalla griglia, permette o addirittura sollecita
altre interpretazioni. È vero, come ha notato Bauman7, che
la modernità è stata per certi versi un progetto volto proprio
a fugare l’ambivalenza: a classificare, controllare, ordinare
fenomeni, uomini e cose; ma ai classici della sociologia non
è mai sfuggito, mi pare, non solo il carattere necessariamente
illusorio di un progetto del genere, ma anche che è la modernità
stessa, nei processi che la sostanziano, ad essere ambivalente:
ciò che si coglie in una certa luce, in un’altra si svela diverso,
palesa aspetti, relazioni ed effetti che al primo sguardo non
si manifestavano.
La modernità è una totalità perennemente inconclusa. Conosce
al suo interno delle controtendenze: spesso legate proprio al
tentativo di allontanare o di compensare suoi aspetti meno
desiderabili, o ispirate proprio dalle diagnosi che riguardano il
disagio che vi è connesso. Ha qualcosa di molteplice, dunque,
fin dalle sue origini ed in più di un senso: perché muta incessantemente, perché è composita, perché è ambivalente e perché
è contraddittoria.
La trasformazione della modernità in un insieme di tratti
omogenei e infallibilmente desiderabili è della sociologia nordamericana di metà Novecento, specialmente di quella ispirata
alle teorie funzionaliste di Talcott Parsons. È una tendenza
che si radicalizza con l’emergere delle cosiddette «teorie della
modernizzazione» degli studiosi che negli anni Cinquanta e Sessanta si occupano dei «Paesi in via di sviluppo». Qui l’accento
si sposta dalla ricerca di che cosa significhi modernità – che
viene considerato assodato – alla descrizione del percorso che
rende i singoli Paesi e i loro abitanti moderni.
Lo sfondo delle teorie della modernizzazione era prettamente
politico. Era costituito dai processi di acquisizione dell’indipendenza e di decolonizzazione allora in atto in Africa e in
7
Z. BAUMAN, Modernità e ambivalenza, Torino 2010 (ed. orig. Modernity
and Ambivalence, Ithaca 1991).
86
Asia, con la contemporanea competizione tra USA e URSS per
attrarre nella propria orbita i nuovi Paesi. Non che queste teorie
e le ricerche connesse non abbiano offerto spunti importanti:
ma, rispetto ai classici, abbandonavano gli aspetti della nozione
di modernità che riguardano ambivalenza e contraddittorietà.
La modernizzazione diventava un percorso predeterminato, e
la modernità un modello normativo.
Si trattava di analisi che poggiavano su un modello di sviluppo
graduale e convergente, fondato sulla fiducia nei caratteri universali del progresso che l’Occidente conosce. La modernità
era intesa come una miscela coerente di elementi considerati
assenti nelle società «tradizionali» e solidali fra loro: industrializzazione, mercato, razionalizzazione, differenziazione funzionale,
urbanizzazione, democratizzazione della vita politica, secolarizzazione, interesse degli individui per l’auto-realizzazione8.
Queste teorie hanno mostrato presto i loro limiti: l’agglomerazione delle società non occidentali nell’onnicomprensiva categoria del tradizionalismo è un ostacolo al riconoscimento
delle loro differenze; la convergenza e l’unilinearità dei processi
di modernizzazione sono più un postulato che un risultato
di indagine. La modernità che quelle teorie disegnavano era
la proiezione di alcune esperienze locali a cui si attribuiva
carattere universale, e che in verità non teneva conto neppure
delle diversità presenti nei processi di modernizzazione nello
stesso Occidente. È anche reagendo a queste teorie che in
Europa, già negli anni Sessanta del Novecento, Alexander
Gerschenkron9 notava come il momento storico in cui questi
processi si sono avviati, nei diversi Paesi, abbia generato differenze notevoli; o Reinhard Bendix10 rilevava l’importanza
8
A. MARTINELLI, La modernizzazione, Roma - Bari 1998.
9
A. GERSCHENKRON, Il problema storico dell’arretratezza economica, Torino
1965 (ed. orig. Economic Backwardness in Historical Perspective, Cambridge
1962).
10
R. BENDIX, Stato nazionale e integrazione di classe, Roma - Bari 1969
(ed. orig. Nation-Building and Citizenship: Studies of Our Changing. Social
Order, New York 1964).
87
dei fattori politico-istituzionali e dei modi diversi in cui sono
affrontati i conflitti di classe.
La modernità è ed è sempre stata molto meno omogenea di
quanto le teorie della modernizzazione di stampo funzionalista non abbiano suggerito. Può svilupparsi in modo selettivo:
affermarsi nei campi dei mezzi di comunicazione o dei consumi
e non riguardare le strutture produttive; toccare gli apparati
militari e non le istituzioni politiche; generare disincanto, ma
non razionalizzazione, e così via. In particolare, il nesso fra
modernizzazione economica e democratizzazione della vita
politica è tutt’altro che ovvio: una certa modernizzazione
economica e tecnologica si sposa frequentemente con regimi
autoritari.
3. L’idea delle modernità multiple
Il pensiero postmoderno non è nato espressamente in reazione
all’idea di modernità intesa dalle teorie della modernizzazione
nord-americane: data la rigidità di queste ultime, è però comprensibile che a molti la nozione di postmodernità, quando è
stata proposta, sia apparsa liberatoria. Ma l’idea del postmoderno non è l’unica a cui riferirsi per reagire ai limiti delle teorie
della modernizzazione. Fra gli approcci generati dalla critica
di queste teorie va inclusa la teoria delle modernità multiple
di Shmuel N. Eisenstadt. Questa muove esplicitamente dalla
critica delle teorie della modernizzazione e del loro presupposto
comune: l’idea della modernizzazione come percorso unilineare. L’idea chiave è che società distinte elaborino i tratti della
modernità in modi almeno parzialmente diversi, dipendenti
dalle caratteristiche delle proprie civiltà originarie11.
11
S.N. EISENSTADT, Sviluppo, modernizzazione e dinamica delle civiltà, in
S.N. EISENSTADT, Civiltà comparate. Le radici storiche della modernizzazione,
Napoli 1990 (ed. orig. Development, Modernization and the Dynamics of
Civilizations, in «Cultures et Developpement», 15, 1983, 4, pp. 217-252),
e, dello stesso autore, Introduction: Historical Traditions, Modernization and
Development, in S.N. EISENSTADT (ed), Patterns of Modernity, New York
1987, pp. 5-11.
88
Nel discorso di Eisenstadt, però, la modernità è plurale in
almeno due sensi. Sono differenti e vanno ricordati distintamente.
Il primo riguarda la modernità in Occidente. I presupposti di
senso della civiltà occidentale nel suo complesso sono radicati a
parere di Eisenstadt nella tradizione religiosa giudaico-cristiana,
e dunque in una visione del mondo orientata al problema della
salvezza; ma fra il XVI e il XVIII secolo tali presupposti hanno
conosciuto un radicale rinnovamento, tale per cui il teatro
della salvezza si è spostato dal mondo trascendente al mondo
immanente. I luoghi di germinazione di questo rinnovamento
sono stati l’Umanesimo e il protestantesimo, ma l’Illuminismo
è stato l’alveo in cui si è cristallizzato. È qui che la rivoluzione
culturale operata da Umanesimo e protestantesimo ha trovato
il suo compimento, che è consistito nell’idea di progresso: l’ordine del mondo non è immutabile e certo, e si offre all’azione
plasmatrice del genere umano; l’azione degli individui trova
nella storia la sua direzione e il suo senso.
La modernità occidentale emerge in questa prospettiva, secondo
Eisenstadt, come un «programma». Pienamente secolarizzatosi,
questo programma si articola nella direzione di un controllo
sempre più razionale ed efficace delle forze della natura,
di un’emancipazione crescente dell’individuo da ciò che ne
vincoli l’autonomia, e dell’affermazione del principio di un
uguale diritto di ciascuno a partecipare alla realizzazione di
questo progetto.
Tuttavia, e questo è il punto, tale programma contiene in sé
spinte contraddittorie. In particolare, vi sono tensioni fra l’accento sulla libertà, l’autonomia e il diritto all’auto-realizzazione
degli individui e le esigenze di controllo e coordinamento della
società; e soprattutto fra la spinta alla mobilitazione generalizzata e le tendenze dei centri a chiudersi e a controllare le
periferie. Queste tensioni sono l’anima delle trasformazioni cui
la civiltà occidentale moderna è perpetuamente sottoposta, e
hanno dato e danno ancora luogo a varie e ricorrenti «eterodossie», cioè interpretazioni del programma della modernità
alternative a quelle via via consolidate.
89
La modernità dunque è plurale perché è animata da gruppi
sociali che la interpretano in modi diversi e sono in competizione fra loro. Come scrive Eisenstadt, «praticamente fin
dall’inizio della diffusione della modernità si svilupparono
molteplici modernità»12.
Il problema che accomuna tutte le varianti è quello di ordinare
il mondo in assenza di riferimenti inquestionabili; la credenza
che più spesso le anima è che gli uomini possano agire nella
direzione di un metaforico «paradiso in terra». Per il resto, le
varianti divergono. Non tutte sono coerenti con il capitalismo
e nemmeno con la democrazia liberale: il comunismo evidentemente vi si oppone, ma non per questo esula dal quadro
della modernità, per come Eisenstadt lo ha definito.
Gran parte dei movimenti, delle avanguardie, dei partiti e
dei regimi dell’Ottocento e del Novecento hanno avuto a che
fare con interpretazioni radicalmente diverse dei modi in cui
libertà individuale, benessere, giustizia e uguaglianza possono
o debbono realizzarsi nel mondo. Habermas13 ha giustamente
notato che la modernità è un «progetto incompiuto», ma lo è
in una varietà di forme diverse. Non abbiamo mai conosciuto
una sola modernità.
Il secondo senso per cui la modernità è molteplice dipende
dal fatto che parte della sua evoluzione ha avuto luogo fuori
dall’Occidente. Sul piano mondiale, lo sviluppo degli ultimi
secoli ha corrisposto a una diffusione della civiltà occidentale
al di là dei suoi originari confini. I vettori di questa diffusione
sono stati le armi, il mercato, le tecnologie, i mezzi e i flussi
della comunicazione. La modernità occidentale si è posta
così come una proposta, un’imposizione o una «sfida» (come
Eisenstadt preferisce dire) per tutti.
Ma questa sfida viene recepita in modi diversi. Diffondendosi
nel globo, il modello occidentale non dà luogo a uno sviluppo
12
S.N. EISENSTADT, Multiple Modernities, in «Daedalus», 129, 2000, 1, pp.
1-29, qui p. 13.
13
J. HABERMAS, Il discorso filosofico della modernità, Roma - Bari 1997 (ed.
orig. Der philosophische Diskurs der Moderne, Frankfurt a.M. 1985).
90
identico ovunque, ma a processi che elaborano selettivamente
i tratti della modernità, accettandone alcuni e modificandone
o rifiutandone altri14.
Le analisi comparate a cui Eisenstadt si è dedicato mostrano
che tale selezione dipende da molti fattori: contano il momento
storico in cui la sfida si pone, lo stato delle relazioni internazionali, le caratteristiche economiche e politiche delle diverse
società, delle loro istituzioni e delle loro élites; e in parte
contano le caratteristiche proprie delle visioni del mondo di
ogni differente civiltà, che rendono più o meno plausibili o
desiderabili certi elementi del programma moderno agli occhi
di coloro ai quali è proposto.
Quella a cui assistiamo non è così una pura e semplice diffusione della modernità, bensì lo sviluppo di una varietà di
modernità differenti. Modernità e occidentalizzazione non sono
necessariamente sinonimi.
4. Virtù e problemi dell’idea delle modernità multiple
L’idea delle modernità multiple ha fatto strada. Alberto Martinelli, un sociologo che pure sottolinea con forza il permanere
di certe spinte alla convergenza su scala mondiale, ha riconosciuto di recente che
«l’esistenza di modernità multiple è empiricamente verificabile e confuta una
concezione della modernizzazione come un processo che, una volta avviato,
procede inevitabilmente verso un unico tipo di mentalità e di orizzonte
culturale … e verso assetti istituzionali … non influenzati dagli orientamenti
culturali e politici dei diversi paesi»15.
La modernità non è descrivibile secondo una narrazione unitaria. Come constata Dilip Parameshwar Gaonkar,
14
S.N. EISENSTADT, Multiple Modernities, e, dello stesso autore, Comparative
Civilizations and Multiple Modernities, Leiden - Boston 2003.
15
A. MARTINELLI, La dialettica della convergenza e della divergenza nei processi di modernizzazione, in C. CORRADI - D. PACELLI (edd), Dalla modernità
alle modernità multiple, pp. 63-82, qui p. 67.
91
«l’affermazione che la modernizzazione della società, una volta attivata, muove
inesorabilmente verso l’instaurazione di un certo tipo di mentalità … e ad
un certo tipo di ordine istituzionale …, a prescindere dalle caratteristiche
culturali e politiche di ogni data area, è semplicemente non vera»16.
Non si tratta però di abdicare a qualsiasi pretesa di una
conoscenza coerente. In ciò l’idea delle modernità multiple
si distanzia dall’atteggiamento dei post-modernisti. Per questi
ultimi, sulla scia di Lyotard, le grandi narrazioni sono diventate inservibili. Ma che in ogni schema concettuale astratto si
nasconda il pericolo della falsa generalizzazione è ovvio. Ciò
non toglie che i grandi quadri cognitivi di cui ci serviamo
abbiano la loro efficacia, che la gente ragioni al loro interno,
che essi diano ordine, di fatto, alle nostre esperienze. Il punto
non è farne a meno, ma tenerli costantemente sotto esame.
L’idea delle modernità multiple corrisponde in questo senso
ad un’apertura del discorso, a una flessibilità e disponibilità
all’autocritica delle narrazioni proposte.
Corrisponde innanzitutto alla dismissione di quell’atteggiamento, così caratteristico di chi si è formato con le teorie della
modernizzazione nord-americane, per cui le manifestazioni della
modernità ai confini dell’Occidente tendono ad essere intese
come modernità «imperfette», incomplete o manchevoli. Più in
profondità, e almeno nelle intenzioni, corrisponde al tentativo
di praticare una sociologia globale scevra dell’eurocentrismo
che, più o meno implicitamente, la ha fin qui dominata.
Vi sono però diversi problemi. Il primo riguarda la nozione di
civiltà (civilization), che per Eisenstadt ha un ruolo cruciale. Il
concetto è stato recentemente raffinato e in parte riformulato17,
ma rimane necessariamente piuttosto vago, ed è problematico
il suo accoppiamento con aree geografiche determinate. È
dubbio che la stessa Europa possa essere compresa riferendosi esclusivamente ad una civiltà «giudaico-cristiana», come
fa Eisenstadt, e d’altro canto l’intensità dei contatti che si
sono avuti nella storia fra le diverse parti del mondo rende
16
17
P. GAONKAR (ed), Alternative Modernities, Durham - London 2001, p. 16.
J.P. ARNASON, Civilizations in Dispute: Historical Questions and Theoretical
Traditions, Leiden - Boston 2003.
92
piuttosto arbitraria la definizione dei tratti e dei confini di
ciascuna civilizzazione specifica. Al di là delle retoriche (si
pensi a quella dello «scontro di civiltà») cui la nozione si può
prestare, sembra vero che molte delle differenze e dei conflitti
più marcati riguardo agli orientamenti di senso ed ai progetti
istituzionali oggi si manifestano più all’interno di determinate
«civiltà» che fra «civiltà» differenti18.
Come hanno scritto Gunder Frank e Barry Gills, «la categoria
di ‘civiltà’ … costituisce un’unità di analisi ambigua e terribilmente difficile da delimitare nel tempo e nello spazio»19. Questa
dichiarazione compare in apertura di un volume ispirato ad una
prospettiva che rende esplicito il secondo problema lasciato
aperto da Eisenstadt. Il fatto è che un approccio comparativo,
mentre invita indubbiamente ad un ampliamento delle nostre
conoscenze, rischia di lasciare in ombra le interazioni che sussistono fra le realtà che compara. Queste ultime sono ciò che
analisi come quelle di Frank e di Gills intendono evidenziare.
Si tratta di analisi ispirate alla nozione di «sistema-mondo». Le
formulazioni più note sono quelle di Immanuel Wallerstein20. Il
punto è considerare le interazioni che sussistono fra le diverse
aree del mondo: parte di queste aree sono integrate nel sistema
mondiale in posizione subordinata, e ciò influisce sui loro percorsi. Decisiva in questa prospettiva è la distinzione fra centri e
periferie. Il «centro» del sistema-mondo moderno corrisponde
alle aree in cui si concentrano le attività che comportano il
potere decisionale strategico, il controllo e l’amministrazione
dell’economia, la ricerca finalizzata all’innovazione, e dove
soprattutto si producono in regime oligopolistico i beni che
18
G. DELANTY, Civilizational Constellations and European Modernity
Reconsidered, in G. DELANTY (ed), Europe and Asia beyond East and West,
London - New York 2006, pp. 45-60.
19
G. FRANK - B.K. GILLS (edd), The World System. Five Hundred Years or
Five Thousand?, London 1993, p. 18.
20
I. WALLERSTEIN, Il sistema mondiale dell’economia moderna, 3 voll.,
Bologna 1978-1995 (ed. orig. The Modern World-System, 3 voll., New York
1974-1989), e, dello stesso autore, World-Systems Analysis. An Introduction,
Durham - London 2004 (trad. it. Comprendere il mondo. Introduzione
all’analisi dei sistemi-mondo, Trieste 2006).
93
generano i profitti maggiori. La «periferia» per converso corrisponde a situazioni di sostanziale subordinazione, e dove si
producono in regime concorrenziale beni che generano profitti
minori. Fra le aree centrali e quelle periferiche esistono infine
aree «semiperiferiche» caratterizzate da scambi svantaggiosi
con le prime e vantaggiosi con le seconde.
I sistemi naturalmente si evolvono nel tempo, così che all’interno del sistema-mondo le posizioni relative dei diversi Paesi
possono a volte mutare. In certi momenti della storia mondiale,
si verificano poi crisi che preludono a variazioni più ampie: è
questo probabilmente il caso dei decenni che stiamo vivendo, in
cui l’egemonia tende a spostarsi (o, secondo alcuni, a tornare)
verso il polo orientale del continente eurasiatico. Si tratta di
processi di lunga durata.
Quello di Wallerstein e degli autori vicini è un modo particolare di intendere la modernità (dipende più da Marx e
da Braudel che dai classici della sociologia). Non usa affatto
l’espressione «modernità multiple». Ma le manifestazioni della
modernità in questa prospettiva sono plurali necessariamente
e ovviamente: nel senso che la modernità si compie diversamente nelle zone centrali, semi-periferiche e periferiche. È un
insieme di processi unitario, ma che si dispiega producendo
e riproducendo delle differenze, in gran parte corrispondenti
propriamente a disuguaglianze.
Rispetto all’approccio di Eisenstadt, quello che qui si guadagna
è l’attenzione per le dinamiche di sovra e sotto-ordinazione fra
aree. Tuttavia non credo che le due prospettive siano antitetiche, ma che, nonostante le molte differenze, possano essere
considerate complementari: fra le diverse parti del mondo si
sovrappongono differenze dovute al carattere selettivo delle
«civiltà» pre-esistenti e differenze prodotte dalle loro collocazioni sistemiche.
Chi si ispira ad approcci sistemici sottolinea però anche un
ultimo aspetto problematico dell’approccio di Eisenstadt. Il
fatto è che il tentativo di Eisenstadt di pluralizzare la modernità
riafferma comunque il primato storico dell’Occidente, e più
precisamente dell’Europa, nei principali processi di formazione
94
della modernità, le cui molteplici espressioni ruotano sempre, in
fin dei conti, attorno all’elaborazione di un nucleo occidentale
originario. Come ha notato Mauro Di Meglio,
«… pur evitando di sostenere in modo esplicito l’idea della superiorità
occidentale, questo orientamento ha conservato, sotto questo aspetto, un
margine di ambiguità e ha orientato la propria riflessione in una direzione
significativamente diversa da quella seguita da quelle prospettive di analisi
che, nello studio della creazione, in tutto il mondo, delle diverse e concrete
articolazioni istituzionali, hanno posto la propria enfasi sul ruolo cruciale
svolto da una molteplicità di relazioni e di connessioni di lunga o lunghissima
durata e su larga o larghissima scala»21.
In effetti, mentre per chi utilizza un approccio comparativo la
spiegazione della specificità del percorso europeo resta quasi
inevitabilmente da cercare nella peculiarità delle sue caratteristiche istituzionali, economiche, demografiche o culturali,
l’approccio sistemico sottolinea piuttosto quanto abbia contato
la capacità storica dell’Europa occidentale di dirigere a proprio
beneficio un insieme di relazioni globali22.
Ciò non toglie che l’approccio di Eisenstadt permetta di interrogarsi su aspetti della modernità presenti in alcune aree del
mondo (come in Cina) anche prima di avere rapporti con gli
europei, o (come in Giappone) contemporaneamente a certi
Paesi europei ma in buona misura indipendentemente. La
modernità dei centri occidentali viene così a configurarsi molto
più come il frutto di una costellazione di fattori contingenti e
situati che come uno stadio universale dell’evoluzione umana.
Può essere applicato allo studio delle differenze interne all’Europa contemporanea23 così come alla rivisitazione della storia
cinese24; è coerente con i tentativi di sottrarre lo studio dei
21
M. DI MEGLIO, La parabola dell’eurocentrismo, Trieste 2008, pp. 141-142.
22
Si veda V. BEONIO BROCCHIERI, Presentazione dell’edizione italiana, in
K. POMMERANZ, La grande divergenza, Bologna 2004.
23
Si veda ad esempio A. ICHIJO (ed), Europe, Nations and Modernity,
Houndmills - New York 2011.
24
R. LUO, New Perspectives on Historical Development and the Course of
Modernization in East Asia, in «Chinese Studies in History», 43, 2009, 1,
pp. 17-27.
95
Paesi arabi alla dicotomia tradizione/modernità25; in generale,
è capace di sostenere e connettere fra loro programmi di
ricerca molteplici. Ma è vero che non si spinge a ipotizzare
una storia delle origini della modernità occidentale diversa
da quella dei classici della sociologia. Ipotesi alternative sono
oggi proposte da diversi studiosi26. La loro valutazione richiede
però competenze tali da esulare dai limiti e dalle possibilità
del mio contributo.
5. Chi è al centro?
Il valore delle proposte di Eisenstadt consiste a mio avviso
soprattutto in ciò: costringe i sociologi a rendere conto delle
proprie rappresentazioni della modernità sulla base di conoscenze non più limitate all’esperienza di pochi Paesi. Con
Eisenstadt si è affermata e si è articolata l’esigenza di una
sociologia all’altezza di un mondo globale.
Come ha notato ancora Di Meglio, tanto in gran parte delle
teorizzazioni sul «postmoderno» quanto nelle reazioni che
queste hanno suscitato a sostegno dell’idea che siamo ancora
nella «modernità», variamente aggettivata come «seconda»,
«tarda» o «riflessiva»,
«… persiste uno sguardo rivolto pressoché esclusivamente al mondo occidentale, referente unico per la comprensione dei processi di formazione e
trasformazione della modernità, che relega alla marginalità, storicamente e
concettualmente, il resto del mondo»27.
25
N. GOLE, Snapshots of Islamic Modernities, in «Daedalus, 129, 2000, 1,
pp. 91-117; I. WEISMANN, L’islam e il concetto di modernità, in G. FILORAMO
(ed), Le religioni e il mondo moderno, III: Islam, Torino 2009, pp. 5-28.
26
Cfr. fra gli altri J. GOODY, L’Oriente in Occidente, Bologna 1999 (ed. orig.
The East in the West, Cambridge 1996); J. HOBSON, The Eastern Origins of
Western Civilization, Cambridge 2004; per una discussione si veda V. BEONIO
BROCCHIERI, Storie globali. Persone, merci, idee in movimento, Milano 2011.
27
Cfr. M. Di Meglio, «Teoria critica ed emancipazione: una prospettiva
globale», relazione al seminario «Critica sociale ed emancipazioni. Dopo il
post-moderno», RILES, Università di Perugia, 2012, p. 15.
96
La plausibilità di uno sguardo del genere oggi è insostenibile.
Questo non significa che l’idea delle modernità multiple sia
sempre la più adeguata. Pensando a diversi Paesi dell’Africa
sub-sahariana, un antropologo come James Ferguson28 ad
esempio sostiene che la questione qui non sia la differenza
tra modernità alternative, ma l’esclusione.
Nel suo discorso, Ferguson distingue fra la modernità come
télos (cioè come obiettivo di un processo che si svolge nel
tempo) e la modernità come status (come privilegio di chi
è moderno rispetto a chi non lo è). Queste due accezioni di
norma si sovrappongono, così che l’aspetto per cui la modernità appare un télos, un futuro che attende, serve a mitigare
l’effetto deprimente che ha il riconoscere di non esserlo
ancora: pensare di «non esserlo ancora» significa infatti che
lo si diventerà. Questo modello narrativo ha rappresentato nel
mondo una straordinaria legittimazione della modernità, capace
di far sopportare ineguaglianze di status grazie alla promessa
che queste svaniranno col tempo. Ma in diversi Paesi africani
oggi è in declino. La modernità viene a declinarsi al passato:
è una promessa mancata. Ma se la modernità non viene più
percepita come qualcosa che si potrà raggiungere, a restare
è solo, nuda e cruda, la questione della gerarchia di status.
Essere inferiori non è più la condizione di «non essere ancora»
moderni, è semplicemente un «non». Se ciò è vero, è chiaro
che non è questione di modernità plurali.
Ma è difficile essere netti in proposito. L’esempio dell’industria
video-cinematografica in Nigeria contrasta almeno in parte
la posizione di Ferguson. Il caso di «Nollywood», oggi la
seconda industria cinematografica mondiale per numero di film
prodotti, è ampiamente studiato internazionalmente: si tratta
di una produzione di video destinati ad un mercato locale
ma anche transnazionale, i cui contenuti e le cui forme sono
caratterizzati da una miscela originale di elementi derivati dalla
tradizione autoctona, dal cinema indiano, dalle soap sudame28
J. FERGUSON, Global Shadows. Africa in the Neoliberal Order, Durham London 2006.
97
ricane, dai telefilm americani29. Per Ferguson Paesi come la
Nigeria andrebbero intesi nei termini di una esclusione dalla
modernità più che in quelli della manifestazione di modernità
multiple, con il loro corredo di adattamenti creativi di cui
usualmente si parla, ma Nollywood è proprio espressione
di un adattamento creativo: è un’industria moderna che usa
tecnologie recentissime e si muove sul mercato nazionale e
internazionale in modo innovativo, adattando creativamente il
cinema a contesti sorti con la globalizzazione e con la diaspora
delle popolazioni africane30.
D’altro canto, il caso nigeriano permette di sottolineare un altro
elemento utile al nostro discorso. Il mercato cinematografico
in Nigeria, a fianco di Nollywood, è caratterizzato da un altro
fenomeno: specie al nord, l’enorme diffusione di pellicole
indiane. Ciò è interessante perché la popolarità del cinema
indiano in Nigeria mette in luce «la circolazione di prodotti
mediali all’interno e fra Paesi extra-occidentali, un aspetto dei
flussi culturali transnazionali che è spesso ignorato dalle
nostre teorie31. E non si tratta solo di flussi culturali: i flussi
migratori nel mondo oggi sono più numerosi all’interno e fra
Paesi extra-occidentali che non fra questi e i Paesi dell’Occidente. Anche i capitali non passano necessariamente per
l’Occidente (si pensi agli investimenti cinesi in Africa). Quanto
al cinema in Nigeria, per stare al caso citato, i film indiani
sono stati introdotti da imprenditori libanesi. Si tratta di flussi,
intrecci, contaminazioni e reti che non passano per i «centri»
del nostro sistema.
Prima che nelle scienze sociali, la consapevolezza di questi flussi
si è affacciata nella narrativa. Antesignano ed esemplare è stato
a riguardo il celebre romanzo di Amitav Ghosh, Lo schiavo
29
Fra le analisi in proposito si veda: J. HAYNES (ed), Nigerian Video Films,
Athens 2000; P. BARROT (ed), Nollywood. Le phénomène vidéo au Nigeria,
Paris 2005.
30
M. KRINGS - O. OKOME (edd), Global Nollywood. The Transnational
Dimensions of an African Video Film Industry, Bloomington 2013.
31
B. LARKIN, Indian Films and Nigerian Lovers. Media and the Creation of
Parallel Modernities, in «Africa», 67, 1997, 3, pp. 406-440.
98
del manoscritto (1992). Il protagonista è un giovane indiano
che fa ricerca in Egitto: scorrendo le pagine, il lettore viene
edotto tanto degli innumerevoli e intensissimi scambi che si
sono dispiegati nella storia fra India e Africa nord-orientale,
quanto di odierni flussi migratori compositi, come quelli fra
l’Egitto e i Paesi del Golfo. Questi scambi e questi flussi sono
esistiti prima dell’incontro con gli europei ed esistono ancora.
Riconoscerli produce l’effetto di una de-centralizzazione della
nostra esperienza, quasi un attacco al nostro narcisismo: non
tutto passa attraverso di noi.
6. I «postcolonial studies» e l’autocritica della modernità
Ma su di noi dobbiamo pensare. Come ha scritto Dipesh
Chakrabarty32, le categorie con cui la tradizione accademica
occidentale ha interpretato la modernità oggi sono allo stesso
tempo «indispensabili e inadeguate» per comprendere ciò a
cui il dispiegamento della modernità ha dato luogo al di fuori
di quelli che riteniamo i suoi originari confini. Ma forse sono
ugualmente indispensabili e inadeguate per comprendere la
nostra stessa storia.
Nella prospettiva che mi sta più a cuore, in effetti, l’idea delle
modernità multiple è importante, prima che per descrivere
gli altri, per la auto-comprensione di noi stessi, europei. Qui
mi allontano da Eisenstadt. A questa rinnovata comprensione
spingono infatti, nel panorama contemporaneo, soprattutto i
postcolonial studies. Fra questi e la prospettiva di Eisenstadt
non vi è alcun collegamento diretto (se mai sono frequenti le
critiche, specie relative al terzo dei problemi indicati più sopra,
quello riguardante la genesi della modernità occidentale)33. Si
tratta tuttavia di un approccio che va menzionato. Anche qui
la modernità assume forme molteplici, ma in un senso diverso.
32
D. CHAKRABARTY, Provincializzare l’Europa, Roma 2004 (ed. orig. Provincializing Europe, Princeton 2000).
33
Si veda ad esempio G.K. BHAMBRA, Rethinking Modernity. Postcolonialism
and the Sociological Imagination, Basingstoke 2007.
99
I postcolonial studies sono una variegata galassia. Lo stesso
termine postcolonial, attribuito a un insieme assai eterogeneo
di fenomeni ed aree, è oggetto di discussione e non va esente
da critiche. Non posso discuterne qui34. Ma chiamare il mondo
attuale «postcoloniale» è una scelta che significa questo: sottolineare quanto molti dei fenomeni del mondo attuale dipendano
dai lasciti delle nostre aggressioni, e recuperare autocriticamente
ciò che del passato abbiamo volentieri rimosso.
È una scelta che non lascia intatta la nostra rappresentazione
della modernità. Come scrive Iain Chambers:
«La modernità ha sempre litigato con se stessa, e la sua superficiale affermazione del ‘progresso’ è sempre stata accompagnata da una serie di eventi
che parlano d’altro e hanno altra origine … C’è sempre qualcosa in più,
che sfugge alla cornice che vorremmo imporre»35.
Per argomentarlo ricorda un quadro di Turner, il cui centro
è occupato da una nave che sta per affondare, nel mare in
tempesta; il modo in cui l’acqua è dipinta, l’inclinazione della
nave, il pericolo: pare di assistere a una rappresentazione del
«sublime spaventoso», e in quest’ottica leggeva il dipinto il
più celebre dei critici d’arte britannici dell’Ottocento, John
Ruskin. Ma in un angolo del quadro, il braccio di un annegato
34
Nelle università anglosassoni, l’espressione post-colonial studies ha avuto
la prima diffusione in ambito letterario, come sviluppo di quelli che precedentemente erano detti Commonwealth studies, gli studi sulle letterature
di ex-colonie della Gran Bretagna. Diffondendosi in riferimento ad altre
letterature e nell’ambito delle scienze sociali, il termine ha perso il trattino
ed ha dato luogo ad accesi dibattiti: per una buona introduzione cfr.
A. LOOMBA, Colonialismo/postcolonialismo, Roma 2000 (ed. orig. Colonialism/postcolonialism, London 1998); per un esempio delle obiezioni a cui
può esporsi si veda J.-F. BAYART, Les études postcoloniales, une invention
politique de la tradition?, in «Societés politiques comparées», 14, 2009,
pp. 1-46. Qui lo intendo come il nome di una galassia di studi e di scritture
la cui principale caratteristica sta nell’intendere il passato coloniale come
un’eredità che contribuisce in modo sostanziale a dar forma al presente. Il
prefisso «post-» non intende che il colonialismo sia estinto: serve a richiamare piuttosto ciò che le teorie della modernità hanno spesso trascurato,
e a denunciarne gli effetti.
35
I. CHAMBERS, Sulla soglia del mondo, Roma 2003, pp. 8-9 (ed. orig.
Culture After Humanism, London 2001).
100
emerge da un’onda: ed è il braccio di un nero. La nave è una
nave negriera. Nei commenti di Ruskin, il fatto che la nave
trasportasse schiavi e fossero questi a essere gettati fuori bordo
era relegato in una nota a piè pagina. Ma, osserva Chambers,
l’omissione per cui la schiavitù esce quasi di soppiatto dal
quadro è emblematica: «ricollocare la schiavitù nella cornice, riprendere quei corpi neri abbandonati e riportarli nel
quadro … significa suggerire che esistano altre storie, altre
modernità da raccontare»36.
Raccontare altre modernità significa moltiplicarne le immagini.
Ritorna l’idea della molteplicità, ma in un’accezione che ad
Eisenstadt era estranea. Si tratta di prendere atto di processi
che hanno accompagnato la modernizzazione costituendone
un’ombra.
Il colonialismo non è mai stato soltanto un insieme di processi
di espansione territoriale e di pratiche di dominio militari e
amministrative. È stato sostenuto da ideologie che lo hanno
reso plausibile e lo hanno legittimato. Come ha mostrato in
modo esemplare Edward Said37, si tratta di rappresentazioni
della «alterità» che hanno contribuito in modo sostanziale a
dar forma anche alla auto-rappresentazione dell’Occidente e
ne hanno permeato i discorsi, ivi compresi quelli degli scienziati sociali. Prendere atto del suo ruolo nella storia della
modernità significa dunque riesaminare le nostre stesse autorappresentazioni, quelle che allora si formarono e che ancora
ci informano. Dal punto di vista che emerge considerando
la storia del colonialismo, queste rappresentazioni appaiono
inadeguate nella misura in cui sono state elaborate minimizzando l’impatto di alcune delle nostre pratiche, rimuovendo
i processi di razzizzazione, escludendo o distorcendo il ruolo
svolto da attori non occidentali.
Il pensiero postcoloniale non deriva dalla prospettiva delle
modernità multiple. Ha piuttosto diversi punti di contatto con
36
Ibidem, pp. 44-45.
37
E. SAID, Orientalismo, Milano 1994 (ed. orig. Orientalism, New York
1978).
101
il pensiero postmoderno. Ma non vi si identifica. La sovrapposizione è presente in ambito accademico nord-americano38.
Lo è meno altrove, e a volte è contestata esplicitamente.
Come scrive Kwami Anthony Appiah, il pensiero postcoloniale «non è un alleato del postmodernismo occidentale, ma
un antagonista, dal quale quest’ultimo ha qualcosa da imparare»39. La questione è difficilmente risolvibile perché sia gli
studi postcoloniali che quelli postmoderni sono tutto fuorché
univoci. In generale, possiamo notare che gli autori postcoloniali sono affini a quelli postmoderni nel diffidare di verità
ultime, nell’ibridazione dei generi, a volte nell’ironia. Ma sono
diversi da quelli postmoderni riguardo all’atteggiamento che
assumono verso la memoria: non coltivano l’amnesia, bensì la
combattono. Ricordano le promesse di emancipazione mancate.
I loro scritti hanno una valenza politica esplicita. Il loro tema
non è il perdersi del soggetto in un mondo di segni, caro ai
postmodern, bensì il dispiegarsi delle soggettività in un mondo
di relazioni molteplici40.
7. Il futuro della modernità
Quello di «modernità» è un concetto paradossale. L’aggettivo
«moderno» significava in origine «nuovo», «recente»: trasformarlo in un sostantivo produce il singolare effetto di immobilizzare ciò che per definizione non può che essere fluido,
cangiante, poiché nel corso del tempo nulla può restare a lungo
ciò che è «più recente». Dal paradosso si esce riconoscendo
che il senso del termine non sta nell’affermazione del carattere particolarmente recente dell’epoca o delle società che si
dichiarano moderne, bensì nell’individuare la loro specificità
nella propensione ad intendere il nuovo come un valore, a
concepire se stesse come continuamente cangianti.
38
Si veda ad esempio H.K. BHABHA - G. SPIVAK - F. BARKER (edd), Europe
and its Others, Cochester 1984.
39
K.A. APPIAH, In my Father’s House, Oxford 1992, p. 155.
40
S. ALBERTAZZI, Lo sguardo dell’altro. Le letterature postcoloniali, Roma
2000.
102
I contenuti dei cambiamenti possono essere diversi; a restare
sono la disponibilità e la propensione ad accettarli. Ma se il
nuovo è atteso perpetuamente, ciò significa che ogni istante è
un momento di crisi. È ciò che autori come Georg Simmel o
Walter Benjamin, nel momento in cui in Europa al concetto
di modernità si prestò la maggiore attenzione, avvertivano e
sottolineavano, non senza evidenziarne la tragicità. Tale crisi
riguarda tanto gli assetti materiali dell’esistenza quanto le
forme di pensiero con le quali l’esistenza stessa è compresa.
Per quanto individui e gruppi possano di volta in volta desiderare di fermare questo movimento, la caratteristica essenziale
del pensiero moderno è quella di un pensiero che si mette
continuamente in questione.
In questo senso, correnti come il postmodernismo o gli stessi
postcolonial studies non fuoriescono dalla modernità. Più di
quanto non facciano questi, l’approccio delle «modernità
multiple» costringe tuttavia a riflettere ancora su cosa debba
intendersi con questa parola. Dobbiamo dunque tornarvi.
Perché se si assume che la modernità abbia molte forme, si
tratta anche di indicare che cosa queste abbiano in comune.
Senza un concetto di modernità sufficientemente astratto da
valere come «nucleo» di tutte queste forme, non si potrebbe
parlare delle sue variazioni.
Eisenstadt vedeva consistere questo nucleo nella fine dell’indiscussa legittimazione degli ordinamenti sociali sulla base della
credenza nella loro determinazione divina. In altre parole, in
una concezione del futuro «caratterizzata da possibilità realizzabili attraverso l’autonomo agire dell’uomo»41. Come scrive:
«I presupposti su cui si basano l’ordine sociale, quello ontologico e quello
politico, e la loro legittimazione, non sono più dati per scontati. Attorno
ai presupposti di base delle strutture dell’autorità sociale e politica si sviluppa un’intensa riflessività, una riflessività condivisa anche da chi critica
radicalmente la stessa modernità»42.
41
S.N. EISENSTADT, Multiple Modernities, p. 3.
42
Ibidem.
103
Credo che queste espressioni siano condivisibili. All’idea della
modernità come mutamento perpetuo aggiungono la nozione
di un attivo impegno nei confronti del futuro, basata sul
presupposto della capacità umana di concepire e di realizzare
programmi di trasformazione del mondo orientati a determinati
valori. Se l’ordine del cosmo non è immutabile e certo, sta a
noi formularlo.
Ma nella situazione contemporanea sembra che l’idea che
gli uomini siano capaci di guidare la storia sia in forse. Che
la volontà umana generi conseguenze inattese è la norma.
Per quanto riguarda l’intenzione di esercitare un controllo
tecnico sulla natura, la storia pare oggi rovesciarsi sul genere
umano come la materia si rovescia sull’apprendista stregone43.
Gli sviluppi tecnologici conducono a rischi imprevisti44. La
dipendenza da apparati socio-tecnici tanto sofisticati quanto
pervasivi genera fragilità45. L’idea di progresso, in cui concretamente l’impegno nei confronti del futuro si è articolata,
entra conseguentemente in una fase di crisi, lasciando posto
a un regime di incertezza crescente.
Poiché l’associazione della modernità col progresso è stata
la principale e più diffusa fonte di legittimazione dei sistemi
sociali cui la modernità corrisponde, questa crisi costituisce
probabilmente l’elemento più solido a favore di chi pensa che
dalla modernità ci stiamo ormai allontanando.
Tuttavia, non è scontato che l’idea di progresso sia da abbandonare. È possibile modificarla. Come scrive Pierre-André
Taguieff, «… alla fittizia necessità del Progresso si potrebbe
sostituire la … volontà più modesta di realizzare questo o
43
M. HORKHEIMER - T.W. ADORNO, Dialettica dell’illuminismo, Torino 1974
(ed. orig. Dialektik der Aufklärung, New York 1944).
44
U. BECK, La società del rischio, Roma 2000 (ed. orig. Risikogesellschaft,
Frankfurt a.M. 1986).
45
A. GIDDENS, Le conseguenze della modernità, Bologna 1994 (ed. orig.
The Consequences of Modernity, Cambridge 1990); A. GRAS, Nella rete
tecnologica. La società dei macrosistemi, Torino 1997 (ed. orig. Grandeur et
dépendance: Sociologies des macro-systèmes techniques, Paris 1993).
104
quel progresso in un dato ambito»46. Quella che si potrebbe
salvare, in altri termini, è una nozione meno astratta di quella
che fin qui è stata egemone, una nozione temperata dalla
consapevolezza dei limiti della ragione e capace di includere
prudenza e responsabilità. Il nuovo, in se stesso, non è garanzia di miglioramento. Ci sono cose che è opportuno serbare.
Come scrive ancora Taguieff:
«Dopo l’epoca della trasformazione frenetica, irresponsabile, i cui effetti
distruttivi sono ormai attestati, potrebbe aprirsi l’epoca della preservazione
intelligente, fondata sulla volontà consensuale di rispettare il passato e di
gestire la Terra»47.
Certo, perdere la fiducia nel fatto che il corso della storia
volga spontaneamente verso il meglio, o perdere addirittura
l’idea che la storia abbia un corso unitario e accessibile alla
comprensione, è disorientante. Significa rinunciare all’esonero
dalle nostre responsabilità che era possibile proiettando sul
progresso la legittimazione di ciò che facciamo e dei valori
in base a cui lo facciamo. Ma si può convivere con questa
rinuncia. Penso a Weber: egli riconosceva la forza dell’idea di
progresso nella cultura moderna, ma non ad essa appoggiava
le proprie convinzioni etiche, il proprio agire professionale o i
propri sforzi nell’arena politica; non giustificava la plausibilità,
la desiderabilità o la necessità delle sue aspirazioni intendendo
che esse avrebbero rappresentato l’articolazione di un télos
verso cui la storia comunque cammina. Per Weber la storia è
il teatro di una guerra fra dei: fuori dalla metafora, è un conflitto ricorrente fra orientamenti di senso e di valore diversi; si
tratta di difendere gli orientamenti che ci appaiono più validi,
senza poterli fondare altrove che nel nostro giudizio.
Possiamo chiamare ancora moderno un atteggiamento del
genere? La questione dei nomi, quando si arriva di fronte ai
problemi concreti, può apparire poco importante. Ma, per quel
che può valere, a me pare che sia ancora e intimamente un
46
P.-A. TAGUIEFF, Le sens du progrès. Une approche historique et philosophique, Paris 2004, p. 323.
47
Ibidem.
105
modo di pensare moderno. Perché rimanda all’idea che nella
storia siamo in grado di agire. E la lezione di Eisenstadt è
illuminante in proposito, poiché, se riconosciamo che la modernità è stata ed è ancora un progetto multiforme, ci troviamo
a riconoscere anche che i suoi sviluppi concreti dipendono
dagli attori coinvolti. In un mondo le cui trasformazioni sono
oggi per più di un verso ad un bivio – fra depauperamento
aggressivo delle risorse della natura e modelli di sviluppo
diversi, fra tendenze autoritarie ed esigenze di democrazia, fra
disuguaglianza e equità, tra violenza e rispetto – si tratta di
assumersi la responsabilità di agire per il futuro che riteniamo
più degno. Come ha scritto Alberto Melucci:
«La società non può più essere concepita come un oggetto, come una cosa
che è lì perché la natura l’ha fatta esistere o perché … le leggi della storia
l’hanno così determinata … È un campo alla cui definizione contribuiamo»48.
La definizione di questo campo, vale a dire la definizione di
cosa la società sia e debba essere, si realizza all’interno di
processi comunicativi. La pervasività e la rilevanza di questi
ultimi è forse il tratto più caratteristico del mondo contemporaneo. Non si tratta soltanto dell’espansione dei mezzi per
comunicare, bensì della crescente importanza dell’insieme
delle pratiche comunicative nella costruzione degli orizzonti
di senso entro cui si collocano le azioni di ognuno. In fondo è
sull’esperienza di questa importanza che gran parte della sensibilità postmoderna si basa. Ma si può serbare questa sensibilità
senza per questo dichiarare l’avvento di una postmodernità.
Ed è importante serbarla, perché parte di questi orizzonti
di senso ha a che fare con la definizione dei futuri possibili.
Ogni definizione di ciò che è possibile – e simmetricamente
di ciò che è impossibile – ha qualcosa di una profezia che si
auto-adempie: se consideriamo possibile un certo scenario, ci
attrezziamo di conseguenza per realizzarlo (o per contrastarlo,
nel caso sia indesiderabile); se lo consideriamo impossibile,
certi corsi d’azione si scartano. In tutti i casi, spingiamo la
realtà in una direzione che dipende dalle nostre definizioni.
48
A. MELUCCI, Passaggio d’epoca, Milano 1994, p. 100.
106
Ciò che è possibile oppure impossibile è raramente un dato
incontrovertibile: è un’interpretazione. Se con Eisenstadt riteniamo che molte modernità siano possibili, sta a noi anche la
responsabilità di disegnare le modernità del futuro. È vero
che gran parte dei programmi che la modernità ha inaugurato
ci appaiono oggi come un futuro alle spalle. Possono essere
rimasti incompiuti, aver dato luogo ad esiti controintenzionali.
Ma le ambizioni di chi ci ha preceduto ci riguardano ancora.
La loro memoria è istruttiva: consente di correggere gli errori
che in quei programmi possiamo oggi riconoscere, di valutarne
meglio le contraddizioni e gli ostacoli a cui vanno incontro;
ma rammenta anche l’impegno nei confronti della storia che,
in tanti modi diversi, hanno tutti incarnato.
107