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Fondazione Bruno Kessler Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento Quaderni, 91 1 I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull’insieme delle attività della Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet: www.mulino.it L’avvio della società liquida? Il passaggio degli anni Settanta come tema per la storiografia tedesca e italiana a cura di Thomas Großbölting Massimiliano Livi Carlo Spagnolo Società editrice il Mulino Bologna FBK - Istituto storico italo-germanico Il presente volume è pubblicato con il contributo dell’Exzellenzcluster «Religion und Politik» della Westfälische Wilhelms-Universität Münster. Redazione e impaginazione: Editoria FBK Traduzioni di Beatrice Rabaglia, Anna Zangarini e Chiara Zanoni Zorzi L’AVVIO della società liquida? : il passaggio degli anni Settanta come tema per la storiografia tedesca e italiana. - Bologna : Il mulino, 2014 - 374 p. ; 22 cm. - (Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento. Quaderni; 91) Nell’occh.: Fondazione Bruno Kessler ISBN 978-88-15-24631-8 1. Mutamento sociale - 1950-1990 2. Postmoderno 3. Storia moderna e contemporanea - 1950-1990 - Storiografia italiana 4. Storia moderna e contemporanea - 1950-1990 - Storiografia tedesca I. Großbölting, Thomas II. Livi, Massimiliano III. Spagnolo, Carlo 303.409 04 (DDC 22.ed) Scheda bibliografica: FBK - Biblioteca ISBN 978-88-15-24631-8 Copyright © 2013 by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata, riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsiasi forma o mezzo – elettronico, meccanico, reprografico, digitale – se non nei termini previsti dalla legge che tutela il Diritto d’Autore. Per altre informazioni si veda il sito www.mulino.it/edizioni/fotocopie 4 Sommario Introduzione, di Thomas GROSSBÖLTING, Massimiliano LIVI e Carlo SPAGNOLO p. 7 PARTE PRIMA: CATEGORIE INTERPRETATIVE Il postmoderno come categoria storiografica. Osservazioni sul passaggio all’età del debito, di Carlo SPAGNOLO 19 Moderno/postmoderno. Riflessioni su un dibattito alla luce della problematica della storia politica dell’età contemporanea, di Paolo POMBENI 55 La modernità in molte forme, di Paolo JEDLOWSKI 83 Il concetto di «modernità»: nuove prospettive comparate per la storia contemporanea italo-tedesca?, di Lutz RAPHAEL 109 Ognuno è artefice del proprio destino? La storicizzazione del paradigma dell’individualizzazione, di Detlef SIEGFRIED 129 Limiti dell’individualizzazione. Adattamenti sociali e pluralizzazioni negli anni 1970-1980, di Frank BÖSCH 145 Il postulato sociologico della ricerca storica sul «mutamento dei valori». Valori familiari e religione, di Thomas GROSSBÖLTING 169 5 PARTE SECONDA: INDAGINI SUL MUTAMENTO DEI VALORI La «modernizzazione», fase suprema della modernità? Evoluzione e crisi dell’ideologia socialdemocratica nel secondo dopoguerra (1945-1973), di Giovanni BERNARDINI p. 195 Analisi del «pericoloso»: sulla securizzazione della natura negli anni Settanta, di Nicolai HANNIG 213 Il ruolo del potere politico e la formazione della norma sociale nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta, di Fiammetta BALESTRACCI 237 Le tribù del desiderio: individualizzazione e crisi politica nell’Italia degli anni Settanta, di Massimiliano LIVI 259 I consumi e le nuove strutture commerciali di individualizzazione. Il caso del fitness, di Roberta SASSATELLI 297 Consuetudini di consumo e valori dei lavoratori migranti italiani a Torino e Monaco, di Olga SPARSCHUH 335 APPENDICE Moderno e postmoderno: una bibliografia tematica, a cura di Massimiliano LIVI 361 Indice dei nomi 371 6 La modernità in molte forme di Paolo Jedlowski 1. Introduzione Nel 1979 Jean-François Lyotard pubblicò La condizione postmoderna. Per quanto fosse già in uso in altri campi, il termine «postmoderno» ha iniziato allora a conoscere un certo successo nelle scienze sociali. Il suo significato è tutto fuorché univoco. È un significato innanzitutto critico, o negativo: esprime la percezione di una inadeguatezza delle categorie con cui fino ad oggi abbiamo descritto il mondo sociale, la sensazione di essere ai limiti di ciò che possiamo comprendere con il bagaglio delle nozioni fin qui disponibili1. Le novità del presente non sembrano convergere tuttavia verso un’unica grande discontinuità, una cesura dai contorni ben definiti. Alla maggior parte degli studiosi non pare dunque che questo bagaglio di nozioni sia da buttare. Come scrisse Alberto Melucci, uno dei sociologi italiani più influenti alla fine del secolo scorso, il ricorso alla nozione di postmoderno è forse «più importante come sintomo che per i suoi contributi sostantivi alla conoscenza dei fenomeni contemporanei»2. Ciò non significa rigettare le acquisizioni e le sfide proposte dal pensiero postmoderno. Si tratta però di distinguere i contenuti Le argomentazioni presenti in questo testo sono state parzialmente elaborate dall’autore in due precedenti studi: Modernità multiple: quale molteplicità?, in C. CORRADI - D. PACELLI (edd), Dalla modernità alle modernità multiple, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2011, pp. 95-108; e In un passaggio d’epoca. Esercizi di teoria sociale, Napoli 2012. 1 C. LECCARDI (ed), Limiti della modernità. Trasformazioni del mondo e della conoscenza, Roma 1999. 2 A. MELUCCI (ed), Fine della modernità?, Milano 1998, p. 15. 83 di questo pensiero dalla pretesa di definire la fase attuale della storia mondiale come una «post-modernità». Mentre questa pretesa non è convincente, i contenuti del pensiero postmoderno non sono trascurabili: appartengono alla costellazione culturale entro cui ci troviamo a pensare3. È vero che è difficile circoscrivere questi contenuti, ma in buona sostanza questi corrispondono al riconoscimento del carattere discorsivo delle pratiche di descrizione, comprensione e spiegazione della realtà. Si tratta di un riconoscimento utile a non feticizzare le nostre categorie. È vero che può prestarsi a usi ingenui e ideologici, ma a chi vi si oppone criticando questi ultimi e richiamando la necessità di un «nuovo realismo» (si veda recentemente e in modo esemplare Ferraris)4 si può rispondere che non conduce logicamente alla dismissione di ogni pretesa della conoscenza, bensì all’accettazione della ineludibilità della mediazione linguistica nella conoscenza stessa5. Discorrendo del mondo noi ne costruiamo certe rappresentazioni; queste rappresentazioni costituiscono una riduzione della complessità e della multiformità della vita, tale per cui ogni nuovo processo conoscitivo non è in fondo che una critica delle rappresentazioni di volta in volta assodate, in un ricorrente tentativo di elaborare di nuovo lo scarto fra le parole e le cose. Nel quadro dei tentativi di rielaborare le rappresentazioni di cui disponiamo, almeno in sociologia, una nozione che sembra aver acquistato ultimamente un rilievo crescente è quella delle «modernità multiple». Credo sia utile rivisitarla: se da un lato infatti permette di criticare certe visioni troppo unilaterali della modernità (a cui di fatto l’idea del «postmoderno» reagisce), dall’altro trattiene dal correre troppo frettolosamente all’idea che siamo in una «post-modernità» dai caratteri vaghi. 3 F. JAMESON, Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo, Milano 1989 (ed. orig. Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism, Durham NC 1991). 4 5 M. FERRARIS, Manifesto del nuovo realismo, Roma - Bari 2012. F. RIGOTTI (ed), New Realism: molto rumore per nulla, numero monografico di «Paradoxa», 6, 2012, 3. 84 2. Dalla modernità alla modernizzazione La nozione delle modernità multiple è stata proposta alle scienze sociali in particolare da Shmuel N. Eisenstadt. Prima di discuterla, va riconosciuto però che una certa multiformità è immanente alla modernità dal principio. «Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria»: in questa frase Marshall Berman6, nel titolo di un libro piuttosto celebre, sintetizzava alcuni anni fa l’esperienza della modernità. È la traduzione di una frase di Marx ed Engels, e coglie l’elemento più vistoso della modernità: il mutamento. Non quello imprevedibile o accidentale, ma il mutamento come norma del divenire, come regola, come sistema di attese. Poiché muta incessantemente, la modernità è multiforme per definizione. Marx ed Engels in verità non usavano la parola «modernità», che si diffuse solo alla fine del XIX secolo. Diffondendosi, questa parola venne a esprimere l’autocoscienza di un mondo: innanzitutto quello delle grandi metropoli dell’Europa a cavallo tra Otto e Novecento. Un mondo che si comprendeva come un’epoca: l’epoca del nuovo, o meglio del sempre-nuovo, un’epoca la cui sostanza è la messa in questione di ogni risultato acquisito, e in cui il mutamento in se stesso ha un valore ed ha un senso (in genere identificati con il «progresso»). Trasferito nel campo delle scienze sociali, il termine ha ricevuto significati più o meno determinati e variabili da autore ad autore. In ogni caso, nessuno dei classici della sociologia (penso a Durkheim, a Weber, e soprattutto a Simmel) vide la modernità come un monolite. La vedevano come una costellazione di processi e come il prodotto di una molteplicità di fattori; la vedevano cioè come un insieme di tendenze solidali fra loro ma in qualche misura anche autonome, e a volte contraddittorie. E ne coglievano l’ambivalenza: se con essa qualcosa si guadagna, qualcos’altro si perde, o si genera anche qualcosa di non desiderabile. 6 M. BERMAN, L’esperienza della modernità, Bologna 1985 (ed. orig. All That is Solid Melts into the Air, New York 1982). 85 L’ambivalenza è una renitenza alla classificazione: ciò che si intende descrivere e collocare in una certa griglia interpretativa salta fuori dalla griglia, permette o addirittura sollecita altre interpretazioni. È vero, come ha notato Bauman7, che la modernità è stata per certi versi un progetto volto proprio a fugare l’ambivalenza: a classificare, controllare, ordinare fenomeni, uomini e cose; ma ai classici della sociologia non è mai sfuggito, mi pare, non solo il carattere necessariamente illusorio di un progetto del genere, ma anche che è la modernità stessa, nei processi che la sostanziano, ad essere ambivalente: ciò che si coglie in una certa luce, in un’altra si svela diverso, palesa aspetti, relazioni ed effetti che al primo sguardo non si manifestavano. La modernità è una totalità perennemente inconclusa. Conosce al suo interno delle controtendenze: spesso legate proprio al tentativo di allontanare o di compensare suoi aspetti meno desiderabili, o ispirate proprio dalle diagnosi che riguardano il disagio che vi è connesso. Ha qualcosa di molteplice, dunque, fin dalle sue origini ed in più di un senso: perché muta incessantemente, perché è composita, perché è ambivalente e perché è contraddittoria. La trasformazione della modernità in un insieme di tratti omogenei e infallibilmente desiderabili è della sociologia nordamericana di metà Novecento, specialmente di quella ispirata alle teorie funzionaliste di Talcott Parsons. È una tendenza che si radicalizza con l’emergere delle cosiddette «teorie della modernizzazione» degli studiosi che negli anni Cinquanta e Sessanta si occupano dei «Paesi in via di sviluppo». Qui l’accento si sposta dalla ricerca di che cosa significhi modernità – che viene considerato assodato – alla descrizione del percorso che rende i singoli Paesi e i loro abitanti moderni. Lo sfondo delle teorie della modernizzazione era prettamente politico. Era costituito dai processi di acquisizione dell’indipendenza e di decolonizzazione allora in atto in Africa e in 7 Z. BAUMAN, Modernità e ambivalenza, Torino 2010 (ed. orig. Modernity and Ambivalence, Ithaca 1991). 86 Asia, con la contemporanea competizione tra USA e URSS per attrarre nella propria orbita i nuovi Paesi. Non che queste teorie e le ricerche connesse non abbiano offerto spunti importanti: ma, rispetto ai classici, abbandonavano gli aspetti della nozione di modernità che riguardano ambivalenza e contraddittorietà. La modernizzazione diventava un percorso predeterminato, e la modernità un modello normativo. Si trattava di analisi che poggiavano su un modello di sviluppo graduale e convergente, fondato sulla fiducia nei caratteri universali del progresso che l’Occidente conosce. La modernità era intesa come una miscela coerente di elementi considerati assenti nelle società «tradizionali» e solidali fra loro: industrializzazione, mercato, razionalizzazione, differenziazione funzionale, urbanizzazione, democratizzazione della vita politica, secolarizzazione, interesse degli individui per l’auto-realizzazione8. Queste teorie hanno mostrato presto i loro limiti: l’agglomerazione delle società non occidentali nell’onnicomprensiva categoria del tradizionalismo è un ostacolo al riconoscimento delle loro differenze; la convergenza e l’unilinearità dei processi di modernizzazione sono più un postulato che un risultato di indagine. La modernità che quelle teorie disegnavano era la proiezione di alcune esperienze locali a cui si attribuiva carattere universale, e che in verità non teneva conto neppure delle diversità presenti nei processi di modernizzazione nello stesso Occidente. È anche reagendo a queste teorie che in Europa, già negli anni Sessanta del Novecento, Alexander Gerschenkron9 notava come il momento storico in cui questi processi si sono avviati, nei diversi Paesi, abbia generato differenze notevoli; o Reinhard Bendix10 rilevava l’importanza 8 A. MARTINELLI, La modernizzazione, Roma - Bari 1998. 9 A. GERSCHENKRON, Il problema storico dell’arretratezza economica, Torino 1965 (ed. orig. Economic Backwardness in Historical Perspective, Cambridge 1962). 10 R. BENDIX, Stato nazionale e integrazione di classe, Roma - Bari 1969 (ed. orig. Nation-Building and Citizenship: Studies of Our Changing. Social Order, New York 1964). 87 dei fattori politico-istituzionali e dei modi diversi in cui sono affrontati i conflitti di classe. La modernità è ed è sempre stata molto meno omogenea di quanto le teorie della modernizzazione di stampo funzionalista non abbiano suggerito. Può svilupparsi in modo selettivo: affermarsi nei campi dei mezzi di comunicazione o dei consumi e non riguardare le strutture produttive; toccare gli apparati militari e non le istituzioni politiche; generare disincanto, ma non razionalizzazione, e così via. In particolare, il nesso fra modernizzazione economica e democratizzazione della vita politica è tutt’altro che ovvio: una certa modernizzazione economica e tecnologica si sposa frequentemente con regimi autoritari. 3. L’idea delle modernità multiple Il pensiero postmoderno non è nato espressamente in reazione all’idea di modernità intesa dalle teorie della modernizzazione nord-americane: data la rigidità di queste ultime, è però comprensibile che a molti la nozione di postmodernità, quando è stata proposta, sia apparsa liberatoria. Ma l’idea del postmoderno non è l’unica a cui riferirsi per reagire ai limiti delle teorie della modernizzazione. Fra gli approcci generati dalla critica di queste teorie va inclusa la teoria delle modernità multiple di Shmuel N. Eisenstadt. Questa muove esplicitamente dalla critica delle teorie della modernizzazione e del loro presupposto comune: l’idea della modernizzazione come percorso unilineare. L’idea chiave è che società distinte elaborino i tratti della modernità in modi almeno parzialmente diversi, dipendenti dalle caratteristiche delle proprie civiltà originarie11. 11 S.N. EISENSTADT, Sviluppo, modernizzazione e dinamica delle civiltà, in S.N. EISENSTADT, Civiltà comparate. Le radici storiche della modernizzazione, Napoli 1990 (ed. orig. Development, Modernization and the Dynamics of Civilizations, in «Cultures et Developpement», 15, 1983, 4, pp. 217-252), e, dello stesso autore, Introduction: Historical Traditions, Modernization and Development, in S.N. EISENSTADT (ed), Patterns of Modernity, New York 1987, pp. 5-11. 88 Nel discorso di Eisenstadt, però, la modernità è plurale in almeno due sensi. Sono differenti e vanno ricordati distintamente. Il primo riguarda la modernità in Occidente. I presupposti di senso della civiltà occidentale nel suo complesso sono radicati a parere di Eisenstadt nella tradizione religiosa giudaico-cristiana, e dunque in una visione del mondo orientata al problema della salvezza; ma fra il XVI e il XVIII secolo tali presupposti hanno conosciuto un radicale rinnovamento, tale per cui il teatro della salvezza si è spostato dal mondo trascendente al mondo immanente. I luoghi di germinazione di questo rinnovamento sono stati l’Umanesimo e il protestantesimo, ma l’Illuminismo è stato l’alveo in cui si è cristallizzato. È qui che la rivoluzione culturale operata da Umanesimo e protestantesimo ha trovato il suo compimento, che è consistito nell’idea di progresso: l’ordine del mondo non è immutabile e certo, e si offre all’azione plasmatrice del genere umano; l’azione degli individui trova nella storia la sua direzione e il suo senso. La modernità occidentale emerge in questa prospettiva, secondo Eisenstadt, come un «programma». Pienamente secolarizzatosi, questo programma si articola nella direzione di un controllo sempre più razionale ed efficace delle forze della natura, di un’emancipazione crescente dell’individuo da ciò che ne vincoli l’autonomia, e dell’affermazione del principio di un uguale diritto di ciascuno a partecipare alla realizzazione di questo progetto. Tuttavia, e questo è il punto, tale programma contiene in sé spinte contraddittorie. In particolare, vi sono tensioni fra l’accento sulla libertà, l’autonomia e il diritto all’auto-realizzazione degli individui e le esigenze di controllo e coordinamento della società; e soprattutto fra la spinta alla mobilitazione generalizzata e le tendenze dei centri a chiudersi e a controllare le periferie. Queste tensioni sono l’anima delle trasformazioni cui la civiltà occidentale moderna è perpetuamente sottoposta, e hanno dato e danno ancora luogo a varie e ricorrenti «eterodossie», cioè interpretazioni del programma della modernità alternative a quelle via via consolidate. 89 La modernità dunque è plurale perché è animata da gruppi sociali che la interpretano in modi diversi e sono in competizione fra loro. Come scrive Eisenstadt, «praticamente fin dall’inizio della diffusione della modernità si svilupparono molteplici modernità»12. Il problema che accomuna tutte le varianti è quello di ordinare il mondo in assenza di riferimenti inquestionabili; la credenza che più spesso le anima è che gli uomini possano agire nella direzione di un metaforico «paradiso in terra». Per il resto, le varianti divergono. Non tutte sono coerenti con il capitalismo e nemmeno con la democrazia liberale: il comunismo evidentemente vi si oppone, ma non per questo esula dal quadro della modernità, per come Eisenstadt lo ha definito. Gran parte dei movimenti, delle avanguardie, dei partiti e dei regimi dell’Ottocento e del Novecento hanno avuto a che fare con interpretazioni radicalmente diverse dei modi in cui libertà individuale, benessere, giustizia e uguaglianza possono o debbono realizzarsi nel mondo. Habermas13 ha giustamente notato che la modernità è un «progetto incompiuto», ma lo è in una varietà di forme diverse. Non abbiamo mai conosciuto una sola modernità. Il secondo senso per cui la modernità è molteplice dipende dal fatto che parte della sua evoluzione ha avuto luogo fuori dall’Occidente. Sul piano mondiale, lo sviluppo degli ultimi secoli ha corrisposto a una diffusione della civiltà occidentale al di là dei suoi originari confini. I vettori di questa diffusione sono stati le armi, il mercato, le tecnologie, i mezzi e i flussi della comunicazione. La modernità occidentale si è posta così come una proposta, un’imposizione o una «sfida» (come Eisenstadt preferisce dire) per tutti. Ma questa sfida viene recepita in modi diversi. Diffondendosi nel globo, il modello occidentale non dà luogo a uno sviluppo 12 S.N. EISENSTADT, Multiple Modernities, in «Daedalus», 129, 2000, 1, pp. 1-29, qui p. 13. 13 J. HABERMAS, Il discorso filosofico della modernità, Roma - Bari 1997 (ed. orig. Der philosophische Diskurs der Moderne, Frankfurt a.M. 1985). 90 identico ovunque, ma a processi che elaborano selettivamente i tratti della modernità, accettandone alcuni e modificandone o rifiutandone altri14. Le analisi comparate a cui Eisenstadt si è dedicato mostrano che tale selezione dipende da molti fattori: contano il momento storico in cui la sfida si pone, lo stato delle relazioni internazionali, le caratteristiche economiche e politiche delle diverse società, delle loro istituzioni e delle loro élites; e in parte contano le caratteristiche proprie delle visioni del mondo di ogni differente civiltà, che rendono più o meno plausibili o desiderabili certi elementi del programma moderno agli occhi di coloro ai quali è proposto. Quella a cui assistiamo non è così una pura e semplice diffusione della modernità, bensì lo sviluppo di una varietà di modernità differenti. Modernità e occidentalizzazione non sono necessariamente sinonimi. 4. Virtù e problemi dell’idea delle modernità multiple L’idea delle modernità multiple ha fatto strada. Alberto Martinelli, un sociologo che pure sottolinea con forza il permanere di certe spinte alla convergenza su scala mondiale, ha riconosciuto di recente che «l’esistenza di modernità multiple è empiricamente verificabile e confuta una concezione della modernizzazione come un processo che, una volta avviato, procede inevitabilmente verso un unico tipo di mentalità e di orizzonte culturale … e verso assetti istituzionali … non influenzati dagli orientamenti culturali e politici dei diversi paesi»15. La modernità non è descrivibile secondo una narrazione unitaria. Come constata Dilip Parameshwar Gaonkar, 14 S.N. EISENSTADT, Multiple Modernities, e, dello stesso autore, Comparative Civilizations and Multiple Modernities, Leiden - Boston 2003. 15 A. MARTINELLI, La dialettica della convergenza e della divergenza nei processi di modernizzazione, in C. CORRADI - D. PACELLI (edd), Dalla modernità alle modernità multiple, pp. 63-82, qui p. 67. 91 «l’affermazione che la modernizzazione della società, una volta attivata, muove inesorabilmente verso l’instaurazione di un certo tipo di mentalità … e ad un certo tipo di ordine istituzionale …, a prescindere dalle caratteristiche culturali e politiche di ogni data area, è semplicemente non vera»16. Non si tratta però di abdicare a qualsiasi pretesa di una conoscenza coerente. In ciò l’idea delle modernità multiple si distanzia dall’atteggiamento dei post-modernisti. Per questi ultimi, sulla scia di Lyotard, le grandi narrazioni sono diventate inservibili. Ma che in ogni schema concettuale astratto si nasconda il pericolo della falsa generalizzazione è ovvio. Ciò non toglie che i grandi quadri cognitivi di cui ci serviamo abbiano la loro efficacia, che la gente ragioni al loro interno, che essi diano ordine, di fatto, alle nostre esperienze. Il punto non è farne a meno, ma tenerli costantemente sotto esame. L’idea delle modernità multiple corrisponde in questo senso ad un’apertura del discorso, a una flessibilità e disponibilità all’autocritica delle narrazioni proposte. Corrisponde innanzitutto alla dismissione di quell’atteggiamento, così caratteristico di chi si è formato con le teorie della modernizzazione nord-americane, per cui le manifestazioni della modernità ai confini dell’Occidente tendono ad essere intese come modernità «imperfette», incomplete o manchevoli. Più in profondità, e almeno nelle intenzioni, corrisponde al tentativo di praticare una sociologia globale scevra dell’eurocentrismo che, più o meno implicitamente, la ha fin qui dominata. Vi sono però diversi problemi. Il primo riguarda la nozione di civiltà (civilization), che per Eisenstadt ha un ruolo cruciale. Il concetto è stato recentemente raffinato e in parte riformulato17, ma rimane necessariamente piuttosto vago, ed è problematico il suo accoppiamento con aree geografiche determinate. È dubbio che la stessa Europa possa essere compresa riferendosi esclusivamente ad una civiltà «giudaico-cristiana», come fa Eisenstadt, e d’altro canto l’intensità dei contatti che si sono avuti nella storia fra le diverse parti del mondo rende 16 17 P. GAONKAR (ed), Alternative Modernities, Durham - London 2001, p. 16. J.P. ARNASON, Civilizations in Dispute: Historical Questions and Theoretical Traditions, Leiden - Boston 2003. 92 piuttosto arbitraria la definizione dei tratti e dei confini di ciascuna civilizzazione specifica. Al di là delle retoriche (si pensi a quella dello «scontro di civiltà») cui la nozione si può prestare, sembra vero che molte delle differenze e dei conflitti più marcati riguardo agli orientamenti di senso ed ai progetti istituzionali oggi si manifestano più all’interno di determinate «civiltà» che fra «civiltà» differenti18. Come hanno scritto Gunder Frank e Barry Gills, «la categoria di ‘civiltà’ … costituisce un’unità di analisi ambigua e terribilmente difficile da delimitare nel tempo e nello spazio»19. Questa dichiarazione compare in apertura di un volume ispirato ad una prospettiva che rende esplicito il secondo problema lasciato aperto da Eisenstadt. Il fatto è che un approccio comparativo, mentre invita indubbiamente ad un ampliamento delle nostre conoscenze, rischia di lasciare in ombra le interazioni che sussistono fra le realtà che compara. Queste ultime sono ciò che analisi come quelle di Frank e di Gills intendono evidenziare. Si tratta di analisi ispirate alla nozione di «sistema-mondo». Le formulazioni più note sono quelle di Immanuel Wallerstein20. Il punto è considerare le interazioni che sussistono fra le diverse aree del mondo: parte di queste aree sono integrate nel sistema mondiale in posizione subordinata, e ciò influisce sui loro percorsi. Decisiva in questa prospettiva è la distinzione fra centri e periferie. Il «centro» del sistema-mondo moderno corrisponde alle aree in cui si concentrano le attività che comportano il potere decisionale strategico, il controllo e l’amministrazione dell’economia, la ricerca finalizzata all’innovazione, e dove soprattutto si producono in regime oligopolistico i beni che 18 G. DELANTY, Civilizational Constellations and European Modernity Reconsidered, in G. DELANTY (ed), Europe and Asia beyond East and West, London - New York 2006, pp. 45-60. 19 G. FRANK - B.K. GILLS (edd), The World System. Five Hundred Years or Five Thousand?, London 1993, p. 18. 20 I. WALLERSTEIN, Il sistema mondiale dell’economia moderna, 3 voll., Bologna 1978-1995 (ed. orig. The Modern World-System, 3 voll., New York 1974-1989), e, dello stesso autore, World-Systems Analysis. An Introduction, Durham - London 2004 (trad. it. Comprendere il mondo. Introduzione all’analisi dei sistemi-mondo, Trieste 2006). 93 generano i profitti maggiori. La «periferia» per converso corrisponde a situazioni di sostanziale subordinazione, e dove si producono in regime concorrenziale beni che generano profitti minori. Fra le aree centrali e quelle periferiche esistono infine aree «semiperiferiche» caratterizzate da scambi svantaggiosi con le prime e vantaggiosi con le seconde. I sistemi naturalmente si evolvono nel tempo, così che all’interno del sistema-mondo le posizioni relative dei diversi Paesi possono a volte mutare. In certi momenti della storia mondiale, si verificano poi crisi che preludono a variazioni più ampie: è questo probabilmente il caso dei decenni che stiamo vivendo, in cui l’egemonia tende a spostarsi (o, secondo alcuni, a tornare) verso il polo orientale del continente eurasiatico. Si tratta di processi di lunga durata. Quello di Wallerstein e degli autori vicini è un modo particolare di intendere la modernità (dipende più da Marx e da Braudel che dai classici della sociologia). Non usa affatto l’espressione «modernità multiple». Ma le manifestazioni della modernità in questa prospettiva sono plurali necessariamente e ovviamente: nel senso che la modernità si compie diversamente nelle zone centrali, semi-periferiche e periferiche. È un insieme di processi unitario, ma che si dispiega producendo e riproducendo delle differenze, in gran parte corrispondenti propriamente a disuguaglianze. Rispetto all’approccio di Eisenstadt, quello che qui si guadagna è l’attenzione per le dinamiche di sovra e sotto-ordinazione fra aree. Tuttavia non credo che le due prospettive siano antitetiche, ma che, nonostante le molte differenze, possano essere considerate complementari: fra le diverse parti del mondo si sovrappongono differenze dovute al carattere selettivo delle «civiltà» pre-esistenti e differenze prodotte dalle loro collocazioni sistemiche. Chi si ispira ad approcci sistemici sottolinea però anche un ultimo aspetto problematico dell’approccio di Eisenstadt. Il fatto è che il tentativo di Eisenstadt di pluralizzare la modernità riafferma comunque il primato storico dell’Occidente, e più precisamente dell’Europa, nei principali processi di formazione 94 della modernità, le cui molteplici espressioni ruotano sempre, in fin dei conti, attorno all’elaborazione di un nucleo occidentale originario. Come ha notato Mauro Di Meglio, «… pur evitando di sostenere in modo esplicito l’idea della superiorità occidentale, questo orientamento ha conservato, sotto questo aspetto, un margine di ambiguità e ha orientato la propria riflessione in una direzione significativamente diversa da quella seguita da quelle prospettive di analisi che, nello studio della creazione, in tutto il mondo, delle diverse e concrete articolazioni istituzionali, hanno posto la propria enfasi sul ruolo cruciale svolto da una molteplicità di relazioni e di connessioni di lunga o lunghissima durata e su larga o larghissima scala»21. In effetti, mentre per chi utilizza un approccio comparativo la spiegazione della specificità del percorso europeo resta quasi inevitabilmente da cercare nella peculiarità delle sue caratteristiche istituzionali, economiche, demografiche o culturali, l’approccio sistemico sottolinea piuttosto quanto abbia contato la capacità storica dell’Europa occidentale di dirigere a proprio beneficio un insieme di relazioni globali22. Ciò non toglie che l’approccio di Eisenstadt permetta di interrogarsi su aspetti della modernità presenti in alcune aree del mondo (come in Cina) anche prima di avere rapporti con gli europei, o (come in Giappone) contemporaneamente a certi Paesi europei ma in buona misura indipendentemente. La modernità dei centri occidentali viene così a configurarsi molto più come il frutto di una costellazione di fattori contingenti e situati che come uno stadio universale dell’evoluzione umana. Può essere applicato allo studio delle differenze interne all’Europa contemporanea23 così come alla rivisitazione della storia cinese24; è coerente con i tentativi di sottrarre lo studio dei 21 M. DI MEGLIO, La parabola dell’eurocentrismo, Trieste 2008, pp. 141-142. 22 Si veda V. BEONIO BROCCHIERI, Presentazione dell’edizione italiana, in K. POMMERANZ, La grande divergenza, Bologna 2004. 23 Si veda ad esempio A. ICHIJO (ed), Europe, Nations and Modernity, Houndmills - New York 2011. 24 R. LUO, New Perspectives on Historical Development and the Course of Modernization in East Asia, in «Chinese Studies in History», 43, 2009, 1, pp. 17-27. 95 Paesi arabi alla dicotomia tradizione/modernità25; in generale, è capace di sostenere e connettere fra loro programmi di ricerca molteplici. Ma è vero che non si spinge a ipotizzare una storia delle origini della modernità occidentale diversa da quella dei classici della sociologia. Ipotesi alternative sono oggi proposte da diversi studiosi26. La loro valutazione richiede però competenze tali da esulare dai limiti e dalle possibilità del mio contributo. 5. Chi è al centro? Il valore delle proposte di Eisenstadt consiste a mio avviso soprattutto in ciò: costringe i sociologi a rendere conto delle proprie rappresentazioni della modernità sulla base di conoscenze non più limitate all’esperienza di pochi Paesi. Con Eisenstadt si è affermata e si è articolata l’esigenza di una sociologia all’altezza di un mondo globale. Come ha notato ancora Di Meglio, tanto in gran parte delle teorizzazioni sul «postmoderno» quanto nelle reazioni che queste hanno suscitato a sostegno dell’idea che siamo ancora nella «modernità», variamente aggettivata come «seconda», «tarda» o «riflessiva», «… persiste uno sguardo rivolto pressoché esclusivamente al mondo occidentale, referente unico per la comprensione dei processi di formazione e trasformazione della modernità, che relega alla marginalità, storicamente e concettualmente, il resto del mondo»27. 25 N. GOLE, Snapshots of Islamic Modernities, in «Daedalus, 129, 2000, 1, pp. 91-117; I. WEISMANN, L’islam e il concetto di modernità, in G. FILORAMO (ed), Le religioni e il mondo moderno, III: Islam, Torino 2009, pp. 5-28. 26 Cfr. fra gli altri J. GOODY, L’Oriente in Occidente, Bologna 1999 (ed. orig. The East in the West, Cambridge 1996); J. HOBSON, The Eastern Origins of Western Civilization, Cambridge 2004; per una discussione si veda V. BEONIO BROCCHIERI, Storie globali. Persone, merci, idee in movimento, Milano 2011. 27 Cfr. M. Di Meglio, «Teoria critica ed emancipazione: una prospettiva globale», relazione al seminario «Critica sociale ed emancipazioni. Dopo il post-moderno», RILES, Università di Perugia, 2012, p. 15. 96 La plausibilità di uno sguardo del genere oggi è insostenibile. Questo non significa che l’idea delle modernità multiple sia sempre la più adeguata. Pensando a diversi Paesi dell’Africa sub-sahariana, un antropologo come James Ferguson28 ad esempio sostiene che la questione qui non sia la differenza tra modernità alternative, ma l’esclusione. Nel suo discorso, Ferguson distingue fra la modernità come télos (cioè come obiettivo di un processo che si svolge nel tempo) e la modernità come status (come privilegio di chi è moderno rispetto a chi non lo è). Queste due accezioni di norma si sovrappongono, così che l’aspetto per cui la modernità appare un télos, un futuro che attende, serve a mitigare l’effetto deprimente che ha il riconoscere di non esserlo ancora: pensare di «non esserlo ancora» significa infatti che lo si diventerà. Questo modello narrativo ha rappresentato nel mondo una straordinaria legittimazione della modernità, capace di far sopportare ineguaglianze di status grazie alla promessa che queste svaniranno col tempo. Ma in diversi Paesi africani oggi è in declino. La modernità viene a declinarsi al passato: è una promessa mancata. Ma se la modernità non viene più percepita come qualcosa che si potrà raggiungere, a restare è solo, nuda e cruda, la questione della gerarchia di status. Essere inferiori non è più la condizione di «non essere ancora» moderni, è semplicemente un «non». Se ciò è vero, è chiaro che non è questione di modernità plurali. Ma è difficile essere netti in proposito. L’esempio dell’industria video-cinematografica in Nigeria contrasta almeno in parte la posizione di Ferguson. Il caso di «Nollywood», oggi la seconda industria cinematografica mondiale per numero di film prodotti, è ampiamente studiato internazionalmente: si tratta di una produzione di video destinati ad un mercato locale ma anche transnazionale, i cui contenuti e le cui forme sono caratterizzati da una miscela originale di elementi derivati dalla tradizione autoctona, dal cinema indiano, dalle soap sudame28 J. FERGUSON, Global Shadows. Africa in the Neoliberal Order, Durham London 2006. 97 ricane, dai telefilm americani29. Per Ferguson Paesi come la Nigeria andrebbero intesi nei termini di una esclusione dalla modernità più che in quelli della manifestazione di modernità multiple, con il loro corredo di adattamenti creativi di cui usualmente si parla, ma Nollywood è proprio espressione di un adattamento creativo: è un’industria moderna che usa tecnologie recentissime e si muove sul mercato nazionale e internazionale in modo innovativo, adattando creativamente il cinema a contesti sorti con la globalizzazione e con la diaspora delle popolazioni africane30. D’altro canto, il caso nigeriano permette di sottolineare un altro elemento utile al nostro discorso. Il mercato cinematografico in Nigeria, a fianco di Nollywood, è caratterizzato da un altro fenomeno: specie al nord, l’enorme diffusione di pellicole indiane. Ciò è interessante perché la popolarità del cinema indiano in Nigeria mette in luce «la circolazione di prodotti mediali all’interno e fra Paesi extra-occidentali, un aspetto dei flussi culturali transnazionali che è spesso ignorato dalle nostre teorie31. E non si tratta solo di flussi culturali: i flussi migratori nel mondo oggi sono più numerosi all’interno e fra Paesi extra-occidentali che non fra questi e i Paesi dell’Occidente. Anche i capitali non passano necessariamente per l’Occidente (si pensi agli investimenti cinesi in Africa). Quanto al cinema in Nigeria, per stare al caso citato, i film indiani sono stati introdotti da imprenditori libanesi. Si tratta di flussi, intrecci, contaminazioni e reti che non passano per i «centri» del nostro sistema. Prima che nelle scienze sociali, la consapevolezza di questi flussi si è affacciata nella narrativa. Antesignano ed esemplare è stato a riguardo il celebre romanzo di Amitav Ghosh, Lo schiavo 29 Fra le analisi in proposito si veda: J. HAYNES (ed), Nigerian Video Films, Athens 2000; P. BARROT (ed), Nollywood. Le phénomène vidéo au Nigeria, Paris 2005. 30 M. KRINGS - O. OKOME (edd), Global Nollywood. The Transnational Dimensions of an African Video Film Industry, Bloomington 2013. 31 B. LARKIN, Indian Films and Nigerian Lovers. Media and the Creation of Parallel Modernities, in «Africa», 67, 1997, 3, pp. 406-440. 98 del manoscritto (1992). Il protagonista è un giovane indiano che fa ricerca in Egitto: scorrendo le pagine, il lettore viene edotto tanto degli innumerevoli e intensissimi scambi che si sono dispiegati nella storia fra India e Africa nord-orientale, quanto di odierni flussi migratori compositi, come quelli fra l’Egitto e i Paesi del Golfo. Questi scambi e questi flussi sono esistiti prima dell’incontro con gli europei ed esistono ancora. Riconoscerli produce l’effetto di una de-centralizzazione della nostra esperienza, quasi un attacco al nostro narcisismo: non tutto passa attraverso di noi. 6. I «postcolonial studies» e l’autocritica della modernità Ma su di noi dobbiamo pensare. Come ha scritto Dipesh Chakrabarty32, le categorie con cui la tradizione accademica occidentale ha interpretato la modernità oggi sono allo stesso tempo «indispensabili e inadeguate» per comprendere ciò a cui il dispiegamento della modernità ha dato luogo al di fuori di quelli che riteniamo i suoi originari confini. Ma forse sono ugualmente indispensabili e inadeguate per comprendere la nostra stessa storia. Nella prospettiva che mi sta più a cuore, in effetti, l’idea delle modernità multiple è importante, prima che per descrivere gli altri, per la auto-comprensione di noi stessi, europei. Qui mi allontano da Eisenstadt. A questa rinnovata comprensione spingono infatti, nel panorama contemporaneo, soprattutto i postcolonial studies. Fra questi e la prospettiva di Eisenstadt non vi è alcun collegamento diretto (se mai sono frequenti le critiche, specie relative al terzo dei problemi indicati più sopra, quello riguardante la genesi della modernità occidentale)33. Si tratta tuttavia di un approccio che va menzionato. Anche qui la modernità assume forme molteplici, ma in un senso diverso. 32 D. CHAKRABARTY, Provincializzare l’Europa, Roma 2004 (ed. orig. Provincializing Europe, Princeton 2000). 33 Si veda ad esempio G.K. BHAMBRA, Rethinking Modernity. Postcolonialism and the Sociological Imagination, Basingstoke 2007. 99 I postcolonial studies sono una variegata galassia. Lo stesso termine postcolonial, attribuito a un insieme assai eterogeneo di fenomeni ed aree, è oggetto di discussione e non va esente da critiche. Non posso discuterne qui34. Ma chiamare il mondo attuale «postcoloniale» è una scelta che significa questo: sottolineare quanto molti dei fenomeni del mondo attuale dipendano dai lasciti delle nostre aggressioni, e recuperare autocriticamente ciò che del passato abbiamo volentieri rimosso. È una scelta che non lascia intatta la nostra rappresentazione della modernità. Come scrive Iain Chambers: «La modernità ha sempre litigato con se stessa, e la sua superficiale affermazione del ‘progresso’ è sempre stata accompagnata da una serie di eventi che parlano d’altro e hanno altra origine … C’è sempre qualcosa in più, che sfugge alla cornice che vorremmo imporre»35. Per argomentarlo ricorda un quadro di Turner, il cui centro è occupato da una nave che sta per affondare, nel mare in tempesta; il modo in cui l’acqua è dipinta, l’inclinazione della nave, il pericolo: pare di assistere a una rappresentazione del «sublime spaventoso», e in quest’ottica leggeva il dipinto il più celebre dei critici d’arte britannici dell’Ottocento, John Ruskin. Ma in un angolo del quadro, il braccio di un annegato 34 Nelle università anglosassoni, l’espressione post-colonial studies ha avuto la prima diffusione in ambito letterario, come sviluppo di quelli che precedentemente erano detti Commonwealth studies, gli studi sulle letterature di ex-colonie della Gran Bretagna. Diffondendosi in riferimento ad altre letterature e nell’ambito delle scienze sociali, il termine ha perso il trattino ed ha dato luogo ad accesi dibattiti: per una buona introduzione cfr. A. LOOMBA, Colonialismo/postcolonialismo, Roma 2000 (ed. orig. Colonialism/postcolonialism, London 1998); per un esempio delle obiezioni a cui può esporsi si veda J.-F. BAYART, Les études postcoloniales, une invention politique de la tradition?, in «Societés politiques comparées», 14, 2009, pp. 1-46. Qui lo intendo come il nome di una galassia di studi e di scritture la cui principale caratteristica sta nell’intendere il passato coloniale come un’eredità che contribuisce in modo sostanziale a dar forma al presente. Il prefisso «post-» non intende che il colonialismo sia estinto: serve a richiamare piuttosto ciò che le teorie della modernità hanno spesso trascurato, e a denunciarne gli effetti. 35 I. CHAMBERS, Sulla soglia del mondo, Roma 2003, pp. 8-9 (ed. orig. Culture After Humanism, London 2001). 100 emerge da un’onda: ed è il braccio di un nero. La nave è una nave negriera. Nei commenti di Ruskin, il fatto che la nave trasportasse schiavi e fossero questi a essere gettati fuori bordo era relegato in una nota a piè pagina. Ma, osserva Chambers, l’omissione per cui la schiavitù esce quasi di soppiatto dal quadro è emblematica: «ricollocare la schiavitù nella cornice, riprendere quei corpi neri abbandonati e riportarli nel quadro … significa suggerire che esistano altre storie, altre modernità da raccontare»36. Raccontare altre modernità significa moltiplicarne le immagini. Ritorna l’idea della molteplicità, ma in un’accezione che ad Eisenstadt era estranea. Si tratta di prendere atto di processi che hanno accompagnato la modernizzazione costituendone un’ombra. Il colonialismo non è mai stato soltanto un insieme di processi di espansione territoriale e di pratiche di dominio militari e amministrative. È stato sostenuto da ideologie che lo hanno reso plausibile e lo hanno legittimato. Come ha mostrato in modo esemplare Edward Said37, si tratta di rappresentazioni della «alterità» che hanno contribuito in modo sostanziale a dar forma anche alla auto-rappresentazione dell’Occidente e ne hanno permeato i discorsi, ivi compresi quelli degli scienziati sociali. Prendere atto del suo ruolo nella storia della modernità significa dunque riesaminare le nostre stesse autorappresentazioni, quelle che allora si formarono e che ancora ci informano. Dal punto di vista che emerge considerando la storia del colonialismo, queste rappresentazioni appaiono inadeguate nella misura in cui sono state elaborate minimizzando l’impatto di alcune delle nostre pratiche, rimuovendo i processi di razzizzazione, escludendo o distorcendo il ruolo svolto da attori non occidentali. Il pensiero postcoloniale non deriva dalla prospettiva delle modernità multiple. Ha piuttosto diversi punti di contatto con 36 Ibidem, pp. 44-45. 37 E. SAID, Orientalismo, Milano 1994 (ed. orig. Orientalism, New York 1978). 101 il pensiero postmoderno. Ma non vi si identifica. La sovrapposizione è presente in ambito accademico nord-americano38. Lo è meno altrove, e a volte è contestata esplicitamente. Come scrive Kwami Anthony Appiah, il pensiero postcoloniale «non è un alleato del postmodernismo occidentale, ma un antagonista, dal quale quest’ultimo ha qualcosa da imparare»39. La questione è difficilmente risolvibile perché sia gli studi postcoloniali che quelli postmoderni sono tutto fuorché univoci. In generale, possiamo notare che gli autori postcoloniali sono affini a quelli postmoderni nel diffidare di verità ultime, nell’ibridazione dei generi, a volte nell’ironia. Ma sono diversi da quelli postmoderni riguardo all’atteggiamento che assumono verso la memoria: non coltivano l’amnesia, bensì la combattono. Ricordano le promesse di emancipazione mancate. I loro scritti hanno una valenza politica esplicita. Il loro tema non è il perdersi del soggetto in un mondo di segni, caro ai postmodern, bensì il dispiegarsi delle soggettività in un mondo di relazioni molteplici40. 7. Il futuro della modernità Quello di «modernità» è un concetto paradossale. L’aggettivo «moderno» significava in origine «nuovo», «recente»: trasformarlo in un sostantivo produce il singolare effetto di immobilizzare ciò che per definizione non può che essere fluido, cangiante, poiché nel corso del tempo nulla può restare a lungo ciò che è «più recente». Dal paradosso si esce riconoscendo che il senso del termine non sta nell’affermazione del carattere particolarmente recente dell’epoca o delle società che si dichiarano moderne, bensì nell’individuare la loro specificità nella propensione ad intendere il nuovo come un valore, a concepire se stesse come continuamente cangianti. 38 Si veda ad esempio H.K. BHABHA - G. SPIVAK - F. BARKER (edd), Europe and its Others, Cochester 1984. 39 K.A. APPIAH, In my Father’s House, Oxford 1992, p. 155. 40 S. ALBERTAZZI, Lo sguardo dell’altro. Le letterature postcoloniali, Roma 2000. 102 I contenuti dei cambiamenti possono essere diversi; a restare sono la disponibilità e la propensione ad accettarli. Ma se il nuovo è atteso perpetuamente, ciò significa che ogni istante è un momento di crisi. È ciò che autori come Georg Simmel o Walter Benjamin, nel momento in cui in Europa al concetto di modernità si prestò la maggiore attenzione, avvertivano e sottolineavano, non senza evidenziarne la tragicità. Tale crisi riguarda tanto gli assetti materiali dell’esistenza quanto le forme di pensiero con le quali l’esistenza stessa è compresa. Per quanto individui e gruppi possano di volta in volta desiderare di fermare questo movimento, la caratteristica essenziale del pensiero moderno è quella di un pensiero che si mette continuamente in questione. In questo senso, correnti come il postmodernismo o gli stessi postcolonial studies non fuoriescono dalla modernità. Più di quanto non facciano questi, l’approccio delle «modernità multiple» costringe tuttavia a riflettere ancora su cosa debba intendersi con questa parola. Dobbiamo dunque tornarvi. Perché se si assume che la modernità abbia molte forme, si tratta anche di indicare che cosa queste abbiano in comune. Senza un concetto di modernità sufficientemente astratto da valere come «nucleo» di tutte queste forme, non si potrebbe parlare delle sue variazioni. Eisenstadt vedeva consistere questo nucleo nella fine dell’indiscussa legittimazione degli ordinamenti sociali sulla base della credenza nella loro determinazione divina. In altre parole, in una concezione del futuro «caratterizzata da possibilità realizzabili attraverso l’autonomo agire dell’uomo»41. Come scrive: «I presupposti su cui si basano l’ordine sociale, quello ontologico e quello politico, e la loro legittimazione, non sono più dati per scontati. Attorno ai presupposti di base delle strutture dell’autorità sociale e politica si sviluppa un’intensa riflessività, una riflessività condivisa anche da chi critica radicalmente la stessa modernità»42. 41 S.N. EISENSTADT, Multiple Modernities, p. 3. 42 Ibidem. 103 Credo che queste espressioni siano condivisibili. All’idea della modernità come mutamento perpetuo aggiungono la nozione di un attivo impegno nei confronti del futuro, basata sul presupposto della capacità umana di concepire e di realizzare programmi di trasformazione del mondo orientati a determinati valori. Se l’ordine del cosmo non è immutabile e certo, sta a noi formularlo. Ma nella situazione contemporanea sembra che l’idea che gli uomini siano capaci di guidare la storia sia in forse. Che la volontà umana generi conseguenze inattese è la norma. Per quanto riguarda l’intenzione di esercitare un controllo tecnico sulla natura, la storia pare oggi rovesciarsi sul genere umano come la materia si rovescia sull’apprendista stregone43. Gli sviluppi tecnologici conducono a rischi imprevisti44. La dipendenza da apparati socio-tecnici tanto sofisticati quanto pervasivi genera fragilità45. L’idea di progresso, in cui concretamente l’impegno nei confronti del futuro si è articolata, entra conseguentemente in una fase di crisi, lasciando posto a un regime di incertezza crescente. Poiché l’associazione della modernità col progresso è stata la principale e più diffusa fonte di legittimazione dei sistemi sociali cui la modernità corrisponde, questa crisi costituisce probabilmente l’elemento più solido a favore di chi pensa che dalla modernità ci stiamo ormai allontanando. Tuttavia, non è scontato che l’idea di progresso sia da abbandonare. È possibile modificarla. Come scrive Pierre-André Taguieff, «… alla fittizia necessità del Progresso si potrebbe sostituire la … volontà più modesta di realizzare questo o 43 M. HORKHEIMER - T.W. ADORNO, Dialettica dell’illuminismo, Torino 1974 (ed. orig. Dialektik der Aufklärung, New York 1944). 44 U. BECK, La società del rischio, Roma 2000 (ed. orig. Risikogesellschaft, Frankfurt a.M. 1986). 45 A. GIDDENS, Le conseguenze della modernità, Bologna 1994 (ed. orig. The Consequences of Modernity, Cambridge 1990); A. GRAS, Nella rete tecnologica. La società dei macrosistemi, Torino 1997 (ed. orig. Grandeur et dépendance: Sociologies des macro-systèmes techniques, Paris 1993). 104 quel progresso in un dato ambito»46. Quella che si potrebbe salvare, in altri termini, è una nozione meno astratta di quella che fin qui è stata egemone, una nozione temperata dalla consapevolezza dei limiti della ragione e capace di includere prudenza e responsabilità. Il nuovo, in se stesso, non è garanzia di miglioramento. Ci sono cose che è opportuno serbare. Come scrive ancora Taguieff: «Dopo l’epoca della trasformazione frenetica, irresponsabile, i cui effetti distruttivi sono ormai attestati, potrebbe aprirsi l’epoca della preservazione intelligente, fondata sulla volontà consensuale di rispettare il passato e di gestire la Terra»47. Certo, perdere la fiducia nel fatto che il corso della storia volga spontaneamente verso il meglio, o perdere addirittura l’idea che la storia abbia un corso unitario e accessibile alla comprensione, è disorientante. Significa rinunciare all’esonero dalle nostre responsabilità che era possibile proiettando sul progresso la legittimazione di ciò che facciamo e dei valori in base a cui lo facciamo. Ma si può convivere con questa rinuncia. Penso a Weber: egli riconosceva la forza dell’idea di progresso nella cultura moderna, ma non ad essa appoggiava le proprie convinzioni etiche, il proprio agire professionale o i propri sforzi nell’arena politica; non giustificava la plausibilità, la desiderabilità o la necessità delle sue aspirazioni intendendo che esse avrebbero rappresentato l’articolazione di un télos verso cui la storia comunque cammina. Per Weber la storia è il teatro di una guerra fra dei: fuori dalla metafora, è un conflitto ricorrente fra orientamenti di senso e di valore diversi; si tratta di difendere gli orientamenti che ci appaiono più validi, senza poterli fondare altrove che nel nostro giudizio. Possiamo chiamare ancora moderno un atteggiamento del genere? La questione dei nomi, quando si arriva di fronte ai problemi concreti, può apparire poco importante. Ma, per quel che può valere, a me pare che sia ancora e intimamente un 46 P.-A. TAGUIEFF, Le sens du progrès. Une approche historique et philosophique, Paris 2004, p. 323. 47 Ibidem. 105 modo di pensare moderno. Perché rimanda all’idea che nella storia siamo in grado di agire. E la lezione di Eisenstadt è illuminante in proposito, poiché, se riconosciamo che la modernità è stata ed è ancora un progetto multiforme, ci troviamo a riconoscere anche che i suoi sviluppi concreti dipendono dagli attori coinvolti. In un mondo le cui trasformazioni sono oggi per più di un verso ad un bivio – fra depauperamento aggressivo delle risorse della natura e modelli di sviluppo diversi, fra tendenze autoritarie ed esigenze di democrazia, fra disuguaglianza e equità, tra violenza e rispetto – si tratta di assumersi la responsabilità di agire per il futuro che riteniamo più degno. Come ha scritto Alberto Melucci: «La società non può più essere concepita come un oggetto, come una cosa che è lì perché la natura l’ha fatta esistere o perché … le leggi della storia l’hanno così determinata … È un campo alla cui definizione contribuiamo»48. La definizione di questo campo, vale a dire la definizione di cosa la società sia e debba essere, si realizza all’interno di processi comunicativi. La pervasività e la rilevanza di questi ultimi è forse il tratto più caratteristico del mondo contemporaneo. Non si tratta soltanto dell’espansione dei mezzi per comunicare, bensì della crescente importanza dell’insieme delle pratiche comunicative nella costruzione degli orizzonti di senso entro cui si collocano le azioni di ognuno. In fondo è sull’esperienza di questa importanza che gran parte della sensibilità postmoderna si basa. Ma si può serbare questa sensibilità senza per questo dichiarare l’avvento di una postmodernità. Ed è importante serbarla, perché parte di questi orizzonti di senso ha a che fare con la definizione dei futuri possibili. Ogni definizione di ciò che è possibile – e simmetricamente di ciò che è impossibile – ha qualcosa di una profezia che si auto-adempie: se consideriamo possibile un certo scenario, ci attrezziamo di conseguenza per realizzarlo (o per contrastarlo, nel caso sia indesiderabile); se lo consideriamo impossibile, certi corsi d’azione si scartano. In tutti i casi, spingiamo la realtà in una direzione che dipende dalle nostre definizioni. 48 A. MELUCCI, Passaggio d’epoca, Milano 1994, p. 100. 106 Ciò che è possibile oppure impossibile è raramente un dato incontrovertibile: è un’interpretazione. Se con Eisenstadt riteniamo che molte modernità siano possibili, sta a noi anche la responsabilità di disegnare le modernità del futuro. È vero che gran parte dei programmi che la modernità ha inaugurato ci appaiono oggi come un futuro alle spalle. Possono essere rimasti incompiuti, aver dato luogo ad esiti controintenzionali. Ma le ambizioni di chi ci ha preceduto ci riguardano ancora. La loro memoria è istruttiva: consente di correggere gli errori che in quei programmi possiamo oggi riconoscere, di valutarne meglio le contraddizioni e gli ostacoli a cui vanno incontro; ma rammenta anche l’impegno nei confronti della storia che, in tanti modi diversi, hanno tutti incarnato. 107