LO STILISMO NELLA MODA FEMMINILE

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LO STILISMO NELLA MODA FEMMINILE
LA MODA ITALIANA, Dall’antimoda allo Stilismo, Electa
LO STILISMO NELLA MODA FEMMINILE
Enrica Morini, Nicoletta Bocca
La trasformazione di un modello produttivo: gli anni Sessanta.
Un fatto è emblematico nel caso Max Mara: la semplice soluzione di una crisi d'identità sta
nell'utilizzazione di uno stilista, ossia di un personaggio che attua liti processo ideativo capace di
trasformare un prodotto o, più precisamente, capace di trasformare il rapporto tra produzione e
mercato. Ma la soluzione e solo apparentemente semplice. Nei fatti, nel corso degli anni Sessanta
s'inventa qualcosa che non esisteva e si trasforma integralmente il settore produttivo
dell'abbigliamento.
Fino a quel momento la produzione di moda e di abbigliamento in Italia aveva sostanzialmente
due canali: l'Alta Moda e l'industria di confezione, che facevano riferimento a una tradizionale e
assodata divisione sociale e di mercati. L’Alta Moda, portatrice di saperi da altissimo artigianato
messi al servizio di un oggetto che tendeva a sconfinare nell’unicum artistico, si rivolgeva ad una
ristretta élite destinata, per ruolo sociale (1) - a fare la moda e allargava la propria
influenza a tutti gli strati sociali attraverso una rete artigianale fatta di sartorie - e di negozi di
tessuti e accessori per la confezione - che attingeva alla fonte principale attraverso i modelli e
le riviste specializzate.
La confezione, al contrario, non si poneva l'obiettivo di fare moda: la sua logica era quella
prettamente industriale della produzione di beni e quindi della fabbrica e degli standard di
produzione. Il prodotto era quindi tendenzialmente immutabile, o quanto meno soggetto, per le sue
trasformazioni, ai criteri della razionalizzazione o della ottimizzazione del processo produttivo.
Questo tipo di abbigliamento si rivolgeva quindi a un tipo di mercato medio-basso, insensibile al
fattore moda, quasi che fosse ancora impegnato a soddisfare quei bisogni fisiologici che Ma slow (2)
metteva al primo stadio delle necessità umane.
Esisteva poi un terzo canale, più vicino al primo che al secondo per esclusività e prezzi, che
era la boutique di lusso. Un canale particolare che traeva origine dalla distribuzione dell'accessorio
raffinato, qualificante e di firma, destinato ad accompagnare l'abito di Alta Moda e tendenzialmente
rivolto a un mercato internazionale (3). Anche qui quello che conta e l'alto artigianale, ma con una
differenza rispetto a quello di Alta Moda: l'oggetto non è un unicum da costruire sulla cliente, ma
può essere riprodotto e quindi può avere un mercato.
Foto 1: Faye Dunaway con un completo di Krizia, in Life, 12/1/68
E’ sulla base di questa logica che nascono i primi abiti da distribuire nella stessa rete e da
accompagnare ad accessori di tale successo da essere diventati essi stessi qualificanti per una
élite di moda. Roberta di Camerino percorre questa strada: lo stampato trompe l'oeil che aveva caratterizzato prima le sue borse e poi i foulards e gli ombrelli, diventa abito. Con sistemi
del tutto artigianali, i teli di jersey vengono stampati uno a uno per consentire accuratissime
policromie e utilizzati poi per costruire abiti estremamente semplici e lineari, privi di connotazione
di moda nel taglio (4). La rete di distribuzione è fatta di boutiques monogriffe o di alto
livello che vendono tutte le linee di prodotti Roberta di Camerino, così che l'abito trova un suo
spazio come complemento e completamento di altri oggetti moda già assurti al ruolo di status
symbol.
Tutto questo funziona fino agli anni Sessanta. Ma in questo decennio, dapprima in modo
impercettibile e poi addirittura tumultuoso, avviene una trasformazione che coinvolge l'intero
ambito sociale. Modelli di vita che derivano dalla divisione in classi del sistema capitalistico, o
addirittura affondano le loro radici nel mondo contadino, vengono messi in crisi e fatti saltare uno
dopo l'altro. Se la società industriale aveva avuto l'oggetto, il prodotto, come elemento qualificante
da desiderare e da riempire di significati, nel nuovo modello, che si basa sui servizi e non sulle cose,
l'oggetto in quanto tale tende a dequalificarsi in favore del bisogno psicologico e dell'identificazione
dell'individuo, identificazione di cui l'oggetto può diventare strumento, feticcio o maschera
mutevole.
Un esempio per tutti, citato da Toffler: nel 1959 la Mattel Inc. lanciò sul mercato un nuovo
tipo di bambola: Barbie. Nel giro di dieci anni ne erano stati venduti 12 milioni di pezzi in tutto il
mondo, un dato che da solo da la misura di cosa significava il concetto di società di massa. Ma
alla fine degli anni Sessanta la Mattel annuncia l'uscita di una nuova Barbie migliorata; la novità
però sta nella promozione che l'azienda inventa al momento del lancio: "per la prima volta, a ogni
bambina la quale desideri acquistare una nuova Barbie, sarà praticato uno sconto contro restituzione
di quella vecchia5.
A prima vista l'esempio potrebbe essere letto come la soluzione di un banale problema di aumento
della produzione, ma, a ben vedere, contiene valenze del tutto rivoluzionarie: innanzitutto
l'introduzione di una novità destinata a incontrarsi con un desiderio, un'esigenza che non appartiene
alla sfera della necessità, ma a quella della fantasia individuale. Ci ai rivolge a una
bambina che ha già una bambola e per di più dello stesso tipo e le si offre un miglioramento:
quell'aspetto di mimesi del reale che può consentire una facilitazione nel gioco o un processo di
identificazione più immediato. In secondo luogo si da come acquisita una nuova filosofia, quella
del superamento e della cancellazione del passato e del ricordo: il desiderio è nel presente e
viene soddisfatto nel presente; ieri è il passato da buttare, domani sarà un presente con nuovi
bisogni e nuovi desideri da soddisfare. E il modo per identificarli in tempo reale è quello di trasformarli in immagini, non importa se mitiche o feticistiche. Ma tutto questo è possibile anche
perché il mondo occidentale degli anni Sessanta e ormai uscito dal problema di corrispondere alle
necessità primarie, in fondo sempre uguali a se stesse, e può percorrere la strada dello scatenamento
psicologico e della "fantasia al potere".
Un modello di questo genere aveva un referente privilegiato a cui proporsi e da usare come profeta
inconscio e inconsapevole: i giovani. Una fascia sociale facilmente identificabile, sempre
dimenticata dalla società industriale, molto più colta di quanto non fosse mai stata e con una
cultura di tipo scolastico - e quindi decisamente più omogenea di tutti i saperi derivati dall'esperienza - per definizione disponibile al nuovo anche perchè meno carica di passato e di ricordi.
Il tempo della moda
II mondo della moda si trova all'improvviso di fronte a una cultura giovanile che si contrappone
al mondo adulto soprattutto attraverso scelte d'immagine e risponde creando una moda boutique,
sostanzialmente inglese e francese, rivolta solo ai giovani. Un primo mercato alternativo a
quelli tradizionali era nato, ma non aveva ancora strutture". E soprattutto, mentre l'industria di
confezione cercava un'improbabile salvezza nel rapporto con l'Alta Moda o nella finzione di una
destinazione privilegiata per prodotti privi di caratterizzazioni, l'autoimposizione del sociale contro
le regole ottocentesche del sistema industriale si fece ancora più forte e più insanabile. Alla
riconoscibilità della lotta di classe si sostituì la centralità dei movimenti creati e condotti da
soggetti diversi che si andavano imponendo in quanto tali e che si univano per scopi inusitati: i
giovani, le donne, gli hippies, la pace nel Vietnam, l'India, la droga ecc7. La tradizionale
riconoscibilità dell'abito veniva sconvolta: non c'erano più l'elite, la sua serie B e la necessità di
coprirsi a cui si erano aggiunti i giovani. Quest’aggiunta aveva significato lo scardinamento di tutti i
modelli.
Ma il sistema della moda non è in grado di fornire ai nuovi soggetti sociali o ai gruppi
d'identificazione oggetti in cui riconoscersi, non è in grado di controllare i modelli di
trasformazione e quindi di rispondere per tempo a bisogni e desideri. Soprattutto se si tiene conto
del fatto che questo tempo sì è enormemente ridotto: improvvisamente si e passati da un tempo che
usava come categoria il valore d'uso dell'oggetto (tempo e uso diversi per l'Alta Moda e la
confezione) ad un tempo presente fatto di contenuti psicologici, culturali ed estetici e cioè
d'immagine (8).
Foto 2: Gianni Berengo Gardin, La boutique Pirovano in via Montenapoleone a Milano (1970), in
L’occhio di Milano. 48 fotografi 1945/1977, catalogo della mostra, Milano s.d.
A questa necessità non sanno rispondere ne la produzione - impastoiata in fabbriche troppo
grandi per consentire rapide trasformazioni – ne l'Alta Moda, inevitabilmente legata a modelli
sociali tradizionali. Risponde invece il mercato: nascono con ritmo frenetico negozi che, oltre alla
moda pronta francese e inglese, vendono abiti usati e folklore importato dai paesi d'origine: in
presenza di un'incredibile domanda non prevista dai produttori si risponde con un'offerta che
inevitabilmente asseconda e amplifica la logica del travestimento già scelta dai giovani (9).
Ed è all'interno di tutto questo che avviene il salto di qualità del sistema produttivo italiano: a
fronte dell'industria di confezione che fallisce o che procede faticosamente in attesa di àncore di
salvezza o dell'Alta Moda che vede ridurre drasticamente il proprio peso, comincia a muoversi
il nuovo. Alcune boutiques cominciano a far produrre capi appositamente; segnati da vendere
con il loro marchio, contemporaneamente nascono o si trasformano piccole aziende che si
specializzano nella produzione di pret-à-porter.
Lo stilista
E a questo punto compare, la figura dello stilista. La sua funzione è immediatamente definita,
non si confonde ne con quella del sarto di Alta Moda, ne con quella del dirigente dell'industria.
Non costruisce l'abito su una cliente, ma deve decidere chi saranno i suoi clienti, ossia il mercato
cui si riferisce; non controlla il lavoro azienda le, ma deve conoscere quali sono i vincoli e le
potenzialità produttive, non foss'altro che per proporne il superamento; deve usare materiali e
accessori di produzione, ma contemporaneamente deve poter intervenire con richieste specifiche
per non ricadere nel sempre uguale della confezione.
Foto 3: La moda boutique disegnata da Silvano Malta per Marina Lante della Rovere, in Il genio
antipatico, Mondadori Milano 1984
Quello che s'introduce con questa figura è un nuovo punto di vista che consente di
passare a una produzione programmata, in cui alla ideazione corrispondano sia il livello della
fabbricazione che quello della distribuzione.
Gli inizi non sono facili anche perché, come sempre accade, sono compresenti tutti i modelli
produttivi - e con un peso che da la misura del questa nuova figura di professionista creatore
non è facilmente reperibile.
Se infatti la figura più spesso accostata a quella dello stilista, l'industriai designer, nonostante
le utopie degli anni Venti e Trenta, era stato chiamato a modificare la forma degli oggetti per
adeguarli a nuovi usi e qualificare cosi il prodotto industriale, lo stilista deve svolgere un compito
del tutto diverso: deve elaborare una tecnologia intellettuale tale da consentire di tenere insieme
un sistema che prevede i momenti dell'ideazione, della decisione, della produzione e del consumo
(10)
.
Una sorta di anello che non deve spezzarsi. Identificato l'obiettivo, però, la soluzione non poteva
essere inficiata da un problema di risorse. E la risposta fu la Francia. Già dagli inizi degli anni
Sessanta c'erano in Italia stilisti come Jean Baptiste Caumont, che aveva recepito la grande
disponibilità al cambiamento insita nel mondo produttivo italiano e lavorava ormai con una griffe
propria prodotta da un'azienda veneta la A.M.l.C.A., che aveva accolto questo modello per
estendere il proprio mercato(11). Nel corso del decennio, pero, l'incapacità del sistema produttivo
francese di accogliere un rafforzamento della boutique, che rischiava di minare il potere dell'Alta
Moda, favorisce l'inserimento di stilisti francesi, come Karl Lagerfeld, Emanuele Khan,
Christianem Baiuy Graziella Fontana ecc., nel sistema italiano. L'unico davvero italiano è Walter
Albini, ma anche lui con un tirocinio parigino alle spalle. Comincia dunque a configurarsi un
sistema in cui esiste un progettista ideatore, che propone una linea di modelli a un'azienda a cui è
legato da un contratto professionale; un insieme di produttori, che vengono coinvolti nella
fabbricazione dei capi per le loro diverse componenti (e che vanno dai tessuti agli accessori); una
distribuzione, che all'inizio adotta il metodo delle vendite e dei contatti individualizzati supportato
da manifestazioni come il SAMIA o le sfilate di Palazzo Pitti e passerà solo più tardi a
un'articolazione più specifica ed efficace; un mercato, le cui valenze diventano sempre più centrali
per il processo d'ideazione, in quanto si configura ormai come il vero obiettivo da raggiungere con
soluzioni diversificate fra cui consentire la scelta. La moda italiana nasce quindi dall’unione degli
stilisti con produttori del tutto particolari – come Mariuccia Mandelli (Krizia), Papini, Missoni,
Maramotti (Max Mara), Zanini (Lux) o come Billy Ballo e Cose, ma anche come Etro o Falconetto
o tutti quelli che producono tessuti esclusivi disegnati dagli stilisti per caratterizzare i loro modelli.
Il problema nuovo è pero quello di raggiungere il mercato in modo programmato, soprattutto
tenendo conto del fatto che non si cerca un fruitore indifferenziato, ma quello di cui sono stati
identificati e selezionati i bisogni e le caratteristiche psicologiche e culturali nel momento della
progettazione. Problema superato in partenza nei casi in cui il committente e una boutique con
un suo pubblico definito, ma del tutto aperto negli altri casi.
Foto 4: Jean Baptiste Caumont, tailleur della prima collezione Caumont, 1966 (foto Corrado di
Villermosa); Laura Biagiotti, modello della collezione primavera-estate 1973 disegnato da Angelo
Tarlazzi, in Harper’s Bazaar Italia, gennaio-febbraio 1973
In quegli anni cominciavano a nascere in Italia manifestazioni diverse destinate alla presentazione del pret-a-porter (che inglobava sia l'Alta Moda pronta che la confezione) ma la più
importante continuava ad essere quella che si svolgeva a Palazzo Pitti due volte l'anno. Ma Firenze
oramai era davvero una diligenza. A parte il formalismo che accompagnava la manifestazione(12),
assolutamente antidiluviano se rapportato ai modelli di vita che la società stava innalzando al
valore di moda, il problema era di ordine organizzativo e culturale. Ogni "firma" poteva sfilare
con 16 modelli e, vista la monotonia della produzione italiana, invece di una campionatura delle
collezioni (che avrebbe ottenuto il sicuro risultato di non differenziare in alcun modo i produttori) si
preferiva organizzare una piccola collezione ad hoc, il più possibile caratterizzata, che però, spesso,
non aveva legami con ciò che effettivamente veniva prodotto.
Un'occasione, quindi, non particolarmente utile a presentare il nuovo,ma al contrario tesa a
confermare i nomi noti e consolidati che da soli costituivano una garanzia rispetto a ciò che non si
vedeva.
Una manifestazione vecchia anche per un altro motivo: nel momento m cui si affacciavano alla
ribalta i nuovi soggetti sociali, con nuove esigenze estetiche e nuove necessità psicologiche,
comprensivi di una miriade di nuovi mercati diversificati e frazionati, Pitti offriva un'immagine
univoca della moda.
Foto 5: Jean Baptiste Caumont, due completi della collezione autunno-inverno 1973-74; Walter
Albini, abito da sera di Misterfox, collezione autunno-inverno 1973-74, in Harper’s Bazar Italia,
dicembre 1973 (foto Bob Krieger)
Comunque non poteva essere che qui, dentro o intorno a questa manifestazione, che comincia
ad affermarsi il nuovo personaggio e soprattutto che si comincia a capire la sua funzione. Albini
nel 1968 è a Pitti con cinque collezioni per cinque aziende e, pur con un'impronta inequivocabile, è
evidente che alla base ci sono cinque diverse idee guida13. Si comincia a far strada una realtà al
momento forse solo intuita: il processo ideativi che si chiede allo stilista non coincide con il lavoro
che deve svolgere il dirigente d'azienda o l'imprenditore. Il suo è un lavoro di coordinamento della
catena e probabilmente proprio per questo deve rimanere esterno a tutti i momenti specificamente
produttivi o di mercato.
E tanto più deve rimanere autonomo, quanto più gli si chiede di creare un'immagine forte, di
introdurre nel prodotto moda quella cultura destinata a incontrarsi con un segmento del sociale in
modo da indurre un bisogno.
Tanto più che gli elementi linguistici necessari alla creazione di un'immagine non si attengono
più alla produzione industriale, ma a quella dei mass media.
Lo spettacolo, le arti visive, la musica, la grafica e soprattutto la fotografia (14), che la società di
massa sta riplasmando per le sue nuove necessità, devono diventare strumenti anche per la moda.
Palazzo Pitti, però, non consentiva nulla di tutto questo, per cui, dopo qualche tentativo di
rottura dall'interno, avviene il grande salto: il 6 e il 7 Aprile 1972 Albina Cadette e _Ken Scott
sfilano a Milano. Non ci sono dubbi sul fatto che Milano stesse diventando il centro di produzione
del nuovo e che, di conseguenza, fosse più comodo per tutti portare i compratori dove avevano sede
gli showrooms, ma non è possibile dimenti-care che queste sfilate erano completamente diverse da
quelle fiorentine.
Innanzitutto scompariva il luogo deputato, e questo era perfettamente coerente con una cultura
che aveva rifiutato tutti i luoghi della tradizione.
Alberghi, caffè, circoli, ristoranti, circhi cominciarono a diventare scenari più o meno neutri
per sfilate-evento in cui la completezza dell'immagine moda si accompagnava ad un aspetto
spettacolare destinato a fissarsi nella memoria per il tempo di una stagione e a diventare segno di
riconoscimento orientato al fruitore ultimo. E il segno poteva essere di diversa natura: dalle
camelie di Albini, all'happening di avanguardia di Cinzia Ruggeri, alle feste per giornaliste cantanti
della Lux, fino all'incidente organizzativo trasformato in spettacolo cosi da diventare elemento qualificante (15).
Ma la grande novità stava nell'ipostatizzazione delle differenze. Ogni sfilata diventava una
proposta, una scelta d'immagine e di stile che si rivolgeva al suo pubblico.
Foto 6: Cadette, completo della collezione autunno-inverno 1973-74, in Harper’s Bazar Italia,
ottobre 1973 (foto Bob Krieger)
La scelta dell'immagine
Nel 1971 Vogue pubblicava una piccola indagine-intervista ad una ventina di creatori di moda a
cui erano state poste cinque domande (16).
Alla richiesta di delineare la donna dell'anno, i sarti di Alta Moda, italiani e francesi, rispondevano
con una serie di aggettivi in fondo piuttosto usuali: diversa da quella che si vede per
strada;seducente; giovane; moderna, anche se classica; nuova. I creatori di prét-à-porter, invece,
fornivano quasi sempre un riferimento culturale, un'immagine d'identificazione, e non importa se
mitica o feticistica. A fronte di Clocchiatti che proponeva la categoria della libertà e di Ossie
Clark quella dell'individualismo, Caumont evocava Wally Simpson, Krizia una kitsch-girl, un'ironia
su Marilyn Monroe, Lagerfeld lo stile hollywoodiano del sogno americano, rivissuto attraverso le
immagini di Donna Jordan eJane Forth e infine Riha, la boutique di Londra, riproponeva con
precisione quasi archivistica lo stile 1938-39. Anche questo indica il superamento di un modello: la
moda non è più un'imposizione, ma una proposta di soluzioni fra cui è possibile scegliere, anche se
le scelte sono già state previste e incanalate.
E l'Alta Moda non sa e non può fare questo salto. C'è comunque un legame culturale fra le proposte
degli stilisti: il revival. Il passato, rifiutato come categoria temporale, diventa territorio di conquista,
un teatro infinito in cui saccheggiare miti.
E il fenomeno è molto più profondo di quanto non possano far arguire queste brevi note.
L’ ESPRESSO del 13 gennaio 1973 conteneva un supplemento colore dal titolo L’arte di vestir male
nel quale lo stesso Giancarlo Marmori, che tre anni prima aveva annotato il desiderio crescente di
travestimento che sembrava contraddistinguere le giovani generazioni, si chiedeva stupefatto "per
chissà (male perfido istinto di riesumazione del ridicolo e del necrofilo, le giovani si stanno ...
mascherando con gli stracci che avevano reso irresistibili le loro nonne (17).
Non a caso Marmori accosta l’aspetto vestimentario a un'attività che apparentemente dovrebbe
agire su altri fattori: quella delle mostre. In quei giorni alla Galerie du Luxembourg si era aperta una
mostra dal titolo Illustratori di mode e mainere del 1925, ultima di una serie che era partita con
Hector Guimard, ed era passata prima a Edward Burne Jones e ai preraffaelliti e poi a Tamara de
Lempicka, proponendo un intero percorso di raffinatezze fra la fine dell'Ottocento e gli anni Trenta.
Ma il fenomeno era molto più vasto, anche considerando la sola Parigi: nel 1966 al Museo di Arti
Figurative della città c'era stata un'esposizione sugli Anni soprattutto nel 1970 al Musée de la Mode
et du Costume era stata allestita una mostra sulle Mode degli anni folli 1919-1929 che aveva
scatenato l'interesse di quanti potevano mettere a disposi-zione pezzi da esporre, scovati nei bauli di
madri e nonne”(17).
Ma è l'accostamento fra i vecchi pizzi e i manichini moderni che sembra scatenare il gioco
kitsch del revival: le stesse ragazze che fino al giorno prima si erano vestire da guerrigliere o da
berbere si gettano in questo nuovo gioco in cui ci sono regole che anche la moda può seguire po
imporre, e gli stilisti italiani di quegli anni puntano quasi esclusivamente sugli anni Veni o Trenta,
né procedendo né seguendo le manifestazioni culturali e i fenomeni di massa (18). Tutto è
assolutamente contemporaneo, come se davvero questo professionista dell’immagine avesse operato
il miracolo dell’accordo fra produzione industriale o sociale.
Albini e Caumont, anche per la loro formazione culturale, diventano quasi il simbolo di questo
revival che, però, nelle loro mani cambia di segno: perde l'aspetto giocoso del travestimento di
stracci e diventa una creazione di atmosfere, di gusto, di riproposizione anche ironica di un momento perduto, ma rassicurante perché noto. E in fondo assume anche l'aspetto del gioco colto
d'identificazione con una società cosmopolita, ma élitaria e raffinata, un modo per creare un legame d'immagine fra quanti pensano di poter rifiutare la massificazione attraverso una scelta
culturale. Il risultato, ovviamente, è agli antipodi dell'obiettivo, ma l'illusione è in qualche modo
una salvezza psicologica.
Il caso Albini
Quando nel 1962 Albini torna da Parigi, si trova a lavorare in quella specie di fucina della moda
italiana che è Krizia, mala richiesta di professionisti del suo tipo sta crescendo e già dal 1964
cominciano le collaborazioni e le consulenze per aziende e boutiques appena nate o in fase di totale
ripensamento.
Foto 7: Walter Albini, disegno del completo alla foto seguente, 1971 (collezione Luciano Papini);
Walter Albini, completo realizzato sa Misterfox per Vogue Italia, in Vogue Italia, maggio 1971
(foto Castaldi)
Albini offre, oltre a quell'acre francese di moda in quegli anni, un sistema di progettazione
impeccabile. I suoi disegni(19) non sono ne figurini d'illustrazione, ne disegni tecnici, ma qualcosa
che contempera le qualità di entrambe le tecniche espressive. Conservano la capacità di costruzione
di un look totale in cui i particolari diventano elementi di atmosfera - con un riferimento evidente ai
grandi illustratori di moda de gli anni Venti e Trenta (20) - ma in cui sono chiaramente indicati tutti
gli elementi necessari alla realizzazione dell'abito. E tutto questo sempre in un unico disegno, come
se il foglio stesso visualizzasse il patto di totale coordinazione di tutte le parti in gioco per la
produzione di quel capo, con quell'immagine, per quel pubblico.
Negli anni fra il 1967 e il 1968 Albini è ormai famoso,almeno all'interno di quella cerchia di addetti
ai lavori che si è impegnata a scoprire e proporre il nuovo. Nell'ottobre del 1967 Vogue Italia lo
sceglie fra i giovani designers "di successo" della moda italiana e dedica un redazionale di sei
pagine ai modelli da lui creati per Krizia, Cadette e Rilly Ballo. Nelle lunghe didascalie si parla di
lui come di uno "stilista" che ha scelto il prèt-a-portcr per motivi che esulano dallo specifico
linguaggio della moda e cioè "perché va incontro alla vita, perchè e per tutte le donne e le aiuta a
non rinunciare a un bel viaggio per un vestito, per esempio" (21).
L’ottica e cambiata, Albini non ritiene di imporre una moda, egli propone uno stile, tanti .stili
per tutte le donne, in una specie di generosità creava ricca di sperimentazione e di entusiasmi. Ed è
in questi anni che avviene l'incontro cun Luciano Rapini, un altro personaggio nuovo
alla ricerca di una collocazione nel mercato della moda. Da pochi anni, infatti, Papini aveva aperto
una piccola azienda di abbigliamento e vendeva - quasi porta a porta - ad una rete di distribuzione
praticamente inesistente, ma che prendeva rapidamente forma quasi per magia(22). La sua non
appartenenza all'establishment industriali gli consentiva una notevole duttilità e soprattutto la
disponibilità a ricercare il proprio ruolo al di fuori di quelli già costituiti, fuori dalla presunzione di
saper fare da solo.
L'illuminazione avviene ad una sfilata di Billy Ballo in cui si presentavano abiti di Albini in un
modo assolutamente inusitato: in una stanza di albergo in cui il pubblico e stipato e affastellato, quasi a sottolineare la differenza e il non rapporto con il formalismo della Sala Bianca di Palazzo
Pitti - con modelle scalze, spettinate e truccate in modi assurdi. Nei giorni successivi
Rapini rincorre Albini e riesce a trovare un accordo con lui per una collezione della sua linea, la
Mireika. Il risultato della sfilata al SAMIA sarà quello di trasformare di colpo l'immagine: agli
abitini rigidi e pieni di pinces si sostituiscono gonne indifferentemente mini e maxi e un modo
completamente diverso d'intendere il vestire. La clientela che Rapini si era faticosamente
conquistato resta "orripilata", ma ad essa si sostituisce rapidamente la rete di boutiques specializzate
che si stava consolidando in quel periodo e che vedeva dalla parte dei venditori persone che
avevano dai 25 ai 30 anni - pochi di più dei loro clienti - e anche per questo più disponibili a capire
e ad assecondare i desideri dei nuovi mercati.
Foto 8: Walter Albini, modello da sera della sfilata al Caffè Florian, collezione 1973-74, in Vogue
Italia, ottobre 1971 (foto Barry Lategan).
La collaborazione fra imprenditore e stilista è stata fruttuosa, ma proprio per questo si pone il
problema di definire e razionalizzare il rapporto fra una parte che si presenta come stabile, fissa
e riconoscibile, e una che si caratterizza come mutevole, inafferrabile e svincolata. Si pone il
problema di dare uno statuto a questa professione intellettuale che, nella sua generosità, rischia
d'inflazionarsi e anche di screditarsi in eventuali rapporti negativi. La scelta è quella della libera
professione dell'artista, una scelta in cui Rapini assume la funzione dell'agente che vaglia e
controlla le offerte e stabilisce i contratti tenendo fermo il modello: i pagamenti devono essere
adeguati alla prestazione professionale, ma essere svincolati dagli utili. In questo modo, se da un
lato si garantisce allo stilista un compenso indipendente dal successo mercantile della collezione ed
effettuato in tempi più consoni al tipo di prestazione, dall'altro però non si pongono le basi per
alcuna continuità della sua immagine.
Tanto più che quasi sempre i contratti escludono la pubblicizzazione del nome del creatore in
etichetta (23).
La continuità dello stile Albini doveva però essere collegata alla linea prodotta per Papini, linea che
sarà destinata ad un rapido e tumultuo so processo evolutivo. Molto presto, infatti, l'Ente Moda
invita Papini alla manifestazione di Firenze. È l'ingresso ufficiale nel mondo del prét-à-porter e per
l'occasione si decide la creazione di una nuova immagine, adeguata al nuovo stato. La collezione
con il nome di Misterfox che era stato suggerito da Anna Piaggi, sfila a Palazzo Pitti nella
primavera del 1969 con i regolamentari 16 completi, di cui 8 neri intitolati “le vedove" e 8 color
carne intitolati "le spose". E a tutto questo si aggiunge un riferimento colto: gli anni Venti.
La sfilata ha un grandissimo successo, sia immediato che, in seguito, sulla stampa, ma la certezza
del risultato è tutta successiva.
Fino a pochi giorni prima Albini e Anna Piaggi – e quindi due dei punti di vista più attendibili per
prevedere le reazioni del pubblico – avevano espresso dubbi sulla possibilità di accoglimento di una
proposta come questa che assumeva sì gli stimoli di una scelta culturale internazionale, ma li
trasformava in qualcosa che, oltre a mettere alla prova la sapienza dell'industria (tessuti, tagli,
ricami ecc.), aveva le caratteristiche del look colto, raffinato, rarefatto, ricco di ironia e di
atmosfera. Un modello d'identificazione che usciva dai canoni del giovanilismo e si rivolgeva ad
una nuova fascia di mercato, che si presupponeva disponibile più ai giochi dell'eleganza che a quelli
del travestimento.
Foto 9: Antonio Lopez, campagna pubblicitaria per Missoni, collezione autunno-inverno 1983-84,
in Donna, settembre 1983; Antonio Lopez e Silvano Malta, disegno collage per la collezione
autunno-inverno 1974-75 di Silvano Malta per Pims
Ma è proprio alla luce del successo ottenuto che Palazzo Pitti dimostra tutta la sua inattualità:
dell'intera collezione, che comprendeva una sessantina di abiti, si vendono quasi solo quelli che
hanno sfilato. E in modo assolutamente abnorme: la Misterfox riceve ordini per 948 milioni.
Riuscirà a fare consegne per 50. Ma a parte questo, che comunque non è un fattore di poco conto, i
produttori del nuovo si trovano sempre più stretti in una struttura che li impegna a creare immagine
anche per tutti gli altri che non riescono ad uscire dall'impasse confezione-Alta Moda.
Rapini e Albini cominciano a cercare soluzioni alternative ed è Massimini a fornire il suggerimento:
il futuro della moda è fuori dalle limitazioni di Palazzo Pitti e soprattutto dai problemi e dagli
interessi che si scontrano in quella sede. Il futuro non può essere che Milano, unito ad una tecnica di
presentazioni tutta nuova e tutta da definire.
Ma per questo ci sono molte difficoltà da risolvere: le prime di carattere organizzativo, che
vanno dal coinvolgimento dei pubblici specializzati - ed in particolare quello delle giornaliste di
moda - fino all'utilizzazione ottimale di spazi privi di tradizione e quindi di servizi adeguati. Le
seconde di carattere strutturale: non e possibile reggere il mercato con una sola linea di capi. E
assolutamente necessario presentare una collezione completa - e la Misterfox e in grado di
produrre solo abiti - e poter contare su una distribuzione efficiente. Su questi nodi avviene il
contatto con Ferrante, Tositti e Monti che, con la sigla FTM, avevano elaborato un nuovo modello
di distribuzione in Italia e lo stavano sostenendo anche con la trasformazione, il supporto e
addirittura l'acquisto e la gestione in proprio di quelle aziende che erano necessarie alla produzione
di moda.
Nell'aprile del 1970 si svolge al Circolo del Giardino una sfilata fiume con 177 abbinamenti.
dia questa era una rivoluzione, ma soprattutto l'accordo con la F.TM aveva fatto si che per la
produzione della collezione di Albim si unissero ben cinque ditte con diverse specializzazioni (24):
Misterfox con gli abiti e in particolare per ta sera, Basile con i capispalla e i pantaloni, Callaghan con il jersey, Escargots con la maglieria, Diamant's - presto sostituita da Sportfox - con
la camiceria(25). Inoltre la FTM si occupava della distribuzione (26).
In questo modo si configurano sempre di più i ruoli ed emergono le differenze fra i momenti
produttivi e quelli che hanno funzione di coordinamento e di raccordo. E la figura dello stilista
comincia a caricarsi di un valore d'immagine che si aggiunge alla collezione. Nel momento in cui
offre modelli concreti d'identificazione e propone stili di vita identificabili come una sua scelta
culturale, diventa egli stesso un personaggio da proporre come scelta (27). E le etichette degli abiti
delle tre collezioni prodotte dai cinque ratificano (mesto fatto dichiarando che il capo e di Walter
Albini per... il nome della ditta produttrice. Ma verso la fine del 1972 il connubio si spezza, e
probabilmente in modo burrascoso. Albini e Papini si ritrovano soli e con una serie di problemi
che ormai parevano risolti. Puntano quindi sull'unica vera risorsa di cui dispongono: la bravura
dello stilista e il suo nome.
Foto 10: Aldo Fallai, campagna pubblicitaria per Armani, collezione autunno-inverno 1982-83
(modella Angela Wilde)
Il 27 aprile 1973 davanti a un notaio si costituirà la Albini S.r.l, una società, con Albini e Papini
come unici soci, che ha come scopo la creazione e la distribuzione di confezioni di alta moda, articoli di abbigliamento in genere vari e affini con il marchio W.A. regolarmente depositato” (28) e che
verrà a sancire la strada ormai percorsa. Il 15 dicembre dell'anno precedente, infatti, con il
supporto di Brown's, Albini aveva sfilato al Blokes Hotel di Londra con una collezione di
abbinamenti che portavano esclusivamente il suo nome. L'iniziativa nasceva dall’ennesima scelta
innovativa, quella di trasformare la Misterfox in una seconda linea a cui accostare una prima linea,
la W.A., di altissima qualità - e prezzi che verranno definiti astronomici - destinata soprattutto a
imporre definitivamente l'immagine dello stilista italiano e ad aprirgli finalmente le porte di quel
mercato internazionale che ormai stava guardando all'Italia con interesse.
La sfilata di Londra, però, era stata molto particolare: innanzitutto era stata molto contenuta ed
aveva presentato solo abiti - i capispalla erano sostituiti da camicie - in secondo luogo avveniva
decisamente in ritardo rispetto ai tempi tecnici necessari per la produzione e infine non
era etichettata con il marchio W.A., ma ancora Walter Albini per, anche se mancava il nome
dell'azienda (29).
Si potrebbe pensare a una soluzione adottata per superare il terremoto che doveva essere seguito
alla rottura con la FTM, a una iniziativa svolta volutamente fuori dai canali normali per
sottolinearne gli aspetti più promozionali e d'immagine. Il successo, però, fu strepitoso e l'anno
successivo, a maggio, tutti "quelli che contano" seguirono Albini a Venezia alla sfilata al Caffè
Florian, chiuso per un giorno con il permesso del Ministero degli Interni.
Ormai gli elementi del mito ci sono tutti (30) e stanno facendo uscire il nome di Albini dai confini
della moda. Il segreto? Come scriveva una giornalista inglese "In one word: Style. Elegant,
exciting, inimitable: Style". Uno stile fatto di moda pronta, ma capace di farla entrare nei negozi più
esclusivi, destinati a quelli che mai avrebbero comprato capi di confezione.
Uno stile fatto d'incredibile professionalità, ma anche di fascino personale che Albini sembra
mettere al servizio della costruzione e del perfezionamento di un'immagine carismatica, fino a
diventare egli stesso, il suo stile di vita, l'elemento qualificante della sua produzione.
Non è un caso che la perfezione stilistica diventi sempre più la caratteristica dei suoi modelli, che non solo vengono minutamente studiati in tutti i particolari anche di accompagnamento,
ma che soprattutto vengono venduti solo completi, ossia con tutti i capi e gli accessori previsti
nell’uscita di sfilata o nel disegno. È l’apoteosi dell’immagine totale, dello stile di vita che si trasforma in opera d'arte compiuta. E anche in questo caso la stampa accoglie l'indicazione e comincia
a paragonare Albini al grande Gatsby.
Foto 11: Cinzia Ruggeri, disegni per la campagna pubblicitaria della collezione primavera-estate
1985, in Donna, marzo 1985
Ma i tempi non sono purtroppo maturi, i proventi della Misterfox non sono sufficienti per
questa dispendiosissima campagna pubblicitaria e, d'altra parte, non si è ancora aperta la possibilità
delle royalties, ossia di una rendita sul marchio.
La società appena sottoscritta con Papini naufraga di fronte alle contrapposte scelte strategiche dei
soci e Albini si getta da solo in un'impresa priva di riscontro con il suo mercato che segnerà la fine
della sua parabola ascendente. Nell'autunno del 1974 sfila a Roma con una collezione di Alta Moda,
forse pensando di dare il ritocco finale alla sua immagine di perfezione stilistica.
Ma, nonostante la bellezza dei capi e la ricchezza culturale del suo "Omaggio a Chanci", il mercato
dell'Alta Moda gli chiude le porte e a lui non resta altro che ricominciare con le collaborazioni a
ditte di confezione, che però non hanno quasi nulla della sapienza produttiva e della disponibilità di
quelle precedenti (31).
E. M.
Dall’anonimato dello stilista, all’anonimato dell’industria.
Dopo un'ulteriore defezione da Palazzo Pitti, nell'ottobre 1974 sfilano a Milano in alberghi,
ristoranti e circoli privati altre case di moda. Rispetto al 1972.ci.sono molti nomi in più, tra
cui quelli di Krizia e Missoni, due nomi che contano e che pesano sul piatto della bilancia spostando
definitivamente l'interesse su Milano. Non si tratta solo di grosse aziende rispetto ai piccoli
produttori che avevano sfilato dal 1972 in poi, ma anche di nomi che hanno fatto la storia della
moda come i Missoni, reduci dalla vittoria del Neimann Marcus Award nell’edizione del 1973.(32)
Fra i favorevoli a questo passaggio è Mariapia Chiodoni Beltrami che dalle pagine di Harper's
Bazaur, da lei diretto, indica una nuova possibile divisione dei compiti: da un lato la moda come
invenzione creativa con le sue presentazioni spettacolo a Firenze, dall'altro Milano per facilitare i
rapporti commerciali, dove le presentazioni rimangono un fatto personale e sotto tono,
privo di qualsiasi organizzazione per non toccare, appunto, il ruolo di Pitti.
Forse la possibilità di una nuova immagine non è ancora così consapevole: sembra comunque che
l'idea di Milano con una sua moda legata all'industria ed all'efficienza abbia la sua origine
non solo nell'accettazione della mancanza del glamour francese (33), ma anche dai sensi di colpa
verso Palazzo Pitti, abbandonato con la promessa di non voler fare che una piccola parte del gioco
globale.
Foto 12: Romeo Gigli, gonna della collezione primavera-estate 1986, in Elle (ed. americana),
febbraio 1986 (foto Oliviero Toscani).
Il 1974 è un anno decisivo soprattutto perché la crisi del settore del 1973-74, derivata da quella
petrolifera, incombe pesantemente e reclama una soluzione, spingendo molte industrie medie
e grandi a capire che il passaggio dalla filosofia della produzione a quella del prodotto veicolato
dall'immagine è decisiva. La cosa era già nell'aria, ma solo le piccole aziende avevano avuto la
flessibilità e forse l'incoscienza per rischiare. Un esempio convincente lo aveva dato il gruppo FTM
che, partito da una situazione aziendale in cui il rischio dello stilismo era l'unica scelta
possibile (34), aveva dimostrato come si sopravviveva all'abbandono dello stilista se la scelta del
mercato e dell'immagine da perseguire era ben salda, se chi faceva da tramite tra lo stilista e
l'azienda, "l'uomo-prodotto", aveva le idee molto chiare (35). Con un occhio all'antesignano esempio
della Cadette (36) e con l'altro al gruppo FTM, sulla scia dell'esempio di un rapporto fra azienda e
stilista che non comporta rischi eccessivi, ma neanche eccessive glorie, si muove alla metà degli anni Settanta un'azienda di Ancona che produceva sin dal 1961 una linea prevalentemente
orientata sugli abiti da cerimonia: è la Genny, di proprietà dei Girombelli, destinata a far crescere al suo interno lo stilista Gianni Versace e ad essere fra le aziende più in vista nel panorama
moda tracciato sulle riviste del settore sin dalla seconda metà degli anni Settanta.
Monti, che si occupa della Callaghan, ha con se il giovane Versace, subentrato ad Albini e alla sua
prima esperienza aziendale, e lo "divide" con la Genny, bisognosa di uno stilista.
L'atteggiamento un po' paternalista con cui Monti parla ancor oggi di questa condivisione è
anche il segno che si era ancora lontani dall'accettare un rapporto fra stilista e azienda quale
era stato quello configurato da Albini poche stagioni prima. Di un rapporto così hanno paura
entrambi, stilista e industriale, e ci vorranno ancora due o tré anni prima che da parte degli uni
ci si renda conto che il potere contrattuale e il momento sono favorevoli a una politica
dell'immagine personale, e da parte degli altri che, con un'accurata politica delle seconde linee, è
possibile affrontare un rischio le cui conseguenze sono ancora nella memoria di tutti.
Foto 13: Basile, modello della collezione autunno-inverno 1974-75, stilista Muriel Grateau,
indossato da Eva Malestrom, in Harper’s Bazar Italia, dicembre 1974 (foto Bob Krieger); La
coperta folk di Lino Lopinto, in Harper’s Bazar Italia, luglio-agosto 1976 (foto Bob Krieger)
Ci vuole forse anche l'esempio di Giorgio Armani e del rapporto nato con il Gruppo Finanziario Tessile che pure rimarrà un caso unico nella sua particolare configurazione. Sempre verso la
meta degli anni Settanta, il GFT, nella persona di Marco Rivetti, il responsabile del settore donna, è
m cerca di qualcuno che possa operare dei rimodernamenti sulla struttura dei capispalla
delle linee interne come Cori o Tris Lady. Il GFT non vuole uno stilista che disegni una linea
completa con uno stile e un'immagine coerente, ma solo un portatore di know-how tecnico sul
taglio, da inserire nella cultura aziendale di confezione preesistente. Rivetti arriva inevitabilmente a
Giorgio Armani che, con la sua esperienza nella confezione maschile alla Hitman di Cerniti, e
sicuramente l'uomo più qualificato sul mercato, avendo puntato da sempre la sua attenzione sui capi
pesanti e soprattutto sulle giacche. Rivetti vuole un rapporto di consulenza che non cambi certo la
struttura dell'azienda e la sua filo-sofia di produzione. Armani, invece, che solo da pochi anni si è
staccato da Cerniti sotto la spinta dell'amico e socio Sergio Galeotti, vuole qualcosa di più. Tornare
indietro a un rapporto che già conoscono non ha senso e Galeotti, dotato, più che di una
preparazione specifica (37), di un fiuto commerciale incredibile, capisce che è inutile perdere
l'occasione impostando un rapporto di semplice consulenza ma che e possibile, appoggiandosi alla
grossa industria, fare qualcosa di nuovo. Alla richiesta di Rivetti, Galeotti risponde con una
controproposta: produrre la linea Giorgio Armani. Dopo lunghi mesi di discussioni, nel 1977 si
arriva a un accordo. Naturalmente anche il GFT aveva dei vantaggi e ricavava indirettamente delle
conoscenze che prima non aveva: "Un'operaia che aveva lavorato su una giacca di Armani - ricorda
Rivetti - istintivamente utilizzava poi degli accorgimenti simili su una giacca Cori. Con il passare
del tempo accanto alle strutture tradizionali della grande fabbrica si aggiungevano macchinari
diversificati, si imparava ad utilizzare le idee di base delle collezioni stilistiche immettendole sulle
linee interne".
Di acqua sotto i ponti dal contratto di Caumont con l’A. M. I. C. A ne è passata parecchia.
Quello fra il GFT e Armani, oltre a essere il segno dell'interesse delle grosse aziende, e anche un
rapporto più articolato che prevede una relativa autonomia sia dall'una che dall'altra parte al limite
del rischio, con una divisione dei compiti assai precisa. Non volendosi fare imprenditori, Armani e
Galeotti pensano che il loro studio stilistico (38) debba occuparsi della progettazione, dell'immagine
e anche del rapporto con i clienti che vengono ad acquistare durante le sfilate; e naturalmente
mantengono dei rapporti di consulenza che scelgono autonomamente dal Gruppo e che non
riguardano solo le licenze come profumi, borse o foulard, ma altre linee di abbigliamento a livello
medio e alto (39). Tre anni dopo la rottura del rapporto di Albini, Armani con il suo esempio indica
che la via della griffe può funzionare se si sottostà a una disciplina ferrea e se si hanno buoni
consiglieri.
Strada ne è stata fatta anche da quando l'aspirazione di chi disegnava abiti era quella di avere alle
spalle il possesso di una fabbrica, come era stato nel caso di Ken Scott, dei Missoni o di Mariuccia
Mandelli. È sicuramente determinante la crisi degli anni Settanta per dissuadere i tentativi nella
direzione dell'imprenditoria, ma è anche il fatto che ormai, quello dello stilista, è un mestiere ben
preciso che non si confonde più con quello dell'imprenditore, come era stato negli anni Sessanta (40).
Foto 14: Oliviero Toscani, la nuova donna di Giorgio Armani, in Donna, luglio-agosto 1980
(modella Lesile Winner)
Il caso del gruppo Girombelli e quello di Giorgio Armani, con tutte le loro particolarità (41), sono i
due modelli su cui alla fine degli anni Settanta si costruisce il rapporto fra stilista, industria e
immagine. Da un lato l'azienda che punta soprattutto sulle sue linee rivolte a un mercato medio alto,
sulla possibilità di cambiare stilista senza risentirne eccessivamente, in cui la figura chiave è quella
dell'uomo-prodotto in grado di assicurare una continuità nel prodotto e nell'immagine, riuscendo a
controllare quegli sbalzi di moda stagionale significativi soprattutto prima del 1983. Dall'altro lato,
invece, lo stilista che si emancipa sempre di più e che si spinge oltre quel legame aziendale che
l'aveva visto nascere per passare da semplice figurinista agli ordini di un proprietario che decideva
cosa produrre e copiare, a un rapporto di parità e divisione dei ruoli all'interno di una azienda fino
ad arrivare a una situazione in cui l'immagine personale sovrasta quella dell'azienda, passando nel
giro di un decennio dall'anonimato dello stilista a quello dell'industria. Naturalmente nelle situazioni
complesse e fortemente dinamiche ogni modello tende ad assumere caratteristiche che sarebbero
peculiari dell'altro e così le aziende che puntano sulle loro linee finiscono per produrre anche il prétà-porter firmato degli stilisti, accettando di mettersi in secondo piano come nel caso della Basile con
Soprani o del gruppo Girombelli che produce Montana a sua volta disegnatore della linea Complico
dal 1980; mentre gli stilisti continuano, accanto alle loro linee firmate, a disegnare per le linee
aziendali di grosso nome come nel caso di Soprani che disegna Basile o di Versace che è rimasto
legato alla Genny.
Ma nonostante la coesistenza e l'intrecciarsi delle due formule, quella trainante rimane l'apparizione
personale dello stilista a cui le aziende cercano di adeguarsi con una politica di immagine che
spesso tende a dare grosso rilievo ad una figura interna come un dirigente o un "uomo prodotto”(42).
Nel 1978, quando ormai quasi tutte le griffe più importanti sono nate e il panorama milanese
è abbastanza delineato, un altro fatto decisivo contribuisce a rafforzare il prèt-à-porter.
l'Associazione Industriali dell'Abbigliamento decide di intervenire a favore delle collezioni di
Milano avendo come scopo quello di affiancare alle sfila te altri livelli produttivi che possano
ricevere il beneficio di una eventuale ricaduta di prestigio. Beppe Modenese viene incaricato di
operare questa mediazione fra le esigenze industriali e quelle degli stilisti. Dopo un tentativo,
fallito, di trovare una collaborazione con quegli enti che già si occupavano delle manifestazioni (43),
si andò a un accordo diretto con quegli imprenditori come Monti, i Missoni o Mariuccia Mandelli
che erano più disponibili perché potevano capire meglio di altri la funzione di un'operazione del
genere.
Foto 15: Gianpaolo Barbieri, la moda militare nella campagna pubblicitaria di Complice, stilista
Gianni Versace, collezione autunno-inverno 1978-79
La sede prescelta per riunire le sfilate fu quella della Fiera. Ricorda Ciampini: "Per chi era
abituato a circolare tra il Palace, la Permanente e il Manzoni, l'idea di venire in Fiera, associata
mentalmente alle macchine utensili, non era gradevole" (44). Ma Modenese seppe ribaltare in
forza quella che sembrava una debolezza e puntò su quell'immagine milanese che legava moda e
industria e che sarà determinante nel nuovo modo di concepire la professione in rapporto al design,
agli inizi degli anni Ottanta. Con la nascita di Milano Collezioni l'industria ammette ufficialmente
che lo stilismo è divenuto oramai la forza trainante del settore. Contemporaneamente vara una
politica di sinergia fra prodotti "griffati" e prodotti industriali di distribuzione più vasta che si
concretizza nella politica della differenziazione tra prime e seconde linee e avrà, fra le sue
conseguenze, proprio quella di contribuire alla defezione di alcuni nomi da Milano Collezioni,
avvenuta tra il 1983 e il 1985.
Il rapporto fra prime e seconde linee è uno di quei rapporti che sembrano chiudersi in un anello, che
invece si rivela essere una spirale sempre aperta e crescente: più l'industria vede che l'immagine
aiuta a vendere più ne aumenta il peso, più il peso aumenta, più caratterizzazione e individuazione
di un mercato alto deve avere la linea che risponde a questa immagine, più questo avviene minore è
il mercato che si raggiunge. A questo problema si risponde con la nascita di una seconda linea che
si rivolge a un mercato più vasto su cui ricade l'immagine della prima linea e la sua desiderabilità:
quindi per evitare che ci possa essere una confusione fra le due linee, la prima deve differenziarsi
ancora di più e diventare maggiormente elitaria.
Su questo schema circolare alcuni stilisti finiranno per allontanarsi dalla Fiera che nella sua
asetticità e uniformità non consente una sufficiente individuazione (45).
Seguiamo ora il caso di Giorgio Armani che, dal 1978 al 1982, vede una crescita di fama personale
che culminerà nella cover story dedicata tagli da Time, ma anche nella rottura del rapporto con il
GFT e nella creazione di un rapporto diverso sempre con lo stesso gruppo. Armani, entra quindi in
quella spirale che lo porterà nel giro di poco tempo a sentire la necessità di creare una linea di più
vasta distribuzione e con un sistema di vendita particolare. E la linea Emporio Armani in vendita in
negozi monomarca in cui tutta la mercé viene esposta come in una sorta di self-service e in cui
ognuno sembra esse re invitato a costruirsi i suoi abbinamenti e la sua immagine Armani. L'idea
funziona perché il tipo di abbigliamento proposto da Armani nasce costruito sulla filosofia della
scomponibilità e dell'abbinamento che esce da canoni tradizionali del vestire ritualizzato, ma
funziona anche per- ché, a differenza di molte altre seconde linee, il nome, e quindi l'immagine, di
Armani è in piena evidenza con tanto di stemma-simbolo, l'aquilotto siglato, fonte di guadagni e
anche di infinite imitazioni.
Foto 16: Chris von Wangenheim, Donna Jordan, in Vogue Italia, maggio 1971; Luciano Soprani,
completi Arlecchino e Pierrot della collezione autunno-inverno 1982-83 (foto Francesco Scavullo)
Questa rapida identificazione della seconda li nea sembra però far correre il rischio di confusione
delle fasce di mercato e la conseguente perdita del valore simbolico della prima linea, che comincia
ad ampliarsi sempre più nei prezzi e a restringersi sempre più come mercato. Nel 1942, dopo la
collezione ispirata al film Kagemusha, Armani decide di non sfilare più. La collezione, di estremo
interesse, che era piaciuta molto a stampa e compratori, lascia assai perplessa la clientela acquisita
creando dei problemi di invenduto. Armani rifletterà sul suo rapporto con l'industria e su quello con
l'immagine fino a ritornare alle sue origini di designer industriale, una realtà che può avere la forza
di un'immagine. Per difendere questa immagine dall'immensa diffusione dell'Emporio è quindi
costretto a rivolgersi a un mercato assai ridotto e questo non può non avere conseguenze nel
rapporto con il GFT, che stipula nel 1983 un nuovo contratto con la Giorgio Armani Spa: la
realizzazione della prima linea, che cambierà la sua etichetta aggiungendo al nome Via Borgonuovo
21, sarà affidata alla produzione contemporanea di piccole aziende con le quali Armani e in
rapporto da tempo e che non hanno difficoltà a produrre un numero di capi limitato, che a stento
può essere chiamato pret-à-portcr anche se ne mantiene cultura di taglio e meccanismi di
progettazione. Il gruppo si occuperà della produzione e distribuzione di una seconda linea che negli
Stati Uniti è denominata Giorgio Armani e in Europa, solo per la donna, ha il nome Mani. Un caso,
quello di Armani, esemplare di uno sviluppo del la situazione che coinvolge oramai quasi tutti gli
stilisti.
Di fronte a questa corsa verso una produzione altissima e assai limitata che sembra diventare Alta
Moda pronta, molti industriali come Rivetti sono perplessi: "Ho lavorato sul nome di Giorgio
Armani in modo tale che in America siamo ormai vicini alla trasformazione in marchio. Oggi
sarebbe il momento del passaggio al marchio. In termini creativi e di fama personale questo è un
po’ un suicidio, ma per la grande industria significa un flusso di affari più basso ma più continuo".
Cosi sembra costituire un esempio proprio chi aveva aperto ima strada all'idea dell'abito firmato e in
serie. Giuliana Camerino nel 1980 ha cominciato a smantellare la Camerino Spa per creare la
Camerino Brand Diffussion che si occupa della gestione e della diffusione del marchio Roberta di
Camerino e che lavora con la colossale azienda giapponese Mitsubishi.
Tessutai e stilisti
Un anello della catena di importanza capitale nella nascita della moda italiana e nello sviluppo
dello stilismo, è quello legato alla fabbricazione e alla stampa del tessuto. Dagli esordi dello
stilismo fino ad oggi il rapporto fra tessuti e stilisti si è evoluto al punto da mutare profondamente
una relazione nata sulla collaborazione reciproca. Oggi sembra infatti che molti studi stilistici
affrontino al loro interno la progettazione del tessuto staccandosi completamente dai disegnatori
interni alle aziende tessili. Uno stilista come Romeo Gigli, per il quale il tessuto rappresenta
un momento rilevante del discorso stilistico, grazie anche a una semplicità di taglio che lo esalta,
interviene nella fase di progettazione di colori, tessuto e stampa per il 60% degli acquisti
complessivi. Correggiari lavora addirittura sul filato, mentre Gianni Versace, in una conferenza
tenuta al Victoria and Albert Museum di Londra nell'ottobre del 1985, ha avuto modo di dire: "Una
buona progettazione parte dalla materia. Dunque vi consiglio di usare i vostri tessuti" (46).
Foto 17: Helmut Newton, campagna pubblicitaria per la collezione autunno-inverno 1979-80 di
Gianni Versace
Contemporaneamente Gimmo Etro passa al figlio la fiaccola del rapporto con gli stilisti e apre
un negozio di abbigliamento in via Bigli a Milano, nel quale vende capi molto classici confezionati
con i suoi tessuti, quasi a sancire una sorta di rovesciamento di ruoli fra stilista e tessutaio.
In realtà, un rovesciamento dei ruoli non c'è stato. Generalmente lo stilista chiede delle modifiche su delle basi di proposta che vengono fornite dai tessuti, ed è solo sugli stampati che la
personalizzazione e l'intervento stilistico diventano preponderanti.
Nella nuova accezione della moda come design, il tessuto in quanto materiale di cui è costituito
l'oggetto abito, assume una valenza del tutto particolare e su di esso si esercitano ricerche
tecnologiche che finiscono per determinare l'alto prezzo di un prodotto che, seguendo un processo
industriale, non potrebbe altrimenti giustificare costi così elevati (47).
Per Etro il cambiamento più evidente nel rapporto è che la creatività dello stilista sembra diventata inutilizzabile per la collezione di tessuti che l'azienda porta alle manifestazioni
specializzate; si sono cioè create due collezioni parallele, una destinata ai punti vendita e alla
confezione, l'altra destinata allo stilista, non riproponibile su tempi e mercati diversi per l'eccessiva
personalizzazione e per la velocità di "invecchiamento" dell'immagine.
Anche per Vittorio Solbiati, uno dei primi a sperimentare forme di collaborazione innovative con
gli stilisti, il rapporto positivo si instaura solo quando è possibile rielaborare le idee stilistiche
all'interno di una produzione più vasta, se no rimane rapporto sterile, di puro prestigio
d'immagine, in grado di lasciar scivolare l'azienda verso il fallimento. Dice Solbiati: "Nonostante ci
siano parecchi stilisti con cui il rapporto è ancora importante per la fabbrica, la nuova soluzione sta
forse nel cercare una collaborazione con le persone che stanno crescendo ora nella grande
industria e che sono più interessate al prodotto e al mercato che all'immagine".
Forse, quella di Solbiati, è una conferma della distanza sempre crescente che separa lo stilista
dal suo luogo di origine, l'industria, un posto che ha lasciato a quelle nuove professioni della moda
sempre più ricercate dalle grandi aziende.
"Guardare alla strada"
Già agli inizi del 1974 la moda del revival, che aveva avuto i suoi epigoni in Caumont e Albini, ma
che si era diffusa fino a influenzare molti altri nomi, comincia a dare segni di stanchezza.
Il tramite, di breve durata, che collegherà il classico dominante alle nuove tendenze folk
esplose tra il 1975 e il 1977, e la moda del camicione. Questa moda per la primavera 1975,
importata direttamente da Parigi, era stata la risposta alla mostra sugli Impressionisti tenutasi
al Grand Palais nel 1974; un'influenza riconosciuta apertamente da tutti coloro che ne avevano
attinto ispirazione, rendendo Victorine Meurand, la modella che aveva posato per il quadro di
Manet La femme au perroqet, il nuovo mo-dello femminile a cui fare riferimento (48).
Foto 18: Mariuccia Mandelli, disegno di tuta plissettata di Krizia, collezione autunno-inverno
1981-82; I volants della collezione Krizia autunno inverno 1982-83, in Donna, luglio-agosto 1982
(foto Oliviero Toscani)
Il minimo che possa succedere al classico è la perdita di molto di quel prendersi sul serio che il
rétro aveva alimentato e così nel numero di Harper's Bazaar del dicembre 1974, l'abito classico
da indossare nelle occasioni importanti viene ironizzato in un servizio di Bob Krieger.
La statuaria Èva Malestrom viene così immortalata dal fotografo in toilettes raffinate nell'atto di scolare la pastasciutta sulla quale si avventa di ritorno da una prima alla Scala.
Ma accanto all'evanescente camicione incominciano però ad apparire tutti quegli elementi
del folk che provengono da fonti più immediate, legate all'esigenza di recupero di autenticità, a
cui ha contribuito il diffondersi dei movimenti giovanili in ambiti più vasti di quelli delle élites
parigine e londinesi. Su Vogue i redazionali si rifanno apertamente a queste nuove fonti di
ispirazione provenienti dalla strada. Importante in questa moda, che nell'arco del 1975 decollerà
senza lasciar spazio a dubbi, rendendo definitivamente anacronistici episodi come la sfilata di Alta
Moda "Omaggio a Chanci" di Albini, è la sensazione che finalmente il prèt-àporter affronti le sue radici, per così dire, umili, di legame con la vita quotidiana, con quello che
deve essere il suo mercato reale. Il folk presente nella moda dal 1975 al 1978 non ha nulla a che
vedere con quello degli inizi degli anni Settanta, ancora legato all'Alta Moda, attratto dalla spettacolarità di colori e materiali inediti e forme di decoro innovative; ora quello che conta e l'aspetto
della naturalità e della nostalgia, battaglia, più che rifiuto, diventata protesta politica precisa in tutte
le maggiori città l'Italia.
Il pret-a-porter si misura con elementi dell'abbigliamento e tagli che non aveva mai affrontato,
con l'uso di materiali poveri e mai trattati, con forme libere che non cercano di imitare la couture
non avendone i mezzi. Di estremo interesse sono, a questo proposito, gli studi condotti da
Gianfranco Ferre che, in questi anni, si reca in India per conio della San Giorgio per studiare il
taglio orientale degli indumenti e per rielaborarlo in modo che sia semplice da riprodurre
industrialmente. Ora più che mai lo stilista opera come anello di congiunzione fra la richiesta del
mercato, i suoi desideri, e un'offerta adeguata, senza avere nessuna presunzione di farsi guida;
un'umiltà cui arriva proprio quando comincia a sentirsi più forte, ad avere una identità maggiore.
L'intuizione di Armani dell'importanza e del desiderio di un vestire nuovo per la donna, che
uscisse dalla ritualità della divisione non solo dei ruoli, ma anche delle diverse parti della giornata
a questi connessi, è una intuizione indotta (49). Lo afferma lo stesso Armani che furono le donne a
dare un'indicazione in questo senso indossando i capi (ielle sue linee maschili, come quando nel
negozio aperto a Parigi da Cerruti nel 1967, vennero venduti capi presi dalla collezione maschile.
Foto 19: Mariuccia Mandelli, giacca "dalmata" della collezione Krizia primavera-estate 1984;
giacchino della collezione Krizia primavera-estate 1984 (foto Giovanni Gastel)
L'intuizione di Armani non è quindi un'idea di moda "autogenerata", ma poggia su una attenta
osservazione della realtà sociale e del mercato. Su questa osservazione egli elabora, con gusto e
mestiere lungamente costruito, un prodotto ed i un'immagine per una donna completamente nuova,
che non ha riferimenti a modelli del passato. La perfetta individuazione di una donna e cioè, in
parole più concrete, di un mercato, mette in moto uno scambio, una serie di do ut des: la donna
lancia un segnale e lo stilista risponde con un prodotto simile alla richiesta, ma con qualcosa in più,
creando una sorta di assuefazione, una clientela che. nel caso di Armani, aveva questa particolarità,
di essere formata da donne che fino a quel momento non si erano mai interessate di moda, non si
erano mai "vestite" e che continuano a dare questa impressione di casualità portando indumenti
destrutturati, studiati sulla tradizione dell'abbigliamento maschile sportivo di origine anglosassone.
Gianni Versace rappresenta invece l'altra direzione, complementare, che attira un mercato
già abituato a consumare moda con proposte di novità e svecchiamento. Partito all'ombra
dell'eredità di Albini all'interno della Callaghan, in pochissime stagioni arriva ad essere l'interprete
perfetto dello snodo fra antico e moderno su cui si dibatte la nostra civiltà, sulla soglia dei molti
cambiamenti che la crescita del terziario sembra aver messo in moto. La ripresa del passato e
degli elementi folk viene collegata a elementi futuribili e a invenzioni tecniche utilizzando
pochissime mediazioni, quasi evocando quello choc del futuro che dava il titolo al testo di Toffler
sul mutamento della società contemporanea.
Dal design all'Alta Moda
Con il delitto Moro nel maggio 1978 entriamo negli “anni di piombo" che avranno un contraccolpo
sociale nel cosiddetto riflusso, che è poi il desiderio di cancellare il passato, di dissociarsene nella
speranza che con esso scompaia anche una parte sgradevole del presente.
La conseguente moda militare che domina l’autunno-inverno 1977-78 è il passaggio tra il
repechage delle mode giovanili, come quella dei mercatini militari di Livorno e Napoli, e il
richiamo all'ordine del ritorno al classico che segnerà il 1979 e che si manifesta già con il revival,
accanto al militare, dei tailleurs stretti e aderenti.
Nella primavera-ostate 1979 il recupero del formalismo si manifesta con abiti ripresi dagli
anni Quaranta e Cinquanta e con un ammiccamento alla donna sexy, agli spacchi e alle trasparenze.
Su questo stesso tono si muovono anche le collezioni per l'inverno in cui il ritomo all'ordine è
perfettamente rappresentato dalla campagna pubblicitaria di Versace realizzata da Helmut
Newton, fotografo delle inquietudini erotiche dell'alta borghesia. Questa ripresa del"classico"
è però anche il segno che il prét-à-porter italiano è cambiato, trovando una nuova identità e una
nuova clientela più ricca e più internazionale.
Dal 1978, con l'organizzazione in Fiera delle sfilate e quindi nel rapporto diretto con gli industriali
che le hanno organizzate, la moda milanese e italiana si riconosce in un'immagine di seria
professionalità legata al lavoro industriale, nell'aria di consapevolezza di far parte di un sistema
efficiente, e lo fa con una moda consona all'occasione, che certo non può essere il vecchio folk
dall'aria contestarla, e neppure la semplice ripresa degli anni Quaranta e Cinquanta.
Infatti nella ricerca di una moda adeguata alla sua nuova identità, il prét-à-porter italiano scopre la
linearità e il geometrismo che saranno il segno distintivo della prima metà degli anni Ottanta.
Foto 20: Nanni Strada, progetto “Il manto e la pelle” presentato alla Triennale di Milano nel 1974
e vincitore del Compasso d’oro
Lo dice Vogue in un suo punto di vista del gennaio 1980, lo conferma nel redazionale uscito sullo
stesso numero che accosta la moda all'arte nel senso del costruttivismo, di Fontana, della op art; ma
lo sottolinea soprattutto la neonata rivista Donna (50) che nell'editoriale del suo primo numero
afferma: "Sfruttata Fondata di moda spontanea che ha dato spunti agli stilisti stessi, adesso la moda
torna in mano a loro, è tornata ad essere un fatto di studio e di ricerca, è evoluzione e non
improvvisazione, viene premiato il professionismo e i capi che hanno più successo sono quelli
pensati e costruiti come pezzi di design".
Questo nuovo rapporto fra moda e design troverà conferma in un ambito più vasto, costituendo la
spina dorsale di molti studi sul progetto di moda e sfociando in mostre come quella tenutasi nel
maggio del 1982 al Massachusetts Institute of Technology intitolata Intimate Architecture:
contemporary clothing design e quella tenutasi al Pac di Milano nel 1983. La scoperta che la moda
fa del design deriva dal nuovo rapporto con l'industria che rende gli .stilisti consapevoli
di essersi inseriti come apporto esterno di valore estetico al meccanismo di produzione, e stimola
l'uscita da in ambito professionale ghettizzato e tacciato di frivolezza. Una scoperta (che può avere
conseguenze importanti sia collie possibile modello di riferimento per una identità professionale diverga da quella del couturier, dando alla moda la possibilità di entrare finalmente in
rapporto di scambio reciproco e riconoscimento con la città che la circonda, sia come modo per
aumentare l'individualità, un'esigenza che cresce di giorno in giorno con la politica dell'immagine
(51)
.
Questa nuova idea della professione, che tiene conto del design e dell'industria da una parte,
ma che dall'altra si muove verso una forte individualità, è rappresentata da Gianfranco Ferré.
La sua capacita di utilizzare la metodologia di approccio del design nell'uso degli strumenti della sua professione, la capacita di comprendere come- le strutture dell'abito possano diventare
una qualità estetica, come il materiale abbia diritto ad essere trattato quale parte integrante
della forma, come l'abito vada costruito tenendo conto del rapporto di volumetrie in relazione al
movimento nello spazio, faranno di lui una delle figure più rappresentative della nuova svolta
della moda italiana (52).
Cosi la moda storica ed il nuovo folk, che segneranno le collezioni del 1981 e 1982, avranno
caratteristiche completamente diverse da quella del periodo 1975-1978. Sarà un esercizio in cui la
nuova scoperta del design si applica agli elementi più noti del passato per dare maggior risalto
attraverso il contrasto, e farà leva su una ricchezza dei tessuti e dei decori che vuole enfatizzare la
forza della posizione che la moda italiana sta assumendo. Gli spunti delle collezioni vengono ricavati da film come Kagemusha di Akira Kurosawa, ma anche dalle mostre che Diana
Vreeland organizza al Metropolitan Museum di New York, come quella sugli Asburgo nel 1979 e
sulla Cina nel 1980.
Foto 21: Herb Ritts, campagna pubblicitaria per Ferré, collezione primavera-estate 1985 (modella
Linda Spiering)
In Francia intanto esordisce un altro tipo di ricerca sul costume: la nuova moda giapponese
che riprende i costumi della tradizione popolare per utilizzarne i materiali raffinati dall'aspetto
dimesso, la semplicità delle forme che si ricreano sul corpo, e soprattutto per proporre un nuovo
tipo di femminilità, che dopo un esordio apocalittico (53) si dimostra più naturale, più intimista, più attenta all'individualità che alla bellezza. La moda giapponese di Yohji Yamamoto, Gomme
des gaçons e Issey Miyake, trova un terreno fertile: il desiderio di maggior semplicità è già diffuso
anche in Europa.
È difficile dire se la nuova scioltezza della moda del 1983 sia legata alla crisi delle vendite
determinata dagli eccessi di immagine delle stagioni precedenti, oppure se sia un naturale alternarsi
di corsi e ricorsi, oppure ancora se derivi dall'influenza di questa moda giapponese. Certo
e che nel 1984 l'influenza del Giappone sarà riconosciuta da molti stilisti italiani (54), un'influenza
che non altera l'evoluzione della moda ma vi si inserisce in perfetta sintonia, facilitando la strada
verso la scioltezza.
Dal 1983 in poi seguire le tendenze della moda sarà impossibile o quanto meno inutile. Molte
altre volte la compresenza di idee diverse si e realizzata nella moda, è la natura stessa del prét-aporter quella di avere diversi mercati, ma solo ora questa coesistenza si presenta come manifesto
programmatico, dividendo il fronte dello stile da quello delle tendenze. Accanto ai continui ritorni
di folk, moda storica, anni Cinquanta e Sessanta, si può parlare di nuova eleganza che supera le
citazioni e gli eccessi nel 1983, di ritorno della moda maschile nel 1984, di ritorno alla femminilità
nel 1985 e di rielaborazione dell'eleganza sartoriale nel 1986, ma la sensazione è quella
dell'impossibilità di impostare non una realtà, ma neppure un discorso di tendenza univoca.
Quello che è evidente è che la nuova semplicità elegante che prende piede con la primavera
1983, non è che il punto di arrivo di quel processo che ha visto la figura dello stilista prendere
sempre più corpo tino ad ottenere il posto del couturier attraverso le spoglie del designer. Un punto
di arrivo che e anche il punto di partenza della nuova Alta Moda, nata su una politica industriale che spinge all'individuazione da parte di ogni stilista del suo singolo stile, rendendolo diverso
da tutti gli altri e sottraendolo ai mutamenti (55).
La nuova Alta Moda è fatta di preziosità e di materiali, di raffinamento di stile, di qualità della confezione e di esclusività nella ricerca del tessuto; in questa’accezione viene consacrata da
Vogue che inserisce il prèt-à-porter per la sera della collezione di Armani nel numero dedicato
all'Alta Moda del settembre 1985.
Foto 22: Bruce Weber, Rosemary Mc Grotha simboleggia il desiderio di naturalezza della donna
negli anni Ottanta, in Vogue Italia, marzo 1981; Yohji Yamamoto, blazer oversize, in Donna,
maggio 1983 (foto Fabrizio Ferri).
Ma Alta Moda non è solo produzione limitata, il costo altissimo dell'abito, è anche una mentalità di
approccio completamente diversa da quella legata alla formazione industriale degli stilisti milanesi
e italiani. Alta Moda aveva significato l'invenzione, e anche ardita; ora lo stilista si lega al
"classico", quasi provasse soggezione nei confronti dell’idea dell'Alta Moda. La couture era fondata
su una consapevolezza della gestualità come rito, del portamento imposto dall'abito a dispetto della
realtà individuale e contestuale, che sembrano non poter più ritornare in vita.
L'immagine del designer, legata alla realtà della punizione in serie e consapevole di avere un
ruolo sociale, lascia parte del terreno acquisito dal 1979 al 1983 a quella del couturier, un
riferimento che si dimostra profondamente radicato(56).
Accanto all'atteggiamento prevalente che si sottrae alla moda in favore di uno stile, acquista
nuovo senso il riconoscimento di una realtà eclettica in cui la creazione assoluta non può esistere
e in cui l'unica possibilità sembra essere la cosciente consapevolezza che ciò che si fa è recuperare il
già inventato. È ciò che fa Meschino sottolineando come lo stile debba dichiararsi tale,senza cercare
di essere moda o invenzione. Un operazione sull'abito che è contemporaneamente
un invito a riflettere sulla professione e sulla identità dello stilista.
N. B.
NOTE
Foto 23: Giorgio Armani, modello da sera della collezione autunno-inverno 1985-86, in Donna,
ottobre 1985 (foto Fabrizio Ferri)
* Le autrici desiderano precisare che il saggio è frutto di una ricerca comune divisa in seguito per
consentirne la stesura.
1. Thorstein Veblen. The Theory of the Leisure Class, Mac-Millan Company, London l899.
2. Abraham H. Maslow, Motivazione personalità,Armando, 1973.
3. A titolo di esempio, si possono ricordare Gucci. Ferravamo, Roberta di Camerino fra gli italiani ed Hermes fra i
francesi.
4. Tanto che spesso sono le boutiques stesse, a cui vengono forniti i teli, a confezionare l'abito sulle misure della cliente.
5. Alvin Toffler, Lo choc del futuro, Milano, Rizzoli, 1972 [2ed.), pp. 57-58.
6. A parte i luoghi di Londra o Parigi che entrarono immediatamente nella mitologia giovanile, tutte le persone
intervistate per questa ricerca erano concordi nel dire che in Italia non esistevano negozi in cui comprare "la niixia".
Solo pochissime boutiques, peraltro appena nate. come Cose, Gulp o Billy Hallo, importavano abiti inglesi e francesi e
un esiguo numero ili produttori italiani, come Krizia e pili tardi i Missoni, s'inserirono in questo filone.
7. Cfr. Domenico De Masi. (a cura di), L’avventura postindustriale Milano, Franco Angeli/Documenti Isvet, 1986 3
ed.), p. 23.
8. E’ il tempo della pop art, ossia dell'apoteosi dell'oggetto che passa rapidamente dalla sua qualità di feticcio a quella di
rifiuto; il ltempo dell'usa e getta, che tenterà di scalfire anche oggetti-simbolo come l'abito da sposa, che verrà proposto
in carta e "servirà a fare splendide tendine per la cucina dopo la cerimonia".
9. Cfr. Giancarlo Marmori, "Mille dispetti vestiti da donna", in L'Espresso, 4 gennaio 1970, p. 12.
10. Cfr. Domenico De Masi, op. cit.
11. Altri stilisti, non francesi, come Ken Scott e Miguel Cruz,lavoravano in Italia nello stesso periodo. Il primo con una
griffe propria che si caratterizzava soprattutto per l'uso dei tessuti che egli stesso progettava, prodotti dalla Falconetto,
stampati a grandi disegni fortemente colorati derivati dai moduli delle tappezzerie, il secondo come libero
professionista.
12. Un esempio per chiarire: nella primavera del 1970 fu con-testato a Papini l'ingresso alla sfilata di Misterfox, che
egli stesso produceva, perché aveva dimenticato l'invito in albergo e soprattutto perché non aveva la cravatta. Il
permesso fu ottenuto a prezzo di una lite.
13. Le collezioni erano per: Trell, Krizia maglia, Montedoro, Billy Ballo e Princess Luciana. Cfr. Isa Vereelloni, Flavio
Lucchini, Milano fashion, Milano, Ed. Condé Nast spa, 1975, pp. 110-111.
14. Non a caso il protagonista di Blow up, il film in cui Antonioni prendeva a soggetto la Londra degli anni Sessanta,
era un fotografo specializzato in foto di moda e reportages sociali ispirato a David Bailey.
15. Nella sfilata per la presentazione della collezione estiva 1971 alla Società del Giardino di Milano, le modelle di
Albini si presentarono sulla passerella a torso nudo. Una soluzione in extremis per far fronte al fatto che il mezzo che
trasportava le camicie della Sportfox si era ribaltato in autostrada per un incidente stradale. Nei mesi successivi molti
parlarono di ri-torno al topless e persino Panorama utilizzò quella immagine per illustrare un servizio sulla nuova
moda. Cfr. Mirian De Cesco, "Fino all'ultima vertebra", in Panorama, 11 novembre 1971.
16. Gli intervistati erano: Mila Schòn, Yves Saint Laurent, Irene Galitzine, Rocco Barocco, Federico Forquet, Andre
Laug, Walter Albini, Pino Lancetti, Jean Baptiste Caumont, Garosa, Sonia Rykiel, Ossie Clark, Enzo Clocehiatti,
Dorothée Bis, Krizia, Mr. Freedom, Biba, Karl Lagerfeld e Mandra Rhodes. Cfr. Vogue Italia, gennaio 1971.
17. E di stracci si trattava, che però avevano trovato un mer-cato pronto a cercarli e smerciarli. "A Parigi - osserva
Marmori - tale febbre mercantile è al colmo. Si smerciano cenci da 'Reine', 'Lili' e "Bidule 60' al mercato delle pulci
della porta di Clignancourt. Nei quartieri de la Nouffe, Saint-Germain-des-Prés e, soprattutto, alle Halles, operano in
questo senso 'Boutique 6', 'Maude' e 'Berangère'. Analogo fenomeno si è verifieato a Londra, non tanto a Portobello's
Road e a Petticoat Lane, quanto da 'Biba' e Kensington High Street, al 'Fleamarket' in Carnaby Street e da 'Essences' in
Kings Road". Cfr. Giancarlo Marmori, "L'arte di vestirsi male", in L'Espresso, supplemento colore, 21 gennaio 1973,
pp. 7-8.
18. A proposito di questa sincronia, forse è opportuno ricordare che un film come La caduta degli dei è del 1969 e II
Grande Gatsby e Morte a Venezia degli anni successivi.
19. Dal momento che non ci è stato consentito l'accesso allo CSAC non ci è stato possibile prendere visione dei disegni
originali di Albini, donati all'Archivio di Parma diretto da Arturo Carlo Quintavalle. Cogliamo quindi l'occasione per
ringraziare il signor Paolo Rinaldi, collaboratore dello stilista scomparso ed esecutore della donazione, che si è
adoperato per poterci mettere a disposizione almeno i provini fotografici di quel materiale, e il signor Romano Sudati
che ci ha fornito i disegni dell'ultimo periodo e quelli conservati presso la Basile e da Luciano Papini.
20. Certamente non era stato un caso il fatto che Albini avesse acquistato a Parigi l'intera collezione di riviste storiche
messe in vendita dalla Sartoria Noberasco.
21. Albini torna su questo concetto in un’intervista rilasciata a Mirella Appiatti e pubblicata su La Stampa del 14
maggio 1971.
22. Anche gli esordi di Papini sono esemplari. Da impiegato qual era, egli si accorge a un certo punto che la moglie, con
un piccolo laboratorio di maglieria, guadagna molto più di lui. Questa semplice constatazione lo spinge a tentare
l’avventura. Apre così un piccolo laboratorio di confezione dove, come tutti, fabbrica abiti copiando i modelli francesi.
Ovviamente non ha una rete di distribuzione e quindi gira l’Italia, anche in questo caso come tutti, a cercare clienti.
L’impresa è resa difficoltosa dall’assenza di punti vendita, ma Papini individua una certa disponibilità nelle modisterie.
Spesso lascia abiti in conto vendite e sempre più di frequente accade che non solo questi abiti vengano smerciati con
maggiore facilità dei cappelli, ma addirittura che le modisterie vengano trasformate in boutiques.
Foto 24: Bill King, campagna pubblicitaria per la collezione primavera-estate 1986 di Enrico Coveri
23. La bozza di contratto con la Cole of California per la collezione estate 1971 recita esplicitamente: "II presente
accordo esclude qualsiasi indicazione scritta del marchio Walter Albini, in: etichettatura dei capi, carta da lettere,
materiale pubblicitario ecc., salvo espressa autorizzazione del Sig. Albini stesso". Documento conservato da Luciano
Papini.
24. E molti giornali annunceranno quest'evento già nei titoli dei servizi dedicati alla moda, come La gazzetta del
mezzogioro del 22 maggio che intitolerà "Cinque cavalli da corsa per il Walter Albini".
25. Ovviamente la scelta di queste ditte non era stata casuale. Callaghan, Basile ed Escargots erano nell'area d'influenza
della FTM, anche se in modi differenti. La Basile, infatti, apparteneva già al gruppo, mentre Escargots, una azienda
friulana specializzata in maglieria, era stata acquisita per l'occasione. Allo stesso modo, Papini aveva aggiunto alla
Misterfox la Sportfox per superare gli inconvenienti che derivavano dalla presenza nel gruppo di una ditta straniera, per
la precisione svizzera, come la Diamant's.
26. Su Interest del 14-15 giugno 1971 vengono pubblicati i dati relativi all'andamento delle vendite della cosiddetta
"linea Venezia, scegliendone l'aspetto più internazionale ed esclusivo, come già aveva fatto Visconti in Morte a
Venezia.
27. Riviste specializzate, giornali e persino libri amplificano questo fatto proponendo un modello del creatore che
finisce per ricalcare quello delle biografie degli artisti. Gli inizi oscuri, l'irrequieto girare il mondo in cerca di
esperienze, gli incontri con i miti, le difficoltà e infine, come in ogni favola bella, l'imporsi del genio. Ma, ovviamente,
questo tipo di cursus honorum è come l'alloro sulla testa dell'eroe, non spiega i fatti e può appassire da un momento
all'altro.
28. Documento conservato nell'archivio personale di Luciano Papini.
29.Cfr. la scheda abito a p. 107.
30. E Albini, con grande intuito, vi aveva aggiunto quello di Venezia, scegliendone l’aspetto più internazionale ed
esclusivo, come già aveva fatto Visconti in Morte a Venezia.
31. La W.A. rinascerà alla fine degli anni Settanta da una nuova società stipulata con Mario Ferrari. Anche in questo
caso il sodalizio e con un imprenditore e distributore ed ha alla base un'azienda, ma anche in questo caso - come in un
racconto circolare - tutto naufraga dopo due stagioni e per motivi che probabilmente non hanno alcuna attinenza con la
qualità del prodotto, ma piuttosto con la politica dell'immagine.
32. Il premio creato da Neimann Marcus, proprietario dell'omonimo grande magazzino di Dallas, e considerato molto
prestigioso. Fra i nomi italiani figurano Mirsa nel 1953. gucci nel 1954, Roberta di Camerino nel 1956, i Missoni nel
1973, Valen tino nel 1976, Giorgio Armani nel 1979
33. Silvia Giacomoni, L’Italia della Mada. Milano, Mazzetta,1984, p. 95.
34. Ferrante, Tositti e Monti partono acquistando la Basile, una ditta faconnista della Hitman, nel momento in cui era
stato decretato il fallimento, e rilevando la Callaghan, che si era diretta soprattutto al settore della maglieria intima
fornendo anche l'esercito, allora in cattive acque: una situazione in cui c'era poco o nulla da perdere nel tentare il
rapporto con lo stilismo sul quale tutta l'operazione si fondava.
35. La lunga esperienza nel settore della distribuzione aveva reso i componenti del gruppo FTM buoni conoscitori del
mercato italiano, mettendoli in grado di individuare con chiarezza fasce di mercato e tipi di prodotto da proporre,
capacità che furono tra i primi a detenere al livello del prét-à-porter.
36. La Cadette, fondata da Enzo Clocchiatti alla metà degli anni Sessanta, impostò subito la sua attività sul rapporto con
lo stilista, pur mantenendo un'immagine molto individualizzata. Fu ceduta nel 1976 a una nuova gestione che la passò
dopo poco agli attuali proprietari, i Fantoni. Fra gli stilisti che hanno lavorato alla Cadette si possono ricordare Walter
Albini, Nanni Strada. Karl Lagerfeld, Giorgio Correggiari, Franco Meschino, Quirino Conti. La storia degli esordi della
Cadette è stata ricostruita da Isa Vercelloni e Flavio Lucchini, ma la figura di Clocchiatti e l'antesignana politica
aziendale di questa ditta meriterebbero un ulteriore approfondimento che la scomparsa di Clocchiatti e la partenza della
compagna e socia Christine Tidmarsh, rendono difficoltoso.
37. Sergio Galeotti prima di entrare in società con Annani aveva lavorato in uno studio di architettura a Pietrasanta e in
seguito si era trasferito a Milano dove era entrato nello studio Belgioioso, Peressutti e Rogers. Galeotti è
prematuramente scomparso nell'estate del 1985.
38. L'idea di uno studio stilistico slegato da rapporti con la fase produttiva era nata nei primi anni Settanta e si era
concretizzata nel 1973. Armani riprese allora i rapporti con quelle ditte che lo avevano cercato mentre lavorava con
Cerniti, e prima di avviare la linea Armani, ebbe modo di disegnare le linee di Sicon's, Montedoro, Cibo, Tendresse,
Courlande.
39. Si veda ad esempio il caso di Erreuno.
40. E il caso di Mariuccia Mandelli. Il problema era che non esistevano strutture di prét-à-porter nelle quali inserirsi e
chi voleva fare questo lavoro o passava attraverso l'Alta Moda, o attraverso lo stilismo aziendale e la confezione; la
terza via poteva essere solo quella di produrre da sé le cose disegnate e tentare di distribuirle con un lavoro porta a porta
come ricorda appunto la Mandelli.
41. Un a-spetto decisamente interessante del rapporto fra aziende e stilista è l'estrema varietà delle soluzioni adottate nel
modo di amministrarsi. Sarebbe stato importante esaminare anche il caso di Gianni Versace e della finanziaria realizzata
da Claudio Luti e Santo Versace, ma questioni di spazio non lo permettono. Pertanto rimandiamo a Silvia Giacomoni,
op. cit., p. 75, cap. "Come si amministrano".
42. Si veda ad es. l'interessante caso dello spostamento di immagine da Versace a Donatella Girombelli, operato dalla
Genny con l'aiuto di Nando Miglio, reso necessario dalla nascita della linea Versace.
43. Beppe Modenese, messosi in contatto con Mario Goracci, lo porto alla Fiera per mostrargli il futuro Centro Sfilate.
Goracci inorridito si allontano dicendo: "Per l'amor di Dio, la moda e il regno dell'eleganza e deve avere una cornice
degna."
Foto 25: Gianfranco Ferré, modello da sera della collezione di Alta Moda presentata a Roma il 22 luglio 1986 (foto
Maria Cristina Vimercati)
44. Silvia Giacomoni, ap. cit., p. 110.
45. E il caso di Giorgio Armani e di Mariuccia Mandelli, ma è anche il caso di quei nomi che, non avendo grosso peso
industriale, vengono sacrificati nelle ore meno propizie. Valga per tutti il caso di Cinzia Ruggeri e Enrica Massei.
46. In danni Versace al the Victoria and Albert Museum, Gianni Versace, Milano 1985, p. 8.
47. A proposito dell'intervento tecnologico sul tessuto studiato dagli stilisti, vedi il servizio realizzato da Nicoletta
Gasperini su Donna, febbraio 1984, pp. 132-1;».
48. In un articolo di Silvana Bernasconi su Voglie, dicembre 1974, si traccia con grande accuratezza un parallelo fra le
presentazioni parigine e la mostra al Grand Palais. 49. Su questa chiave di lettura vedi Arturo Carlo Quintavalle, "II
racconto di Giorgio Armani" in Annani, Milano, FMR, 1983. pp. 20-21.
50. La rivista mensile Danna, fondata da Flavio Lucchini e Gisella Borioli, u.scì nel marzo del 1980. Fino a quel
momento i due fondatori avevano lavorato all'interno del gruppo Condé-Nast (Lucchini era stato direttore di L'Uomo
Vogue).
51. Non ci dilunghiamo qui sul rapporto tra moda e design r il dibattito che esso ha suscitato. Ci limitiamo a ricordare
alcune perplessità che furono sollevate di fronte a certe forzature di questa associazione. Ad es. Silvia Giacomoni, nel
secondo capitolo del suo libro, spiega come il processo di integrazione con il tessuto cittadino che il designer ha
sviluppato, per lo stilista sia stato ipotizzato più eh» realizzato, mentre "II punto di vista di Vogue del gennaio 1984
entra nel merito del fatto disciplinare e pone in dubbio la saldezza e la legittimità di questo rapporto, ricordando come la
moda, in quanto tale, sia sempre legata alle forme espressive più in auge in un determinato momento. A questo
proposito cfr. anche il parere espresso da Sottsass su Donna, dicembre 1984.
52. Oltre a Ferré, quasi tutti gli stilisti si sono accostati alla ricerca grafica del design, basti per tutti l'esempio di
Mariuccia Mandelli che ha disegnato modelli dalla linearità molto enfatizzata. Uno studio messo in evidenza nelle
intelligenti campagne pubblicitarie di Giovanni Gastel, fotografo di un nitore quasi irreale che ben si adatta alla
interpretazione di questo rapporto tra moda e design.
53. Nelle prime sfilate le modelle uscivano con un make-up che utilizzava macchie di trucco e colate di smalti e
spettinature per creare un effetto di non-trucco, quasi si trattasse di sopravvissute a qualche disastro. E fu subito definito
look post-atomico.
54. Vedi a questo proposito la dichiarazione rilasciata da Armani a Donatella Sartorio in Donna, febbraio 19M: "Gli
stilisti giapponesi mi hanno dato un solo messaggio ma importante e cioè un più ampio senso di libertà".
55. Vedi Donna, ottobre 1985 che dedica l'editoriale alla personalità dello stilista come maestro di filosofia di vita e il
lungo servizio intitolato "Io e il mio stile", in cui ogni stilista parla della sua singolarità e delle regolarità ricorrenti.
56. Nel luglio del 1986, sotto pressione del presidente della Camera dell'Alta Moda Loris Abate, alcuni stilisti milanesi
hanno presentato le loro collezioni da sera nel contesto delle sfilate romane e Gianfranco Forre ha sfilato con una
collezione completa di Alta Moda.
Foto 26: Franco Moschino, tanti look con un solo modello, in Donna, aprile 1985