Facoltà di Scienze della Formazione

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Facoltà di Scienze della Formazione
Dipartimento di Scienze della Formazione
Università di Roma Tre
Anno accademico 2015/2016
Corso di laurea in “Formazione e sviluppo delle risorse umane”
Insegnamento
Politica economica e gestione delle risorse umane
Docente
Prof. Aldo Gandiglio
Prima parte
LEZIONE 5
CICLO ECONOMICO – CRISI - SVILUPPO
Aldo Gandiglio - Politica economica e gestione delle risorse umane – Università Roma Tre
a.a. 2015 – 2016
Ciclo economico, crisi e sviluppo
Ricordiamo ancora una volta che ci limitiamo ad approfondire in via prioritaria la crescita economica,
definita attraverso la crescita del reddito e della produzione, mentre quando affrontiamo i contenuti
dello sviluppo dobbiamo tener conto di fattori non solo produttivi - quantitativi, ma da un insieme di
elementi e variabili socio-economiche, quantitative e qualitative (come riportato nelle lezioni
precedenti).
La crescita economica e produttiva si muove nel tempo con oscillazioni, momenti di forte crescita,
rallentamenti, diminuzioni.
Il ciclo economico indica le fasi alterne di espansione e di contrazione dell'attività economica di un
paese, che viene segnalata da indici quantitativi globali, come il Pil, o con altri indicatori, come la
produzione industriale o l'occupazione.
Sul piano empirico, viene solitamente individuato in due fasi: l’espansione, con il Pil che aumenta
fino a un periodo di boom, l’attività economica (ed anche finanziaria) e, solitamente, anche i prezzi,
aumentano; e la recessione (viene così tecnicamente definita quando il Pil reale diminuisce per
almeno due trimestri).
I cicli economici non vanno confusi con le fluttuazioni economiche, normali variazioni determinate da
andamenti settoriali, dai cambiamenti nella propensione e orientamenti dei consumatori, dalla
scomparsa di alcuni beni di consumo sostituiti da altri, dall’introduzione di nuove tecnologie, dagli
andamenti stagionali che influenzano i raccolti agricoli o il turismo, ecc.. Si può realizzare un declino,
magari temporaneo, in un settore economico, cui fa da compensazione un aumento in un altro
settore, ovviamente con oscillazioni e disallineamenti temporali.
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L’osservazione di una qualche regolarità nel tempo e le sue manifestazioni e conseguenze – positive
e negative sull’occupazione, sui redditi - hanno spinto gli economisti ad analizzare le cause che
possono determinare/influenzare il ciclo economico, e a cercare di individuare e misurare i possibili
interventi da porre in atto per far riprendere una espansione dell’attività economica o per rallentarne
la caduta.
Solitamente, le teorie del ciclo individuano cause esogene o endogene, a seconda che i fattori
ritenuti responsabili vengano individuati all’esterno o all’interno del sistema economico.
Sono sicuramente esogene le cause imputabili alle guerre, eventi rivoluzionari, cui fanno seguito
politiche economiche dettate dalla eccezionalità degli eventi, ma anche alle elezioni, (vi sono degli
studi sugli effetti economici dei cicli elettorali); altrettanto esogeni possono essere gli impulsi sul
sistema produttivo derivanti da scoperte di giacimenti energetici (paesi produttori di petrolio).
Cenni di teoria dello sviluppo nella storia del pensiero economico
Affrontando il ciclo economico, ci permette di iniziare ad accennare, con una estrema sintesi, anche
ad alcune elaborazioni appartenenti ai più grandi economisti. E’ inutile rammentare che esiste
una vastissima letteratura al riguardo.
Le prime teorie economiche sulla ricchezza nazionale e su come operare per aumentarla
appartengono agli scritti che fanno riferimento ad una ampia area di politiche che va sotto il nome di
mercantilismo: è stata la teoria dominante per circa tre secoli ed ha influenzato le politiche
economiche dei vari stati. La ricchezza viene intesa come stock di metalli preziosi (riserve): un
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paese è più ricco di altri se possiede una maggior quantità di metalli preziosi a disposizione del
Tesoro. Da tale impostazione ne deriva una politica espansionista tesa, da un lato, ad appropriarsi di
riserve di metalli preziosi, dall’altro, a ricercare sbocchi commerciali per incentivare gli scambi di beni
prodotti ed aumentare le esportazione (e corrispondentemente i pagamenti in valuta pregiata), ma
anche l’acquisto (e la produzione) di merci in paesi stranieri da utilizzare/vendere successivamente.
E’ il periodo, prima, delle guerre coloniali, e insieme del grande aumento degli scambi e dei viaggi:
nei primi anni del 1600 era stata fondata la East India Company inglese e poi la olandese; alle
conquiste coloniali militari si affianca ora il controllo delle risorse delle colonie attraverso interventi e
strumenti commerciali. Ma è anche il periodo in cui si affermano politiche protezionistiche, come i
dazi doganali sulle importazioni a protezione dell’industria nascente o incentivi e sussidi alle
esportazioni (si ricorda Colbert, ministro delle Finanze di Luigi XIV, che utilizzò misure di protezione
per incentivare lo sviluppo dell’industria nazionale nascente).
Se il colonialismo contribuisce ad ottenere materie prime a bassi costi, così come lo sviluppo delle
esportazioni e dei commerci, nel contempo si inizia a tener sempre più conto (e ad approfondire) le
relazioni tra i costi di produzione, i prezzi dei beni e, quindi, la competitività dei prodotti sul mercato
internazionale. Nel finire del 1600 e poi nel secolo successivo si guarda non solo alle politiche di
espansione (viste come causa delle guerre) per aumentare la ricchezza delle nazioni, ma anche alle
diverse modalità con cui sia possibile generare ricchezza. Vengono posti in rilievo i diversi stadi di
sviluppo delle nazioni, a partire dal settore agricolo, il cui sviluppo è ritenuto il prerequisito della
crescita economica dello stesso settore produttivo industriale; emergono nuovi concetti come la
produttività, la divisione tecnica del lavoro.
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Tutti questi nuovi approcci trovano sistematizzazione negli scritti di numerosi studiosi che nella
seconda metà del 1700 danno luogo ad una fioritura di scritti, dibattiti, interventi, che trattano
argomenti che ancora oggi sono al centro del dibattito economico e che, possiamo dire, formano il
nucleo centrale della nascita del pensiero economico. Si parla di: libero commercio, pareggio della
bilancia commerciale per incentivare il commercio, velocità di circolazione della moneta, della
distinzione di attività produttive e non produttive, divisione sociale del lavoro, utilizzo del surplus a
partire da quello agricolo, accumulazione di capitale, nuovi investimenti produttivi, tasse, intervento
dello Stato… E’ un corpo di concetti che è ancora limitato quello che lega il pensiero di questi
studiosi dei fenomeno sociali, politici, economici che vanno sotto il nome di Fisiocratici che, per
sintetizzare, vedono che l’aumento di capitale avviene in via prevalente nell’agricoltura, ma tuttavia
pongono con forza l’affermazione che vi siano settori più produttivi di altri, e su cui conviene
investire in quanto la produttività è più elevata e può generare un prodotto maggiore.
Adam Smith
A completare e ad innovare anche in profondità queste intuizioni vi sono i numerosi scritti di Adam
Smith, ritenuto il padre degli economisti classici, che nella sua opera più nota del 1776, Indagine
sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, individua nella divisione del lavoro l’origine della
ricchezza e della sua crescita.
Intanto, per gli economisti classici la divisione sociale del lavoro individua ora tre grandi classi
sociali: proprietari terrieri, imprenditori-capitalisti, lavoratori, cui si aggiungono mercanti,
amministratori, uomini di cultura ecc.
Smith offre inoltre una definizione di ricchezza, come il prodotto annuale della terra e del lavoro di
tutta la società (come si vede, molto vicino al nostro PIL); ancora, descrive l'esistenza di due settori:
produttivo ed improduttivo, distinguendo i settori che producono beni materiali e quelli che
producono servizi, in ciò portando all’evidenza la grande importanza del settore manufatturiero, che
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diventa trainante. Partendo dalla definizione di settore improduttivo quello che cresce meno
rapidamente di un altro, individua nell’aumento della produttività e nell'accumulazione di capitale nei
settori produttivi la possibilità di aumentare la ricchezza complessiva.
La possibilità di aumentare la produzione è rinvenibile nella divisione tecnica del lavoro, cioè la
suddivisione di operazioni produttive complesse in operazioni semplici, che consente di aumentare
la produttività di ogni singolo lavoratore (per chiarire, illustra la “produzione degli spilli”, in cui
l’aumento della quantità di spilli per lavoratore si ha se ciascun operaio si specializza in una
particolare fase della produzione, invece di seguire l’intero ciclo di lavorazione).
Già nel 1776 Adam Smith considerava le capacità acquisite e possedute dagli abitanti come una
parte del capitale di una nazione e attribuiva l’esistenza di differenziali salariali anche alla
necessità di compensare i costi per l’acquisizione di una certa qualifica professionale.
Proponendo l’analogia tra l’uomo e le macchine: “...Quando si impianta una macchina costosa ci si
deve attendere che il lavoro straordinario che essa farà prima di dover essere messa fuori uso per
deperimento ricostituirà il capitale impiegatovi, oltre, almeno, ai profitti ordinari. Un uomo istruito al
costo di molto lavoro e molto tempo ad una di quelle occupazioni che richiedano destrezza ed abilità
straordinarie può essere paragonato ad una di quelle macchine costose. Ci si deve attendere che il
lavoro che egli impara a fare oltre agli usuali salari del lavoro comune, gli ricostituisca la intera spesa
della sua istruzione, oltre ai profitti ordinari, di un capitale di uguale valore. E deve anche ricostituire
in un tempo ragionevole, considerata la assai incerta durata della vita umana, nello stesso modo in
cui si considera la più certa durata della macchina” (Smith 1776, p. 93).
Sinteticamente Smith riflette sul fatto che poiché la crescita degli uomini, come la produzione della
macchine, richiede l’impiego di risorse economiche, sarebbe una grave forzatura tenere conto solo
del valore delle macchine nel calcolo della ricchezza nazionale e trascurare quella degli uomini, per il
fatto che il reddito totale di un Paese è la risultante di tutti i mezzi materiali e personali cioè di tutti i
fattori di produzione.
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Analizzando i meccanismi che sono alla base della creazione della ricchezza delle nazioni, Smith
individua una costante di ciclo degli investimenti nello sviluppo economico: in via prioritaria si investe
in agricoltura, successivamente nella manifattura (in cui si concentra la massima divisione tecnica
del lavoro), poi in alcune attività commerciali interne, come i trasporti, e infine nel commercio estero.
In questo modo si vede come una nazione debba progredire nella storia.
Nel passaggio delle fasi di sviluppo, il capitalista diventa una figura fondamentale di controllo e
coordinamento del processo produttivo, infatti, mosso dal profitto (quindi dalla possibile
accumulazione di capitale) riesce ad introdurre il progresso tecnico e le innovazioni, il capitalista
quindi accumula, ovvero risparmia e di seguito investe). Per favorire lo sviluppo, il contesto
istituzionale migliore per Smith è la concorrenza che permette al capitalista di agire liberamente e
perseguire i suoi interessi personali attraverso i quali riesce a perseguire anche gli interessi collettivi
perché lo sviluppo economico che si genera porta benefici per l'intera società. In tal senso, é rimasta
famosa l’affermazione di Adam Smith “Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del
fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse.
Non ci rivolgiamo alla loro umanità, ma al loro egoismo, e con loro non parliamo mai delle nostre
necessità, ma dei loro vantaggi”
Smith affronta anche altri temi che verranno, in seguito, approfonditi da altri economisti, come la
necessità di sviluppare il commercio internazionale sia per utilizzare una eventuale eccedenza, non
assorbita dalla domanda interna (viene avanzato anche il concetto del lavoro come fattore di
creazione di surplus e generatore delle eccedenze), sia come miglioramento della divisione del
lavoro e più efficiente specializzazione delle capacità produttive di un Paese, con conseguente
crescita di reddito e ricchezza reali. In tal senso Smith afferma: “Se un Paese estero può fornirci una
merce più a buon mercato di quanto noi possiamo farlo, sarà meglio acquistarla da quel Paese con
una parte del prodotto della nostra industria, impiegata in un modo nel quale se ne tragga qualche
vantaggio”.
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Anche se, ancora, nella determinazione della specializzazione produttiva di un Paese non compare il
progresso tecnico, in quanto la competitività è vista legata ai “vantaggi comparati”, all’inizio del 1800
con David Ricardo si inizia a individuare nelle differenze della tecniche di produzione utilizzate tra i
Paesi come uno dei fattori per la interpretazione dei modelli di commercio e di specializzazione
internazionale.
La teoria dei vantaggi comparati pone come condizione necessaria perché si abbia scambio (anche
quello internazionale) l’esistenza di una differenza dei “costi comparati”, a sua volta riflesso delle
differenze nelle tecniche produttive; da ciò ne discende che un Paese avrà convenienza a
specializzarsi nella produzione del bene in cui ha il vantaggio relativamente maggiore, o – di
converso - lo svantaggio relativamente minore.
Ma accanto a interpretazione ed approfondimenti sulle condizione dello sviluppo, avanzano anche
approcci che mettono in evidenza i fattori di criticità, a partire dalla produzione del settore primario
(agricolo), per molto tempo ritenuto il fulcro dello sviluppo e ricchezza di un Paese. Si ricorda
Thomas Malthus, la cui opera più importante è “Un saggio sul principio di popolazione” (1798), in
cui introduce nell’analisi il concetto di "risorse limitate" in agricoltura, partendo dall'assunto che la
popolazione cresce in proporzione geometrica mentre la produzione dei mezzi di sussistenza cresce
in proporzione aritmetica. Per Malthus, la popolazione cresce maggiormente laddove vi sono salari
reali più elevati, per cui le famiglie vivono in migliori condizioni e possono far nascere e crescere più
figli. Ma questo meccanismo ha in sé l’elemento di contraddizione: l’offerta di lavoro aumenta
determinando così una diminuzione dei salari, che nel lungo periodo raggiungerà il livello di pura
sussistenza, peggiorando le condizioni di vita.
Una diversa approdo, sempre partendo dal concetto di scarsità applicato all’agricoltura, è frutto della
elaborazione di David Ricardo, che ne individua conseguenze economiche che vanno oltre le
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considerazioni d’ordine demografico. L’analisi si basa sulla definizione della rendita del proprietario
agricolo, messa in relazione con la limitata disponibilità dei terreni e con la necessità di sfruttare
sempre più i terreni a causa all'aumento della popolazione, mettendo così a coltura i terreni via via
meno fertili, quindi con una minore produttività. Rimanendo costante il salario dei lavoratori, in
quanto salario di pura sussistenza, quindi indipendentemente dal terreno coltivato, si determina una
diminuzione della produttività del lavoro ogni volta che viene messo a coltura un terreno meno fertile.
Due conseguenze: la rendita sui terreni più fertili aumenterà in quanto gli imprenditori agricoli
cercheranno questi terreni per i loro investimenti per ottenere un saggio di profitto più elevato,
inoltre, la diminuzione della produttività del lavoro legata ai terreni a fertilità decrescente porterà alla
diminuzione del saggio il profitto, in quanto i salari sono tendenzialmente portati a livello di
sussistenza.
Una riequilibrio positivo può venire dall'allargamento della produzione e del mercato a livello
internazionale, in modo da aumentare la disponibilità di terreni fertili, ottimizzando la produttività e
innescando una crescita economica complessiva: è questo il presupposto della teoria ricardiana del
vantaggi comparati secondo cui ogni Paese si dovrebbe specializzare nel produrre il bene da cui
ottiene un maggiore rendimento assoluto (vantaggio comparato), e importare i beni in cui ripone
minori vantaggi, ciò indipendentemente dal fatto che produca altri beni con buoni rendimenti.
Molte di queste considerazioni si trovano successivamente nelle elaborazioni di Karl Marx. Da Smith
riprende la visione che la storia proceda per stadi caratterizzati da modificazioni nell’organizzazione
economica, sociale e politica. Secondo una visione materialista della storia, la storia è coniata dal
rapporto materiale tra uomini attraverso il processo produttivo ed in questo processo dinamico si
inserisce lo sviluppo capitalistico.
Anche la caduta tendenziale del saggio di profitto viene ripresa da Marx, collegato direttamente al
saggio di sfruttamento: l’aumento del plusvalore genera compressione dei salari e una modificazione
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della composizione organica del capitale (a favore del capitale fisico contro l’aumento dei salario).
Questo genera situazioni conflittuali tra capitale e lavoro, con una tensione all’aumento del tasso di
profitto attraverso un aumento del capitale contro il lavoro. Ciò genera, da un lato, un eccesso di
capacità produttiva e, dall’altro, ad una crisi da domanda provocata anche dallo scarso potere
d’acquisto a causa della compressione dei salari. Per Marx questa contraddizione interna al modo di
produzione capitalistica porterò alla crisi del sistema capitalista e ad un mutamento del modello di
produzione.
Dopo Smith, Ricardo e Marx, molti altri economisti riprendono i temi dello sviluppo e della crisi, tra
questi si riporta Schumpeter, uno dei massimi economisti del ‘900, di origini austriache, professore
di economia in varie università europee ed americane, che offre un contributo originale alla
individuazione delle determinanti della crescita e del ciclo economico.
Schumpeter si concentra nelle interpretazioni dell’andamento crescente ed oscillatorio del sistema
economico: lo sviluppo economico procede a balzi, con brusche frenate e ripartenze. E’
l'introduzione delle innovazioni (tecnologiche e non) nel processo produttivo che innesca un ciclo
economico di lungo periodo, con l’alternarsi di fasi di forte espansione seguite da fasi di recessione.
Le innovazioni si diffondono a grappolo in alcuni settori, generando l’aumento di prodotto che si
riversa sul mercato mettendo in crisi le imprese e i settori più tradizionali.
Schumpeter conia il termine di distruzione creatrice per il tale processo di sviluppo caratterizzato da
continue innovazioni. La loro introduzione ha effetti che durano nel tempo fino a quando i nuovi beni
saturano il mercato, con le imprese che diminuiscono gli investimenti a causa delle diminuite
prospettive di profitto. Ha così inizio una fase recessiva del ciclo che riprende con l'introduzione di
altre innovazioni che possono provenire dalle imprese esistenti o da nuove imprese o da altri settori
economici, oppure da altri paesi produttori.
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Per Schumpeter lo sviluppo è, quindi, una caratteristica peculiare dell’economia capitalistica, ed il
motore che dà spinta al sistema economico è rappresentato dall’imprenditore innovatore, che, nel
momento in cui il profitto non cresce o diminuisce, spinge alla ricerca di nuove modalità per poterlo
aumentare, con nuovi prodotti, processi, nuovi mercati, portando il sistema su di un sentiero più
elevato di crescita economica. L’innovazione diventa quindi endogena allo stesso sistema
economico, che per dispiegare al massimo le possibilità di innescare e mantenere sviluppo deve
essere operare all’interno di mercati concorrenziali.
I monetaristi
Molti sono gli economisti che hanno approfondito le politiche monetarie. Oltre ad averne analizzato
gli effetti, annettono alla moneta una causa primaria nel determinare i cicli economici, in coincidenza
di aumenti (espansione) e di riduzioni (recessione) del livello dei prezzi indotti dai mutamenti della
quantità di moneta.
Si ricordano gli esponenti della scuola “austriaca” (i più importanti: Mises, Hayek, Böhm-Bawerk)
che individuano quali cause esogene nell’origine dei cicli gli interventi della politica monetaria, in
particolare le politiche attuate dalle banche centrali attraverso un costante aumento dell'offerta di
moneta.
La centralità della moneta nel funzionamento di ogni sistema economico è il fondamento teorico dei
“monetaristi”, una scuola di pensiero economico che ha come principale rappresentante Milton
Friedman (Nobel nel 1976) e gli economisti della Scuola di Chicago.
Gli approcci teorici hanno avuto rilievo nel determinare gli indirizzi di politica economica degli
organismi internazionali (Fondo Monetario Internazione) e di numerosi governi neo-liberista e
conservatori (Thatcher in Gran Bretagna, Reagan negli USA, i paesi sudamericani) in
contrapposizione alle politiche keynesiane che avevano prevalso sino all’inizio degli anni ’70, e che
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venivano ritenute insufficienti, inadeguate a frenare la crescita della disoccupazione e dell’inflazione
a seguito della crisi petrolifera del 1973.
In estrema sintesi, e semplificando, per i monetaristi:
1. La politica monetaria è uno strumento inefficace di politica economica
2. La gestione dell’offerta di moneta deve essere soggetta a regole per evitare instabilità nel sistema
economico.
Le conclusioni in termini di politiche economiche:
a) controllo dell’offerta di moneta, con quantità predeterminata in relazione con la crescita
economica, al fine di evitare spirali inflazionistiche;
b) stretta del credito, in particolare per il finanziamento del deficit del bilancio pubblico;
c) riduzione della spesa pubblica;
d) riduzione della pressione fiscale.
Da questo impianto teorico è emersa una rinnovata fiducia nel libero mercato, per il quale non
esistono difetti fondamentali tali da generare una disoccupazione persistente, almeno nelle realtà in
cui prezzi e salari sono pienamente flessibili.
Keynes
All’opposto si colloca l’impianto del pensiero di Keynes, che vede nei meccanismo endogeni del
sistema economico le determinanti del ciclo di sviluppo, relativamente alle aspettative e all’influenza
sulla domanda di investimenti; quando le aspettative diventano negative si contrae la domanda di
beni capitali, che deprime la produzione, genera disoccupazione e ulteriore contrazione della
domanda di beni di consumo. Anzi, era proprio questa differente visione del fenomeno della
disoccupazione a caratterizzare i due approcci economici che per anni si sono fronteggiati: i
keynesiani ed i neoclassici. Mentre nella teoria keynesiana la disoccupazione è permanente,
involontaria e originata da una domanda insufficiente (di qui l’indicazione di una politica di aumento
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della spesa pubblica), per i neoclassici la disoccupazione è transitoria, imputabile al momentaneo
adattamento del sistema economico che naturalmente tende all’equilibrio.
Come si potrà leggere poco dopo (vedi anche le letture suggerite) la politica economica keynesiana
nasce dal fallimento della teoria neoclassica a rispondere alla grande depressione del ‘30. Le teorie
keynesiane sono sintetizzabili soprattutto dall’utilizzo della spesa pubblica (per consumi, ma
soprattutto per investimenti), per aumentare la domanda effettiva del sistema e per portare il sistema
verso la massima occupazione. Ma la vera applicazione su larga scala delle politiche economiche
keynesiane si ha nel dopoguerra, con il grande piano di aiuti americani all’estero e con le alte spese
per gli armamenti, che hanno portato ad un tasso di sviluppo del Pil continuo ed elevato, mai
conosciuto nei periodi precedenti.
Ma il successo stesso delle teorie keynesiane ha creato le condizioni per cui sono entrate in crisi:
l’avvicinarsi alla piena occupazione ha rafforzato la forza dei sindacale e, soprattutto, si è ingenerato
nei governi il ricorso alla spesa pubblica (spesso finanziata in deficit) per controllare il ciclo
economico. Questa politica è però entrata in crisi all’inizio degli anni ‘70, con la difficoltà di
controllare quello che allora era diventato il fenomeno sociale più importante dell’economia:
l’aumento dell’inflazione.
Da ultimo ricordiamo, in analogia a quanto detto, l’interazione moltiplicatore/acceleratore,
sistematizzato da Samuelson e Hicks, in cui si trovano altri presupposti del ciclo economico (sia
nelle fasi di espansione sia di recessione). Con il principio dell’acceleratore l’aumento dei consumi
(domanda di beni e servizi) influenza la capacità produttiva delle imprese e determina un successivo
incremento degli investimenti, e in tal modo l’incremento dei beni capitali è più che proporzionale
rispetto all’incremento nella produzione dei beni di consumo. E ciò caratterizza una fase di
espansione. Ma se i consumatori mantengono lo stesso livello di consumi (di più, ancora, se
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diminuiscono) si può innescare una fase recessiva: rispetto al periodo precedente la domanda di
beni capitali si riduce, generando la depressione in tale settore.
Politiche keynesiane e politiche neoclassiche
La contrapposizione tra le politiche di ispirazione keynesiana (in sintesi, sostegno della domanda,
finanziamento con deficit pubblici, ecc.) e quelle di ispirazione neoclassica, maggiormente legata ai
principi liberisti (in sintesi, politiche dell’offerta: rigore di bilancio, austerità, contenimento dei salari,
maggiore competitività internazionale ecc.) continua ad influenzare sia il dibattito, sia le decisioni
politiche dopo la crisi e le politiche di austerity, con una particolare impatto per la situazione
economica in Europa (e, più ancora, per l’Italia). Al riguardo, si rimanda al dibattito stringente che sta
ancora avvenendo sulla funzione della Bce, sul quantitative easing (vedi lezione 4), sul rispetto dei
parametri di Maastricht e sulle conseguenti politiche economiche e finanziarie dei diversi paesi
europei.
Altra differenza tra la teoria keynesiana e quella neoclassica riguarda la posizione dei mercati
monetari (o finanziari in genere), del mercato dei beni (che formano la domanda effettiva) e del
mercato del lavoro (occupazione). Mentre nel primo approccio teorico i tre mercati sono
interconnessi in una posizione gerarchica, con il mercato del lavoro sul quale incidono gli altri due
mercati (da ciò deriva la spinta alla regolamentazione/intervento pubblica nei tre mercati), nella
teoria neoclassica i tre mercati vengono interpretati quasi come indipendenti uno dall’altro, ed in
particolare il mercato del lavoro è ritenuto simile al mercato delle merci, e tutti in grado (secondo un
ulteriore approfondimento analitico sistematizzato nella teoria dei “mercati efficienti” delle attività
finanziarie), di muoversi con valutazioni ottimali delle diverse situazioni attraverso i prezzi (e il
salario), che riflettono tutte le informazioni disponibili a un certo momento; da ciò ne deriverebbe il
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rifiuto di regole che ostacolano il libero funzionamento dei mercati, aprendo così la via alla
deregolamentazione, uno degli aspetti salienti della finanziarizzazione dell’economia: la crescente
convenienza di spostare i capitali verso le attività finanziarie (e speculative) rispetto a quelle
direttamente produttive, da molti ritenuta una delle cause determinanti dell’attuale crisi.
Economia dell’innovazione1
Negli anni settanta del secolo scorso si delineano nuove chiavi interpretativa riguardo al commercio
internazionale, ai processi di sviluppo, alla economia industriale e di impresa.
Ricollegandosi a Schumpeter, si afferma una "teoria evolutiva" in cui la dinamica economica è
interpretata come un processo evolutivo, con continue opportunità di miglioramento e cambiamento,
ma raramente con soluzioni ottimali. Non esistono più mercati perfettamente concorrenziali, il
vantaggio competitivo non è più risultato esclusivo della dotazione iniziale dei fattori, ma risulta
essere dipendente dalle azioni e dalle differenti strategie messe in atto dai Paesi per incrementare la
propria produttività.
Soprattutto è l’attività innovativa a influenzare i rendimenti dei Paesi in termini di esportazioni;
secondo la teoria evolutiva, infatti, la “competitività di un Paese dipende dal suo sistema di
innovazione e sono i cambiamenti nelle variabili tecnologiche più che nei costi ad influenzare i
risultati commerciali”. Ma è soprattutto con lo studio del progresso tecnologico come variabile
endogena che si è affermata una nuova teoria: la New growth theory o Teoria della crescita
endogena, nella quale vengono introdotti il capitale umano, i beni pubblici, la ricerca e sviluppo, e le
Istituzioni che li producono per giungere a modelli nei quali la crescita della produttività non ha più
carattere esterno ma interno ai singoli sistemi economici. Successivamente, all´inizio degli anni ’90,
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Anche per questa linea di sviluppo delle teorie economiche vi sono numerosissimi contributi di economisti. Di questo dibattito se ne
sintetizza appena una traccia.
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un altro gruppo di economisti propose una più coerente e completa teoria dell’innovazione, vista dal
punto di vista economico, e dei suoi effetti sulla crescita, attribuendo la differenza di crescita tra i
Paesi al diverso grado di avanzamento tecnologico.
In tale quadro concettuale, la competitività viene intesa come “…la capacità di un Paese a
perseguire uno sviluppo costante e sostenibile della propria economia, garantendo al tempo stesso
un benessere crescente alla generalità dei suoi cittadini”; è questo un approdo importante, in quanto
tale definizione è stata ampiamente utilizzata nella pratica, costituendo la base di riferimento per
l’elaborazione, da parte di vari organismi ed istituzioni, di indicatori di competitività globale.
Nel caso della Commissione europea viene annualmente pubblicato uno scoreboard della politica
dell’innovazione, capace di misurare i progressi dell’UE e dei suoi membri verso la competitività. Le
classifiche dei vari Paesi si ottengono mediante l’utilizzo di indicatori che si differenziano per
tipologia e modalità di reperimento dei dati. Conseguentemente ogni singolo Stato può fissare i
propri obiettivi quantitativi per poi sottoporli ad un esame di confronto reciproco dell’efficacia delle
politiche perseguite.
Altri indici sono proposti anche per i paesi extraeuropei, quali gli indici IMD (World Competitiveness
Report) e WEF (The Global Competitiveness Report), che offrono misure di competitività globale in
grado di confrontare la situazione tra diversi paesi (tutti quelli che aderiscono all’OCSE più alcuni
paesi emergenti); anche in questi casi, la loro elaborazione e pubblicazione avviene annualmente.
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Di seguito, si riportano alcune tavole tratte dalla pubblicazione della Commissione Europea
“Innovation Union Scoreboard 2015”.
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In questa prima, la comparazione di sintesi posiziona l’Italia nel gruppo dei paesi definiti come
“innovatori moderati”, al di sotto della media della EU.
Nello figura successiva (sempre con informazioni tratte dalla pubblicazione della CE) vengono
schematicamente rappresentati nel 2014 i punti di forza e di debolezza dell’Italia nei confronti della
media UE attraverso l’analisi di ciascun indicatore. Appaiono con evidenza i pochissimi punti di
forza e, al contrario, i numerosi aspetti di criticità , nonostante la più forte crescita di molti indicatori,
rispetto a quella della media UE-27, verificatasi nel corso dell’ultimo settennio 2007-2014.
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Il tema della diseguaglianza generata dallo sviluppo
La transizione dal capitalismo industriale a quello finanziario, accompagnato da una crescente
globalizzazione, ha generato anche una disuguaglianza all’interno delle nazioni, con aumento delle
distanze tra ricchi e poveri. Diseguaglianza che, come afferma l’economista Joseph Stiglitz, premio
Nobel del 2001, “…non sono il risultato di forze economiche ineluttabili, ma sono il prodotto delle
politiche”2. Infatti, i Paesi che più hanno visto aumentare le diseguaglianza di redditi e ricchezze
sono quelli che hanno più risentito gli effetti della crisi, mentre i Paesi a più bassa diseguaglianza
(misurata dall’indice di Gini inferiore a 0,3) sono la Germania, Austria, Olanda e quelli del Nord
Europa. Le politiche tese a far diminuire le diseguaglianze stanno ormai entrando con forza non solo
nel dibattito tra gli economisti, ma anche tra le politiche contro l’austerity.
Il paradigma del rigore sta mostrando i limiti, anche grazie al dibattito innescato da scritti che hanno
suscitato grande attenzione in un vasto pubblico, il recente libro dell’economista francese Thomas
Piketty, Il capitale nel XXI secolo (Bompiani).
Il problema è come passare dal contenimento della progressività fiscale, alla base delle politiche
neoliberiste, che vede nel cosiddetto trickle down (letteralmente, “sgocciolamento”), cioè
nell’arricchimento di fasce ristrette di popolazione (anche attraverso una minore imposizione fiscale,
che favorirebbe impieghi di risorse per lo sviluppo) un vantaggio anche per le altre fasce più povere
– e, quindi, una diminuzione delle distanze di reddito - , al trickle up, cioè all’innesco di una ripresa
dello sviluppo attraverso una più ampia partecipazione al lavoro ed ai redditi della grande massa di
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Joseph Stiglitz, Il prezzo della disuguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro, Einaudi, 2013
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popolazione su cui si abbattono le diseguaglianze. E qui le politiche non sono del tutte univoche:
dalla tassazione sul patrimonio (molto controversa), alla ricomposizione del mondo del lavoro
generato dalle politiche di austerità, alla ripresa degli investimenti e dell’innovazione nei sistemi
produttivi, alle politiche formative per l’aumento del capitale umano.
Per alcuni approfondimenti sulle crisi economiche del passato e su quella che stiamo attraversando,
sul dibattito relativo all’intervento dello Stato e sulle misure che si stanno attuando, oltre a quanto
riportato nella precedente Lezione n. 4, vedi:
La Grande Depressione (vedi pag. successiva) e i tre Allegati a questa lezione (inseriti in bacheca):
1) 2012 -01-26 - Diario di Repubblica - CAPITALISMO Dal mercato alle disuguaglianze, la crisi di
un modello globale
2) 2012 -06-21 - Diario di Repubblica - NEW DEAL Un modello contro l'austerity per rilanciare la
crescita
3) 2013 -05-13 - Diario di Repubblica - POST-AUSTERITY La fine di un'ideologia moralista che
ha aggravato la crisi
4) 2014 10 18- IL MULINO - XXX lettura - PERCHE' I TEMPI STANNO CAMBIANDO (Ignazio
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Tratto da: Paul Krugman, Robin Wells, Martha L. Olney, L'essenziale di economia, Zanichelli,
Bologna, 2008, pagg. 331-333.
La Grande Depressione
Gli storici concordano: la Grande Depressione, cominciata nel 1929 e durata per tutti gli anni 1930, è
stata uno degli eventi determinanti della storia statunitense. E i suoi effetti non sono rimasti limitati
agli Stati Uniti: le ripercussioni di questo evento catastrofico si sono abbattute su tutte le principali
economie di mercato, in Europa, America Latina, Giappone, Canada e Australia. La Germania fu tra
le economie colpite più duramente dalla Grande Depressione; gli storici ritengono che ciò fu una
delle principali cause dell’avvento del nazismo, che portò infine allo scoppio della seconda guerra
mondiale.
La Grande Depressione fu anche l’evento determinante della moderna macroeconomia: volendo
descrivere la funzione ultima della macroeconomia moderna, potremmo affermare che sia «impedire
che si ripeta un evento drammatico come la Grande Depressione».
La Depressione cominciò nell’agosto 1929 con una debole flessione della produzione aggregata,
che contribuì a sua volta a scatenare il noto crollo dei mercati azionari nell’ottobre 1929, l’evento
forse maggiormente associato alla Grande Depressione. Se gli effetti economici si fossero limitati
alle ricadute della crisi finanziaria, probabilmente l’economia avrebbe sperimentato una breve
recessione.
Ma a fare della Grande Depressione un disastro duraturo fu l’aumento catastrofico della
disoccupazione e la forte caduta della produzione aggregata che seguirono il crollo dei mercati
finanziari.
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Nel 1929 il tasso di disoccupazione (in termini generici, la percentuale della popolazione lavorativa
che non riesce a trovare un lavoro) era solo il 3,2%, come mostrato nella figura 14.1(a). Nel 1933 era
salita al 24,9%: un cittadino statunitense su quattro era senza lavoro, e molti riuscivano a
sopravvivere solo grazie alle mense per i poveri e ad altre opere di carità. Molte famiglie furono
sfrattate dalle loro case e in tutto il paese cominciarono a sorgere delle baraccopoli, interi quartieri
composti da abitazioni costruite con materiale di risulta. I lavoratori diedero vita a molte forme di
lotta, perché si sentivano abbandonati dall’economia di mercato. (In un caso molto famoso, i veterani
della prima guerra mondiale, chiamati «Bonus Marcher», costruirono una baraccopoli sul viale
principale di Washington, D.C., chiamato The Mall. Furono cacciati dall’esercito federale quando
cominciarono a chiedere a viva voce un sussidio finanziato dal governo.) La caduta dell’occupazione
fu accompagnata dal crollo del prodotto interno lordo reale (o PIL reale), una misura della
produzione aggregata. Tra il 1929 e il 1933 il PIL reale diminuì del 27%, come illustrato nella figura
14.1(b).
Furono tempi di grande e inattesa miseria, ancora più sconvolgente se si pensa che il decennio
precedente, i «ruggenti anni Venti», era stato un periodo di crescita e prosperità senza precedenti.
Dieci anni dopo molti pensavano che la democrazia stessa degli Stati Uniti fosse in pericolo.
Trascorse parecchio tempo prima che l’economia cominciasse a mostrare segni di ripresa. Nel 1939,
dopo un decennio di provvedimenti di politica economica attuati nel tentativo di invertire il ciclo
economico, il tasso di disoccupazione si attestava al 17%, un valore molto elevato per lo standard di
quei tempi. La produzione totale non tornò ai livelli del 1929 fino al 1937, e si dovette attendere il
1941 per registrare nuovamente un tasso di disoccupazione inferiore al 10%. La prosperità
economica fece ritorno solo con lo scoppio della seconda guerra mondiale.
La Grande Depressione gettò gli economisti in uno stato di attività febbrile per capire che cosa fosse
accaduto e quale potesse essere il rimedio adatto. Ciò portò a una svolta epocale nella misurazione
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delle variabili macroeconomiche: molte delle statistiche oggi impiegate per seguire l’andamento
dell’economia cominciarono a essere raccolte negli anni 1930. La teoria economica subì un profondo
cambiamento con la pubblicazione nel 1936 della Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e
della moneta, opera dell’economista britannico John Maynard Keynes: un libro che ha avuto
un’influenza sul mondo paragonabile solo a quella de La ricchezza delle nazioni di Adam Smith.
L’opera di Keynes, e le interpretazioni e le critiche che altri economisti ne hanno fornito, hanno dato
vita sia alla macroeconomia come scienza sia alle moderne politiche macroeconomiche.
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