politiche del lavoro - Ufficio Programmi Europei per la Mobilità
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politiche del lavoro - Ufficio Programmi Europei per la Mobilità
Facoltà di Scienze della Formazione Università di Roma Tre Anno accademico 2013/2014 Corso di laurea in “Formazione e sviluppo delle risorse umane” Insegnamento Politica economica e gestione delle risorse umane Docente Prof. Aldo Gandiglio Seconda parte LEZIONE 3 ECONOMIA DEL LAVORO – POLITICHE DEL LAVORO POLITICHE ATTIVE E PASSIVE – LOCALI E EUROPEE Aldo Gandiglio - Politica economica e gestione delle risorse umane – Università Roma Tre – a.a. 2013-2014 Economia del lavoro – approcci teorici (cenni) Si è detto come la presenza di istituzioni ed organizzazioni sia necessaria per l’esistenza ed il funzionamento del mercato. Ancora di più, per il mercato del lavoro sono necessarie leggi, contratti, prassi, abitudini. Infatti, si può affermare che ci sia un consenso unanime a considerare il lavoro non come un qualsiasi altro fattore produttivo, e conseguentemente, il mercato del lavoro non come un qualsiasi altro mercato di produzione e scambio di merci ed attività. Il lavoro è anzitutto una aspirazione ed una scelta personale, anche se – spesso - non del tutto libera nelle possibilità di accettare o di ricorrevi, mentre si presenta anche, nell’organizzazione economica, come un fattore produttivo; il lavoro appare, quindi, condizionata dal contesto economico, dall’ambiente sociale, e da altri fattori extra-economici. Il mercato del lavoro si caratterizza come una istituzione sociale, contornata da regole, rapporti di fiducia (e, di forza), istituzioni, che vanno oltre la legge della domanda e dell’offerta che viene posta alla base del funzionamento della domanda e dell’offerta di lavoro. Gli interventi nel mercato del lavoro assumono quindi caratteristiche originali che si differenziano dalle forme di regolazioni degli altri beni e fattori produttivi; basti pensare alla protezione del lavoro minorile, alle norme relative alla sicurezza sul lavoro, alle fissazioni degli orari di lavoro, delle festività e riposo, ecc., alle norme relative alla contrattazione, alle forme di copertura sociale, alle tutele nel caso dei periodi di non lavoro, ecc. Vediamo, tuttavia, sinteticamente, una formalizzazione di come si possa configurare una offerta e domanda di lavoro in un ipotetico mercato perfettamente concorrenziale; ciò sarà utile in quanto, di 2 Aldo Gandiglio - Politica economica e gestione delle risorse umane – Università Roma Tre – a.a. 2013-2014 seguito verranno fatti riferimenti a queste modalità di funzionamento per illustrare alcune impostazioni di politiche salariali e di politiche occupazionali. L’offerta di lavoro Facciamoci aiutare da una ipotesi semplificata (e in qualche modo anche irrealistica, specialmente in situazione di carenze di opportunità di lavoro): un individuo decide di dedicare al lavoro solo il tempo che desidera, in quanto – e ciò è vero – esiste un uso alternativo del tempo di lavoro per altre attività più desiderabili (ozio, svago, ecc.). Viene presa, in questa logica, una decisione che ha alla base una scelta sull’allocazione del tempo in relazione alla utilità generata. Sino a quanto un individuo dilata il tempo dedicato al lavoro? Sino a quanto il beneficio marginale generato dall’unità marginale dell’ora di svago eguaglia o supera il reddito generato dall’ora marginale di lavoro (reddito che viene utilizzato per acquistare - sua volta – beni e servizi che generano utilità/benefici). I lavoratori, quindi, offriranno servizi lavorativi fino a che il saggio marginale di sostituzione tra consumo (generato dal reddito) e tempo libero non sia uguale al salario reale. Il salario misura il risultato del lavoro, ma anche il costo-opportunità dello svago. Appare, inoltre, anche evidente che l’ampliamento della quantità di tempo messo a disposizione per il lavoro ha sicuramente una qualche relazione con la remunerazione offerta per unità di lavoro, ma con effetti che possono essere discordanti. Ad un aumento della remunerazione oraria (o di altro compenso per una attività che, comunque, richiede l’uso del tempo) corrisponde un aumento del costo-opportunità dell’ora di svago e, il c.d. “effetto sostituzione” lo spingerebbe a lavorare un’ora di più, ma il c.d. “effetto reddito” (dovuto all’aumento del salario) potrebbe portare il lavoratore a 3 Aldo Gandiglio - Politica economica e gestione delle risorse umane – Università Roma Tre – a.a. 2013-2014 richiedere più svago, e quindi a ridurre l’offerta di lavoro. Il prevalere dell’uno o dell’altro effetto porta azioni che vanno in direzioni opposte, sia nell’offerta di lavoro individuale, sia nell’offerta di lavoro nel mercato (che è rappresentato dalla somma delle curve di offerta individuali). Curve di offerta di lavoro individuale Prevalenza effetto reddito SALARIO SALARIO Prevalen za effetto so stituzione QU AN TITA' DI LAVORO (ore) QUANTITA' DI LAVORO (ore) 4 Aldo Gandiglio - Politica economica e gestione delle risorse umane – Università Roma Tre – a.a. 2013-2014 Nel mercato del lavoro agiscono anche numerosi altri fattori che determinano spostamenti della curva (non “sulla” curva, che, invece, è specifica di ciascun individuo). Ad esempio i cambiamenti demografici, ed anche l’immigrazione (una popolazione in aumento sposta verso destra la curva, cioè vi è più disponibilità a lavorare per ogni livello salariale, ed al contrario se vi è diminuzione), l’aumento della ricchezza disponibile e l’ampliarsi delle disponibilità di posti di lavoro (spostamenti a sinistra), l’aumento della disoccupazione (spostamento vs destra). Un modo alternativo per definire il comportamento individuale è quello del salario di riserva, cioè quel salario minimo che farà accettare all'individuo una prima ora di lavoro. Il salario di riserva varia in relazione alle caratteristiche ed aspirazioni personali, ed anche in stretta relazione con la situazione economica più complessiva. Tuttavia, le fasi di ciclo economico espansivo non sempre fanno aumentare la disponibilità a lavorare, e quindi comportare riduzioni della disoccupazione, in quanto i lavoratori potrebbero non accettare salari bassi, potrebbero infatti rimanere in attesa di altre offerte di lavoro, che nel frattempo si prevede siano in aumento. Al contrario, in fasi depressive, con discesa dei salari e più basse probabilità di trovare lavori ad un salario adeguato, i salari di riserva si riducono, ma parte della forza lavoro potrebbe diventa inattiva (scoraggiati nella ricerca del lavoro) e quindi la disoccupazione (come viene statisticamente calcolata) potrebbe anche diminuire. 5 Aldo Gandiglio - Politica economica e gestione delle risorse umane – Università Roma Tre – a.a. 2013-2014 La partecipazione femminile al lavoro Il legame tra salario e offerta di lavoro appare generalmente evidente, ancor più nel segmento della forza lavoro che è segnato da caratteristiche peculiari come quello femminile. Vi sono molte ricerche che affrontano il legame tra l’occupazione femminile, il salario di mercato, il salario di riserva, ma anche quali sono le cause che possono modificare la propensione alla ricerca del lavoro, quali il numero dei figli (la fertilità), i cambiamenti tecnologici nei processi di lavoro domestici, le relazioni con il reddito e le ore di lavoro dl coniuge; sono altrettanto numerosi gli studi che analizzo gli effetti sulle dinamiche dell’occupazione femminile delle modificazioni della struttura economica, dell’aumentata partecipazione ai processi formativi, delle politiche volte a promuovere la conciliazione tra lavoro e vita familiare del lavoro. La situazione italiana, comunque, è di generale arretratezza nei confronti internazionali, anche se vi sono stati sicuri miglioramenti con gli anni. E’ sufficiente ricordare che in Italia solo poco più della metà delle donne in età lavorativa (15-64 anni) è attiva (occupata o cerca un lavoro); nella media europea il valore sale a quasi il 65% e in molti paesi come la Germania, l’Olanda e la Svezia supera il 70%. Negli ottanta le donne iniziavano a lavorare molto giovani e uscivano dal mercato del lavoro molto presto, nel momento in cui costruivano una famiglia e avevano i figli. Negli ultimi 30 anni si è modificato profondamente il modello di partecipazione delle donne al mercato del lavoro sia con l’aumento del tasso di attività femminile che con lo spostamento in avanti negli anni sia dell’entrata nel mondo del lavoro che dell’uscita definitiva; inoltre, si è anche ridotta in modo significativo la differenza del tasso di attività fra donne e uomini. 6 Aldo Gandiglio - Politica economica e gestione delle risorse umane – Università Roma Tre – a.a. 2013-2014 Tasso di attività per sesso e classe d’età in Italia – Anni 1983 – 2010 (%) 7 Aldo Gandiglio - Politica economica e gestione delle risorse umane – Università Roma Tre – a.a. 2013-2014 Per un approfondimento del mercato del lavoro femminile si rimanda alla lettura del capitolo 3.3 Livelli e dinamica dell’occupazione femminile dell’Allegato Lezione n. 2 - ISTAT RAPPORTO ANNUALE 2013 - Il mercato del lavoro tra minori opportunità, cui segue un approfondimento su “Retribuzioni e differenziali di genere”. Come allegato alla lezione n. 3 si propone un working paper delì’OECD (Organisation for Economic Co-operation and Development) di Olivier Thévenon, Drivers of Female Labour Force Participation in the OECD. Lo studio analizza la risposta della partecipazione delle donne alla forza lavoro alle mutate condizione dei mercati e alle politiche volte a promuovere la conciliazione tra lavoro e vita familiare del lavoro. I risultati mostrano, in primo luogo , la rilevanza dell’ aumento dei livelli di istruzione le donne , dell'espansione dell'occupazione nei servizi e sviluppo del part-time, e , tra le politiche pubbliche, la presenza dei servizi di assistenza per i bambini sotto i tre anni. Si raccomanda di leggere il cap. 2. Trends in female labour force participation (pag.11-12) e 7. Conclusions (39-40) http://www.oecd-ilibrary.org/social-issues-migration-health/drivers-of-female-labour-forceparticipation-in-the-oecd_5k46cvrgnms6-en 8 Aldo Gandiglio - Politica economica e gestione delle risorse umane – Università Roma Tre – a.a. 2013-2014 La domanda di lavoro Come si è riferito, pur sinteticamente, nella lezione n. 2 del primo semestre, quando si è affrontata l’organizzazione di un ciclo produttivo, si è visto come il livello della produzione viene spinto sino a che il prezzo è uguale al costo marginale; non è più conveniente andare oltre, in quanto l’unità di produzione successiva sarebbe avvenuta con una perdita. Sempre nelle lezioni del primo semestre, si sono analizzati i fattori della produzione, con l’evidenza di due tipi di capitale: il capitale fisico (costruzioni, macchinari, ecc.) e, nelle economie moderne, sempre più importante il capitale umano, cioè le competenze della forza lavoro. La domanda che ci poniamo è: fino a che punto un imprenditore spinge la domanda di lavoro per la produzione in una sua impresa? La scelta che orienta le decisione dell'impresa può essere, anche per questo fattore di produzione, la produttività marginale del lavoro, che a sua volta è legato al salario reale, ma anche – ovviamente alla combinazione dei fattori produttivi. Anche in questa caso, come per l’offerta di lavoro, si adottano ipotesi semplificatrici, quali la rigidità, nel breve periodo, di poter sostituire lavoro e capitale, o di introduzioni di innovazioni tecnologiche, che possono far aumentare la produttività e, nel contempo, diminuire (o anche aumentare) la domanda di lavoro. 9 Aldo Gandiglio - Politica economica e gestione delle risorse umane – Università Roma Tre – a.a. 2013-2014 La domanda di lavoro si fermerà prima che il costo marginale superi il prezzo marginale (il salario supera il valore del prodotto marginale), o quando il profitto giunge al livello massimo oltre questo punto comincerebbe a scendere in quanto ogni unità aggiuntiva produce un deficit. E’ da rilevare come la maggior parte dei datori di lavoro non prenda decisioni di eventuali assunzioni di lavoratori ricorrendo all’applicazione concreta di tale approccio teorico, ma è anche verosimile che se non venisse applicata implicitamente, difficilmente l’impresa potrebbe continuare a rimanere in un mercato concorrenziale. Per sopravvivere e continuare a fare profitti, l’imprenditore si comporta come se conoscesse tale teoria e le assunzioni (o la permanenza dei lavoratori) in qualche modo rispondono al legame tra il costo del lavoro e la produttività del lavoro. Andando ad una qualche sintesi, in un ipotetico mercato perfettamente concorrenziale, privo di interferenze, il salario sarebbe al margine pari alla produttività e, dal lato del lavoratore, al valore alternativo del tempo non di lavoro. E’ stato più volte ricordato, e vale la pena richiamarlo anche in relazione a quanto appena riportato, che il costo del lavoro appare sempre meno importante per la competitività globale delle imprese italiane, bensì prioritarie risultano gli investimenti per l’innovazione, le stesse riforme strutturali per superare il “nanismo” delle aziende al fine di aumentare la competitività internazionale e creare nuove imprese nei settori a più alto valore aggiunto nel comparto scientifico. Ci si interroga sui fattori che possono condizionare il valore del prodotto marginale di un lavoratore: l’istruzione, le competenze e le capacità, l’esperienza sul lavoro, la razza, il sesso, l’appartenenza sindacale. Esistono anche delle diversità nelle caratteristiche non monetarie delle mansioni esercitate. Esempio: i lavoratori che fanno i turni di notte sono pagati meglio di quelli che 10 Aldo Gandiglio - Politica economica e gestione delle risorse umane – Università Roma Tre – a.a. 2013-2014 fanno i turni di giorno, e ciò non per le caratteristiche intrinseche, ma perché possono abbattere dei costi fissi, facendo produrre anche di notte. Ma la fonte più importante dei differenziali retributivi è il capitale umano, quale l’accumulazione di investimenti sulla persona, in forma di istruzione, formazione ed esperienza professionale. Nella realtà economica gran parte dei rapporti di lavoro non si interrompono dopo pochi mesi, ma durano anche anni, in quanto le imprese sostengono dei costi per trovare i lavoratori adatti a svolgere certe mansioni, anche perché per svolgere una attività è necessario possedere competenze specifiche, per le quali occorre affrontare un processo di apprendimento. Di solito, un lavoratore con esperienza è più produttivo di un neo-assunto e per le imprese vi sono sicuramente dei costi di addestramento iniziali per l’avvio di una qualsiasi attività lavorativa. La carenza di esperienza lavorativa, che rende il capitale umano dei giovani inferiore a quello degli adulti anche in presenza di crescenti livelli di istruzione viene posto alla base delle giustificazioni del maggior tasso di disoccupazione rispetto agli adulti. E’ su tali argomenti che, in un approccio liberista del capitale umano, si legittima l’attuale momento che vede i giovani che “sperimentano” il loro ingresso nel mercato del lavoro con frequenti passaggi da uno stato all’altro. Tale approccio ha come implicazioni di politica economica in favore dei giovani disoccupati la ricerca di misure che favoriscono una maggiore flessibilità, che può permettere di accumulare esperienza e facilitare le transizioni scuola-lavoro, cui si aggiungono le forme di incentivazioni all’assunzione (salari di ingresso, ecc.). Ma di questo, e delle critiche a tale approccio, se ne tratterà più avanti. 11 Aldo Gandiglio - Politica economica e gestione delle risorse umane – Università Roma Tre – a.a. 2013-2014 Il salario viene sovente utilizzato dagli imprenditori come incentivo per aumentare la produttività dei lavoratori. Una delle spiegazioni della relazione salari-produttività che hanno trovato maggiore consenso in letteratura è basata sull'ipotesi che il timore di essere disoccupato sia uno strumento di incentivo per i lavoratori, ma ciò funziona solo se il mercato del lavoro non è in equilibrio. Infatti, se non esistesse disoccupazione e tutte le imprese pagassero lo stesso salario, nessun lavoratore sarebbe incentivato ad impegnarsi all'interno dell'impresa, in quanto la scoperta dei comportamenti sleali sul lavoro non procurerebbe costi, visto che per ogni lavoratore licenziato troverebbe immediatamente un posto di lavoro in un'altra impresa. Dal punto di vista dell’imprenditore, retribuire i lavoratori in misura superiore al salario di riserva ha lo scopo di incentivare i lavoratori a tenere un comportamento leale, in quanto un eventuale licenziamento diventerebbe tanto più costoso quanto più l'impresa in cui si è occupati paga meglio della altre. Esistono numerose forme contrattuali di incentivazione dei lavoratori. Contratti che prevedono un sistema di penalizzazioni, oppure dinamiche salariali che premiano l'anzianità di servizio, compartecipazione ai profitti, polizze sanitarie e assicurative aziendali, ecc. L'approccio cd. contrattuale all'analisi del lavoro amplia l’approccio tradizionale di funzionamento del mercato, che analizza le relazioni tra lavoratore e impresa attraverso il prezzo (salario). Il contratto isola i contraenti dai condizionamenti e dalle modificazioni dell'ambiente esterno, anche se ne è influenzato (basti pensare a come avviene la contrattazione sindacale). L’intervento del sindacato riduce il potere degli imprenditori creando un “monopolio” nell'offerta di lavoro, anche se, oltre ad avere l’obiettivo di far crescere il salario dei propri iscritti, si pone obiettivi di carattere più generale: accrescere i livelli occupazionali, ridurre disuguaglianze, ridistribuire il reddito, ecc. Inoltre, attraverso la contrattazione, si pongono altri obiettivi legati alle condizioni di lavoro: orari di lavoro, turni di lavoro, sicurezza dell’ambiente lavorativo. 12 Aldo Gandiglio - Politica economica e gestione delle risorse umane – Università Roma Tre – a.a. 2013-2014 Politiche del lavoro attive e passive Si considerano propriamente politiche del lavoro tutte le politiche che operano direttamente nel mercato del lavoro e possono rivolgersi alla generalità della popolazione o a particolari categorie, come i soggetti in difficoltà occupazionale (interventi selettivi), anche se sul mercato del lavoro hanno interferenza la gran parte delle politiche economiche. Sono, infatti, numerose le politiche che hanno effetti sul mercato del lavoro, in quanto influenzanti la domanda e l’offerta di lavoro, e che possono essere così aggregabili: A. Politiche di sostegno alla domanda aggregata ed alla domanda di lavoro (politiche macroeconomiche, sussidi all’occupazione, creazione di lavoro nel settore pubblico, riduzione del costo del lavoro) B. Politiche di sostegno del reddito durante la non-occupazione (sussidi di disoccupazione, politiche assistenziali e politiche sociali in genere) C. Politiche rivolte all’offerta di lavoro (riduzione offerta di lavoro, istruzione/formazione e riqualificazione dell’offerta di lavoro, sostegno all’incontro tra domanda ed offerta di lavoro) D. Politiche di regolazione dei rapporti di lavoro (introduzione di nuovi contratti, con aumento della flessibilità nella durata e nei tempi dell’orario, oppure modifiche di garanzie e tutele) E. Politiche contrattuali, con una tendenza a intensificare le relazioni tra la remunerazione del lavoro e le dinamiche di produttività, attraverso un aumentato del decentramento della contrattazione Gran parte di queste politiche sono volte ad attivare e a facilitare l’inserimento lavorativo dei soggetti che si trovano al margine del mercato (politiche attive) o a sostenere il reddito delle persone in cerca 13 Aldo Gandiglio - Politica economica e gestione delle risorse umane – Università Roma Tre – a.a. 2013-2014 di lavoro o a facilitare l’uscita dal lavoro (politiche passive). Al riguardo, sono state così classificate da Eurostat e OECD: Politiche attive 1. supporto e orientamento personalizzato a favore di chi cerca lavoro da parte dei servizi pubblici per l’impiego 2. formazione e addestramento 3. schemi di suddivisione del lavoro (job sharing) 4. incentivi all’occupazione 5. politiche di inserimento lavorativo dei disabili 6. creazione diretta di lavoro nel settore pubblico 7. incentivi alle nuove attività d’impresa Politiche passive 8. politiche passive di tutela economica dei disoccupati (CIG, CIGS, cassa integrazione in deroga, indennità di disoccupazione) 9. schemi di pensionamento anticipato L’esclusione di un numero elevato di cittadini dal mondo del lavoro rappresenta uno dei principali problemi di policy dei paesi dell’Unione europea, e ciò per almeno due motivi: il primo riguarda le modalità di funzionamento del mercato del lavoro e la sua capacità di integrare le fasce più deboli; il secondo, che sta emergendo con forza in questi tempi, è la sostenibilità finanziaria dei sistemi assistenziali e previdenziali che rischiano di non essere in più in grado di finanziare politiche di contenimento di livelli di disoccupazione per una ampia fascia di popolazione. 14 Aldo Gandiglio - Politica economica e gestione delle risorse umane – Università Roma Tre – a.a. 2013-2014 Caratterizzare il mercato del lavoro come strumento di inclusione, significa anche affrontare l’esclusione lavorativa attraverso lo sviluppo di politiche che tendono alla diretta responsabilizzazione del cittadino rispetto al proprio destino personale e professionale. Queste politiche, denominate welfare to work o workfare, perseguono l’obiettivo di rendere la condizione lavorativa più competitiva rispetto alla misure passive, come ad esempio la dipendenza dai sussidi. Contestualmente alla loro applicazione, vengono apportate modifiche restrittive al sistema dei benefici, in modo da spingere l’inoccupato o il disoccupato a cercare attivamente un impiego. Tali restrizioni consistono in genere in vere e proprie sanzioni, che possono prevedere anche la sospensione della provvidenza economica statale per coloro che non accettino il lavoro al termine del periodo formativo stabilito. Nel workfare, il «principio di responsabilità individuale» assume dunque una posizione centrale, e l’attivazione del cittadino è operata con riferimento quasi esclusivo al mercato del lavoro. A secondo del prevalere, e della composizione, delle politiche attive e passive, sono stati avanzati in letteratura economica e istituzionale alcuni modelli di riferimento semplificati: Modello liberista (caratteristico nei paesi anglosassoni) -Il ruolo pubblico di intervento nel mercato del lavoro limitato al sostegno contro i rischi individuali principali (povertà, disoccupazione, esclusione sociale,), anche se la spesa sociale complessiva è relativamente elevata. La common law assicura diritti individuali contro licenziamento senza giusta causa. Le relazioni industriali decentrate e scarso coordinamento nazionale (ma salario minimo). In questi paesi, date le condizioni macroeconomiche specifiche di questi contesti (bassi salari minimi, carico fiscale contenuto, ecc.), la difficoltà non è tanto quella di trovare l’occupazione, quanto 15 Aldo Gandiglio - Politica economica e gestione delle risorse umane – Università Roma Tre – a.a. 2013-2014 di spingere le persone ad accettare impieghi le cui retribuzioni spesso non consentono di uscire dallo stato di povertà. Modello social-democratico (Paesi scandinavi) Il modello scandinavo di protezione sociale garantisce un’ampia copertura dei rischi a cui la popolazione può essere soggetta e l’accesso alle prestazioni, concepite come un diritto di cittadinanza, spesso è condizionato solo alla residenza nel paese. Un ruolo importante è svolto dai trasferimenti assistenziali, finanziati attraverso la fiscalità generale: i welfare states scandinavi si distinguono per l’utilizzo di forme di sostegno al reddito di tipo universale e per la presenza di un sistema altamente sviluppato di servizi all’infanzia, ai disabili e agli anziani bisognosi. La garanzia di un’ampia rete di sostegno del reddito, nonché la presenza di una vasta gamma di servizi di cura alle famiglie permettono di mobilitare i soggetti più vulnerabili del mercato del lavoro, come le donne, i genitori soli con figli piccoli, i lavoratori anziani e gli individui con qualche forma di invalidità. Conseguentemente, il sistema scandinavo si rivela particolarmente fficace nell’azione di contrasto della povertà e dell’esclusione sociale, riuscendo a minimizzare ontemporaneamente la povertà tra gli anziani e i minori (in questo uguagliati, in ambito europeo, olo dal Belgio). Ampio ricorso alle politiche attive del lavoro e ai servizi pubblici per garantire elevata occupazione, mobilità del lavoro e prevenzione disoccupazione. In questi contesti, l’intervento caratterizzante è l’attivazione di servizi complementari suscettibili di favorire l’inclusione sociale e la mobilità professionale, essenzialmente per permettano ai beneficiari di migliorare le competenze e le capacità, incrementare la qualità delle relazioni sociali, aumentare il grado di appartenenza alla società. La contrattazione è centralizzata (ma tendenza decentralizzazione) ed elevato livello di coordinamento. 16 Aldo Gandiglio - Politica economica e gestione delle risorse umane – Università Roma Tre – a.a. 2013-2014 Il modello corporativo (o continentale) Il modello corporativo è caratterizzato da un’elevata frammentazione dei programmi di spesa, che spesso hanno una natura categoriale e sono distinti per lavoratori dipendenti, autonomi e inattivi. Nei paesi che rientrano in questo gruppo (Germania, Brancia, Belgio, Olanda, Austria), il sistema sanitario copre tutti gli individui che possiedono un impiego retribuito, oltre ad altre categorie assimilate (tra cui i pensionati, i disoccupati, i disabili). Tutti i lavoratori dipendenti sono assicurati contro il rischio di disoccupazione e sono previsti degli istituti di ultima istanza, diretti ad assicurare un reddito minimo contro il rischio della povertà estrema. Modello mediterraneo - familista (Europa meridionale -italiano) I sistemi di welfare state nei paesi mediterranei sono caratterizzati da una generalizzata frammentazione e dalla posizione di relativo privilegio accordato ai lavoratori dipendenti. Tra i caratteri che accomunano i sistemi all’interno di questo raggruppamento, particolarmente rilevante è l’assenza di un’articolata rete di protezione minima di base, non categoriale, erogata e gestita a livello di governo centrale, che possa fungere da strumento di sostegno di ultima istanza. La protezione sociale ed occupazionale frammentata che privilegia sostanzialmente il capofamiglia; la famiglia al centro del sostegno economico, influenza il salari di riserva e la disponibilità alla mobilità territoriale Spesa sociale e per politiche del lavoro non particolarmente elevata. Scarsamente tutelato è anche il rischio di disoccupazione. Tutti i paesi hanno istituito dei sistemi sanitari nazionali universali, in cui spesso la fornitura dei servizi è realizzata attraverso una combinazione di offerta pubblica e privata. I sistemi previdenziali presentavano alcune caratteristiche comuni, prima della recente crisi, che ha invece accelerato il passaggio al regime cd “contributivo” in luogo del “retributivo”; l’ammontare dei 17 Aldo Gandiglio - Politica economica e gestione delle risorse umane – Università Roma Tre – a.a. 2013-2014 trasferimenti è basato sul salario percepito e dipende dal numero di anni di contribuzione, obbligatoria. La contrattazione salariale è nazionale e di settore. Livello di coordinamento medio-elevato In Italia, pur appartenente a quello che chiamano anche il modello “europeo mediterraneo”, la situazione è molto diversa. Intanto, la spesa per la protezione sociale1 nel 2012 in Italia supera il 30 per cento del Pil e il suo ammontare per abitante sfiora gli 8.000 euro l’anno e si colloca all’undicesimo posto tra i 27 paesi europei e, comunque, al di sopra della media Ue27 (7.300 euro). Se rapportata al Pil, la spesa dedicata alla protezione sociale pone l’Italia in una posizione più elevata, al settimo posto, di poco superiore alla media Ue27 (29,5 per cento), in un contesto europeo che mostra valori di spesa piuttosto variabili: da un minimo pari al 15 per cento rilevato per la Lettonia, a un massimo del 34 per cento relativo alla Danimarca. 1 Si definisce la spesa per la protezione sociale come i costi a carico di organismi pubblici o privati per l’insieme degli interventi intesi a sollevare le famiglie dall’insorgere di rischi o bisogni, purché ciò avvenga in assenza, da parte dei beneficiari, sia di una contropartita equivalente e simultanea, sia di polizze assicurative. Le funzioni o rischi sono: malattia/salute; invalidità; vecchiaia; superstiti; famiglia, maternità e infanzia; disoccupazione; abitazione; altre tipologie di esclusione sociale (formazione per il reinserimento nel mercato del lavoro, abitazioni, misure di contrasto alla povertà eall’esclusione sociale). 18 Aldo Gandiglio - Politica economica e gestione delle risorse umane – Università Roma Tre – a.a. 2013-2014 Spesa per la protezione sociale nei paesi Ue.Anno 2011 (euro per abitante) 19 Aldo Gandiglio - Politica economica e gestione delle risorse umane – Università Roma Tre – a.a. 2013-2014 Nel nostro paese, per poter attivare programmi seri di welfare to work sarebbe necessario disporre di un sistema equilibrato di protezione sociale, che si avvicini agli standard europei, e avere a disposizione un servizio per l’impiego più efficace ed efficiente di quello attuale. Invece, vi è uno squilibrio tra erogazioni monetarie e servizi in natura, amplificato dal fatto che le politiche attive per il lavoro appaiono ancora marginali, mentre molto più elevate sono le politiche passive. 20 Aldo Gandiglio - Politica economica e gestione delle risorse umane – Università Roma Tre – a.a. 2013-2014 Nel 2010, la spesa per prestazioni di protezione sociale (che rappresenta il 95,5 per cento della spesa complessiva) è dedicata per oltre la metà alla funzione “vecchiaia” (51,3 per cento), mentre la parte rimanente si distribuisce tra “malattia/sanità” (25,8), “superstiti” (9,2), “invalidità” (5,9), “famiglia” (4,4) e “disoccupazione e altra esclusione sociale” (3,4). 21 Aldo Gandiglio - Politica economica e gestione delle risorse umane – Università Roma Tre – a.a. 2013-2014 Decentramento delle politiche del lavoro e dello sviluppo locale: linee evolutive e impatti dell’attuale crisi economica e occupazionale Il processo di decentramento ha sinora avuto prevalentemente un carattere amministrativo, cioè una riorganizzazione volta a favorire l’articolazione territoriale delle strutture amministrative, a partire da quelle statali. E’ dunque un aspetto specifico con cui in Italia si indica un fenomeno articolato e complesso di attuazione del principio costituzionale di autonomia, che si è tradotto nel pluralismo istituzionale fondato sugli enti territoriali e, propriamente, su Comuni, Province e Regioni. Negli anni Novanta, il tema del decentramento si è andato concretizzando con riferimento a processi di riforma della Pubblica Amministrazione2, mediante i quali lo Stato ha provveduto a conferire ulteriori funzioni e compiti amministrativi alle Regioni e agli Enti locali3. Si è trattato di un processo (di cosiddetto “federalismo amministrativo”, a Costituzione invariata) che ha trovato un ancoraggio forte nell’evoluzione della politica comunitaria, traendo impulso più in particolare dal progressivo affermarsi del principio di sussidiarietà previsto nel Trattato di Maastricht sull’Unione Europea del 1992. La direttrice di marcia, in base a tale principio, inteso in senso verticale ed orizzontale, mirava ad avvicinare l’amministrazione ai cittadini, alle imprese e ai sistemi produttivi territoriali, mediante l’apertura ad esperienze di autogoverno dei sistemi territoriali, delle istituzioni formative (si pensi Ci si riferisce alla riforma delle autonomie locali, realizzata con la l. n. 142/90 su Comuni e Province, per culminare nella legge n. 59/97 (cosiddetta legge Bassanini) e nei relativi decreti legislativi attuativi (vedi, in particolare, il decreto legislativo n. 469/97 e il decreto legislativo n. 112/98) 3 Tale conferimento è peraltro avvenuto con differenti modalità a seconda che interessasse materie previste nell’art. 117 (nella formulazione precedente alla riforma costituzionale) oppure materie non menzionate dal dettato costituzionale. Nel primo caso, infatti, lo Stato ha conferito funzioni e compiti agli Enti territoriali con la previsione che le Regioni, a loro volta, provvedessero a distribuirli a favore di Comuni e Province; mentre, nel secondo caso, funzioni e compiti sono stati distribuiti direttamente dallo Stato medesimo a Regioni ed Enti locali, mediante deleghe, attribuzioni o trasferimenti. 2 22 Aldo Gandiglio - Politica economica e gestione delle risorse umane – Università Roma Tre – a.a. 2013-2014 all’introduzione dell’autonomia scolastica), delle categorie produttive; la semplificazione dei procedimenti; l’autocertificazione e il riconoscimento della possibilità per le pubbliche amministrazioni di utilizzare strumenti di diritto privato. Si è quindi tentato di introdurre un nuovo modello di rapporto tra Amministrazioni pubbliche e cittadini che fosse il più possibile paritario, non autoritario e non meramente gerarchico. Con la successiva riforma del Titolo V della Costituzione del 20014, che ha costituito una tappa importante, sebbene non conclusiva, di un processo di trasformazione dell’ordinamento repubblicano, si sono determinati ulteriori riflessi sulle materie inerenti alle politiche formative5, del lavoro e dello sviluppo locale che completano il quadro del percorso di decentramento. Tale disegno è oggi sottoposto ad una profonda revisione con le proposte di riforma del Governo Renzi, contenute nel Disegno di legge costituzionale (Atto Senato n. 1429, 8 aprile 2014), in cui “…il disegno di legge prevede un’ampia revisione e razionalizzazione delle competenze legislative – 4 Va ricordato, come parte di questo processo di decentramento, il nuovo modello di articolazione dei poteri e di governance che è stato delineato dalla Legge costituzionale 3/2001 che, riformando il Titolo V della Costituzione, dedicato alle Regioni, e agli Enti locali, è intervenuta operando una distribuzione di competenze legislative tra Stato e Regioni ed una nuova attribuzione delle funzioni amministrative e della potestà regolamentare tra tutti i soggetti costitutivi della Repubblica (Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato: art. 114 Cost.). Con la riforma, il principio di sussidiarietà, nella sua duplice dimensione – orizzontale e verticale- viene testualmente menzionato nel testo dell’art. 118 della Costituzione, che ridefinendo l’architettura del sistema amministrativo, promuove l’autonoma iniziativa dei cittadini singoli e associati per lo svolgimento di attività di interesse generale, nella consapevolezza del ruolo decisivo delle realtà territoriali nel determinare le condizioni ambientali favorevoli alla crescita e alla competitività del sistema economico e sociale. 5 In sintesi, nel settore dell’istruzione, a fronte di una competenza concorrente regionale, che comunque fa salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche, è stata mantenuta una potestà legislativa statale per tre ordini di interventi: norme generali, livelli essenziali delle prestazioni, principi fondamentali in materia. L’istruzione e la formazione professionale, al contrario, sono state rimesse (ex art. 117, terzo comma) alla competenza piena delle Regioni, salva la determinazione statale – oltre che di eventuali norme generali in materia (ad es. per il riconoscimento nazionale dei titoli) - dei livelli essenziali delle prestazioni, accentuando così i caratteri della regionalizzazione di un sistema che, già nel passato, aveva conosciuto un forte radicamento territoriale, anche se a carattere prevalentemente extrascolastico. 23 Aldo Gandiglio - Politica economica e gestione delle risorse umane – Università Roma Tre – a.a. 2013-2014 intervenendo al contempo su quelle regolamentari – dirette a rimuovere le incertezze, le sovrapposizioni e gli eccessi di conflittualità che si sono manifestati a seguito della riforma del 2001 e che hanno avuto rilevanti ricadute sia sul piano dei rapporti tra i livelli di governo che compongono la Repubblica, troppo spesso sfociati in contenziosi di natura costituzionale, sia su quello della competitività del sistema Paese”. a) Sviluppo locale e politiche del lavoro; i SERVIZI per l’IMPIEGO Il decentramento delle politiche del lavoro e dello sviluppo locale non può essere considerato come un settore di intervento, ma rappresenta invece un obiettivo strategico la cui realizzazione deve essere correlata alla definizione ed attuazione di una serie di politiche distinte tra loro, ma trasversalmente connesse in funzione del risultato. Politiche economiche, infrastrutturali, ambientali, di ricerca e sviluppo tecnologico, sociali, occupazionali, formative, ecc., promosse sulla base delle specificità ed esigenze dei territori, opportunamente coordinate e integrate, volte, non solo al miglioramento dei singoli settori di riferimento, ma a ridurre i divari e gli squilibri fra le diverse zone del Paese. In particolare, il decentramento, assunto come obiettivo strategico delle politiche comunitarie, statali, regionali e locali, costituisce un processo generale, connesso al riorientamento delle politiche legate alle specificità del territorio, la cui governance poggia su un insieme di regole e strumenti che affidano ai diversi soggetti istituzionali potestà, funzioni e compiti. Volendo focalizzare l’attenzione sulle politiche del lavoro, occorre ribadire come anche queste siano state fortemente influenzate, nel loro progressivo ri-orientamento, oltre che dal processo di riforma dell’ordinamento e, quindi, dall’assetto normativo, istituzionale ed amministrativo del Paese, anche dall’evoluzione delle politiche comunitarie e più specificamente dal percorso di elaborazione della Strategia Europea per l’Occupazione (SEO). 24 Aldo Gandiglio - Politica economica e gestione delle risorse umane – Università Roma Tre – a.a. 2013-2014 A livello nazionale, l’atto normativo di riferimento per il decentramento delle politiche del lavoro è rappresentato dal d.lgs. n. 469/97, con il quale si è stabilito che fossero conferite alle Regioni le funzioni e i compiti in materia di collocamento, di servizi per l’impiego e di politiche attive del lavoro, con relativa attribuzione alle Province di funzioni e compiti, ai fini dell’integrazione tra i servizi per l’impiego, segnando al tempo stesso il passaggio dalle politiche cosiddette passive a quelle attive del lavoro. Tramite le strutture denominate Centri per l’Impiego (CPI), le Province hanno quindi iniziato ad esercitare le funzioni e i compiti ad esse assegnati in materia di collocamento, di preselezione ed incontro tra domanda e offerta di lavoro, unitamente a quelli ad esse delegati dalle Regioni in materia di politiche attive del lavoro, favorendone l’integrazione con le politiche più propriamente dedicate alla formazione professionale. I servizi per l’impiego (Spi) possono svolgere una funzione di grande importanza nel favorire i processi di flessicurezza, al centro del dibattito politico e scientifico, nell’approfondimento delle sue quattro “componenti”: contratti di lavoro flessibili e affidabili; apprendimento lungo tutto l’arco della vita; efficaci politiche attive del lavoro; moderni sistemi di sicurezza sociale. La Commissione europea ha da tempo avviato una riflessione ed una serie di iniziative atte ad implementare la flexicurity nei diversi contesti europei. A tal scopo, tra gli altri approfondimenti, ha commissionato un rapporto di ricerca The role of the Public Employment Services related to ‘Flexicurity’ in the European Labour Markets.6 6 Lo studio, condotto utilizzando una pluralità di metodologie di ricerca, propone, tra l’altro, 5 casi studio nazionali (Austria, Danimarca, Francia, Olanda, e Slovenia) e 22 buone pratiche, tra cui 3 italiane. Tra queste i servizi della Provincia di Parma per le crisi industriali, 25 Aldo Gandiglio - Politica economica e gestione delle risorse umane – Università Roma Tre – a.a. 2013-2014 La principale conclusione del Rapporto è che il complesso delle riforme cui, nell’ultimo decennio, sono stati sottoposti i servizi all’impiego in tutto il continente colloca gli stessi in una “posizione storica unica”, al momento di adottare l’approccio di flexicurity. La dimensione della sicurezza, infatti, impone l’agevolazione delle transizioni sul mercato del lavoro. L’obiettivo è garantire più che il diritto a conservare un’occupazione, quello del lavoro e, quindi, una maggiore sicurezza nelle transizioni. In questa ottica sono cruciali i servizi preventivi affidati agli Spi, quali quelli di rapida identificazione dei bisogni formativi, matching, assistenza ed orientamento al lavoro. Tuttavia, la prevenzione pone una prima sfida: è necessario bilanciare la stessa con la selettività, per evitare sprechi; a tal fine, una maggiore selezione dell’utenza, potrebbe essere un utile strumento. Spesso, proprio gli inattivi non costituiscono un target degli Spi e pertanto maggiori sforzi dovrebbero essere fatti per il loro coinvolgimento. La flessicurezza richiede poi un mercato più aperto ed inclusivo, che superi la segmentazione tra soggetti più protetti (insiders) e meno tutelati (outsiders). Assumono rilievo misure effettive per mantenere e migliorare l’occupabilità, anche quando si tratti di programmi formativi ed educativi gestiti da altre istituzioni (tra gli altri, le parti sociali in particolare impegnate nella formazione continua), rispetto alle quali gli Spi svolgono, comunque, un ruolo di promotori, partner strategici e/o coordinatori. Garantire un’efficace informazione sui reali fabbisogni formativi delle imprese rimane tuttora una sfida per gli Spi. Si pone con forza la necessità di assicurare la presenza di un personale maggiormente qualificato. erogati in stretta cooperazione con le Agenzie per il lavoro ed enti di formazione; l’attività di intermediazione tra domanda ed offerta di lavoro svolta dalle Università e, infine, il Progetto Labour Lab della Regione Lombardia, relativo alla erogazione di politiche attive per specifici target di lavoratori svantaggiati, tramite la rete pubblico-privata regionale. 26 Aldo Gandiglio - Politica economica e gestione delle risorse umane – Università Roma Tre – a.a. 2013-2014 Assumono rilievo anche tutte le reti cooperative sviluppate dagli Spi. In primo luogo, proprio i servizi specialistici rivolti ai soggetti più svantaggiati sono spesso esternalizzati presso altri operatori, anche privati, in regime quindi non di concorrenza, ma di parternship. Vanno poi considerate le relazioni con le istituzioni impegnate a rimuovere gli ostacoli sociali e fisici al lavoro. L’inserimento dei disoccupati, è attivato in maniera differente da Stato a Stato. In alcuni Paesi europei, è sviluppato mediante la fusione degli Spi con gli enti previdenziali ed assistenziali, attraverso la creazione di sportelli unici (one-stop-shop); in altri mediante leggi intese a condizionare più fortemente l’accesso ai sussidi alla partecipazione alle politiche attive erogate dagli Spi. In conclusione, la Commissione ha stilato delle raccomandazioni per i servizi pubblici per l’impiego: acquisire un ruolo maggiormente proattivo, visto l’ottimale posizione di osservazione di cui beneficiano; fornire tempestive ed avanzate informazioni sul mercato del lavoro; lavorare insieme agli enti previdenziali ed assistenziali per favorire il veloce ritorno al lavoro dei beneficiari di sussidi. Così si realizza l’obiettivo di rafforzare ulteriormente le politiche attive, utilizzando comunque tecniche di selezione dell’utenza per favorire i soggetti più bisognosi7. 7 Sintesi di una recensione sulla ricerca, tratto da Bollettino Adapt, Modena,14 luglio 2009 27 Aldo Gandiglio - Politica economica e gestione delle risorse umane – Università Roma Tre – a.a. 2013-2014 L’attenzione sul ruolo svolto dai Centri per l’Impiego, ed ancor più per i compiti che dovranno ricoprire per larga parte delle politiche attive in un momento così di così elevata disoccupazione in Europa (per tutte, l’avvio della cd. “Garanzia Giovani”8) è continuato ad essere continuo da parte degli studiosi e delle istituzioni nazionali e comunitarie. Una recente pubblicazione dell’ISFOL presenta un aggiornamento sul ruolo dei Servizi pubblici per l’Impiego in Europa: ISFOL, Lo stato dei Servizi pubblici per l’impiego in Europa: tendenze, conferme e sorprese, Occasional Paper n. 13, marzo 2014. Si riporta tale pubblicazione come allegato alla lezione n. 3, di cui si raccomanda di leggere le 4 pagine di Riflessioni conclusive, perché alcune risultanze sul basso utilizzo in Italia dei servizi offerti per la ricerca del lavoro hanno rinvigorito il dibattito sulla scarsa rilevanza dell’intermediazione pubblica per la ricerca del lavoro. 8 La Garanzia per i giovani deve: a) Garantire a tutti i giovani di età inferiore ai 25 anni entro quattro mesi dal termine degli studi o dall’inizio della fase di disoccupazione/inattività un’offerta: - di lavoro (anche avvalendosi del sistema EURES per le opportunità di occupazione all’estero) - di tirocinio in azienda - di apprendistato - di proseguimento degli studi e/o di formazione professionale - di un percorso di avviamento all’attività d’impresa con il riconoscimento e la certificazione delle competenze acquisite; b) essere sostenuta/attuata da partenariati istituiti tra servizi pubblici e privati per l’impiego, parti sociali e datoriali, rappresentanti delle organizzazioni di giovani, al fine di aumentare le opportunità di occupazione, apprendistato e tirocinio soprattutto per i giovani NEET. Deve essere previsto il rafforzamento della capacità istituzionale necessaria per progettare, realizzare e gestire gli strumenti di Garanzia per i giovani; c) prevedere misure di sostegno per favorire l'inserimento lavorativo dei giovani, soprattutto i più vulnerabili, migliorandone le competenze, incoraggiando gli imprenditori ad offrire loro dei lavori e promuovendo la mobilità lavorativa; d) prevedere la valutazione e il monitoraggio costante delle misure dal punto di vista anche dell’efficienza della spesa; e) prevedere tempi veloci di erogazione dei servizi (scelta della governance più efficace). 28 Aldo Gandiglio - Politica economica e gestione delle risorse umane – Università Roma Tre – a.a. 2013-2014 Ricordiamo, infine, come le dinamiche che hanno caratterizzato il processo di decentramento, in contesti territoriali anche molto differenti tra loro, siano state fortemente correlate anche con la gestione/attuazione dei Fondi Strutturali e, in particolare, dei Programmi Operativi Regionali (POR). In particolare, si è potuto rilevare come, la programmazione regionale cofinanziata dal Fondo Sociale Europeo (FSE), abbia influito in modo sostanziale sui sistemi di governo regionali delle politiche formative e del lavoro, per cui, la gestione delle politiche comunitarie è andata assumendo sempre più il ruolo di terreno di confronto in tema di strategie di governo, anche in riferimento ai tempi e alle modalità d’introduzione e di applicazione di norme nazionali e, di conseguenza, regionali. In questo contesto, le iniziative comunitarie sono concepite come complementari alle corrispondenti azioni nazionali o come contributi alle stesse e si fondano su una stretta concertazione tra la Commissione, lo Stato membro, le autorità regionali e locali, le parti economiche e sociali e gli altri organismi, sulla base delle loro specifiche competenze e nel perseguimento di finalità comuni. 29 Aldo Gandiglio - Politica economica e gestione delle risorse umane – Università Roma Tre – a.a. 2013-2014 La politica del lavoro tra Stato e Regioni: i più recenti interventi per far fronte all’attuale crisi economica e occupazionale La gravità della recente crisi economica ed occupazionale è stata fronteggiata dal Governo italiano adottando misure di politica del lavoro che si caratterizzano per l’intreccio tra politiche del lavoro attive e passive e per la cooperazione tra Stato e Regioni. I provvedimenti presentati negli ultimi 12 mesi (molti dei quali in via di perfezionamento ed approvazione in questi mesi) sia dal precedente Governo Letta, sia dall’attuale Governo Renzi (che ne riprende, modificandone, parti rilevanti), stanno collocando “tasselli” di un quadro riformatore di qualche organicità, pur suscitando forti dibattiti e anche prese di posizione contrarie – com’è lecito attendersi – quando si interviene su una serie così vasta di istituti normativi, che interessano platee molto vaste di popolazione (sia già inserite nel lavoro, sia alla ricerca di una occupazione). Mentre sono continuate le reiterazioni dei finanziamenti per il contributo dello Stato della parte maggioritaria del sostegno al reddito (cioè per la concessione della cassa integrazione, di cui quella “in deroga” non ha altre possibilità di copertura finanziaria) e dei relativi contributi previdenziali figurativi, molti sono gli interventi che hanno presentato novità; ne ricordiamo di seguito le sintesi. 30 Aldo Gandiglio - Politica economica e gestione delle risorse umane – Università Roma Tre – a.a. 2013-2014 Decreto Legge n.76 28 giugno 2013: Sintesi delle norme riguardanti i temi dell’occupazione, della previdenza e dell’inclusione sociale 31 Aldo Gandiglio - Politica economica e gestione delle risorse umane – Università Roma Tre – a.a. 2013-2014 Il nuovo Governo Renzi (insediatosi a febbraio 2014) ha presentato il programma di interventi in materia di lavoro, fisco e previdenza, denominato Jobs Act. Con i primi decreti legge sono stati approvati gli interventi in materia di lavoro riguardanti il contratto a termine ed il contratto di apprendistato, sono state poi concesse delle deleghe per intervenire sull’indennità di disoccupazione Aspi, sull’indennità di maternità e sugli ammortizzatori sociali, come la cassa integrazione. Oltre a questi provvedimenti che saranno riportati poco avanti, sono stati approvati gli interventi in materia fiscale, di cui il più noto riguarda la restituzione di 1.000 euro in busta paga ai lavoratori dipendenti sotto i 25.000 euro di reddito attraverso le detrazioni fiscali a partire dal maggio 2014, cui 32 Aldo Gandiglio - Politica economica e gestione delle risorse umane – Università Roma Tre – a.a. 2013-2014 si aggiunge, per i lavoratori con contratto a progetto, la continuità delle prestazioni erogate dall’Inps in caso di mancato versamento dei contributi da parte dei datori di lavoro. Ecco cosa prevede il decreto n. 34 del 20 marzo 2014, dopo l’approvazione al Senato (deve ancora andare alla Camera per l’approvazione definitiva: • • • • • Contratti a tempo determinato. Viene alzata da 12 a 36 mesi la durata dei contratti a termine “senza causale”, cioè quelli per cui non è obbligatorio specificare il motivo dell’assunzione. La forza lavoro assunta con questo tipo di contratto non potrà essere più del 20 per cento del totale degli assunti. Per le aziende che non rispettino il tetto del 20 per cento scatta una sanzione di tipo amministrativo, con una multa pari al 20 per cento dello stipendio che sale al 50 per cento per i contratti successivi al ventunesimo contratto a tempo determinato; sono esonerati dal tetto del 20 per cento i ricercatori e il personale tecnico degli istituti pubblici o privati di ricerca scientifica. I contratti a tempo determinato si potranno rinnovare fino a un massimo di cinque volte in tre anni, sempre che ci siano ragioni oggettive e si faccia riferimento alla stessa attività lavorativa. Salta l’obbligo di pausa tra un contratto e l’altro. Per tenere conto delle realtà imprenditoriali più piccole, è previsto che le imprese che occupano fino a 5 dipendenti possono comunque stipulare un contratto a termine. Le modifiche al contratto a termine sono state estese anche al contratto di somministrazione di lavoro a tempo determinato. Anche per quest’ultimo era necessaria l’apposizione del termine accompagnata dall’indicazione delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo. Dopo il Decreto anche nella somministrazione a termine, non sono più necessarie le ragioni giustificative. 33 Aldo Gandiglio - Politica economica e gestione delle risorse umane – Università Roma Tre – a.a. 2013-2014 • • • • • I contratti di apprendistato avranno meno vincoli. Per esempio per assumere nuovi apprendisti non sarà obbligatorio confermare i precedenti apprendisti alla fine del percorso formativo. L’obbligo di stabilizzazione riguarda solo le aziende con almeno 50 dipendenti e la quota minima di apprendisti da stabilizzare è il 20 per cento. L’apprendistato può essere utilizzato a tempo determinato per le attività stagionali. La norma dovrà essere però essere recepita dalle regioni. La busta paga base degli apprendisti sarà pari al 35 per cento della retribuzione del livello contrattuale di inquadramento. Il congedo di maternità potrà concorrere a determinare il periodo di attività lavorativa utile a conseguire il diritto di precedenza per le assunzioni. Alle lavoratrici è inoltre riconosciuto il diritto di precedenza anche nelle assunzioni a tempo determinato effettuate dal datore di lavoro entro i successivi 12 mesi. È prevista inoltre l’abolizione del Durc (Documento unico di regolarità contributiva), il documento sugli obblighi legislativi e contrattuali delle aziende nei confronti di Inps, Inail e Cassa edile. Sarà sostituito da un modulo da compilare su internet. Il 12 marzo il Consiglio dei Ministri ha approvato anche un disegno di legge delega al Governo che affronta gli altri temi contenuti nel Jobs act: dagli ammortizzatori sociali ai servizi per il lavoro, dall’introduzione di un sussidio di disoccupazione al salario minimo, dalla riduzione delle forme contrattuali alla tutela per le donne in maternità. Queste misure avranno tempi di approvazione più lunghi. Il disegno di legge dovrà essere convertito in legge delega dal Parlamento e il Governo dovrà dare attuazione alla norma in un tempo stabilito dalla legge stessa. 34 Aldo Gandiglio - Politica economica e gestione delle risorse umane – Università Roma Tre – a.a. 2013-2014 Altri Paesi europei hanno reagito soprattutto prendendo spunto dalla crisi per rafforzare o accelerare riforme strutturali già avviate. La Germania, che con le leggi Hartz III e IV ha rifondato l’Istituto federale per il lavoro, trasformato ora in Agenzia, ha ridisciplinato il sistema dei sostegni al reddito in caso di disoccupazione ed, in caso di bisogno conclamato, un reddito di cittadinanza anche a chi non trova lavoro dopo aver completato gli studi, con contributi per la casa, la famiglia e i figli, un’assicurazione sanitaria. (realizzando così uno stretto intreccio tra politiche del lavoro e politiche sociali) ed ha previsto sanzioni severe per coloro che godono di sussidi pubblici e non accettano opportunità di lavoro, di orientamento, formazione o inserimento/reinserimento al lavoro. Sono poi stati introdotti i famosi, (perché molto criticati, anche se fortemente utilizzati), ‘Minijob’, contratti di lavoro precari, poco tassati, senza diritto a pensione nè assicurazione sanitaria; i Midjob, contratti atipici a 400 euro massimi; i finanziamenti a microimprese autonome e un maggior sostegno per gli over-50 che perdono il lavoro. La Francia, attraverso la legge del febbraio 2008, è stato riorganizzato l’intervento statale mediante l’unificazione dell’Agenzia nazionale per l’impiego (A.N.P.E.) con l’Assedic (soggetto deputato al pagamento dei trattamenti di disoccupazione) in un’unica struttura (Pole-emploi); con la legge del 1 agosto 2008, n. 758 sono stati precisati i diritti del disoccupato alla formazione ed ai servizi per l’impiego e, nel contempo, sono stati fissati i doveri connessi alla condizione di disoccupato che gode di sussidi pubblici; non è mancata, infine, l’attenzione al sostegno al reddito perseguita mediante l’istituto denominato “chomage partiel” (simile alla nostra cassa integrazione guadagni ma con l’indennità a carico dello Stato). 35