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Franco Batacchi - Giovanni Granzotto
AFRO
omaggio ad Afro Basaldella,
un protagonista a Venezia
Afro
un protagonista a Venezia
Ed. Il Sogno di Polifilo
2011
tutti i diritti riservati
ricerche fotografiche
Maria Lucia Fabio
e Alberto Pasini
impaginazione:
Sandro Salvalaio
stampa:
Grafiche Serenissima
ll presente catalogo
viene pubblicato
in occasione della mostra
dedicata ad Afro
organizzata nel 2011
dalla Galleria Perl’A di Venezia
con la partnership
dello Studio d’Arte G.R.
in collaborazione con
Un particolare ringraziamento a
Archivio Afro
Mario Graziani
Fermina Basaldella
Si ringraziano inoltre:
Franco Bernardi
Francesca Fossetta
Mario e Mariella Gezzele
Ugo Granzotto
Afro Graziani
Marco Mattioli
Marina Petternella
Francesco Simion
Gianni Simioni
Un onesto, monumentale maestro
di Franco Batacchi
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Non avvezzo alle perifrasi edulcorate, esprimo una mia radicata convinzione:
Afro Basaldella è il più grande pittore italiano della seconda metà del secolo
scorso. Con Burri, Fontana e pochi altri, tra i migliori artisti. Ma i due geniali
citati hanno aperto vie, esplorato altre dimensioni e sagacemente speculato
sui materiali. Fori, tagli, catrame, cellotex, combustione, cretto sono
catalogabili sul versante della scultura, del bassorilievo. Afro è stato l’unico a
raggiungere risultati di valore assoluto, rimanendo nell’ambito di una tecnica
classica, la pittura.
A proposito della sua tecnica, osservo che tanto si è scritto a sproposito,
favoleggiando di alchimie. Non tenterei mai, poiché ho il senso del limite (e
del ridicolo) di cimentarmi in un’ennesima analisi critica dell’intricato percorso
compiuto da Afro, che ha penato molto per raggiungere il suo inconfondibile
e meraviglioso mondo “dentro” la visione. L’esemplare saggio di Giovanni
Granzotto, pubblicato in questo stesso catalogo, è esaustivo e non vedo
ragione per sovrapporre considerazioni che, del resto, rischierebbero di
duplicare alcune delle mille interpretazioni critiche espresse (non di rado su
posizioni antitetiche) dai più importanti studiosi italiani. I quali, tuttavia, salvo
Dorfles e pochissimi altri, di tecniche ben poco sanno e dunque dovrebbero
saggiamente glissare sull’argomento. Poiché, infatti, Afro disponeva sì di
un’eccellente base artigianale ed esperenziale, ma non diversa da quella
di almeno altri mille artisti del ‘900 italiano. Per dirne una: mio padre,
coetaneo del maestro friulano, era dotato di un’abilità mostruosa, al limite
del virtuosismo. Ed io stesso sono molto bravo. E, come noi, tanti di coloro i
quali hanno frequentato le scuole artistiche quando in tali istituti si insegnava
ciò che effettivamente era utile apprendere e che oggi non s’impara più.
Ma non è attraverso l’indagine sulla metodologia operativa – soprattutto
quando tale ricognizione viene azzardata da chi nulla sa delle basi di un
mestiere - che si può sperare di comprendere l’eccezionalità di un talento
che si eleva su tutti. Vi sono critici che sottovalutano un valente maestro
qual è Santomaso, motivando il giudizio con la pretesa “facilità” e la palese
sicurezza della sua impaginazione, per la quale “non esiste un suo quadro
sbagliato”, quasi che errare l’impostazione di un’opera e poi lasciarla in
circolazione dovesse invece essere titolo di merito. La realtà della professione
di pittore è diversa e molto più complessa. Vi sono artisti (un esempio: Licata)
che individuano precocemente il proprio sentiero nella foresta e procedono
immediatamente in linea retta, disboscando il superfluo e allargando la
radura fino a vedere presto il cielo dell’autonomia di linguaggio e della felicità
espressiva. Altri (la maggior parte, ed Afro appartiene a tale categoria) i
quali s’inoltrano in vicoli senza uscita, ritornano sui loro passi, fino a quando
individuano la strada giusta. A quel punto, molti si crogiolano nella certezza,
o nell’illusione, di un traguardo raggiunto. Altri (un esempio: Guidi) non si
accontentano e ripartono verso nuove avventure, nuove mete.
Non è ponendo un quadro di Afro sotto i raggi X, per analizzarne gli incollaggi
di giornali, le velature, i trucchi, le furbate del non-finito e i cento altri
espedienti che egli, come tutti, utilizzava, che si può capire il suo lavoro: non
sono codesti i segnali di profondità dell’oceano-Afro. Il quale ha trovato la
sua rotta (e quindi ha scelto le opzioni techiche, pervenendo allo stile maturo)
quando ha mollato gli ormeggi dalla nefasta influenza di Cagli, notevole
intellettuale, ma pittore dai trenta stili e pesante palla alla caviglia per chi gli
entrava nell’orbita d’influenza, soprattutto a causa del ritardo storico dei suoi
dotti studi, rispetto ai coevi sviluppi della ricerca artistica, appena superate
le Alpi. Negli anni in cui Cagli dipingeva imperatori romani in plastiche pose,
Man Ray aveva già scandalizzato i mondo con il suo Violon d’Ingres e un
quarto di secolo prima Braque e Marinetti s’erano inventati Cubismo e
Futurismo!
Una presa di posizione, la mia, eccessivamente drastica? Certamente
Luciano Caramel l’ha saputa argomentare in modo molto più garbato e
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scientificamente motivato, ma altrettanto fermo.
Ecco: è proprio nella dolce forza con cui seppe liberarsi da certe influenze;
nella tenacia dimostrata non aderendo alla breve, romantica e politica
ammucchiata del Fronte Nuovo; nel guardare oltre l’ormai limitato orizzonte
europeo, senza tuttavia tradire il prezioso bagaglio della cultura e della
luce veneziana; nel coraggio di seguire un itinerario solitario, affidandosi
esclusivamente ad una bussola, il cui ago era orientato in direzione di una
visione interna all’opera; è in queste scelte e nell’indifferenza verso le sirene
del successo effimero, che si compie il destino di Afro.
Il fatto che un artista coltivasse ancora il gusto e il tormento della pittura,
nel periodo in cui esplodeva il fenomeno della bagarre tecnico-tecnologica
più eterogenea ed eterodossa, avrebbe dovuto porlo in posizione marginale
nei confronti delle tendenze contemporanee d’avanguardia. Non accadde,
poiché altri protagonisti di quegli anni – in primis Arshile Gorky, Rothko,
Pollock, Bacon e via dipingendo – avevano capito che era importante, non
tanto il mezzo utilizzato, quanto la conquista di nuove dimensioni espressive
e che, superato il confine della rappresentazione (ormai appannaggio dei
media fotomeccanici), all’arte manuale rimaneva l’immensa chance di
comunicare il non visibile, l’opposto della realtà banale ed oggettiva.
Qualsiasi pittore, più o meno dotato, di fronte ad un’opera di questo maestro,
ne ammira l’anomalo equilibrio alieno da geometrie, la conclusa e intoccabile
unicità.
Afro ha compiuto un doppio salto mortale carpiato tra le tendenze dell’arte
moderna, che questa mostra-omaggio di Venezia ben documenta,
partendo da La scoperta dell’America, un grande dipinto degli anni ‘30 e
concludendosi con un capolavoro, Salomè, della piena maturità. In mezzo,
alcune gemme dei diversi periodi e una selezione di preziosi disegni giovanili,
che risulteranno di grande interesse anche per gli specialisti.
Non si può dire che negli ultimi 35 anni l’attenzione nei confronti dell’opera di
Afro si sia affievolita. Retrospettive ed antologiche si sono susseguite, in sedi
prestigiose e in diversi Paesi. Ciò che appare incomprensibile e misterioso è
l’ancora relativamente modesta quotazione sul piano del mercato. Un corpus
di lavori rigorosamente catalogati, grazie alla meritoria attività dell’Archivio
Afro, la conseguente assenza di falsificazioni, e la notorietà internazionale
dell’autore, dovrebbero garantire un trend molto più elevato.
Scriveva Giovanni Carandente nel 1980, a quattro anni dalla scomparsa
dell’artista: “La ‘qualità memoriale di una pittura’ chiamò Cesare Brandi la
sottile nostalgia della natura e delle cose viste e vissute che Afro captò nei
disegni e nei dipinti per quasi tutta la sua esistenza. Un’esistenza che in
non pochi rimpiangiamo, così serena e limpida, onesta e poetica essa fu:
e il vuoto non s’è più colmato. Di Afro si dovrà ancora dir molto, in un reale
ristabilimento dei ‘valori’ della pittura italiana… o questo è un parlare che
ormai più non s’ascolta?”. E’ vero che tutti gli storici e i critici italiani, pur
divisi nelle analisi, concordano sull’eccezionale qualità dell’artista. Ma è
altrettanto vero che non possono spargere lacrime (di coccodrillo) coloro che
fanno parte di un sistema che non è riuscito a difendere l’arte contemporanea
italiana. Istituzioni e grandi collezionisti hanno investito ingenti capitali in
pseudo-business escogitati da teste d’uovo anglosassoni, contribuendo ad
alimentare una bolla d’aria fritta che il tempo provvederà a far scoppiare.
E allora, chi avrà in caveau un pupazzo prodotto dal neo-dandy in RollsRoyce, potrà consolarsi vendendo in asta, a quotazione finalmente adeguata,
l’autentica opera d’arte dell’onesto, monumentale maestro friulano.
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La scoperta dell’America
1939
olio su tavola, cm 92x150
I disegni veneziani del 1936
Chiesa di Santa Maria dei Miracoli
163x120 mm (recto e verso)
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Campo San Giovanni e Paolo, monumento a Bartolomeo Colleoni
120x163 mm (recto e verso)
Lista di Spagna, Canal Grande
120x163 mm (recto e verso)
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Ponte degli Scalzi
120x163 mm (recto e verso)
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La Punta della Dogana
120x163 mm (recto e verso)
Hotel Principe, Canal Grande
120x163 mm (recto e verso)
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Rio della Tetta, Ponte dei Consafelzi
163x120 mm (recto e verso)
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Ponte e Campanile di San Boldo
163x120 mm (recto e verso)
Campo San Simon Grando
120x163 mm (recto e verso)
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La Salute a Venezia
1944 - 670x484 mm
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Campo San Giacomo dell’Orio
120x163 mm (recto e verso)
Palazzo Soranzo Van Axel
162x120 mm (recto e verso)
Bacino di San Marco
120x163 mm
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Procedendo dialetticamente
alla conquista della forma
di Giovanni Granzotto
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L’Afro degli esordi e quello degli anni trenta, a parte certe intuizioni importanti,
talvolta condivise con i compagni d’avventura della Scuola d’avanguardia friulana,
era un artista ancora robustamente condizionato: dall’accademismo, dalla cultura,
da una cultura del passato, dall’urgenza dimostrativa di celebrare un fresco mestiere
come già acquisito.
Ma anche negli anni successivi a tale Scuola, con la mostra tenutasi alla galleria del
Milione nel 1933, assieme a Pittino, Taiuti e Bosisio, Afro già cominciava a
manifestare uno spiccato interesse per percorsi artistici lontani dalla tradizione
friulana; privilegiando soluzioni plastiche di sintetica semplicità, con gamme
cromatiche che si alternavano fra un colore più asciutto ed uno più soffice. Il
modello allora appariva Carrà, soprattutto se ci riferiamo a dipinti come Natura
morta con pesci, Ultimo Circo, Pittore al cavalletto. D’altronde, come sottolineava
allora Pittino: “Afro, benchè giovanissimo (il più giovane di noi), ha già scorazzato
con occhi avidi ed anima piena di inquieti ed oscuri desideri attraverso le esperienze
contemporanee che una dopo l’altra più lo affascinavano. Ad ognuna di queste
corse, che pur affinando la sua sensibilità e la sua cultura chiudevano la sua
personalità in germoglio entro legami cerebrali, succedevano delle pause, dove la
stanchezza e il bisogno di sincerità e di schiettezza, per reazione, liberavano di
nuovo questo germoglio; ognuno di questi ritorni dava a frutto opere legate fra loro
da un chiaro filo di sincerità e di forza originale”. Continuava Pittino: “L’espressione
di Afro è a tendenza prettamente romantica. Egli costruisce il quadro su toni caldi e
intimi, che si rincorrono pacatamente senza violenze chiaroscurali né sfarfallii di luci.
Riposa con compiacenza in cantucci accarezzati da ombra misteriosa e pregni di
poesia. Dal suo bisogno di vedere la natura soggettivamente trasfigurata ne
consegue, a parte certe concessioni naturalistiche, una colorazione che col suo
lirismo sfiora il metafisico. Lo spazio è modulato da una linea sinuosa e dal
chiaroscuro che segna una superficie ondeggiante, creatrice di una terza
dimensione ideale”(1).
Nello stesso tempo, secondo Arturo Manzano, Afro già sembrava spinto a creare
accordi musicali, su temi cromatici chiari e caldi, in una pittura raffinata, elegante,
non priva di una sinuosità barocca che appariva galleggiare un po’ ai margini, alla
periferia dell’Espressionismo.
Ecco, dunque, un Afro già curioso, duttile, attratto dalle soluzioni plastiche, di
sintesi, con riferimenti quasi metafisici alla Carrà, e peraltro non intenzionato a
distaccarsi da quella tradizione di impianto decorativo, che manteneva, nel suo
tessuto primario, connessione nei legami con l’espressività lineare mitteleuropea di
inizio secolo. Così come affrontando i cicli murali del Collegio dell’Opera Nazionale
Balilla a Udine, come in quelli di casa Cavazzini, Afro non si limitava a seguire gli
insegnamenti di Cagli, nel fare grande, monumentale, secondo accordi puramente
tonali, di chiara impronta “romana”, ma tentava anche una sorta di trasposizione
visiva del racconto in una sfera di intimizzazione lirica, che tendeva a far affiorare
una specie di trasfigurazione sentimentale dei personaggi. Quei teoremi insidiosi e
corruttori di Cagli, che Luciano Caramel considererà come: “il cattivante, rischioso
esempio di Cagli (rischioso perché non coniugabile con l’indole vera, seppur allora
ancora sommersa di Afro, alieno dal concettualismo intellettuale dell’amico collega,
e solo forzatamente, e provvisoriamente, convinto ai suoi obbiettivi alti di muralismo
ciclico)”(2), venivano dunque già superati, o perlomeno messi in discussione fin
dall’inizio. Anche in questo periodo non maturo, così criticato da Arcangeli, da
Brandi, in parte anche da chi scrive, peraltro riconsiderato, se non proprio rivalutato,
da altri come Enrico Crispolti, e da Isabella Reale, il giovane artista dimostra una
propria vocazione a cercare comunque percorsi non obbligati, aperti invece alle
sollecitazioni di spunti dialettici. Quando un arcaismo mitologizzante alla Cagli si
mescola con un tonalismo sentimentale, tipico della Scuola Romana, componenti
che sembrano talvolta incalzare l’artista in dipinti come Il gigante disteso ed Il
ragazzo disteso del 1935 e del 1936, o Il pastore ed Oreste, degli stessi anni, nel Si
fondano le città del 1938 accanto a queste influenze, ecco affiorare un pittoricismo
venezianeggiante, che non sembra tanto contraddirle e rifiutarle, ma riproporle
piuttosto sotto un’altra veste, con un’altra ottica, con sottolineature diverse, in cui i
bagliori sulfurei e le vibrazioni dorate del Tintoretto sembrano padroneggiare l’opera,
sopravanzando l’intelaiatura. Afro continua a dimostrare la propria irrequietezza, in
verità più sentimentale che formale: la propria curiosità di giovane immerso nel
presente, inteso come parte della matassa della storia, che si srotola e si dipana
progredendo; e la propria individualità di artista libero al sentimento, all’emozione
capace di produrre accadimenti già di per sé atti a far deviare il percorso.
L’emozione che produce l’impennata, o lo scarto improvviso. Ecco il perché di tante
analisi alternative, di tante conclusioni contraddittorie, nell’approccio degli studiosi
alle fatiche giovanili di Afro. Per Enrico Crispolti, ad esempio, il percorso di Afro
negli anni trenta viene influenzato dal “tonalismo romano” e dalle suggestioni della
“tematica primordiale romana” (Cagli), ben prima del trasferimento a Roma, ed
anche prima della frequentazione milanese del 1933, quando Cagli dipinge il grande
murale “Preludi di guerra”, nel vestibolo della V Triennale, al Palazzo dell’Arte di
Milano.
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Scrive infatti Crispolti, riferendosi ai dipinti presentati da Afro alla citata mostra nella
galleria “Il Milione”, nel 1933: “In realtà, in una riconferma di quel tonalismo chiaro,
caldo, di suggestione romana, che già s’era potuto avvertire nella pittura di Afro due
anni prima (e a riprova che l’incontro romano decisivo è già avvenuto nel breve
soggiorno con Dino nel 1930) e che qui si precisa persino nelle scelte tematiche al
di dentro della suggestione cagliesca già dominante, si possono percepire anche
altri interessi concorrenti: e forse persino una certa attenzione ad un figurare
volumetricamente sintetico che è anche proprio di Carrà (ma forse la reale
mediazione è lo stesso Pittino). Termine del resto non contraddittorio, Carrà, alla
stessa giovanile attenzione di Cagli per i problemi della pittura murale, nei quali Afro
era certamente da questi coinvolto in occasione della realizzazione del murale nella
V Triennale milanese, inauguratasi nel maggio di quel medesimo 1933... Nella
prevalenza del dipinto di figura, accanto a quello di natura morta, nella pittura di
Afro del 1932-33 è evidente la suggestione della tematica “primordiale” romana, che
dunque Afro percepisce prima ancora di gravitare definitivamente a Roma nel
1934”(3).
Per Luciano Caramel fino al 1934 Afro é piuttosto lontano dalla sfera di influenza di
Cagli (che oltretutto riuscirà a superare abbastanza rapidamente e poco
dolorosamente), rimanendo più affine alla carica espressionistica del defunto amico
Filipponi, o, casomai, a certa sensualità tonale di Scipione e Mafai. Scrive infatti
Caramel, a proposito di due quadri, Autoritratto e Natura morta, presenti nel 1931, in
una rassegna regionale in memoria di Filipponi, mentre provano l’attenzione di Afro
per il novecentismo, che a dispetto dell’energia cromatica, blocca plasticamente
l’Autoritratto, addirittura quasi Sironiano nella architettonicità della positura, nella
perentorietà dell’innesto della testa sul busto, nell’evidenza plastica della mano...
Anche nella Natura morta con pesci, pur essa in qualche modo confrontabile con
quella di Mafai, e forse più ancora di Scipione (per l’uniforme tono rossastro
dell’insieme, come in certe nature morte dell’artista maceratese, tuttavia più
rugginose), il clima è raggelato da un’essenzializzazione metafisicheggiante, che fa
pensare a coevi lavori di Carrà”(4). Per Caramel, dunque, le indubbie affinità
compositive con il sintetismo del maestro lombardo, non sono certo discendenti
(indirettamente) dalle frequentazioni con le problematiche della pittura murale. E
volendo proseguire in questo alternarsi di contrasti critici, abbiamo già visto come
gli stessi Pittino e Manzano sembravano quasi contraddirsi, parlando l’uno di rifugi
accarezzati serenamente e pacatamente da un’aura che sfiora il metafisico, l’altro di
una pittura elegante, “non priva di una sinuosità barocca”, che sembrava non
restare poi così lontana dagli accidentati territori espressionisti.
Eppure il filo stilistico, il legame biologico con la tradizione formale, quello non viene
mai disatteso, non subisce influenze sostanziali. Afro affronta il percorso dell’arte
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come il percorso della storia dell’arte; secondo una posizione idealista (forse
inconscia) che lo fa muovere da un momento individuale, soggettivo, per
confrontarsi dialetticamente con le alterità dell’esistente e del divenire, ma che poi
tende ineluttabilmente e deludere, ad oggettivare la ricerca. I principi, il legame con
la tradizione, intesa precipuamente come tradizione luministica-atmosferica veneta
(già pensiamo a dipinti come Autunno, al Ritratto di Aldo Merlo del 1936, al piccolo
Autoritratto con bandana del 1937) sono solidi e portanti; altrettanto determinante è,
però, questa ricerca, vissuta ed espressa in chiave dialettica. Già alla fine degli anni
trenta, ed in quelli della guerra, l’ortodossia “tonale”, derivato della Scuola Romana,
veniva affrontata (ed in qualche misura superata) secondo un taglio luministico, nella
ricerca di smaterializzazione non solo della forma, ma anche dell’elemento colore
immerso in un pulviscolo impalpabile. Pur preservandone la preziosità (veneta), ed
una incorrotta intensità.
Veniva a confermarsi quella sedimentazione biologica, veneta e classica (comunque
inscindibili), ma continuava peraltro ad affiorare una golosa e curiosa attenzione per
la duplicità, per l’alterità delle possibili soluzioni artistiche, a seconda del taglio,
dell’approccio con cui il naturale, l’emozione individuale veniva affrontata. Sgorgava
così una serie di ritratti straordinari e di nature morte colme di un dolcissimo afflato,
come il Ritratto di Dino, il Ritratto di Mirko, il Ritratto di Donna e l’Autoritratto della
Galleria Nazionale d’Arte Moderna, tutti del 1940, o la Natura morta con birillo, e la
Natura morta con bleu del 1941.
I riferimenti, in quegli anni quaranta, insistevano certo su tutto il panorama
quattrocentesco e cinquecentesco, magari sottolineando filiazioni (Domenico
Veneziano) meno rilevabili nei festosi cicli murali, dove memorie di brani narrativi del
Veronese, se non Bassaneschi o, addirittura, Tiepoleschi, sembravano affacciarsi
dalle pareti di casa Cavazzini. Ma diventava preminente quella disposizione a far
vibrare il dipinto attraverso le corde interne, i registri più intimi. Era questa una
caratteristica già presente, anche se non in maniera omogenea, in molti dipinti degli
anni trenta, persino in certi paesaggi, come soprattutto il Rovine del 1935 (forse un
po’ successivo nonostante la datazione), come una tensione verso l’interno
dell’opera, e come una necessità di trasfigurazione in senso un po’ onirico del
soggetto rappresentato, e che già molto lo allontanava dal dogma di Cagli, ma che
ora prendeva decisamente il sopravvento e, per di più, diventava veicolo e
strumento per nuove comparazioni, per nuovi confronti, e per nuove avventure
anche sul piano linguistico. In questo processo di interiorizzazione del quadro, quel
vibrato sentimentale che aveva sempre accompagnato Afro, diventava padrone
dell’opera anche sul piano linguistico, creando una commistione precisa fra l’afflato
emotivo e quel pulsare interno, pacato, sommesso, modulato, ma continuo, che
andava a liberare i contorni della forma, e soprattutto a smaterializzare, ad ovattare
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il colore.
Certo della Scuola Romana, anche se Cagli non aveva più cittadinanza davvero in
questi dipinti, rimanevano ancora molte tracce; soprattutto in certi Fantasmi di
paesaggi con rovine in cui non si privilegiava, però, il momento dello sfacimento e
della decadenza, caro a Scipione, quanto piuttosto quello del sogno; abbastanza
lontano, peraltro per motivi opposti, anche dalle amorose e compiacenti descrizioni
romane di Mafai. Ammiccamenti ed affinità con il quale si potevano forse rilevare più
sul versante delle nature morte, dove si manifestava l’amore di entrambi gli artisti
per i colori caldi e la bella materia. Ma lo sguardo, e forse anche cuore e mente,
erano ormai rivolti alla lezione Morandiana. I due artisti erano diversissimi, per
cultura, rapporti e comunanze artistiche, per sensibilità e per le stesse ragioni
anagrafiche; ma, alla fine, non erano poi così lontani, perlomeno gli esiti stilistici cui
giungerà Afro al culmine del suo lavoro non divergeranno dal rigore quasi mistico
degli equilibri formali conquistati da Morandi.
Nelle nature morte di quel periodo, smembrate e ricomposte attraverso un
pulviscolo iridescente o una luce dorata di ascendenza certo più veneta che
romana, aleggiava un senso di straniamento leggero, un brivido incantato, che
prontamente superava tentazioni impressioniste, e perfino fughe espressioniste
(queste più frequenti negli autoritratti), in una attenuazione morbida e modulata del
colore, ed in un raggiungimento di un ritmo interno agli oggetti.
Scriveva Cesare Brandi a questo proposito: “Afro non doveva dipingere come
Morandi, è chiaro. Se c’è una pittura che non ammette doppioni, è quella di
Morandi. Ma è anche una pittura che, a chi capisce, insegna, e chi capisce allora, sa
trovare, per il futuro, una lezione salutare. La lezione della forma. Afro, al solito,
cominciò ad apprenderla dai margini. Furono quadri tonali, nel senso che venivano
come sommersi da un’ombra cromatica, in cui la luce era risucchiata come da una
cartasuga. Basta questo per far capire come s’indirizzasse a Morandi dai margini, e
non dalla struttura. Ma era ciò che doveva sorbire da Morandi, e cioè una fusione a
caldo, una visione interiore, in cui, come nelle immagini della conoscenza, non si
può contare le colonne del Partenone, anche se si ricordi benissimo. Questa visione
interiore insegnava ad Afro che per altro ancora non l’aveva sceverata a prendere
l’immagine come una cosa in sé, sceverata da un contesto: quello in cui si inseriva
era altro, e, a farlo altro, valeva la luce. Non aveva ancora individuato la luce come
uno schermo luminoso - la sua fondamentale scoperta formale - ma neanche era la
luce di Morandi. La quale si poneva come matrice la luce di Piero e del Caravaggio:
la luce come momento cruciale della apparizione della forma, la forma stessa della
presenza. Con la luce e per la luce, Morandi inventò il colore di posizione, la sua
suprema modalità formale”(5).
Personalmente aggiungerei, riferendomi solo ad Afro, la luce di Domenico
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Veneziano, sospesa in un lento vibrare strutturato. E’ il tempo della Natura morta
con i fiori, delle Bottiglie, del Ritratto di Liliana, tutti del 1940. Ma il percorso di Afro
è ancora lontanissimo dal concludersi, ed anche solo dall’arrestarsi.
Nel 1942 Afro probabilmente si sente accerchiato e quasi costretto all’angolo da un
eccesso almeno, per una personalità non così meditativa e riflessiva come Morandi,
di equilibri tonali e formali. Ed ecco, improvviso come sempre, il bisogno di evadere,
da quella gabbia registrata con troppa precisione, di uscire da una pittura che
rischiava (così pareva a lui) di diventare calligrafica. Ne escono quadri come Ritratto
di Turcato, Seggiolone e Ritratto di Dino, in cui l’artista si impossessa di tinte forti,
da’ risalto netto a volumi e piani, non modula ma scandisce il ritmo compositivo,
anche con accensioni di viola, di rossi, di bleu, fino ad allora impensabili. I dipinti
sono percorsi da qualche brivido espressionista, e da una energia tagliente e un po’
cupa, che si illumina solo con qualche rimando alla tavolozza di Matisse. Il giovane
maestro più convinto dei propri mezzi, ed anche più ambizioso, non vuole farsi
schiacciare dal peso leggero della misura, non si accontenta del tono su tono; ha
coscienza, forse non ancora nitidamente, di volere e di potere mettersi in gioco,
nell’andare alla ricerca di una forma più completa, che coniughi rigore con
espressione.
Siamo, una volta di più, di fronte ad un nuovo passaggio dialettico, inevitabile
superamento di esiti apparentemente acquisiti, ed allo stesso tempo occasione e
motivo di ulteriori approfondimenti e superamenti. In realtà in dipinti come La
spiaggia, come Uomo con pipa, come Natura morta con portaincenso, mi appare
più trattarsi di fughe in avanti, se non proprio di scarti laterali: siamo ancora nel
campo del tentativo, e dell’incertezza, con quei richiami troppo evidenti a Matisse
nella libertà e dinamicità della linea-colore; o, invece, con una accentuazione del
momento espressivo, attraverso una densità e stratificazione materica, che si
trasmette drammaticamente all’opera, risolvendosi in un colore livido e bituminoso.
Ma già soffiava nell’aria (e ne avevamo avuto un primo annuncio con il Ritratto di
Turcato), una brezza neo-cubista, che avrebbe, entro poco, rimesso le cose a posto.
Afro, in quella direzione avrebbe incontrato e sposato tesi nuove che, nel processo
dialettico di conquista della forma, avrebbero potuto trasformarsi in momento di
sintesi. Ed anche se questo non accadde, se l’approdo cubista non risultò
conclusivo, certo ci si trovò di fronte ad una pagina totalmente nuova e finalmente
originale, contrariamente a quello che magari molta critica, anche la più attenta
abbia continuato ad affermare.
Attraverso delle vere teste di ponte, come la Natura morta con tenaglie del 1947 e le
altre nature morte dello stesso anno, Afro comincia a far cadere ogni risalto plastico,
a portare sul piano frontale tutta la rappresentazione, a spartire in “zone” il dipinto
secondo definizioni taglienti, incisive. Il passo verso il suo “cubismo”, che, a mio
a pag. 21
Ordigni
1948
olio su tela
cm 100x70
a pag. 23
Studio per
S. Martino
1949
carboncino su
carta intelata
cm 100x70
a pag. 25
Piazza
S. Giacomo
1952
tecnica mista
su carta
cm 67x48
Senza titolo
(Petrassi)
1960
tecnica mista
su carta intelata
cm 50x70
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parere, si allontanerà da qualsiasi forma di “neocubismo” italiano, in quell’immediato
dopoguerra, sarà brevissimo e comunque obbligato.
Ogni riferimento descrittivo viene abbandonato, ogni tentazione narrativa viene
superata, in una astrazione strutturata geometricamente, a sottolineare una tensione
verso l’alto, verso uno spazio immanente e concluso, ma comunque esterna al
motivo rappresentato, o meglio, come dice Lionello Venturi, presentato. In questo
definitivo abbandono dell’aspetto mimetico, gli affascinamenti per la Metafisica di
rito Dechirichiano si traducono in pure allusioni semantiche, o nella ricomposizione
di angolarità evidenziate linearmente, in analogia con i triangoli e le squadre degli
interni metafisici. Ma anche in sintonia con la destrutturazione e la restrutturazione
della forma per definizioni angolari, tipica del linguaggio cubista. Il cui
impossessamento non sarà la caratteristica precipua di questo periodo, come
invece fu per tanti compagni di strada, che infatti, contrariamente a lui, aderirono in
massa al Fronte Nuovo delle Arti.
Egli aderì a quel linguaggio cubista (e a null’altro), ma lo utilizzò a proprio uso e
consumo, arricchendolo di riferimenti metafisico-surrealisti, di implicazioni
simbolistiche, di echi vagamente nordici, e non solo mediterranei. Il linguaggio
cubista si coniugava con l’anima friulana, e nasceva così un personalissimo
“cubismo sentimentale”, in cui figure centrali, ieratiche, o totemiche, tagliate con
secchezza e nettezza di lame, sembrano rimandare a presenze misteriose, potenti e
profonde, in una sorta di misticismo della forma. Pensiamo a dipinti come Occhio di
vetro, La sfinge, Il pianeta della fortuna del 1948 e San Cristoforo del 1949. Afro
aveva colto il suo primo vero obbiettivo, aveva conquistato, forse meglio raggiunto,
già una forma compiuta e sostanziale, che era debitrice del suo bagaglio
sentimentale, emotivo, e culturale, e che aveva potuto affiorare per mezzo degli
strumenti cubisti. Che per Afro altro non erano che l’anticamera, i veicoli per arrivare
all’astrattismo. Bene scriverà, infatti, nel 1954 Lionello Venturi: “Ciò che ha scoperto
nel 1948 è il suo stile personale, che meglio risponde alla sua natura ed evolve
proprio come la vita si trasforma, ma non muta più direzione. La sua forma è
astratta e il suo motivo è presentato, anzi che rappresentato. Ciò non toglie che le
sue linee e le sue forme abbiano una propria vitalità di struttura o di moto, e trovino
in questa rispondenza alla vita la loro necessità. Lo spazio non è rappresentato, ma
esiste come rappresentazione dell’immagine; ora lo si direbbe capace di creare
l’immagine, ora ne è invece creato”(6). Così come confermava chi scrive nel testo
comparativo tra il periodo cubista e l’ultimo periodo: “Diversamente da molti
colleghi, che, in quegli anni, avevano aderito al Fronte Nuovo, e che tendevano a
ricostruire l’universo, o almeno a definire i tracciati, secondo la grammatica cubista,
partecipe di un “sentimento cubista” del ritmo, lineare verticalizzante, che, per tagli,
inquadrature, permetteva l’affiorare e la comprensione di una forma endogena,
Collage 1
1962
tecnica mista su carta riportata su tavola
cm 36x51
29
30
preesistente all’intelaiatura cubista. Ma come confermerà sempre Venturi,
quell’equilibrio quasi perfetto andrà a rompersi, perchè Afro, ancora una volta
sentirà il bisogno di mettersi in discussione. Quella forma raggiunta era ancora
percepita come troppo larvale, perlomeno troppo limitativa. Così come s’affacciava
un’urgenza di conquistare compiutamente anche lo spazio, tramutandolo da
fondale, in elemento stesso dell’opera, in una sorta di schermo partecipativo. Il
dipinto aspirava a diventare un unicum, con una simbiosi, un coinvolgimento fra la
superficie-spazio e l’oggetto rappresentato o presentato, in una fusione di materia,
colore e segni, interrellati e coordinati sempre attraverso un più dinamico linguaggio
cubista. Sono gli anni di Nuovo Testamento e di Negro della Louisiana; e poi ancora
dei Paesaggi e delle Città, e più ancora di Cronaca nera e di Giardino d’infanzia.
Una forma con riferimenti e allusioni gotiche, ma anche pregna di trasalimenti
religiosi, evocatrice di aspetti alti, quasi metafisici, che il linguaggio cubista aiutava a
portare in evidenza, a ripulire, a riconoscere. Non v’erano in quel suo “cubismo
sentimentale”, forti tensioni di ordine strutturale, legate alla scomposizione per piani,
alla sovrapposizione dei piani stessi, alla ricognizione, in chiave tridimensionale,
della forma plastica. Tutto era riportato su un unico piano, e la svettante linearità
gotica sembrava non voler tanto scandire la misura formale di una figura-idolototem, quanto sottolinearne l’intimo afflato sentimentale...”(7).
Gli anni in cui l’artista friulano è stimolato e affascinato dall’ambiente americano (e
in America soggiornerà, a più riprese, per molto tempo) più che dai movimenti
artistici europei, Pollock e Gorky sono gli esempi più ammirati, soprattutto Gorky,
per la sua sensibilità fantastica, per la sua libertà da regole, infrastrutture,
condizionamenti. Afro, che certamente possiede una cultura più derivata e lontana,
fors’anche più sedimentata rispetto alla loro, e che, comunque, non è un
rivoluzionario, non vuole ancora prescindere da quella intelaiatura cubista, peraltro
così efficace, ma può cercare di affrancarla da una certa rigidità lineare, e da una un
po’ angusta spartizione spaziale, che possono limitare, trattenere esiti formali già
tanto importanti. Il segno diventa allora meno continuo e unitario, la superficie della
tela viene interamente invasa dal movimento di punti, segni, linee rotte.
Alla rigidità del primo periodo cubista, si contrappone una ariosa e dinamica libertà
di linee e di piani, che pur continuano ad incontrarsi ed incastrarsi, secondo una
organizzazione cubista, ma cercando nel colore-luce, e non nella gabbia
architettonica, il recupero centripeto ed unitario della composizione. Da questo
momento e fino alla fine degli anni cinquanta, il progredire della pittura di Afro
avverrà attraverso un processo meno dialettico, con minori scarti e fughe, e con,
invece, una più consistente e profonda fase di decantazione e mondatura delle
immagini, che nascono dal di dentro. Probabilmente stava sopraggiungendo la
coscienza degli esiti alti raggiunti, e nonostante i nuovi interessi americani, anzi,
Senza titolo
inchiostro su carta
cm 30x40
31
32
molto in grazia di quell’insegnamento, s’era chiarita in lui l’esigenza di cercare,
anche pazientemente in se stesso, di approfondire e liberare un personale discorso
interno. L’incontro con le opere di Gorky fu davvero fondamentale: “Ho avuto la
sensazione di essere di fronte ad un grande artista e di scoprire un mondo di
immagini inedite caratterizzato al massimo. Una fantasia, un colore, un sogno
febbrile, che sono di Gorky soltanto... Quella pittura mi ha dato coraggio. Intrepido,
emozionato, pieno d’amore Arshile Gorky mi ha insegnato a cercare la mia verità
senza falsi pudori, senza ambizioni, o remore formalistiche. Da essa ho appreso più
che da qualunque altra a cercare soltanto dentro di me: dove le immagini sono
radicate alle loro origini oscure, alla loro sincerità inconsapevole”(8). E per cercare
bene dentro di sé, bisognava, se non annullare, perlomeno attenuare l’incidenza di
quelle strutture-griglie cubiste, che, in qualche maniera, si frapponevano, pur
positivamente, fra il momento della libertà dell’inconscio e quello della sua
trasposizione in immagine. Questo incominciava ad avvenire in quadri come Cow
boy, Agosto in Friuli, e poi, come Per non dimenticare, L’Ottomana, Il sigillo rosso,
La persiana, proseguendo sempre più in una direzione di alleggerimento della
gabbia, e in un pescare ancor più copiosamente dentro di sé in quadri come
Ricordo d’infanzia, Figure, del 1953 e del 1954, per arrivare ai paesaggi dello stesso
anno, al Ragazzo con tacchino e a Guerra, ricostruzione e pace, l’immenso dipinto,
a dieci pannelli, oggi di proprietà dell’INA. Afro si apriva tutto ad una libertà interiore,
cercando di far scaturire man mano le presenze che galleggiavano nella propria
coscienza, nella sfera più interna dell’emozione, e nello scrigno della propria cultura.
Così come “Gorky faceva confluire il proprio soggettivo mondo d’immagini che
aveva radici nelle memorie dell’infanzia e nei vecchi miti del suo paese anch’egli
cercava giorno dopo giorno, dipinto dopo dipinto, disegno dopo disegno, di
estrarre, anzi di aiutare ad affiorare, attraverso un processo di decantazione
sentimentale, che si collegava ad un parallelo processo di alleggerimento formale,
ciò che era sedimentato nel profondo”(9).
Quasi ad anticipare quell’intuizione poetica di un suo più giovane conterraneo,
Stanislao Nievo, nipote di Ippolito che nel “Prato in fondo al mare”, ci ricorderà
come la verità sia solo un derivato della libertà intellettuale: consistendo in quel
metro in più, quel metro conquistato ogni giorno, quell’aprirsi ogni giorno ad un po’
più di conoscenza, quell’acquisizione di un nuovo punto di partenza per la prossima
fatica; perchè la verità non considera e non conosce traguardi. Dalle incrostazioni e
dal calcare depositato dall’emozione, attraverso il filtro della memoria, tende a
liberarsi una farfalla libera e leggera, pronta a volare su prati liberi e aperti. Le gabbie
compositive che si erano andate alleggerendo in Estate nell’orto, Incontro, Figura
blu, finiranno per sparire completamente in quadri come Ombra bruciata, La
scheggia, Silver Dollar Club, Notturno, Stagione dell’Ovest. Rimarrà una intelaiatura
Senza titolo
1963
tecnica mista su carta intelata
cm 56x80
33
34
mentale senza telaio, inconscia e pur solidissima, senza condizionamenti lineari,
men che meno geometrizzanti, che diventerà solo il cuore rigoroso, l’anima ideale
della sua pittura. Infatti anche il benchè minimo riferimento naturalista, qualsiasi, pur
solo accennato e filtrato all’estremo, elemento figurativo o simbolico vengono
rifiutati, e questa volta consciamente, da Afro, che, lo dichiara espressamente, non
sopporta più di: “rappresentare una realtà di fantasia, di sogno o di memoria
esistente oltre il quadro, e di cui il quadro era specchio o tramite, ma volevo che
quella realtà si identificasse con la pittura e la pittura divenisse la realtà stessa del
sentimento, non la sua rappresentazione”(10).
La memoria è la strada maestra, lo strumento e la guida per far emergere il
sentimento e l’emozione, che, decantati, puliti, depurati e ricomposti nella loro
essenza, trovano la loro espressione assoluta, anzi diventano essi stessi
espressione assoluta nella pittura. “Già Afro aveva confermato che le sue “immagini
pittoriche” sono ancora un corrispondente poetico della realtà, di cui la memoria
conserva la parte più essenziale, rifiutando che tutto sia pratica ed esperienza”.
E che “una forma pittorica in me non nasce mai solamente come forma né un colore
si giustifica solo nel suo rapporto di valore e di spazio, ma ha bisogno di caricarsi di
un significato espressivo, direi di sentimento, per cui una forma dovrà avere un
determinato carattere e il colore quel particolare timbro e il segno quella immediata
trepidazione...” e poi in risposta alla domanda se una forma pittorica può avere
valore di apparizione, può contenere il respiro di una evocazione, e il soprassalto
della memoria, Afro si rispondeva: “Non so se questa impressione di animazione di
un vento segreto che investa le mie immagini sia esatta; ma spesso anch’io sento
che la sostanza del mio colore lo sviluppo delle mie linee creano uno spazio che non
è altro che lo spessore della memoria”(11).
Ora, in questa seconda parte degli anni cinquanta è il sentimento della memoria che
diventa, esso stesso, pittura, colore antico e luce. Pittura di luce, ma proprio nel
senso antico dei termini (forse non perfettamente in accordo con ciò che affermava
Brandi sul capovolgimento copernicano della posizione del quadro da parte di Afro,
per permettere alla luce di diventare la base espressiva della sua pittura, non in
quanto rappresentata, ma come germe attivo e operante). Ebbene, non era forse già
una luce che sgorgava dall’interno del quadro, e che irradiandolo lo faceva, lo
costruiva, quella del Beato Angelico, di Giorgione, di Bellini? La stessa luce di Afro,
che come ebbi già modo di scrivere, “diventa in questi anni di poca materia e di
colore magro, sempre più materia e colore del quadro, riuscendo a far affiorare da
un iridescente pulviscolo, lo sconfinato e vibrante paesaggio, che è l’anima stessa
di Afro. Sono tutti paesaggi, paesaggi della memoria che affiorano ad una superficie
assoluta e perfetta, i quadri di questi anni, anche quelli che ci presentano altre
realtà, che propongono oggetti e figure, apparentemente fermando e
Carta grigio nera
1965
tecnica mista su carta intelata
cm 69x100
35
36
materializzando istantanee quotidiane. Ogni lavoro, ogni momento pittorico altro
non tende che ad annunciare l’emergere, nelle infinite variazioni cromatiche, nelle
mille diverse risposte emotive, in una scala non misurabile di turbamenti, di
commozioni, di tenerezze e di palpiti gioiosi, di quel territorio sconfinato che Afro
aveva racchiuso in sé stesso e che ora conosce finalmente e felicemente la luce”(12).
Era questo il suo momento magico, il lunghissimo istante in cui l’anima friulana,
quella delle radici profonde, l’anima veneto-classica, quella della cultura, delle
tradizioni, e l’anima internazionale, quella del cittadino del mondo, curioso ed aperto
alle esperienze, si fondevano negli splendidi Controforma, Mattutino, Tre sotto
chiave, L’uccello di tuono, Viale delle acacie, Rocca di Susans, Il giardino della
speranza, Solchiaro, Terra di nessuno, Giallo limone, e negli altri innumerevoli
capolavori in quel finire degli anni cinquanta. Il colore diventa luce, 1a materia
diventa luce, e la luce, senza trasformarsi in colore e materia, diventava il quadro. La
pittura si svolgeva su uno schermo luminoso, in cui risalivano i tracciati della
memoria. Ma non era una operazione intellettualistica: era ciò che di più spontaneo,
naturale, biologico, può accadere all’artista. L’emozione, depurata nel tragitto della
memoria, emergeva alla luce (e spesso il risalire poteva accompagnarsi al trasalire
ed al commuoversi, ma in una partecipazione comunque decantata, filtrata) e
assumeva nella luce, consistenza d’immagine.
Il sentimento era diventato forma. Anche quel momento felicissimo doveva, però,
essere superato, magari da altri periodi di grande intensità ispirativa, ma sempre
superato. Ritornava la tensione verso un andamento dialettico, nella ricerca di una
strada ancora nuova, pronta a sottolineare o a far emergere altri aspetti. E
preminente era, in quell’inizio degli anni sessanta, l’urgenza di una partecipazione
più diretta, più coinvolta all’accadimento del quadro. Dopo gli anni della maturità e
del perfetto equilibrio, ricominciava ad emergere quell’irrequietezza “di parte”, che
era stata il motore del suo procedere dialetticamente. Dopo il tutto si tendeva a
sottolineare una parte, un aspetto, una tesi; e date le ultime premesse
sull’immediatezza della trasposizione di sentimento ed emozione (pur filtrati
all’estremo) nell’accadimento dell’opera, era inevitabile che questo fosse l’elemento
privilegiato, il contenuto fondante gli anni a venire. Era il nuovo porto di partenza per
tentare nuove Americhe; e d’altronde era proprio l’Action Painting,
quell’Espressionismo astratto, nella versione più caratterizzata, più vicina
all’Informale, il nuovo riferimento: Kline, Hofmann, De Koonig, oltretutto amico
personale, le nuove occasioni di confronto. Il gesto (massima offerta estetica
dell’Informale), il gesto di sintesi, assoluto, diventava anch’esso portatore di luce e
di colore, ed il dipinto diventava un centro di pulsazioni cromatiche e segniche, in
cui le masse sembravano dilatarsi fino a tentare nuove vie di fuga nello spazio. E’ il
tempo di Sperlonga, Via dell’anima, Villa Horizon, Colle ceco, Via traversa, Albenga,
Senza titolo
1965
tempera su carta
cm 24,4x39
37
38
Le fosse (Sutri). Ma all’accentuazione cromatica del gesto, al risolvere ancora per
campiture ampie, accese di colore (anche di pochi colori) lo spazio del sentimento,
ecco affiancarsi, prendendo quasi il sopravvento, un sempre maggiore dinamismo
segnico, in una crescente sottolineatura di una fibrillazione interna, che sembrava
davvero scuotere violentemente l’opera. E’ l’anno (1965, ma già qualche
anticipazione l’avevamo riconosciuta in dipinti come Torre del Greco, o Portorose
del 1963), di Saratoga, Orizzontale col verde, Rosa e nero e di altri dipinti anche di
piccole dimensioni.
Poi, già dal 1966 un nuovo porto pare avvistato: un porto verso casa, sul ritorno alle
origini lontane, quelle della ricerca della forma assoluta; un porto di quiete. E sarà
questo davvero l’ultimo approdo di Afro.
Dal punto di vista del progredire dialettico, siamo nel momento della sintesi: la
riscoperta della forma come valore a sé stante, come suprema conquista; la forma
raggiunta, decantata, che sembrerà racchiudersi in sé, ma solo per poter esprimere
più compiutamente il proprio messaggio. Non è più il sentimento che si trasforma,
sulla tela, in immagine, pur scevra da elementi descrittivi; è la forma che,
definitivamente affiorata, conquistata, o riconosciuta, riconosce in se stessa la
misura, il calore, la sostanza del sentimento. La tela non è più il fondale che
recepisce ed assume l’immagine del primo periodo cubista, e neppure lo schermo
luminoso dei periodi successivi: è uno sfondo che diventa tutt’uno con la forma,
tanto da presentare una intrinseca rilevanza plastica (e materica), pur senza alcuna
disposizione alla tridimensionalità. Ed una nuova luce meridiana, che non ha più la
funzione di fondere le varie spinte e le varie pulsioni del dipinto, né di costruire la
forma, viene a cadere diretta, luce assoluta, zenitale, ad evidenziare ed illuminare
masse, già forme risolte. Se in dipinti come Colorado, Merida, Salomé, Segnale
rosso, La bandiera, Il ponte, questa fase ha già trovato un suo sviluppo preciso, ma
non si è ancora conclusa, da Rosso di sera del 1969, e da Nero dal 1970 in poi,
questo percorso si indirizza verso il momento finale, senza alcuna incertezza o
ripensamento. Scrivevo, infatti, a questo proposito: “la forma vagheggiata, aveva
raggiunto una quiete assoluta, collocandosi in un ruolo che il confronto delle
campiture e l’equilibrio sottolineato delle masse, rendeva incorruttibile. Se ci
poniamo in ascolto della parola asciutta, possente e silenziosa che sembrano
rivolgerci quadri come Fuori porta, Siena calcinata, o come Senza titolo del 1974, o
la voce, altrettanto netta e cadenzata, ma più squillante di Santarossa, non
possiamo non notare come, abbandonato ogni riferimento al mistero, all’indefinito,
tutto vada tramutandosi, finalmente, in un insieme collegato di pagine conclusive, di
messaggi risolutivi, di immagini certe. V’è un fondale, sempre, ed una forma
raccolta, centripeta, ancora ricca di valenze estetiche e sentimentali. Ma Afro
guarda a ciò che era già accaduto, a ciò che era affiorato dalla memoria, e intende
B33
1969
tecnica mista su carta intelata
cm 56x80
39
non più avvolgerlo d’una luminosità emozionale, d’una luce del cuore, in qualche
modo figlia della memoria stessa. La sua tensione è verso una luce diretta, capace
di individuare le campiture portanti, e quelle di supporto, di riconoscere, nello
schiarire e nel velare, i ritmi interni della forma; quegli stessi ritmi profondi e
silenziosi, che permettono al dipinto di diventare compiuto, collocandosi l’essenza
su un fondale assoluto, dove sfondo e forma, compenetrandosi, diventano un
unicum. E’ questo un periodo di grande attenzione mentale, anche se l’affettuosa
predisposizione di Afro per i suoi ricordi su tela, non viene mai a scemare; è però
ora accompagnata dalla lucida percezione di aver toccato i limiti, gli estremi della
coscienza formale, e di essersene definitivamente appropriato... Nelle opere degli
anni settanta tutto avviene, anzi è già avvenuto, naturalmente: tutto è limpido e
risolto (non per questo evidente e semplice); tutto, nascendo dall’interno dell’opera,
è affiorato e si è ridepositato sul dipinto. Non vi sono più le annunciazioni della
forma, le memorie e i trasognamenti. Vi è la forma, magari concupita, ritrovata,
raggiunta”(13).
Con quadri come Grande grigio, La forcola, Tormarancio, Chiana bianca, Cerenova
tutto era davvero risolto.
Tratto dal catalogo:
“ Afro 1951 – 1975. Una luce mediterranea attraverso i continenti”
Buenos Aires, Museo Nacional de Bellas Artes, ottobre-novembre 1999
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Note
1) Bollettino della Galleria del Milione, 1933
2) Luciano Caramel, da “Uno sviluppo spontaneo...”, in “Afro”, Sacile, 1995, pag. 18
3) Enrico Crispolti, da “I Basaldella “, Udine, 1984, pag. 229
4) Luciano Caramel, da “Afro -Dipinti, 1931-1975”, Milano, 1992, pag. 13
5) Cesare Brandi, “Afro “, Roma, 1977, pag. 9
6) Lionello Venturi, “Afro “, Roma, 1954, pag. 7
7) Giovanni Granzotto, da “Afro un confronto... “, Vicenza, 1998, pag. 29
8) Afro, da “Gorky “, testo di presentazione, Roma, 1957
9) Afro, da “Gorky”, id.
10) Afro, da “Pittori Italiani d’oggi”, Roma, 1958, pag. 93
11) Afro, da una lettera ad Umbro Apollonio, 1953
12) Giovanni Granzotto, “Afro “, Sacile, 1995, pag. 15
13) Giovanni Granzotto, da “Afro un confronto... “, id.
Tormarancio
1974
tecnica mista su tela
cm 90x100
41
Salomè
1967
tecnica mista su tela
cm 65x81
Cenni biografici
44
Afro nel suo studio, 1959
Afro Libio Basaldella nasce a Udine il 4 marzo del 1912.
Nel ’28, appena sedicenne, espone insieme ai fratelli Dino e Mirko alla
Mostra della Scuola Friulana d’Avanguardia. Nel 1930, grazie ad una
borsa di studio offerta dalla Fondazione Artistica Marangoni di Udine,
Afro ha l’opportunità di recarsi a Roma in compagnia del fratello Dino
e di entrare in contatto con l’ambiente artistico della capitale. Dal ’31
inizia a partecipare alle diverse Mostre Sindacali e nel ’33 espone
alla Galleria del Milione di Milano, insieme ai friulani Bosisio, Pittino e
Taiuti; successivamente Afro si trasferisce a Roma.
Nel ’35 partecipa alla Quadriennale, e nel ’36 alla Biennale di Venezia,
dove esporrà anche nel ’40 e nel ’42. Dopo l’esperienza della Scuola
Romana, la realizzazione di diverse opere di pittura murale ed il
temporaneo avvicinamento al Neocubismo, nel 1950 Afro si reca negli
Stati Uniti ed inizia una ventennale collaborazione con la Catherine
Viviano Gallery.
Nel ’50, invitato alla XXV Biennale di Venezia con tre opere, rifiuta
di partecipare. Il differente clima culturale ed i molteplici movimenti
artistici americani di quell’epoca, rimarranno impressi nella memoria
dell’artista e verranno rielaborati in seguito in maniera del tutto
personale.
Nel ’52 aderisce al gruppo degli Otto (Afro, Birolli, Corpora, Moreni,
Morlotti, Santomaso, Turcato, Vedova), con i quali prende parte alla
XXVI Biennale; in occasione dell’edizione successiva, Lionello Venturi
gli dedica un saggio critico, dove mette in evidenza l’abilità tecnica, la
precisione e la passione per il lavoro, l’eleganza naturale e la poesia
dell’artista. Nel 1955 è presente alla prima edizione di Documenta
a Kassel, alla Quadriennale di Roma ed alla Mostra itinerante negli
U.S.A. “The New Decade: 22 European Painters and Sculptors”.
Ormai Afro ha raggiunto consensi e fama soprattutto a livello
internazionale e nel 1956 ottiene il premio come miglior pittore italiano
45
46
alla Biennale di Venezia. Nel 1958 prende parte, insieme ad Appel,
Arp, Calder, Matta, Miro, Moore, Picasso e Tamayo, alla decorazione
della nuova sede del palazzo dell’UNESCO a Parigi, dipingendo II
Giardino della Speranza.
Gli anni 1959-’60 vedono ancora Afro impegnato a livello
internazionale: è invitato a II Documenta a Kassel, e vince il premio a
Pittsburgh e il premio per I’Italia al Solomon R. Guggenheim di New
York. Nel 1961 J. J. Sweeney, curatore del Guggenheim Museum di
New York, gli dedica una splendida monografia.
Tra le personali di questi anni ricordiamo: Cambridge, al
Massachusetts Institute of Tecnology nel ’60; Parigi, alla Galerie
de France e Milano, alla Galleria Blu nel ’61. Poi, tra il ’64 ed il ’65,
ancora in Europa: Galerie im Erker di St. Gallen, Räber di Lucerna,
Günter Franke di Monaco di Baviera e nel 1969-’70 la vasta
antologica curata da B. Krimmel al Kunsthalle di Darmstadt, alla
Nationalgalerie di Berlino, ed in seguito al Palazzo dei Diamanti di
Ferrara.
Dopo la morte del fratello Mirko, avvenuta nel 1969, Afro subisce
alterne vicende di salute.
Gli anni ’70 sono caratterizzati dall’intensificarsi dell’opera grafica e
da un diradarsi dell’attività pittorica ed espositiva. Sono di questo
periodo le mostre alla Galleria Editalia (Roma) presentata da C. Brandi
nel 1973 e quella del 1974 alla Galleria Il Milione (Milano) curata da V.
Rubiu.
La morte lo coglie a Zurigo il 24 luglio 1976, in coincidenza con
l’edizione della monografia curata da C. Brandi. Nel 1978 la Galleria
Nazionale d’Arte Moderna di Roma gli rende omaggio esponendo più
di 120 opere.
Già dagli anni ’80 si susseguono le retrospettive. Tra le altre:
Staatsgalerie Moderner Kunst di Monaco di Baviera (1982), Locarno
(1989). Nel 1992 la Galleria Civica di Modena allestisce la prima
mostra del disegno di Afro, con oltre 200 opere, a cura di F. D’Amico;
dello stesso anno la prestigiosa antologica al Palazzo Reale di Milano
a cura di L. Caramel. Nel 1995 – 96, antologica nel Museo d’Arte
Moderna di Bolzano, trasferita poi in Germania nei Musei di Passau
e Mainz. E’ del 1999 la retrospettiva al Museo Nacional di Buenos
Aires. Nel 2002 viene allestita a Darmstadt una mostra che giungerà
poi a Roma in Palazzo Venezia nel 2003. Nel 2009, importante
antologica al Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo
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MOSTRE A VENEZIA
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Finito di stampare: maggio 2011
da Grafiche Serenissima
Santa Maria di Sala (Venezia)
per conto di
Perl’A Gallery
San Marco, 3216
30124 Venezia
tel. 041.2413218
Il Sogno di Polifilo
Via Zuccareda, 11
31044 Montebelluna (Treviso)
tel. 0423.22867