Riesame di un`ipotesi: i rapporti tra schizofrenia e cancro

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Riesame di un`ipotesi: i rapporti tra schizofrenia e cancro
Rassegna
Riesame di un’ipotesi: i rapporti tra schizofrenia e cancro
A deep at a hypothesis: the relationship between schizophrenia and cancer
MARCO ALESSANDRINI, MASSIMO DI GIANNANTONIO
Dipartimento Salute Mentale ASL Chieti; Dipartimento di Oncologia e Neuroscienze, Istituto di Psichiatria,
Facoltà di Psicologia, Università di Chieti, G. D’Annunzio
RIASSUNTO. Da decenni il rapporto tra schizofrenia e cancro è oggetto di controversie. Agli inizi del XX secolo è stato detto che la schizofrenia “immunizza” nei confronti del cancro. In realtà, solo alcuni studi iniziali hanno confermato questa ipotesi. All’opposto, studi più recenti hanno indicato in pazienti schizofrenici una più alta incidenza del cancro. Infine una terza
categoria di studi, probabilmente i più attendibili, non ha dimostrato negli schizofrenici nessuna deviazione significativa della mortalità per tumori maligni rispetto a quella attesa. Da un punto di vista critico è importante valutare l’eventuale ruolo,
in questo genere di studi, di inconsci preconcetti culturali. Infatti la follia è stata considerata, fin dai tempi antichi, alternativamente “svantaggiosa” o “privilegiata”. È ugualmente importante un riesame critico delle ipotesi psicosomatiche, perché verosimilmente è improprio applicare un’ipotesi psicodinamica unica e “standard” a un ampio campione di popolazione.
PAROLE CHIAVE: cancro, schizofrenia, preconcetti culturali, ipotesi psicosomatiche.
SUMMARY. The relationship between schizophrenia and cancer has been the subject of controversy for decades. At the beginning of XX century it has been said that schizophrenia “immunizes” against cancer. Anyway, only a number of older studies have claimed that cancer morbidity is reduced in schizophrenic patients. On the contrary, more recent studies have shown
a higher rate of occurrence of cancers in schizophrenic patients. Finally, a third category of studies, probably the “real” ones,
have failed to demonstrate any significant deviation of the observed mortalities of malignant tumors in schizophrenics from
expected rates. From a critical point of view, it is important to examine the eventual role, in all these kind of studies, of cultural unconscious preconceptions. In fact, madness has been regarded, from ancient times, as a condition alternately “detrimental” or “privileged”. It is also important a critical re-examination of psychosomatic hypothesis, because it is probably improper to apply a single and standard psychodynamic hypothesis to a large population.
KEYWORDS: cancer, schizophrenia, cultural preconceptions, psychosomatic hypothesis.
INTRODUZIONE
In realtà, pur se sul piano epidemiologico sembrano maggiormente attendibili le evidenze contrarie a
questa ipotesi, rivestono non minore interesse le riflessioni che l’intera questione può stimolare a più livelli. Tra queste riflessioni, due sono particolarmente
suggestive. È infatti possibile chiedersi, ad un primo
livello, quali preconcetti culturali, in parte inconsci,
condizionano qualunque ricerca medica nei confronti del suo oggetto (2), soprattutto quando quest’ultimo è la cosiddetta follia. Proprio le ipotesi concernenti i rapporti tra schizofrenia e cancro sembrano
In Inghilterra, nel 1909, la Commissione per le malattie mentali formulò un’ipotesi del tutto inedita: i
malati mentali, fu detto a quell’epoca, sembrano “immunizzati” nei confronti del cancro (1).
Da allora l’ipotesi secondo cui i pazienti psicotici, in
particolare schizofrenici, presenterebbero un’incidenza
di tumori maligni minore rispetto alla popolazione generale ha percorso molte strade. Non si è però giunti a
tutt’oggi a conferme o a disconferme inoppugnabili.
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allergia, diabete e miastenia gravis – derivano da interpretazioni di ‘non esperienze’ cliniche basate su sovrastime impressionistiche (impressionistic overestimation) di ciò che dipende dal caso” (17). E in effetti,
anche nei confronti di malattie non neoplastiche l’ipotesi di una maggiore “resistenza” dei pazienti schizofrenici è stata più volte criticata (31,32). Più in dettaglio, è stato sottolineato che gli studi con risultati a favore di questa ipotesi utilizzavano metodologie epidemiologiche insufficienti, ricorrendo per esempio alla
mortalità proporzionale invece che assoluta, oppure
escludendo alcune tipologie di cancro (tumori cerebrali, sarcomi) (7).
Nel loro complesso, il principale merito di queste
critiche è consistito nel porre in luce l’estrema difficoltà che si incontra nell’effettuare studi di questo genere in maniera realmente rigorosa. Occorrerebbe infatti esaminare campioni di popolazione schizofrenica
estremamente vasti (almeno 100.000 pazienti all’anno), e prima ancora è necessario rispettare criteri omogenei e affidabili per la diagnosi sia di schizofrenia, sia
di neoplasia, senza trascurare elementi quali l’età, il
sesso, le terapie farmacologiche in atto e la maggiore o
minore esposizione ai principali fattori di rischio per le
neoplasie (33-35).
Si può ricordare, a titolo di esempio, che è stata sottolineata un’inevitabile tendenza a non diagnosticare
molti casi di cancro in pazienti schizofrenici, in quanto
questi ultimi hanno una più elevata soglia del dolore e
una scarsa propensione a comunicare malesseri somatici, e inoltre perché negli ospedali psichiatrici sussiste
una minore consuetudine ad effettuare autopsie. È
stato però anche osservato, in senso opposto, che critiche di questo genere sembrano a volte scaturire più da
una generale riluttanza a considerare plausibile l’ipotesi di una ridotta incidenza del cancro negli schizofrenici che da una precisa e imparziale disamina, per
ogni singola indagine, delle difficoltà e delle imprecisioni realmente in gioco (6).
Ad ogni modo, in aggiunta a questi gruppi di studi
ne esiste un terzo. Si tratta di una categoria di studi, alcuni molto recenti, nei quali non è stata evidenziata
una significativa diversità della mortalità per cancro
nelle persone affette da patologia psichiatrica rispetto
alla popolazione generale (36-42). Questo dato, a confronto di quelli precedenti che evidenziavano, rispettivamente, una minore o una maggiore mortalità per
cancro nei soggetti schizofrenici, sembra essere il più
attendibile, pur se in generale la conclusione maggiormente verosimile, considerando la difformità dei risultati emersi dal complesso dei tre gruppi di studi, è
quella dell’assenza di un pattern costante di mortalità
per cancro nei pazienti schizofrenici (30).
poter essere condizionate dall’influsso di radicati preconcetti.
In secondo luogo, e a un diverso livello, occorre
domandarsi se in merito ai rapporti tra schizofrenia
e cancro gli studi epidemiologici hanno apportato
nuovi elementi riguardo ai concetti espressi da teorie psicosomatiche correnti. Infatti non sono pochi
gli studiosi di psicosomatica secondo i quali “un cancro si produce quando non può prodursi una psicosi” (3). Ciò lascia intendere, come precisano alcuni
autori di questo stesso indirizzo, che in presenza di
aree narcisistiche lese i conseguenti affetti angosciosi e destrutturati, se non incanalati attraverso l’esplodere di una psicosi, cioè tramite meccanismi difensivi di tipo mentale, potrebbero restare “tagliati
fuori” dalla psiche generando una risposta difensiva
puramente somatica, specificamente un processo
neoplastico (4,5).
Anche in quest’ottica, quindi, come nell’ipotesi del
1909 citata più sopra, le psicosi conclamate svolgerebbero un ruolo protettivo nei confronti del cancro.
Ad ogni modo, per esaminare questi due livelli di riflessione è necessaria una presentazione riassuntiva
dei risultati delle principali indagini epidemiologiche
effettuate fino ad oggi.
LE INDAGINI EPIDEMIOLOGICHE
Gli studi che hanno affrontato la relazione tra malattie mentali, specialmente la schizofrenia, e la prevalenza e la mortalità per cancro hanno fornito risposte
alterne. Questi studi possono essere suddivisi in tre
principali gruppi (6,7).
Nel primo gruppo di studi, per lo più risalenti dagli
anni Trenta fino alla metà degli anni Settanta, la prevalenza e la mortalità per cancro, nei pazienti con disturbi psichiatrici gravi, apparivano quasi sempre inferiori rispetto alla popolazione generale (8-19). Questo
dato è sembrato molto attendibile soprattutto nel caso
dei tumori polmonari (20,21), ma almeno uno studio lo
indicava con stringente certezza in rapporto a qualunque localizzazione neoplastica (22).
Un secondo gruppo di studi, in gran parte successivi ai precedenti, non ha invece confermato questi risultati, indicando nei pazienti schizofrenici, sempre rispetto alla popolazione generale, un’incidenza o una
mortalità per cancro non inferiori e anzi spesso addirittura superiori (23-30).
In aggiunta, questi studi hanno criticato in vari modi gli studi precedenti. Baldwin, per esempio, ha affermato che “le ipotesi di incompatibilità o di rarità di varie malattie negli schizofrenici – vedi tumori, epilessia,
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Coloro che invece hanno sostenuto che tendenzialmente, nonostante i provvedimenti restrittivi e terapeutici, i soggetti schizofrenici sono più esposti a carcinogeni ambientali quali il fumo di sigaretta e l’alcool,
e che per questo motivo presenterebbero una maggiore mortalità per cancro, si scontrano con un dato importante. Infatti, i pazienti schizofrenici, proprio perché solitamente più esposti a questo genere di fattori
di rischio, manifestano in realtà un’incidenza più bassa
di quella attesa, in quanto presentano una mortalità
per cancro del polmone pressoché equivalente a quella della popolazione generale (55).
In definitiva, i fattori chiamati in causa soltanto dai
sostenitori dell’ipotesi di una ridotta incidenza del cancro nei soggetti schizofrenici sono di due tipi: biologico-genetici e psicologici.
Tra le ipotesi genetiche si può citare quella secondo
cui sia il cancro che la schizofrenia dipenderebbero da
una rispettiva costellazione poligenica ereditaria predisponente, nei confronti della quale svolgerebbero
poi un’azione scatenante vari fattori ambientali. Risulterebbe perciò estremamente difficile il verificarsi
di entrambe le costellazioni poligeniche in un medesimo individuo, di modo che le rispettive patologie, schizofrenia e cancro, tenderebbero ad escludersi a vicenda (1).
Altre ipotesi, sempre di impostazione biologico-genetica, riguardano invece la possibilità che i soggetti
schizofrenici risultino “protetti” nei confronti del cancro, ora per una modificazione in senso deficitario dell’enzima metionina adenosil-transferasi (56), ora per
una più intensa attività antitumorale dei linfociti (57).
Entrambe queste peculiarità, di fatto, discenderebbero
da una determinazione genetica.
Non manca neppure un’ipotesi diversa e più complessa, basata su uno studio che ha rilevato in soggetti
schizofrenici una maggiore incidenza del cancro (specie del polmone e della faringe), riscontrando all’opposto una ridotta incidenza nei gemelli non-schizofrenici e nei familiari non-schizofrenici. Gli autori di questo studio suggeriscono, al di là della maggiore esposizione dei soggetti schizofrenici a carcinogeni ambientali (fumo di sigaretta, alcool), l’esistenza di un fattore
genetico di rischio per lo sviluppo della schizofrenia,
un fattore il quale, nei familiari che non sviluppano
questa malattia, svolgerebbe un’azione protettiva nei
confronti della carcinogenesi (58).
Quanto invece alle ipotesi psicologiche, sono stati
invocati, per esempio, i rigidi meccanismi di difesa che
caratterizzano la schizofrenia, in quanto potrebbero ridurre l’immuno-soppressione abitualmente conseguente allo stress (59). Più in generale è stato ipotizzato che la denegazione delle emozioni più disorganiz-
In realtà, ai tre gruppi di studi appena elencati occorre anche affiancare le indagini che hanno posto in
luce risultati più variegati, in particolare una maggiore
o una minore incidenza del cancro nei soggetti schizofrenici a seconda della sede della neoplasia. È per
esempio il caso di alcune indagini danesi che hanno rilevato negli schizofrenici, rispetto alla popolazione generale, meno tumori delle vie respiratorie ma più tumori del tratto digerente, e questo in entrambi i sessi.
Nei maschi, invece, gli stessi studi suggeriscono una minore incidenza di tumori prostatici, e nelle femmine
meno tumori agli organi genitali ma più neoplasie della mammella (35,43). A sua volta, un altro studio offre
un’evidenza differente, riscontrando nei soli schizofrenici di sesso maschile una mortalità più bassa per cancro dello stomaco (44).
È comunque importante rilevare che tutti i dati fin
qui esaminati, compresi anche quelli che potrebbero
essere ulteriormente citati, sembrano poter anche dipendere dai diversi contesti presi in esame. Infatti,
Gulbinat et al. hanno confrontato gruppi di pazienti
provenienti da aree geografiche differenti riscontrando diversità notevoli, per esempio una mortalità per
cancro più elevata nelle donne schizofreniche giapponesi e unicamente a Nagasaki e a Honolulu (6).
CONSIDERAZIONI SUI DATI EPIDEMIOLOGICI
A conferma dell’impossibilità di estrapolare un’evidenza unica e costante applicabile a qualunque individuo schizofrenico, e quindi riferibile alla schizofrenia
in se stessa, è interessante rilevare che alcuni fattori
addotti per giustificare l’ipotetica minore mortalità per
cancro negli schizofrenici sono gli stessi chiamati in
causa per giustificare l’ipotesi opposta.
È il caso per esempio dei fattori farmacologici, invocati sia dai sostenitori di una minore mortalità, i
quali ipotizzano l’attività antineoplastica di alcuni neurolettici (clorpromazina, aloperidolo e altri) (45-51),
sia dai sostenitori di una maggiore mortalità, i quali invece chiamano in causa l’aumento dei livelli di prolattina determinato da molti neurolettici e quindi il maggior rischio di cancro della mammella (6,40,52,53).
Quest’ultimo, comunque, è un dato che non sempre è
stato confermato (19,54).
Invece, un’ambiguità meno marcata investe il ruolo
dei cosiddetti fattori ambientali, i quali vengono citati
da chi sostiene l’ipotesi di una minore mortalità per
cancro negli schizofrenici, in quanto l’eventuale istituzionalizzazione, o in alternativa i regimi riabilitativi, ridurrebbero l’esposizione ai carcinogeni ambientali
(fumo di sigaretta, alcool, cattiva alimentazione) (6,7).
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volte un deficit, una perdita di armonia e di salute, altre volte invece un “guadagno”, l’acquisizione di una
condizione sovraordinaria di libertà e di benessere.
In secondo luogo e molti secoli dopo, soprattutto in
Germania (62), dapprima sulla scia del pensiero protestante e poi attraverso il Romanticismo, si è sviluppata
l’idea di un Io interiore autoriflessivo in grado di unificare un innato e lacerante dualismo tra anima e corpo, una loro tendenza a disunirsi “frammentando” il
soggetto. Pertanto, autori quali Griesinger, in psichiatria, e Goethe, Hoffmann e Jean Paul in letteratura, o
infine Kant in filosofia, vedranno nella malattia mentale il venir meno dell’Io unificatore, e quindi il conseguente esplodere incontrollato di uno “sdoppiamento
della personalità”, di una “scissione”.
In questa concezione è perciò sottintesa l’idea secondo cui nella malattia mentale il corpo e l’anima, cadendo in preda a una disorganizzata non-integrazione,
darebbero luogo a sofferenze eclatanti ma mai “organizzate”, mai stabilmente strutturate.
È in fondo questa la medesima prospettiva che ispirerà per altre vie gli studi psicopatologici francesi dedicati all’isteria, rielaborati poi dal pensiero di Freud.
Per quest’ultimo, l’affetto, che è un vero e proprio
“doppio” interno all’uomo, nell’isteria si sottrae a un
Io indebolito, e scindendosi, in pratica, da quest’ultimo,
attraversa il corpo provocando lesioni soltanto funzionali, cioè mai “organizzate” e stabili, mai organiche.
Dunque, anche in base a questo secondo insieme di
concezioni, come già per Platone, la malattia mentale è
ritenuta in grado di “proteggere” il corpo. Infatti in
questo caso il corpo, nella follia, è inteso come il centro
di una disorganizzazione che lo rende “privo di confini”, troppo allontanatosi dall’azione unificante della
mente per essere sede di malattie definite e stabili.
zanti, nei casi in cui questa si esprime nel cosiddetto
autismo schizofrenico, escluderebbe modalità espressive diverse, la principale delle quali è, secondo alcuni
autori, l’insorgenza di un cancro (60).
Infine, come già si è detto, anche le teorie psicoanalitiche di ambito psicosomatico sostengono che angosce profonde e poco mentalizzate, se non gestite difendendosene attraverso modalità psichiche deliranti, potrebbero mobilitare reazioni difensive arcaiche di tipo
somatico, quale appunto il cancro.
UNA PRIMA RIFLESSIONE:
I PRECONCETTI CULTURALI
Come accennato in apertura, una prima riflessione
stimolata da questi dati riguarda l’inevitabile condizionamento esercitato da eventuali preconcetti su
qualunque ipotesi scientifica, e in questo caso sia sulle indagini e le ipotesi che dimostrano una più bassa
incidenza del cancro nei soggetti schizofrenici, sia sulle indagini e le ipotesi che dimostrano l’evidenza opposta.
È tuttavia possibile che soprattutto le indagini e le
ipotesi del primo tipo abbiano tra i loro inconsapevoli
moventi, o quale inconsapevole ragione di “certezza”,
un insieme di preconcezioni che ricorrono in tutta la
cultura occidentale nei confronti della cosiddetta follia. Infatti, in Occidente la follia è sempre stata considerata in maniera ambivalente, cioè come condizione
umana oscillante, rispetto allo stato di “normalità”, tra
la “menomazione” e il “privilegio”. In particolare, due
momenti storici e culturali, l’uno antico e l’altro più recente, esemplificano questa inconsapevole attitudine a
considerare il malato mentale non solo come “menomato”, come privo dei privilegi della condizione di
normalità, ma alternativamente e all’opposto come “libero” dalle limitazioni e dalle malattie del vivere ordinario, come più “privilegiato”.
In primo luogo, per Platone (61), soprattutto nel Timeo, la follia (mania) è uno stato nel quale la parte più
“nobile” dell’anima, la ragione, perde la capacità di dirigere sia le altre parti dell’anima, quella irascibile e
quella appetitiva, sia il corpo. Secondo questo orientamento una tale perdita del ruolo dominante della ragione può derivare da due cause opposte: da un innaturale imporsi delle componenti “inferiori”, cioè il corpo o le parti non razionali dell’anima, o viceversa dall’intervento soprannaturale di una potenza divina e
“superiore”.
Ebbene, proprio in questa ripartizione tra cause opposte è chiaramente adombrata l’idea secondo cui la
follia può essere, rispetto alla condizione ordinaria, a
UNA SECONDA RIFLESSIONE:
LE IPOTESI PSICOSOMATICHE
Una ulteriore riflessione riguarda invece le ipotesi
psicosomatiche, soprattutto di ispirazione psicoanalitica, secondo le quali il cancro rappresenterebbe una
“alternativa alla psicosi” (63), equivalendo in pratica a
una sorta di “psicosi mancata”, o meglio a una “psicosi del corpo” (4).
A questo proposito sono particolarmente esemplificative alcune riflessioni della psicoanalista Francis Tustin, pur se si riferiscono, in questo caso, soprattutto all’autismo infantile. Scrive la Tustin: “Finché i pazienti
sono rivestiti dalle loro protezioni autistiche vanno
soggetti alle malattie fisiche molto raramente. Quando
emergono dall’autismo si svela la loro vulnerabilità: i
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Infatti, come appare evidente proprio riguardo al tema dei rapporti tra cancro e schizofrenia (e tra cancro e depressione), i risultati delle indagini epidemiologiche confermano la necessità di non formulare
ipotesi psicodinamiche troppo “generali”, e questo in
quanto il campo di applicazione di tali ipotesi è quello strettamente soggettivo e individuale. Verosimilmente è solo con molta prudenza che ipotesi psicodinamiche di qualunque tipo possono proporsi come
esplicative per vasti campioni di popolazione, pena
altrimenti il rischio di ignorare la complessità dei fattori individuali, dei quali invece è loro compito occuparsi.
Dunque, allo stato attuale delle nostre conoscenze,
la complessità dei fattori individuali invita a considerare sotto molteplici sfaccettature il rapporto tra cancro e malattie mentali. È infatti evidente che anche in
riferimento a un settore ben delimitato del rapporto
mente-corpo, quale appunto il settore delle possibili
interrelazioni tra sintomi psicotici e cancro, sembrano
non esistere percorsi psicodinamici generalizzabili.
bambini autistici contraggono le comuni malattie infettive dell’infanzia e gli adulti nevrotici iniziano ad
avere malattie fisiche” (64).
Riguardo al rapporto tra cancro e schizofrenia, una
ipotesi analoga, anche se in veste non strettamente psicoanalitica, è stata esposta per la prima volta negli anni Sessanta (65,66). E comunque a queste ipotesi se ne
è presto affiancata una ulteriore, sviluppatasi in parallelo ma in maniera indipendente, secondo cui i soggetti affetti non da schizofrenia ma da depressione presenterebbero una mortalità per cancro più alta di quella attesa (67-71). Infatti, se la schizofrenia è stata considerata in grado di “proteggere” dall’insorgenza di tumori maligni, la condizione depressiva è stata al contrario ritenuta in grado di predisporre allo sviluppo del
cancro.
Una disamina di questa ipotesi riguardante il rapporto tra tumori e disturbi affettivi non è l’oggetto di
questo articolo, tuttavia presenta le stesse controverse
incertezze poste in luce dalle indagini riguardanti i
rapporti tra cancro e schizofrenia (7,72). Ad ogni modo, per entrambe le ipotesi il problema metodologico
di fondo, quando esse vengono utilizzate per confermare teorie psicodinamiche, è verosimilmente lo stesso.
Infatti, le ipotesi psicosomatiche, se di impostazione
psicodinamica, hanno per loro vero oggetto traiettorie
individuali e soggettive, dunque singole storie di vita,
per di più esaminate “in profondità”, scandagliando
vissuti estremamente personali e in buona misura irripetibili. Al contrario, le indagini epidemiologiche hanno per oggetto vasti campioni di persone delle quali
non possono valutare gran parte delle variabili soggettive, limitandosi a considerare solo quelle di più immediata pertinenza e di più facile oggettivazione, quali i
fattori ambientali, i principali eventi di vita e via dicendo.
In altre parole, le indagini epidemiologiche, a rigor
di termini, non possono né invalidare né confermare le
teorie psicosomatiche, così come queste, a loro volta,
non possono fornire ipotesi necessariamente adatte a
ispirare o ad orientare le indagini epidemiologiche. Infatti, un’ipotesi psicosomatica che si proponga come
ipotesi “forte”, e cioè come valida per tutti gli individui
in forma costante, non è più, in senso stretto, un’ipotesi di indirizzo psicosomatico, perché l’orientamento
psicosomatico esamina percorsi individuali dei quali
afferma l’unicità. Le indagini epidemiologiche, invece,
non esplorano l’unicità dei percorsi individuali, di modo che facilmente possono non coglierne le caratteristiche e la variabilità.
Ciò non esclude che i dati forniti dalle indagini epidemiologiche non debbano invitare i fautori delle
ipotesi psicosomatiche a riflessioni più approfondite.
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