L`inconscio reale.
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L`inconscio reale.
1 Forum Psicoanalitico Lacaniano I.C.Le.S. Istituto per la Clinica dei Legami Sociali Centro Didattico Labor S.I.Ps.A. Seminario clinico Fulvio Marone L’inconscio reale: quali conseguenze nella clinica? Roma 19 novembre 2011 R. Gerbaudo: Oggi abbiamo come ospite Fulvio Marone, che oltre ad essere un clinico impegnato nella psichiatria del territorio è anche un lettore di Lacan. Lo interrogheremo oggi a partire dal libro di Colette Soler “Lacan l'inconscio reinventato” che Fulvio Marone ha tradotto insieme a Maria Teresa Maiocchi. Si tratta di affrontare una questione interessante per noi, una prospettiva che si aggiunge alla modalità ormai consolidata di pensare nei termini di “significanti” e di “oggetto a”. L'apertura, la novità (dell'inconscio reale), è interessante perché si riverbera sulla clinica. Per questo oggi siamo qua ad interrogare Fulvio Marone su in che modo, secondo lui, questa apertura sull'inconscio reale e sulla questione de “lalingua” possiamo concepirla a partire dalla nostra prassi. Gli interroganti del testo di Colette Soler saranno Marco Pacelli e Silvana Leali, che faranno anche una piccola introduzione. Presenterà un caso clinico Antonella Loriga. M. Pacelli: Il testo di Colette Soler “Lacan l'inconscio reinventato” . un testo complesso e ricco. Il testo getta luce sul percorso, sulla traiettoria di sviluppo del pensiero di J. Lacan, che a noi interessa per i risvolti clinici che ci offre. Come più volte sottolineato nel testo, è a partire dalla concezione che noi abbiamo della psicoanalisi, e in particolare di alcuni concetti centrali ad essa, come quello dell'inconscio, che scaturisce il nostro agire clinico: la teoria, mai come nella psicoanalisi, è fortemente agganciata alla pratica clinica. Rispetto alla questione dell'inconscio, non si tratta tanto di un sapere su di esso, ma dell’ esperienza che ne facciamo nell'analisi, vera formazione per coloro che vogliono diventare analisti. C’è dunque una questione importante tra quello che è il nostro oggetto di studio e allo stesso tempo il nostro strumento di lavoro. Colette Soler nel suo scritto dice a mo’ di introduzione: “Interrogherò la traiettoria di Lacan analizzante della psicoanalisi”. Seguendo tale percorso, aggiunge: “ ho finito per rendermi conto che i rimaneggiamenti costanti delle elaborazioni che Lacan fa rispetto alle questioni della psicoanalisi non hanno niente di capriccioso, ma sono i problemi irrisolti nel cammino precedente ad animare il passo successivo”. Sono le impasse, dunque, che creano i presupposti per fare un passo oltre. Appare qui un punto importante per la nostra etica: l’impegno per lo psicoanalista a non fermarsi. Il sapere, infatti, pu. fare da tappo se non viene messo in discussione, rimaneggiato. Tutti noi siamo al lavoro su ciò che ha messo al lavoro altri, dove il primo al lavoro è stato proprio Freud. Ci sono dei concetti, veicolati da tre neologismi: “inconscio reale”, “lalingua” e “parlessere” che sono al centro di questo scritto. Una prima domanda riguarda ci. che Colette Soler sottolinea con la questione dei “due inconsci”: che cosa significa la distinzione che viene fatta a tal proposito? Vi . qui una questione interessante su ciò che è l’inconscio in relazione al sapere e cosa . in relazione a “lalingua”. Un altro punto centrale del testo è nella scelta che fa Colette Soler nell’introdurre il tema dell’inconscio reale a partire dal lapsus e dal motto di spirito. Infine abbiamo le riflessioni riguardanti la fine analisi e quello che la Soler definisce “sintomo felice” che ci riportano al tema della clinica con le seguenti parole: “Non si può più pensare di ridurre il sintomo a zero e se non c’è soggetto senza sintomo, cosa diventa allora l’effetto terapeutico dell’analisi? Che un sintomo che sia più vivibile per il soggetto si sostituisca ad uno che gli era intollerabile è un gran successo”. Questo punto riguarda il nostro percorso personale, nel senso di quale sia lo snodo che ci ha eventualmente permesso di accedere ad un sintomo più vivibile, e di come agire a livello clinico per fare in modo che le 2 persone che si rivolgono a noi possano accedere anch’esse ad un’esperienza del genere. S. Leali: Il testo di Colette Soler presenta il concetto di inconscio elaborato da Lacan tra gli anni ’50 e ’70. Per Freud l’inconscio è una scoperta, segna la nascita della psicoanalisi. Per Lacan è un’invenzione che egli riformula in due momenti: un inconscio strutturato come un linguaggio e un inconscio reale, io soggetto parlo con il mio corpo. Tra questi due momenti c’è un universo che mette in gioco la ridefinizione dell’inconscio. Il percorso indicato da Lacan è quello di un lavoro: un “lavoro soggettivo che impegna il soggetto a metterci del suo” si legge nella prefazione. È ricerca, una logica di passi senza scorciatoie, come quando uno si allena per una gara. Alla fine del percorso Lacan ci indica qualcosa: ci dice che il simbolico non è più il linguaggio, ma “lalangue”; l’immaginario non è più una significazione, ma una forma, una rappresentazione; c’è un reale fuori dal simbolico. Alla fine, a noi che siamo abituati all’ascolto del soggetto che arriva con tutti i suoi significanti, arriva un significante che è proprio un godimento, un apparato di godimento. Le conseguenze di una clinica centrata sul reale sono pratiche, teoriche e politiche, in quanto noi siamo dentro una comunità. C’è dunque un reale che comanda il soggetto, che non è solo una mentalità, ma un corpo che gode. Cercare il senso di un sintomo in un’analisi non risolve il problema, anzi lo fa accrescere. Analizzare, invece, sarebbe il cercare un sintomo che è analfabeta, in una disortografia dell’inconscio. Cercare è importante, perché il soggetto così può essere un po’ meno burattino del proprio inconscio, meno marionetta del reale. Non si tratta dunque di cogliere tutto, ma solo l’osceno, ciò che rimane sulla soglia, che si svela e non si svela. È l’impensabile, ciò che fa orrore o soddisfazione alla fine di una analisi. L’inconscio non delude colui che Lacan chiama “innocente”. Seminario Fulvio Marone L’inconscio reale: quali conseguenze nella clinica? Vi ringrazio dell'invito a parlare in questo seminario del libro di Colette Soler. In effetti il testo è molto complesso, ma quando lo ebbi fra le mani lo trovai subito molto interessante e attuale, nonché molto utile, ovviamente allorché lo si sia studiato. È un testo utile proprio per la nostra clinica e per le sue grandi questioni. Tratta di temi molto attuali, e perciò ne proposi a Colette Soler e a Maria Teresa Maiocchi la traduzione, curando io prevalentemente la prima parte e Maria Teresa Maiocchi la seconda. In questa sede, vorrei cercare di rispondere dell'uso che io faccio di questo testo. Secondo me, è un libro molto importante per le questioni che si pongono oggi per la psicoanalisi, e anche per il grande dibattito che c’è oggi nel mondo sulla psicoanalisi e sul suo valore. Il dibattito sulla scientificità della psicoanalisi, fino a poco tempo fa, riguardava quasi esclusivamente i paesi di lingua anglosassone. Ma in America, come forse sapete, le teorie di J. Lacan sono ancora di nicchia, relegate prevalentemente nei dipartimenti di scienze umane, dove si fa letteratura più che psicologia. Negli ultimi tempi, però, c’è stata un'ondata che ha investito la Francia, uno dei luoghi di forte resistenza del pensiero psicanalitico: e non solo di critiche riguardanti la clinica psicoanalitica, ma anche da parte di uno tsunami che si chiama Michel Onfray. Onfray è una sorta di Zizek dagli interessi però esclusivamente filosofici: è un grande affabulatore, e ultimamente si è dedicato alla demolizione della psicoanalisi. Di fronte a queste critiche, io credo che il libro di Colette serva a molto, perché affronta alcune questioni cliniche che si riverberano anche in Italia sotto varie etichette: per esempio quella dei nuovi sintomi, un problema della clinica attuale che può funzionare come un pungolo nei confronti della psicanalisi. Un'altra grande questione, che in Italia ha avuto una grossa eco, è la questione de “l’uomo senza inconscio”, come recita il titolo del libro di Massimo Recalcati. Questo testo affronta una questione importante: come saperci fare senza l'inconscio a cui noi siamo abituati, con cui la psicoanalisi ci ha abituati a lavorare. Credo che la risposta data da Colette Soler, in questo libro risposta che bisogna andarsi a cercare – sia una risposta decisiva, e io vorrei darvi il mio grano di 3 sale, facendo un percorso attorno alla questione dell'inconscio. Un percorso che dovrebbe approdare infine a questo titolo magniloquente, che non so se sia stato io a darlo, oppure siate stati voi: “L'inconscio reale: quali conseguenze nella clinica?”. È uno di quei titoli che dice: “Scansami!” Ma in ogni caso, vorrei trovare il modo di lavorarci attorno, facendo un discorso possibilmente gradevole e comprensibile. In questo sarò molto aiutato dal caso clinico che mi troverò a commentare, e al quale vorrei dare una grossa centralità. Non ho avuto ancora modo di parlare con l'autrice del caso, però mi pare davvero appropriato per il tema della nostra giornata attorno al discorso sull'inconscio reale. Questo caso ci permetterà di parlare di molte questioni, ma soprattutto della grande questione implicata dal titolo del seminario di oggi. Proporrei quindi di articolare il nostro percorso in questo modo: vorrei affrontare, spero nel tempo più breve possibile, la questione dell'inconscio articolandola secondo 4 o 5 interrogativi: Che cos’è l'inconscio? Che cos’è l'inconscio prima di Freud? Che cos’è l'inconscio di Freud? Che cos’è l'inconscio strutturato come un linguaggio? Che cos’è l'inconscio reale? Dopo di che, sulla soglia dell'interrogativo del titolo, mi fermerei per far parlare il caso clinico, e poi affrontare tutte le conseguenze della ricaduta dell'inconscio reale nella clinica a partire da questo caso. Questo è il percorso che vi propongo per stamattina. Cominciamo con la questione “Che cos’è l'inconscio?” La questione si può chiarire attraverso il percorso storico che noi faremo, ampliando l'arco descritto del libro di Colette Soler, che affronta la questione dell'inconscio in Lacan a partire dagli anni ‘50 e fino agli anni ‘70. Io lavorerò prolungando la questione all’indietro per qualche migliaio di anni, diciamo così, cominciando innanzitutto dalla parola “inconscio”. A questo mi stimola molto la prima risposta che Lacan dà a J. A. Miller in “Televisione”. Si tratta di una trasmissione della televisione francese in cui Lacan veniva intervistato da Miller. La prima questione che Miller lancia a Lacan è: “l'inconscio, che parola buffa!” È una parola buffa, perché non appare come una definizione in positivo. Però Freud l'ha scelta, dice Lacan, e non è il caso di tornarci su. Inconscio è una parola contro cui molti hanno obiettato, nella storia della filosofia. Ma noi ci teniamo, a questa parola, e la prendiamo sul serio. Nelle critiche contemporanee, il concetto dell'inconscio sembra appartenere esclusivamente all’ambito del negativo. Cerchiamo invece di vedere che cosa può essere l'inconscio reale a partire da quella che è la storia del concetto di inconscio. Molti libri di storia della psicanalisi dedicano i loro primi capitoli all'inconscio prima di Freud. Possiamo dire che né il termine né il concetto di inconscio, in senso lato, siano stati creati da Freud. L’inconscio, in generale, non è un'invenzione freudiana. Potremmo dire che da un certo punto di vista, tutto Platone, o il “conosci te stesso” di Socrate, presuppongono una certa separazione tra il sapere e il “sapere di sapere”, cioè la consapevolezza di questo sapere. L'inconscio, quindi, potrebbe essere visto prima facie come il “sapere non saputo”, che è un concetto che da un certo punto di vista attraversa tutta la filosofia. Possiamo partire, dicevamo, dal “conosci te stesso”, cioè dal fatto che il soggetto non ha consapevolezza di tutto il sapere che contiene; o dall'idea del Menone, che ci sia un sapere matematico che si possa portare allo scoperto, che il soggetto che non sappia di sapere la soluzione di alcuni problemi matematici. Ci sono poi dei testi che evidenziano alcuni concetti chiave, come le piccole percezioni di Leibniz, ossia l'idea che esistano delle percezioni frammentarie all'interno del soggetto, che questi può portare eventualmente a consapevolezza. Oppure, ancora, il fatto che tre anni dopo la nascita di Freud, nel 1859, un certo E. von Hartmann abbia pubblicato un testo che si chiamava “Filosofia dell'inconscio”, a testimoniare che il termine di “inconscio” già circolava a quell'epoca. In questa tradizione culturale, prima dell’opera di Freud l'inconscio significava fondamentalmente questo: un “sapere non saputo”. Questo sapere non saputo, definizione dell'inconscio prima di Freud, è la risposta ai nostri primi due interrogativi. Che cos’è l'inconscio? È una parola strana, buffa, che stata inventata da qualcuno e che noi accogliamo nella nostra tradizione senza rimetterla in discussione come tale. Che cos’è l'inconscio prima di Freud? È un sapere non saputo, è un “non sapere di sapere”. Però, il “non sapere di sapere” dell'inconscio prima di Freud, Freud lo ha poi distinto – nel suo testo fondamentale, il testo della nascita della psicanalisi, “L'interpretazione dei sogni” – da quello 4 che lui chiama “il nostro inconscio”. Lo ha distinto dall'inconscio dei filosofi, così come lo chiama. È proprio in una pagina del settimo capitolo de “L'interpretazione dei sogni”, il capitolo sulla psicologia dei processi onirici, uno dei grandi testi metapsicologici della teoria freudiana, ove si delinea la prima topica freudiana: inconscio/preconscio/conscio. In questo settimo capitolo, c’è un passaggio di Freud che parla, di sfuggita, di quello che definisce “il nostro inconscio”: non è senza intenzione – afferma – che noi diciamo “il nostro inconscio, perché ciò che definiamo in questo modo non coincide con l'inconscio dei filosofi”. Nel primo caso, esso sembra definire semplicemente l'opposto di conscio, cioè il fatto che, oltre ai processi consci, esistano anche processi psichici inconsci. Quindi l'inconscio dei filosofi è il “non conscio”, mentre “il nostro inconscio”, cioè l'inconscio della psicanalisi, non è semplicemente la piccola percezione, gli elementi frammentari di non sapere, tra cui eventualmente la coscienza del nostro soggetto si dibatte, ma consiste, come dice Freud, in “processi psichici inconsci”, cioè qualcosa che ha a che fare – diciamolo con un termine lacaniano – con un inconscio “strutturato”. Il “nostro inconscio” è un “inconscio strutturato”: non è fatto semplicemente da elementi frammentati del sapere di un soggetto, ma da un processo. Questo implica una cosa che dico senza dilungarmi: là dove c’è un “processo”, là dove c’è una “struttura”, c’è un “soggetto supposto”: c’è un manovratore, una logica e un soggetto di questa logica. Quindi, mentre l'inconscio dei filosofi ha che fare con il frammento – che in qualche modo poi rivaluteremo, parlando della questione dell'inconscio reale – il nostro inconscio, l’inconscio della psicoanalisi, nasce come inconscio strutturato. Quindi, che cos’è l'inconscio freudiano? L'inconscio freudiano è un processo, una struttura: è strutturato, e questo fa da ponte tra la terza e la quarta questione che abbiamo ipotizzato. L’inconscio freudiano, infatti, è già esso stesso strutturato come un linguaggio. Il primo inconscio lacaniano, il primo dei due inconsci che Colette Soler illustra nel suo libro, è l’inconscio freudiano, un inconscio che è già lacaniano: l'inconscio strutturato come linguaggio di Lacan è l'inconscio freudiano portato a consapevolezza, disvelato. Però, prima di passare al primo inconscio lacaniano, cioè all'inconscio strutturato come linguaggio, diciamo che Freud sull'inconscio ha lavorato tutta la vita. Come voi saprete, ne ha scritto anche nella sua Metapsicologia, in uno di quei saggi che facevano parte di un’opera incompleta, che lui aveva in animo di scrivere, negli anni attorno alla prima guerra mondiale. Tra questi, c’è anche un saggio sull'inconscio. Il saggio sull'inconscio della Metapsicologia definisce quelle che lui chiama le “caratteristiche speciali del sistema inconscio”, che definiscono in una certa misura le leggi di questi processi: assenza di negazione, assenza di temporalità, prevalenza del processo primario sul processo secondario, assenza del principio di non contraddizione, eccetera eccetera. Queste caratteristiche ci danno la possibilità di passare alla nostra grande questione: se l'inconscio prima di Freud era “un sapere non saputo”, se l'inconscio in Freud invece è “processo”, cioè un “sapere strutturato”, la quarta questione ci viene immediatamente fornita dalla formulazione lacaniana, e cioè che “l'inconscio è strutturato come un linguaggio”. In realtà, l'inconscio del primo Lacan non è nient'altro che l'inconscio freudiano ripensato alla luce di quelle discipline che Freud, anche per questioni di tempo, non aveva potuto utilizzare appieno: in primo piano, per Lacan, c’è la linguistica strutturale di Ferdinand de Saussure, ma anche di Jakobson, e poi tutte le discipline che all’ambito della linguistica strutturale si sono collegate. Queste discipline si sono, diciamo così, organizzate creando un ambito più vasto, quell'ambito teorico che è andato sotto il nome di strutturalismo, e che ha coinvolto la filosofia, la teoria politica, e la psicoanalisi nella sua prima fase. Qui sarebbe quasi immediato il riferimento al testo di Colette Soler, in quanto anche lei inizia il suo libro con un punto interrogativo: Lacan strutturalista? Strutturalista “a meno di”, potremmo dire, per trovare una formazione di compromesso che ci permetta di far rivendicare a Lacan l'eredità dello strutturalismo. Ma per salvare anche l'originalità della teoria lacaniana, dobbiamo necessariamente aggiungere qualcosa: “strutturalista a meno di”. Potremmo tentare di scriverlo alla lavagna. 4 para otro significante (©), a menos de algo (a), que es lo que no es lenguaje: ¨ 5 © a Non so quanto vi sia noto lo schema che ho disegnato alla lavagna: è uno dei cosiddetti “discorsi” di el hilo de esto razonamiento, y siquattro nosotros definimos elnominati algoritmo la trasferencia – Lacan. Ce ne sono ufficialmente neldesuo celebre diciassettesimo seminario, “Il rovescio della psicanalisi”, e poi ce n’è un quinto. Abbiamo: il discorso del maestro o padrone, il curso del amo – como el comienzo, y el discurso del analista como la jugada final, el discorso dell'isterica, il discorso dell'universitario, il discorso dell'analista; e poi, c’è il quinto n análisis sería el pasaje de uno a otro discurso. Además, también otros ed dosè il discorso del capitalista. discorso, che Lacan ha sviluppato prevalentemente in Italia, alos Milano, sulenprimo discorso, per análisis. capire perché Lacan èeluno strutturalista “a meno di”. È il nen un lugar,Soffermiamoci en mi opinión, la historia de un Por ejemplo, discurso discorso del maître, del maestro, o padrone, quello che io ho disegnato. Si può leggere, come ogni formula matematica, attribuendogli molti significati differenti: 1 + 1 può riguardare le mele, le pere, le persone di una famiglia, oppure operazioni algebriche molto più complesse. Anche questi segni lacaniani possono significare varie cose, ma per quello che ci interessa oggi potremmo tradurre ¨ significante rappresenta un soggetto per un altro significante, a meno di questa formula così: “un qualcosa”. A questo proposito, Lacan nei suoi primi seminari e scritti fa degli esempi che sono a © celeberrimi: tu sei il mio maestro, tu sei la mia donna. Il soggetto, attraverso questa affermazione, si fa rappresentare da un significante presso un altro significante: allievo nei confronti di un maestro, uomo nei confronti della propria donna, etc. Mai il significante non rappresenta mai quello che, con mo de la trasferencia es la apertura del análisis del punto de vista lógico, no l'ultimo Lacan valorizzato da Colette Soler, potremmo definire il “soggetto reale”. È per questo che dell'analisi ci potremo dire migliaia di volte, tutte le forme possibili, senza che Para mi, el nell'esperienza discurso histérico escribenoi también la posición del sujeto al in comienzo il nostro discorso si esaurisca: rimarrà sempre un resto, un resto rispetto a tutta l'elaborazione el análisis, cuando aún no hay transferencia simbólica. Al principio de un análisis, un significante. Tutta l'articolazione che si dispiegherà tra i vari S1 ed S2 lascerà un resto, e questo resto potremmo “il quiere soggetto reale”. uya verdad es el lo goce que lo chiamare habita (a), solo buscar un amo (¨) para que Il “soggetto reale” è l'obiezione che Lacan fa allo strutturalismo. Cioè, è il reale in gioco nella saber (©) suficiente paraa far no sì sufrir sin poner en cuestión su posición. Soloquella el rappresentata a lettere psicoanalisi che más, la struttura organizzata, la struttura ordinata, nel nostro la struttura dicibile, la struttura non esaurisca formación maiuscole del inconsciente (sueño,schema, lapsus, síntoma analítico …) puede instituir configurata, al effettivamente il discorso possibile. Quindi, Lacan è strutturalista per i tre quarti della formula, to al saber, ymentre comportar el nacimiento defalaobiezione. transferencia c’è un quarto che vi Unasimbólica. cosa è raccontarci, altra cosa è esaurire effettivamente tutto il nostro essere nel dire: c’è differenza tramomento il “dirne”, di noi, e il “dirci” o universitario escribe otro momento – lógico, esta una vez –bella del análisis. Es el completamente. Riguardo al soggetto, si può dirne qualcosa, ma il fatto di dirlo completamente, di llamar “transferencia negativa”. Aquí, el analizanteedpone el saber (©) en elclinica lugar del esaurirlo nel discorso, è impossibile: è questa l'obiezione che fin dal primo momento Lacan pone allo strutturalismo. a de hacerse amo (¨) de si mismo, ocupando el lugar de la verdad. La apropiación del E allora ritorniamo ai nostri interrogativi: che cos’è l'inconscio strutturato come un linguaggio? la destitución del sujetostrutturato supuesto come al saber y la transformación en L'inconscio un ($), linguaggio è l'inconscio del che analista Lacan fondamentalmente estrae da Freud. Lo estrae da Freud ergendosi – ma non perché Freud sia stato un nano, tutt’altro: è stato un n el lugar del otro: pero no objeto causa, sino causado por el mecanismo de la gigante – ma Lacan si erge come gigante sulle spalle di tanti altri giganti. Anche noi, che siamo in embargo, davvero esto llama causa analista, permettere porque – como bienvolta sabéis no hay degli en autori del passato; ne deiennani, ci el possiamo qualche di –criticare sappiamo un po' di più di loro, talvolta, grazie ai saperi che grazie a questi grandi del passato si esistencia que la del analista. sono venuti declinando, si sono venuti sviluppando; ne sappiamo anche a partire dalle critiche di tanti altri, di cui talvolta ci appropriamo. Anche Lacan si è potuto ergere sulle spalle di altri giganti, per andare © oltre Freud.aDei saperi successivi o ignoti a Freud e a lui contemporanei, Lacan se n’è appropriato completamente, e in maniera egregia. Lacan ha potuto dire, quindi, che i processi ¨ erano il “nostro inconscio”, cioè l'inconscio della psicanalisi, quindi l'inconscio psichici che strutturato di Freud, fossero strutturati come un linguaggio. Ma questo, ovviamente Lacan lo ha potuto fare lavorando molto innanzitutto su Freud. lettori didel Lacan sanno che ci sono molte partizioni possibili dei suoi seminari. Trovo abbastanza jaque al rey: elI discurso analista. utile pensare che nei primi 10 seminari Lacan lavora essenzialmente su Freud, mentre a partire dall’undicesimo seminario, “I quattro concetti fondamentali”, Lacan ha cominciato a lavorare su se stesso, cioè sulla propria teoria, per svilupparla, per ampliarla. Nei primi 10 seminari, quindi, oltre che nei suoi primi scritti (quelli che in italiano sono raccolti sotto il titolo di “Scritti”, e non negli 6 “Altri scritti” che ancora non sono stati tradotti, anche se ormai sono usciti da oltre 10 anni), Lacan lavora fondamentalmente con l'inconscio strutturato. E lavora spesso a partire da Freud, a partire dalle sue grandi analisi. Dell'Uomo dei topi, per esempio, a cui non dedica un seminario, ma analizza nello scritto sul “Mito individuale del nevrotico”. In questo caso, la configurazione linguistica dell’analisi freudiana è evidentissima. Il sintomo dell'Uomo dei topi, il fantasma che affliggeva quest'uomo, è notissimo: si tratta di una tortura – che egli temeva potesse essere inflitta alla donna amata o al padre morto – in cui dei topi affamati ed eccitati dal calore, imprigionati sopra il sedere del torturato, cercano una via di fuga scavandosi a morsi una strada attraverso l'intestino del malcapitato. I topi, Ratten in tedesco, hanno a che fare con tutta una serie di termini fondamentali, che fanno tutta la costellazione della storia dell'Uomo dei topi: Spielratte è un’espressione tedesca che significa “giocatore” e che rinvia a suo padre; heiraten significa “sposarsi”, e si collega alla questione del matrimonio suo e del padre; Raten sono le “rate”, e allude al denaro, così centrale nella struttura della nevrosi ossessiva. Quindi c’è tutta una serie di significanti che giocano su alcune variazioni dei fonemi “r/a/t/e”. L'inconscio strutturato come un linguaggio è presente nell’Uomo dei topi, così come nel caso del presidente Scherebr, protagonista assoluto del terzo seminario di Lacan sulle psicosi. Nel caso clinico del presidente Schereber, Freud mostra bene come tutte le varie forme di delirio siano una serie di variazioni grammaticali di un'unica frase: “Io, uomo amo lui, uomo”: la negazione del soggetto, del verbo, del predicato o della frase totale produce i vari deliri di gelosia, persecutorio, erotomanico o megalomanico. Non mi soffermerò su questo punto, e vi rinvio alle considerazioni freudiane che mostrano effettivamente che il suo inconscio lavora come un linguaggio, mostra una natura grammaticale. C’è a questo proposito un libro molto bello, che non so quanti abbiano letto, di John Forrester, che si chiama “Il linguaggio e le origini della psicoanalisi”: è un libro molto lacaniano – sebbene l’autore non nomini mai Lacan – che mostra tutta l'influenza che le varie declinazioni del linguaggio hanno giocato nell'opera freudiana: nell’apparato di linguaggio dell’afasia, nell'interpretazione, in casi come quello dell'uomo dei topi, nella grammatica implicita che determina i vari deliri psicotici, etc. Tutto questo mostra che la tesi dell'inconscio strutturato come un linguaggio, che Lacan ha sostenuto e che è stato il suo ingresso nella teoria psicanalitica, può essere vista come un effetto del suo ritorno a Freud. Chi legge i testi di Freud, in realtà, non può fare a meno di vedere il valore determinante non delle fantasie, ma degli elementi linguistici che lavorano il soggetto e lo determinano. Questo inconscio strutturato come un linguaggio è in realtà, e fino ad un certo punto – fino al momento in cui Lacan comincia ad elaborare la questione dell'inconscio reale – è l'inconscio tout court, è l'inconscio che lavora con elementi di linguaggio. Qui possiamo costruire una specie di nodo tra Lacan, Freud e l'inconscio prima di Freud. Li annodiamo, attraverso un esempio che troviamo nell'Interpretazione dei sogni di Freud. È un esempio che Freud estrae dall’Oneirocritica di Artemidoro di Daldi, uno dei testi usati da Freud nel capitolo introduttivo del suo libro, ove presenta – come ogni testo scientifico che si rispetti – una sorta di rassegna della letteratura precedente sull’argomento, prima di dare il suo apporto originale. Nell’Oneirocritica, Artemidoro cita l'interpretazione data da Aristandro ad Alessandro Magno allorché questi cingeva d'assedio la città di Tiro. La città resisteva, Alessandro era stanco, e voleva mollare tutto. Improvvisamente una notte fa un sogno: sogna un satiro che danza sopra uno scudo. Allora va dall'interprete, da Aristandro, e che cosa gli risponde quest'ultimo? Aristandro fa veramente l'analista lacaniano, perché va al nocciolo linguistico del sogno. Non interpreta il significato, non rinvia agli dei, al senso del satiro, dello scudo. Che cosa dice, invece? Prende il sogno alla lettera, e scompone la parola greca satyros in “sa” e “Tyros”: sa Tyros, che significa “Tiro è tua”. Vai avanti, che ce la farai! E Alessandro, che probabilmente sotto sotto non voleva mollare, coglie il suo proprio messaggio che gli arriva dall’inconscio, va avanti e conquista Tiro. Questo è un bell'esempio di inconscio strutturato come un linguaggio, che mostra la genuinità dell'operazione lacaniana. È la prima affermazione lacaniana, che ci presenta l'inconscio strutturato come linguaggio: in realtà la vera natura dell'inconscio è linguistica, come mostra Freud, e come mostrano le migliori letture 7 dell'inconscio prima di Freud. Ci sarebbero ovviamente molti esempi della linguistica dell'inconscio. Ne voglio solo citare un ultimo, perché parlarne esaurientemente sarebbe troppo lungo: si tratta di quella macchina linguistica perfetta che è il famoso lapsus freudiano di Signorelli. È una macchina che Freud rappresenta graficamente, ed espone in maniera non completamente identica in due testi: un testo del 1898 sul “Meccanismo psichico della dimenticanza”, e poi nel primo capitolo della “Psicopatologia della vita quotidiana”. Il famoso lapsus è questo: Freud era tra la Bosnia e l’Herzegovina, in treno con un altro passeggero, e tra di loro discutevano dei Turchi che abitavano in quelle zone, su di una serie di questioni che concernevano Eros e Thanatos: il loro rapporto con la morte e col medico, nel caso che avessero una malattia inguaribile, e il valore che davano alla potenza sessuale. Nel mezzo di queste discussioni, capita a Freud di citare gli affreschi del Giudizio universale del Duomo di Orvieto, però non gli viene in mente il nome dell'autore di questi dipinti, che sarebbe Signorelli. Al posto di Signorelli gli vengono in mente altri nomi: Botticelli, Boltraffio. L'analisi che Freud fa di questa sua dimenticanza del nome è proprio un'analisi linguistica, perché evidenzia che Herr, Signor – la parte che veniva rimossa del nome del pittore – faceva parte dei discorsi che i Turchi facevano al medico quando dicevano: “Signore, so che se tu potessi salvarmi, lo faresti” in occasione di una malattia mortale. E anche quando dicevano: “Signore, se non c’è più quello, allora la vita che senso ha?”, quando erano colpiti da impotenza. Inoltre, gli stessi fonemi erano presenti nella prima parte del nome della regione che stavano attraversando, l’Herzegovina. Tutto collegava a una notiziaLache in quei non giorni di una ciò frasesida trasformare in rebus. coscienza si èaveva colpito Freud: un suo paziente, afflitto da impotenza, che si era suicidato a Trafoi, il cui gruppo di lettere si ritrova in Boltraffio, uno dei affatto resa conto di questo processo in seguito al quale il nomi Signorelli sostitutivi ède rimosso. Il “Bo” di Boltraffio e Botticelli aveva invece a che fare con il “Bo” di nome stato sostituito da altri. Bosnia, l’altra che stavano Si trattadidi uno schema complesso, che vale la E, a prima vista,regione il solo rapporto che siattraversando. scopre tra l’argomento conversazione in cuieappariva Signorelli l’argomento chedell'inconscio lo pena di analizzare studiareilenome che mostra chee tutto il lavorio si fa su frammenti di precedeva dalladisomiglianza delle sillabe (o piuttosto delle linguaggio,è costituito su pezzettini parole, su fonemi. successioni di lettere) in entrambi i casi. Non credo sia superfluo fare osservare che la mia spiegazione non contraddice le condizioni secondo èglieffettivamente psicoQuindi l'inconscio strutturatonecessarie, come linguaggio una scoperta di Freud, che tiene logi, la riproduzione e la dimenticanza, e quali essi Lacan ricerca-porta allo scoperto in maniera più colta e contoper anche della tradizione che lo precedeva e che no in certe relazioni nostre disposizioni. ad consapevole, perchée sfrutta la linguisticaIoami luilimito contemporanea. Com’è che la sfrutta? Trasformando aggiungere, perlinguistiche certi casi, unquelli motivo a quei fattori, da tempo in operazioni che erano i processi psichici che Freud aveva evidenziato. Lacan ammessi, determinare la dimenticanza di un no- e lo spostamento nella metonimia. La trasformache la possono condensazione freudiana nella metafora, me; inoltre, ho illustrato il meccanismo del falso ricordo. Nel condensazione, per Lacan, diventa “una parola per un'altra”, che allude all'apertura di un nuovo nostro caso, quei fattori hanno senz'altro avuto una parte nel permettere all'elemento rimosso di impadronirsi, attraverso l'associazione, del nome ricercato e di portarlo con sé nella rimozione. Forse, a proposito di un altro nome, che presentasse condizioni di riproduzione più favorevoli, questo fenome- 8 campo semantico. Con il più classico degli esempi: diciamo “Riccardo è un leone” per dire che Riccardo è coraggioso come un leone. Qualcuno descrive la metafora come similitudo brevior, similitudine abbreviata, perché l’espressione “coraggioso come un leone” verrebbe ridotta alla semplice identificazione linguistica al leone. Però la definizione lacaniana riguarda gli effetti di ricaduta clinica della metafora: mettendo “leone” al posto di Riccardo, grazie a quell'elemento che congiunge Riccardo al leone, e cioè il coraggio, si apre un campo semantico completamente nuovo, che nel lavoro psicoanalitico è ovviamente da sfruttare. Se un analizzante dice: “Riccardo è un leone”, il discorso si apre al regno animale, e si illumina un nuovo ambito che forse incide su di lui così come in Freud incideva tutta la serie di pensieri che lo ha portato a fare il lapsus di Signorelli. Risalendo quindi al perché, parlando di “Riccardo”, è stato detto “leone”, e quindi sfruttando questo rapporto con il regno animale, o con quello che il regno animale comporta per il soggetto, si apre una strada, una via regia per l'inconscio, che è la via mostrataci dal lapsus, dal sogno, dal sintomo, dal motto di spirito. La psicoanalisi non si riduce all’interpretazione dei sogni. Nondimeno, Freud ha trovato nell'interpretazione dei sogni il metodo di analisi che poi ha sfruttato riferendosi a tutti quegli altri fenomeni che, con Lacan, chiameremo le formazioni dell'inconscio: lapsus, sintomo, atto mancato, motto di spirito etc. etc. Parlare della condensazione in termini di metafora ci permette di trovare un meccanismo linguisticamente adeguato a descrivere un processo che Freud ha inaugurato, e che può portare a fare il percorso di verità proposto da Freud e dal primo Lacan: quello dell'inconscio strutturato come un linguaggio. Un percorso che può portare a significare al soggetto: “Tu sei fondamentalmente questo”. Come d’altra parte accade allo stesso Freud: l'analisi della dimenticanza del nome proprio lo porta alla fine al perché ha dimenticato quel nome, e al che cos'era che alla fine ha fatto sì che il Signor, Herr, rappresentante di Eros e Thanatos, delle questioni legate alla sessualità e alla morte, precipitasse nell'inconscio. Nel definire la condensazione come metafora, e lo spostamento come metonimia, si introduce anche l'idea che la metafora sia un meccanismo prevalentemente isterico e la metonimia un meccanismo per lo più ossessivo. La metafora apre un nuovo campo semantico, e quindi c’è l'apertura del nuovo; la metonimia sarebbe invece, per Lacan, un “parola per parola”. Prendiamo un altro degli esempi classici, tratti dai libri di retorica: “Nel porto entrarono trenta vele”, per dire “trenta navi”. La vela, in questo caso, è una parte per il tutto, il che sarebbe più propriamente una sineddoche. Ma Lacan parla in senso lato di metonimia, ossia si riferisce a quella figura retorica che sposta il significato di una parola valendosi di un qualsiasi rapporto di contiguità: contenente per il contenuto, causa per effetto, o appunto parte per il tutto, etc. E se, come dicevo, la metafora è l'apertura del nuovo, la metonimia invece attiene più alla permanenza nello stesso campo semantico, ossia alla resistenza: perché se dico “trenta vele”, anziché “trenta navi”, non faccio altro che fissarmi ossessivamente sul particolare del campo semantico di cui dispongo. Quindi lo spostamento è in realtà, analiticamente, una posizione di resistenza: non voglio aprire o produrre del nuovo. Lavorare con l'inconscio strutturato come un linguaggio significa quindi leggere il discorso in questi termini, leggerlo come un’operazione metaforica o metonimica. Che cosa è diventa quindi l'inconscio freudiano strutturato come un linguaggio in Lacan? Qui possiamo ancora vedere come Lacan ha lavorato su Freud. Prendiamo la famosa frase che si trova in “Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi”, il manifesto della svolta linguistica lacaniana, la prima delle sue conferenze a Roma, dove Lacan dice: “L'inconscio è quella parte del discorso concreto in quanto transindividuale, che difetta alla disposizione del soggetto per ristabilire la continuità del suo discorso cosciente” (p. 252). E' una definizione molto netta e precisa di inconscio: è una parte del discorso, del discorso concreto in quanto transindividuale. Qui, però, probabilmente ci addentriamo in zone più ardue: infatti, per Lacan, l'inconscio non è qualcosa di individuale, ma è legato ad un discorso concreto e transindividuale, cioè che attraversa gli individui, e che però difetta. Il soggetto vi entra in quanto è difettuale rispetto a questo discorso: l’inconscio è quella parte del discorso che gli difetta per ricostruire la continuità di ciò che sta dicendo. Quindi ciò che Freud vede nel lapsus è proprio questo: l'inconscio ha a che fare con quella parte che gli manca per aver chiaro il nome dell'autore del Giudizio Universale nel Duomo di Orvieto. È quell' 9 Herr che viene rimosso, per le ragioni di cui sopra. Questo è l'inconscio strutturato come un linguaggio in Lacan. Avrei ancora molte altre definizioni dell'inconscio lacaniano, che vi risparmio per citarvene solo due, che si riferiscono a due scritti dell’omonima raccolta. In effetti, abbiamo detto che la teoria freudiana dell'inconscio sta in tutta l'opera di Freud, e però il saggio dedicato esplicitamente all'inconscio è quello della Metapsicologia, dove si definiscono le caratteristiche speciali del sistema inconscio. In Lacan troviamo due testi importanti, ove si esplicitano le “leggi” del suo inconscio: uno è proprio “L’istanza della lettera ” (1957) che parla dell'inconscio strutturato come un linguaggio; l'altro è “Posizione dell'inconscio”, che è un testo che copre un arco di questioni un po’ più ampio. Ne “L'istanza della lettera nell'inconscio” c’è – l’abbiamo detto – la traduzione dell'inconscio freudiano nell'inconscio lacaniano. f(S') S @ S (+) s S Nella metafora, condensazione, c’è un più di senso che viene fuori: c’è un aumento di senso, l'allargamento del campo semantico, il passaggio – che abbiamo fatto nel nostro esempio – dall'ambito umano all'ambito animale. f (S ... S') S @ S (-‐) s Nella metonimia, invece, c’è un meno di senso: c’è la resistenza, c’è il fatto che l'apertura di senso non si dà, in occasione di questo meccanismo linguistico che il soggetto può eventualmente adoperare. L'“Istanza della lettera” mostra all’opera una certa matematica lacaniana, intendendo con questo termine una scrittura algebrica che renda trasmissibili alcuni elementi concettuali, quelli che Lacan ha appunto definito matèmi. Voi forse sapete che il termine lacaniano matèma è stato preso in prestito, con una piccola modificazione, dai mitèmi di Lévi-Strauss. Mentre i mitèmi sono le unità minimali di significazione del mito, i matèmi lacaniani sono gli elementi minimali di insegnabilità in psicoanalisi. È questa una delle grandi questioni che hanno sempre interessato Lacan. Le due grandi questioni su cui si è impegnato per tutta la vita sono: 1) come si trasmette la psicoanalisi; 2) come finisce un'analisi, cosa significa la fine di un'analisi. Sono due grandi questioni, che fanno sì che oggi gli sviluppi della psicoanalisi si diano essenzialmente nell'ambito lacaniano. Su queste due questioni cruciali, infatti, fuori dall'ambito lacaniano non c’è niente di nuovo. La psicoanalisi, fuori dall'ambito lacaniano, si trasmette come un sapere universitario, perché il rapporto tra l'analisi personale e l'analisi didattica, in ambito non lacaniano, non risulta assolutamente evidente, tant’è vero che l'associatura nell'IPA non si fa sulla propria analisi, ma si fa sull'analisi degli altri; non si stringe il nodo tra l'esperienza personale e quella didattica. Mentre invece, con la questione della passe, Lacan ha stretto questo nodo: la trasmissione dell'analisi passa non attraverso un sapere universitario, un insegnamento magistrale, ma attraverso l'estrazione di alcuni elementi della propria analisi. Fuori dell’ambito lacaniano, invece, di ciò non si dice niente, e il problema resta confinato – quando viene problematizzato – all'analista didatta e all'analizzante. Torniamo a quello che stavamo dicendo: i matèmi sono dunque queste unità di insegnamento minimali, scrivibili, elaborabili e utilizzabili nella clinica – perché i matèmi lacaniani, per chi li sappia usare e laddove vi sia occasione – offrono effettivamente un elemento supplementare per elaborare la propria clinica. E la matematica lacaniana, dicevo, la vedete bene all'opera nell' “Istanza della lettera dell'inconscio”, dove effettivamente vedete come Lacan trasforma l’inconscio freudiano nell’inconscio lacaniano attraverso la linguistica. Un testo che invece dà una diversa apertura alla questione dell'inconscio è “Posizione dell'inconscio”. Si tratta di un testo di tre anni successivo, un testo molto importante sia per quello 10 che dice all’interno dello scritto, sia per quello che dice nel titolo: è una posizione che, secondo me, va “al di là” dell'inconscio strutturato come linguaggio, entra nell'inconscio reale e nella questione di che cosa significhi, oggi, porre l'inconscio. Che cos’è la “posizione dell'inconscio”? Leggiamo innanzi tutto l'introduzione, in cui Lacan dice delle cose che vanno tenute a mente. Subito, al secondo capoverso, leggiamo: “Sull'inconscio, bisogna andare al dunque dell'esperienza freudiana. L'inconscio è un concetto forgiato sulla traccia di ciò che opera per costituire il soggetto. L'inconscio non è una specie che definisca nella realtà psichica il cerchio di ciò che non ha l'attributo (o la virtù) della coscienza (…) Il peso che diamo al linguaggio come causa del soggetto ci obbliga a precisare (…) L'inconscio è ciò che diciamo (…) Dire che l'inconscio per Freud non è ciò che altrove si chiama in questo modo, aggiungerebbe ben poco se non s'intendesse ciò che vogliamo dire: che l'inconscio prima di Freud non è puramente e semplicemente.” Perché per me queste affermazioni e il titolo, “Posizione dell'inconscio”, aprono al nuovo, al reale? Qui si verifica un certo passo di cavallo rispetto alla linea che fino a qui abbiamo tenuto, in relazione all'inconscio. Lacan afferma – ed è quel che dicevamo fin qui : “L'inconscio non è una specie che definisca nella realtà psichica il cerchio di ciò che non ha l'attributo (o la virtù) della coscienza.” Non è semplicemente il cerchio delle piccole percezioni, gli elementi di sapere non saputo: è – invece – un concetto forgiato sulla traccia di ciò che opera per costituire il soggetto, qualcosa che ha a che fare con quel capitolo censurato della nostra storia, qualcosa che difetta alla disponibilità del soggetto per ricostituire la continuità del suo discorso cosciente, che fa sì che l'inconscio non sia un semplice insieme di elementi, ma sia struttura, sia un inconscio strutturato. Però Lacan, qui, dice qualcosa di più: “l'inconscio prima di Freud non è puramente e semplicemente.” Che cosa significa? Significa che Freud elabora l'idea di inconscio strutturato, non scopre l'idea di inconscio, che preesisteva. Ma soprattutto fa un’operazione, che Lacan in questo testo sottolinea, fin dal titolo: che l'inconscio freudiano non è un concetto filosofico, ma è la parte di un dispositivo che è volto a lavorare, è parte di un dispositivo che è volto ad evidenziarlo, questo inconscio. Quello che inventa Freud, fondamentalmente, non è il concetto dell'inconscio, come sottolinea anche Colette Soler nel suo libro, ma è il dispositivo atto a farsene qualcosa, di questo inconscio. Questo è l'inconscio freudiano. Un inconscio che si pone, che va posto. L'inconscio non è una cosa che sta lì: l'inconscio è una posizione che produce retroattivamente una supposizione. Questo, Colette Soler lo dice bene nel suo libro. “Soggetto supposto sapere”, che per la gran parte dei non lacaniani, rappresenta semplicemente l'analista; ma questa è in realtà una definizione piuttosto immaginaria, ingenua, del concetto di “soggetto supposto sapere”. Lacan scrive questo matèma del Soggetto Supposto Sapere: 3 S Sq s (S1 , S2 , . . . Sn ) del psicoanálisis está laSupposto transferencia …»è ciò Se muestra así,definito en la primera el Il Soggetto Sapere che viene da quellolínea, che Lacan, nella “Proposta del 9 q la transferencia (S), que toma el relevo de la metáfora como constitutiva del síntoma. ottobre 1967”, chiama “algoritmo del transfert”, e che grosso modo si legge così: S significa un t significante qualunque, S in alto a denominado destra significa del transfert” (Lacan omette la t in de la transferencia implica a otro significante, por“significante Lacan “significante apice, nel testo della Proposta, ma spesso la troverete scritta così), s in questo caso significa “il 1 2 analista. n ), bajo el cuál se encuentra colocado Lo llama “significante cualquiera”Il Soggetto Supposto Sapere soggetto supposto”, S , S el, … S , significa “una serie di significanti”. potremo leggerlotenga anche s transferencia piccola) Supposto a negativa de que el analista unacosì: parte Soggetto “personal”(la en la inicial: (dove la supposizione è t q l'articolazione tra S e S ) Sapere, (tutta la serie di S che stanno sotto la barra). particularidad en el sentido de Aristóteles, dice Lacan. Este significante, si es Che cosa descrive questa operazione? L'algoritmo del transfert è lo scattare del transfert. un nombre propio, del saber supuesto, no tiene nada que con elsisaber Quand’ènada chesabe effettivamente si articola il transfert? Il ver transfert crea quando, sul versante del que está confrontado el analizante: Lacan matematiza así la insistencia de Freud en abordar cada caso nuevo como si no hubiésemos adquirido nada en sus primeros s. El saber inconsciente (S1, S2, … Sn) está colocado en la segunda línea, dependiendo 11 soggetto, un significante, che è il significante del transfert, si aggancia a un significante qualunque sul versante dell'altro, dell'analista, per produrre una supposizione di un sapere, e – all'interno di questo sapere – facendo presupporre che vi sia un soggetto di questo sapere. Cosa vuole dire questa formula? Il significante del transfert è, per esempio, un atto mancato che un soggetto fa in analisi: invece di premere il pulsante 8 dell'ascensore, per andare all'ottavo piano, preme il pulsante 6; questo lo porta ad associare che al sesto piano abita tizio o caio, la madre, il professore o qualcun altro. Il significante del transfert è l'atto mancato da parte del soggetto, il significante qualunque è il fatto che l'analista stia all'ottavo piano – è una cosa qualsiasi: tra i tanti significanti che rappresentano l'analista, c’è anche il fatto che il suo studio è all'ottavo piano. L'articolazione tra significante del transfert e significante qualunque apre uno spazio sotto la barra, uno spazio in cui si presuppone che vi sia una catena significante all'interno della quale c’è un soggetto: ho premuto il pulsante sbagliato perché da tanto tempo volevo in realtà andare lì, ma non ci riuscivo per questa e quest'altra ragione. C’è dunque la supposizione di un soggetto di questo atto: non è uno sbaglio, un inceppo, una rotellina che non ha funzionato, ma l'atto mancato ha aperto una dimensione inconscia in cui quell'atto presuppone un soggetto dell'atto, che ha fatto dell'atto mancato un atto riuscito, come dice Lacan. Effettivamente c’è un messaggio che a quel punto passa: sbagliando nel premere il pulsante, ho significato qualcosa per me, riesco a significare che c’è un soggetto nell'inconscio che ha fatto sì che tutte le mie resistenze nell'andare da mia madre per questa ragione e quest'altra, in questo momento abbiano preso una forma significante. Il significante del transfert, dunque, è quello che fa sintomo per il soggetto. Il significante qualunque, invece, è un elemento qualsiasi, è qualcosa che fa parte della costellazione significante dell'analista, che viene estratto dal campo dell'Altro ma che l'Altro non determina. L'aggancio tra questi due significanti apre alla supposizione di sapere. Il Soggetto Supposto Sapere, quindi, è questa macchina significante. È vero che c’è l'analista, ma qui funziona in posizione di qualunque. Soggetto Supposto Sapere, in Lacan, è perciò qualcosa che comunemente si attribuisce all'analista, ma in realtà significa la supposizione che il sapere rinvii ad una catena significante in cui c’è un soggetto che muove le fila perché l’accaduto si determinasse. Qui siamo alle soglie dell'inconscio reale, ma restiamo ancora nell'inconscio strutturato come un linguaggio. Perché vi sia questa supposizione, bisogna che vi sia un significante qualunque, che è la posizione dell'inconscio ed è la posizione dell'analista. Perché vi sia supposizione di sapere, nel meccanismo analitico, c’è bisogno che ci sia l'analista, dice Lacan: l'analista che pone l'inconscio, nel senso di essere il luogo dove il sapere che abita il soggetto possa trovare un riconoscimento, trovare un posto. Posizione dell'inconscio, come dice bene Colette Soler, è la posizione dell'offerta dell'analista, che è anche una posizione fisica, quella dell’offerta che determina la domanda. Questo è il ruolo fondamentale della posizione dell'inconscio: la posizione di una istanza della lettera nell'inconscio, il fatto che la lettera, il linguaggio, la parola abbia una posizione, una funzione nell'inconscio, ed è questa posizione che mette in funzione il meccanismo dell'analisi. La posizione determina retroattivamente una supposizione: se non c’è posizione dell'inconscio, non ci può essere supposizione di sapere. Da questo punto in avanti, però, si apre lo spazio dell'inconscio reale. Caso clinico: Antonella Loriga I “fuori protocollo” nella cura di Daniela Presento il caso di una giovane donna che è arrivata a fare una richiesta di aiuto attraverso una via un po’ tortuosa, passando prima attraverso una richiesta per i figli ad un servizio istituzionale che prevede un progetto di sostegno limitato nel tempo, poi esplicitando allo stesso servizio una richiesta per lei (sempre all’interno di questo progetto) e successivamente chiede di proseguire un suo lavoro con me fuori dal progetto che continua tutt’oggi. Ho scelto questo caso perché, in occasione di questi diversi passaggi (ma non solo) ho preso delle decisioni “fuori protocollo” che 12 mi piacerebbe poter ripensare assieme a voi rispetto agli effetti che ne sono seguiti. L’arrivo al Centro di accoglienza per donne in difficoltà Daniela ha 25 anni quando la incontro la prima volta nel 2007. Accompagna i suoi due figli, Giulio di 3 anni e Alessio di 2, allo Spazio di ascolto per minori che io ed un mio collega teniamo come psicologi in un paese a 40 km da Roma all’interno di un Centro d’accoglienza rivolto a donne in difficoltà (questo è il nome dato dalla provincia che eroga il finanziamento) e che prevede altri servizi oltre a quello per i minori. Le operatrici del Centro, che hanno il compito di indirizzare le donne ai vari servizi (raccolta fatti, consulenze legali, consulenze psicologiche, orientamento al lavoro, spazio minori) si lamentano di non riuscire a lavorare con lei. Dicono di non capire cosa chiede e accade uno spiacevole episodio di rimpallo continuo tra loro, nessuno vuole ascoltarla. Decidono di “mandarla” allo Spazio Minori visto che si era presentata con i figli. Effettivamente quando faccio dei colloqui d’accoglienza con Daniela, per inserire i due bambini, è difficile distinguere le parole che dice perché non articola bene le frasi, interrompe spesso una risata discreta ma apparentemente non collegata con ciò che dice. Rimane sempre molto calma. In apparenza sembra una bambina e quando parla spesso si ferma, ti guarda e sorride. Con difficoltà riesco a capire che ha conosciuto l’esistenza del Centro di Accoglienza dall’assistente sociale e che è arrivata per portare i figli. È preoccupata e spaventata dopo un episodio di strangolamento da parte del marito, in seguito al quale torna a vivere con la sua famiglia d’origine assieme ai figli. Vivono nelle campagne di un paese molto piccolo, ha una sorella minore di lei di 4 anni con un deficit cognitivo importante. È sempre presente e spesso viene accompagnata da tutta la famiglia e rimane con la sorella e i due bambini. Dei figli dice che di Giulio ha paura che abbia sofferto parecchio perché il padre spesso afferma che non è suo figlio e di Alessio, ha paura che diventi come il padre perché è il suo preferito ed è sempre aggressivo. Quando Daniela accompagna i figli sulla porta ci parla sempre con la sua modalità confusa. Mi colpisce la sua costanza nel avvicinarsi ogni volta e “tentare” di dire qualcosa. Ripete sempre che lei non vuole tornare con suo marito e che ne ha molta paura ma per tenerlo buono gli dice che ci tornerà e passa molto tempo con lui, fatto che la mette spesso nei guai, con i servizi sociali, con la sua famiglia d’origine e con il marito stesso che quando si accorge che alle parole non seguono i fatti ha degli scatti d’ira molto forti. Non chiede nulla, ma ogni volta con modalità differenti fa questa dichiarazione che lascia li, assieme ai figli. La richiesta di essere ascoltata Un giorno racconta che l’assistente sociale le ha dato della “bugiarda” e la rimprovera sul fatto che dichiara di non voler stare con il marito ma sta sempre con lui e lo “illude” (parole della’assistente sociale). È sconvolta e sembra non capire cosa l’assistente sociale intendesse ma continua a ripetere che non ha detto bugie. In quell’occasione dico “Non deve essere facile non essere creduta su questo fatto così importante per lei, certo che deve essere molto faticoso e doloroso tutto questo”. Le mie parole sembrano stupirla, si ferma e per la prima volta formula una frase chiara su fatto che anche lei vorrebbe uno spazio come ce l’hanno i suoi figli e che vorrebbe parlare con me. Le spiego che nel progetto è previsto uno spazio di ascolto anche per le donne e che dovrebbe andare in consulenza a Roma da altre mie colleghe ma non è facile fare questo invio. Daniela ha la patente ma non guida, ha paura di muoversi da sola, tanto che anche al Centro, che dista 20 minuti dal suo paese, viene accompagnata. Alle mie spiegazioni su come funziona il progetto e su dove e con chi dovrebbe parlare lei mi guarda, sorride gentilmente e non replica. Timidamente, come se non avessi detto nulla chiede se fosse possibile essere ascoltata da me mentre non lavoro con i bambini. Temporeggio. Nel progetto non è previsto poiché io sono la psicologa che si occupa dei bambini e allo stesso tempo far cadere così la sua richiesta mi sembra impensabile. Non so che fare, parlo con il resto dell’equipe e propongo di fare qualcosa di non 13 previsto nel progetto, fare io un numero limitato di colloqui li al Centro per poter dare spazio a quella richiesta. Mi viene approvata. Sono incerta sulla riuscita della cosa ma inizio. La vedrò li al Centro dal dicembre del 2007 per 6 mesi. La maggior parte dei colloqui di Daniela sono caratterizzati dalla confusione del suo dire. A volte piange a volte ride, sempre discretamente, ma poche volte riesce a articolare delle frasi ben articolate. La sua porta di entrata in tutti i colloqui è sempre stata, e in forma minore rimane tutt’ora, il rendiconto sui figli. Ad ogni seduta inizialmente racconta delle malattie che hanno avuto, dei problemi respiratori del più piccolo e delle varie visite mediche alle quali li accompagna. In questi racconti è molto precisa e solo verso la fine del colloquio quando sto per chiudere la seduta sorride, chiede scusa e dice con un’introduzione sempre uguale: ”un’altra cosa..(pausa)..vorrei un consiglio (pausa con risatina)…..non so cosa fare con Alberto” oppure: “non so cosa fare con i miei” e in quei pochi minuti introduce le sue difficoltà e con i marito e con i suoi genitori con la sua solita modalità confusa senza che io riesca a capire quali sia la questione. Se non avessi sentito con che dettagli e accuratezza riporta i racconti sui figli avrei avuto dubbi sulla sua ritardo cognitivo. Sorride anche quando racconta episodi spiacevoli e molto difficili come la volta in cui ha litigato con la madre, arrivando anche alle mani, in seguito al fatto che i genitori avevano scoperto che si vedeva di nascosto con il marito. In quell’occasione arriva al Centro sconvolta e accompagnata da entrambi i genitori. “É successo un casino” dice e questo termine lo usa spesso per introdurre episodi simili ma non è facile farmelo spiegare. Non ricorda cosa la madre ha detto e cosa lei ha risposto, non ricorda cosa ha scatenato l’episodio, riporta solo il fatto che la madre ha iniziato ad urlare e lei ha perso il controllo e per difendersi le ha dato una spinta, azione che l’ha molto spaventata. A questo segue il racconto dello strangolamento del marito che mesi prima aveva solo accennato. Anche qua non è chiaro cosa accade prima e dopo l’episodio, ricorda solo le mani del marito sul suo collo e la sua paura di morire. In quei mesi di lavoro si susseguono tanti racconti simili ma sono riportanti come episodi ogni volta isolati, e come se li raccontasse sempre per la prima volta. Il discorso di Daniela in questa prima fase sembra un discorso sempre al presente, cose se non avesse memoria. Racconta e lascia li, nella stessa modalità con cui lasciava li le sue iniziali frasi nell’accompagnare i figli. I miei interventi o domande, anche semplici su ciò che mi dice, la lasciano sgomenta ma non nel senso di uno stupore che la interroga ma sembrano aumentare la sua confusione e noto che dopo le mie domande il suo discorso torna ad essere più confuso. Decido allora di non interromperla troppo e i miei interventi nel tempo diventano esclamazioni, cenni con la testa e qualche parola che ripeto come per dare consistenza al suo discorso soprattutto quando è lei a parlare e non le parole dell’Altro. Spesso non ricorda quando le cose sono accadute, confonde i giorni e il prima e il dopo. I suoi racconti creano anche a me una certa confusione e devo fare un grande sforzo per tollerare la mia stessa confusione nel mettere in ordine i fatti che racconta. Nel tempo però la mia rinuncia alle richieste di ordine ha effetto sul discorso di Daniela che sembra sempre più un racconto storicizzato, se pur in modo minimo. Nell’arco delle sedute infatti ritorna più volte sugli stessi episodi (in particolare quello dello strangolamento del marito e della lite con la madre) aggiungendo ogni volta nuovi elementi o riportandoli in modo più chiaro. Verso la fine del periodo che si era stabilito dice di sentirsi molto giù. È la prima volta che riporta un suo stato d’animo. Dice di aver preso tante pastiche perché non ne poteva più di tutta la situazione a casa e con Alberto. Le chiedo di raccontarmi cosa è accaduto e dice che era talmente stanca che ha dormito per un giorno intero e tutta la famiglia si è preoccupata. Non ricorda il nome del farmaco e le chiedo di portarlo la prossima seduta per scoprire poi che era della valeriana. Per lei quello rimane un episodio importante. È da li che inizia a parlare del fatto di sentirsi un po’ persa, che non vuole stare a casa con i suoi ma neanche con Alberto ma non sa dove andare con i pochi soldi che guadagna e con due figli. Una volta ha preso un autobus ed è stata in giro per i paesi intorno senza sapere bene dove andare. Anche questo episodio rimane vago e nebuloso. Non è chiaro quanto tempo sia stata fuori e dove sia stata. Ha pensato di andare un po’ in giro per fatti suoi senza avvisare nessuno. Dice che per lei era importante stare lontano da tutti per poter pensare. 14 Sottolineo con forza l’importanza del suo desiderio di avere uno spazio per pensare e dico che poteva costruirlo in qualche modo in quello spazio li con me senza per forza dover gironzolare con l’autobus. A questa mia espressione ride ma questa volta divertita! La richiesta di fare un percorso fuori dall’istituzione Ho molto dubbi sul come e soprattutto se chiudere il lavoro. Afferma : “Io non ho nessuno e posso parlare solo con te”. Mi dà del Tu e non dico nulla a riguardo. È lei a proporre di venire a Roma e mi chiede se posso vederla nel luogo dove sa che io lavoro. Accetto. Si organizza, vede gli orari del treno, prende informazioni sui numeri dell’autobus per raggiungere lo studio. La fine dei 6 mesi coincide con la pausa estiva e l’appuntamento nel nuovo posto è per settembre del 2008. Questa seconda fase durerà circa altri 6 mesi. Ci impiegherà un mese a varcare la porta dello studio: nella prima seduta si perde per la città, prende un autobus sbagliato e torna indietro senza chiamare. La seconda seduta fa una serie di giri e riesce ad arrivare ma molte ora dopo l’appuntamento, mi chiama e io sono già andata via. Si scusa del ritardo e ironicamente, ma anche con gioia, esclama: “Ora però so dov’è”. La volta dopo arriva allo studio puntuale. Inizia il suo discorso apparente con la stessa affermazione che ha fatto da quando è arrivata al Centro: “Non voglio tornare con mio marito”. Questa è una frase che ripete ancora oggi, quello che cambia sono le costruzioni che fa intorno alla frase. Anche in questa altra fase alle mie domande mi parla sopra, poi si ferma un attimo, si scusa imbarazzata per avermi interrotto e continua il suo racconto come se ci fosse un urgenza nel doverlo riportare. Nell’ascoltarla ho l’idea di assistere alla stesura di un libro che per essere prodotto necessita di riletture continue. Decido di fidarmi di questa idea, mi ricordo l’accorgimento usato da me nella fase precedente e ritorno a limitare i miei interventi a sottolineature del suo dire. Le introduzioni sono sempre i racconti sui figli ma ora l’argomento non sono le loro visite mediche ma la loro educazione. Anche su questo sembra molto capace e attenta con un equilibrio particolare tra fermezza e dolcezza. Mi colpisce molto, ancora una volta, il suo modo intelligente di cavarsela e con le insegnanti e con le marachelle dei figli e con il rapporto con i nonni (i suoi genitori) che vogliono sempre sostituirsi a lei con modalità molto più brusche delle sue. Lei con pazienza tiene la sua posizione di madre in un verso protettiva ma dall’altro ferma e questo sembra renderla un fruttuoso punto di riferimento per i piccoli. Questo aspetto si contrappone notevolmente alla posizione che tiene con i genitori stessi e con il marito quando non è in gioco la crescita e l’educazione dei figli. La posizione che tiene con la madre e Alberto è infatti una posizione massicciamente speculare in cui c’è un prepotente padrone a cui lei non può che rispondere con l’esecuzione del loro ordine. Quando passa a parlare di se, per la prima volta racconta come ha conosciuto il marito e fa un primo “abbozzo” sulla sua storia. Si descrive come una bambina, prima e ragazza poi, molto buona che non ha mai dato problemi, aspetto cruciale che riprenderà più tardi. Quando ha conosciuto il marito frequentava un ragazzo anche lui molto buono ma lei aveva voglia di uscire di casa e fare qualcosa di diverso ed era rimasta affascinata da Alberto perché era spiritoso, conosceva tanta gente e stava sempre in giro per i bar. Iniziano a frequentarsi e rimane in cinta molto presto. I suoi genitori si arrabbiano molto e lei si sposa immediatamente e va a vivere a casa di Alberto con la madre di lui che è una donna alcolizzata. La casa è fatiscente e non c’è il riscaldamento. Anche Alberto beve molto. Dopo pochi mesi dalla nascita del primo figlio rimane in cinta del secondo ma subito dopo le cose con il marito precipitano fino all’episodio dello strangolamento in seguito al quale torna a vivere a casa dei suoi genitori. Anche con i suoi genitori le cose non vanno bene. Ogni tanto ci sono delle liti furiose soprattutto con la madre quando Daniela incontra Alberto. In quel periodo Daniela, spinta dai suoi genitori, dall’assistente sociale da una parte e da Alberto dall’altra compie una serie di azioni spesso in contrapposizione l’una con le altre. Da una parte fa una denuncia con l’avvocato in seguito alla quale parte un provvedimento legale, e dall’altra va a vedere case con Alberto perché lui desidera tornare a vivere tutti e quattro insieme. Nel suo discorso è molto chiaro il perché lo fa. Risponde alla richiesta dei genitori di allontanare e denunciare Alberto 15 e alla richiesta di Alberto di tornare insieme. Vuole tenerli buoni, ripete spesso. A lei non piacciono gli scontri e vuole vivere in pace. “Io sono stufa, non voglio tornare a casa con Alberto ma non voglio metterlo nei guai più di quanto non lo sia già”. Alberto ha già dei provvedimenti legali a suo carico perché in una sua precedente relazione ha mandato all’ospedale la ragazza a causa delle percosse che le ha dato in seguito ad un presunto tradimento. Ad un certo punto del lavoro con Daniela si introduce una nuova modalità: in occasioni di quelle liti mi chiama al telefono. È terrorizzata, quasi non riesce a parlare e mi dice “è successo un casino non so che fare e non sapevo chi chiamare!”. Inizialmente, pur tenendo un’apparente calma mi allarmo molto perché non riesco mai a capire l’entità del “casino”. Una delle prime telefonate di questo tipo piange e dice con un filo di voce “Alberto mi ha messo le mani addosso, sono riuscita a scappare ma ora non so che fare”. Era tanta la tentazione di mandarla dai carabinieri ma penso che il rischio è che se mi metto anche io o dalla parte di chi la spinge a denunciare o da quella di che la spinge a tornare con lui chiudo per sempre lo spazio di parola che con tanta fatica Daniela era riuscita a costruire. Decido, anche in quella situazione strema, di non fare nessuna dichiarazione sul da farsi ma le chiedo dove si trova e, una volta accertatami che non c’è un pericolo imminente, mi faccio raccontare brevemente qualcosa su cosa sia accaduto e poi le do un appuntamento, a volte anche anticipando il nostro solito per farmi raccontare meglio. In genere è lei a trovare il da farsi ed ad andare a volte dai carabinieri e altre dall’assistente sociale ed altre ancora va semplicemente a casa. Alla seduta che segue la lite Daniela riporta cosa ha fatto subito dopo e ricostruisce l’accaduto. Quello che ora dice è che per lei le liti con la madre e quelle con Alberto si somigliano. “Non si sopportano ma in realtà sono uguali, le cose devono essere fatte come dicono loro” e lei davanti ai loro comandi non riesce a parlare e non riesce a dire di no. Ha spesso dei rapporti sessuali con il marito anche se lei non li vuole ma lo fa “per tenerlo buono”. Quello che Daniela fa con Alberto ha una sua logica, se pur rischiosa e sempre al limite del pericolo. Cede su alcune sue richieste per poter essere libera di fare ciò che a lei piace fare. Andare a lavoro (fa la donna delle pulizie), occuparsi dei bambini, venire in seduta a Roma, stare serena a casa sua e fare delle gite assieme alla sua famiglia. Mi spiega spesso questo suo piano ma quello che tralascia è il fatto che il piano tiene fino ad un certo punto, fino al momento in cui la promessa di tornare a casa di Alberto non si realizza mai e da li si riparte con le liti e lei ne rimane sconvolta. Le piacerebbe riuscire a dire ad Alberto e alla madre le cose che riesce a dire in seduta. Le dico che forse in questo momento non è molto importante che lo dica a loro ma che possa ascoltarsi in quello che ha da dire. Rispetto al rapporto con i ragazzi mi racconta di alcuni episodi molto simili tra loro: qualcuno le fa delle avance e lei non reagisce per paura e li lascia fare. Questo accade da quando è molto piccola anche con alcuni suoi cugini più grandi. Racconta di altri episodi simili ma non è chiaro chi fossero questi ragazzi e quando fossero accaduti questi episodi. Capita un episodio simile con un vicino di casa anche nel periodo in cui viene alle sedute ma in quell’occasione riesce a sottrarsi e mi chiama appena arrivata a casa sua. Mi racconta che stava lavorando a casa dei genitori di questo ragazzo, che a suo dire è un po’ strano e sta sempre chiuso in casa. Le ha fatto una proposta sessuale e lei senza rispondere è scappata via. È particolarmente agitata quella volta tanto che le propongo di chiamarmi per due tre volte consecutive con un intervallo di mezzora. Il fatto di essere scappata via non sembra averle dato sollievo ma la disorienta e continua a dire che ha paura delle conseguenze. La sfera sessuale di Daniela sembra per la maggior parte del tempo sopita per poi emergere all’improvviso chiamata in causa dall’Altro, ma nei suoi racconti sembra una sfera slegata dal legami sociali. Tutto accade senza che lei possa scegliere. In un'altra occasione si era fatta coinvolgere in un incontro sessuale con un operaio di una fabbrica in cui per un periodo ha fatto la donna delle pulizie. Ha pensato di cedere alle avance del ragazzo per “togliersi dalla testa Alberto”. Hanno un rapporto sessuale nel posto di lavoro per poi non cercarsi più ma a lei questo sembra non disturbarla. Ritorna su questa cosa solo nel momento in cui le chiacchiere di una sua relazione con l’operaio arrivano ad Alberto, lei nega ma lui sembra ossessionato dal questo sospetto e per calmarlo lascia il lavoro, l’unico in cui aveva un regolare contratto. 16 In quel periodo non è costante nel venire alle sedute. A volte salta per le malattie dei figli, per motivi di lavoro ma quando torna emerge in fatto che quando si prepara per prendere il treno per Roma a volte i genitori, e più spesso Alberto, le dicono che non ha più bisogno di venire a Roma da me e lei rinuncia alla seduta, per poi tornare qualche volta dopo. In particolare Alberto pensa che lei va a Roma per incontrare un uomo e vorrebbe venire a conoscermi cosa che in quell’occasione non fa ma farà più avanti. Nel gennaio del 2009 interrompe. Dopo qualche seduta di assenza decido di chiamarla e lei dice che ora lavora di più nelle case e non può venire ma mi chiede se può chiamarmi qualora ne avesse bisogno. Le dico che non solo può richiamare ma può anche riprendere a venire. La ripresa con la scatola vuota Daniela ritorna dopo 7 mesi nel giugno del 2009. Il motivo è un forte senso di spaesamento che sente dopo aver deciso e realizzato di non vedere più Alberto. Questo stato l’aveva molto spaventata e ha pensato di tornare a dirmelo perché non sapeva cosa fare. In effetto si presenta molto disorientata, ha lo sguardo di chi ha letteralmente perso la strada. Non vede Alberto da qualche settimana e non ha voglia di rivederlo perché si è stufata dei suoi modi bruschi e ha solo voglia di stare serena. Ma dice che si sente “strana”, non ha voglia di fare nulla, si sente “staccata da tutte le cose che accadono intorno a lei”. L’unica cosa che le piace fare è giocare con i suoi figli con cui si diverte molto. I suoi familiari, compresi cugini e zii, la prendono in giro per questo ma lei dice che non le piace fare le cose da grandi e che sta serena solo in quel modo. Per spiegarmi cosa le accade ora dice che le sembra di aver perso la linea che le dava una direzione. Prima con Alberto aveva un obiettivo, doveva occuparsi di farlo stare buono e questo le permetteva, in seconda battuta di occuparsi delle sue cose. “è come se ora ho una scatola in mano e le cose che prima ci stavano dentro sono rimaste la, e io senza quelle cose non so come fare”. Non riesco a far aprire di più, nel discorso di Daniela, cosa siano “queste cose”. È una similitudine che si ripete sempre uguale come se “quelle cose” le avesse smarrite sul serio e non fossero un oggetto metaforico. In questa ultima fase che continua da più di due anni in modo piuttosto continuativo, il discorso di Daniela non è più un ammasso di frasi confuse ma qualcosa di ciò che dice sembra potersi fermare e soprattutto sembra anche poter essere ripreso nelle sedute che seguono. Qualcosa della sua storia si articola. Quando lei è nata la mamma aspettava anche un altro figlio ma che non è riuscito a sopravvivere. La madre le ripete spesso che “è lei ad essersi presa tutto e il fratello non ce l’ha fatta”. Per Daniela la nascita del suo primo figlio è un segno del fatto che sia riuscita a dare alla madre il figlio maschio che lei le aveva tolto. A scuola era sempre scansata dalle femmine, che descrive come molto altezzose con lei che veniva dalla campagna. Invece veniva accettata inizialmente dai maschi, che a lei facevano più simpatia ma poi anche loro la scansavano perché non stava dietro le loro attività e veniva presa in giro perché non era mai forte come loro. Si descrive come molto timida e con grande difficoltà a parlare con persone che non conosce. Dai quattro anni in poi è stata molto sola per anni perché la sorella minore doveva andare spesso all’ospedale a Roma e quindi i genitori stavano fuori tutto il giorno. Un ricordo che si ripete è il suo stare per ore sulla porta di casa al piano di sopra ad aspettare che i genitori tornassero, mentre la nonna, che abitava al piano di sotto la chiamava ripetutamente e lei non rispondeva. Una volta è stata portata dalla psicologa perché aveva fatto due disegni, una bara che aveva messo sulla porta della camera da letto dei genitori e un sole che aveva messo sulla porta della camera della sorella. Della psicologa di allora dice che la faceva solo disegnare ma che non le aveva chiesto cosa fossero quei disegni e non è più voluta tornare da lei. Le chiedo se si ricorda cosa fossero quei disegni e mi spiega che lei voleva tanto che i genitori morissero. Del sole dice che a lei la sorella piaceva e quindi il sole le sembrava una cosa bella. Quando capitava che la mamma rimanesse a dormire in ospedale l’avvertiva sempre che non doveva dormire con il padre perché non andava bene. Non ha chiesto alla madre spiegazioni ma ha pensato che il padre era comunque un uomo e sarebbe stato meglio non provocarlo. Dice che lei se l’è sempre cavata da sola e ora è molto infastidita che loro devono decidere cosa lei debba o non 17 debba fare trattandola nello stesso modo della sorella con l’handicap. Si sente spesso schiacciata tra i genitori e Alberto. In più di un’occasione sono accadute delle liti tra i genitori di Daniela e Alberto sulla porta di casa loro e ogni volta Daniela non dice nulla e non riesce neanche a sottrarre i figli dall’assistere agli scontri. Nel fra tempo va avanti il procedimento legale. Daniela da una parte ogni volta che c’è un udienza è molto agitata tanto da chiedermi delle sedute in più, dall’altra si sente protetta dalla presenza di un giudice perché “lui può decidere dall’esterno quello che è giusto per noi”. Le chiedo cosa le piacerebbe dire al giudice in quelle udienze e Daniela ha molto timore di non riuscire a dire nulla perché in presenza di Alberto in genere lei asseconda la sua versione, cosa che accade sempre con l’assistente sociale. Le propongo di provare a dire a me cosa vorrebbe dire essendo lo spazio delle sedute un luogo in cui le parole possono essere dette senza avere delle conseguenze immediate sulla realtà, non essendo io un giudice, ma una psicoterapeuta tenuta al rispetto del segreto professionale. Mi propone di usare un quaderno su cui lei avrebbe scritto ciò che avrebbe voluto dire perché ha paura di scordarsi. Il quaderno assume una funzione importante per Daniela. Me lo consegna e non lo porta a casa perché ha timore che qualcuno possa leggero e ogni volta porta un foglio su cui ha appuntato delle cose che io ripongo nel quaderno. Non sempre legge ciò che ha portato ma ogni volta mi consegna un nuovo foglio. Di fatto poi in udienza non sarà così necessario parlare molto perché si tratta di un intervento preliminare, ma il fatto che il giudice abbia rimproverato Alberto sulle sue azioni sembra avere per Daniela un effetto molto pacificante. In quel periodo riesce ad andare dall’avvocato senza farsi accompagnare dai genitori e decide, al contrario del volere dei suoi, di non costituirsi parte civile. Questa scelta da una parte la toglie dalla posizione di accusatrice in prima linea, ma, poiché i fatti precedentemente denunciati sono gravi, il procedimento legale va avanti comunque. Trovo la sua scelta molto sensata, poiché si sottrae dalla linea di trincea ma senza rinunciare all’intervento giudiziale, dal quale continua a sentirsi tutelata. Continua ad alternare periodo dove rivede Alberto, anche perché è stato stabilito un calendario per le visite dei figli, a periodi in cui non lo incontra. Inizia a frequentare un gruppo in chiesa. Insieme leggono la bibbia e preparano la cerimonia. Fanno dei ritiri e Daniela sembra trovarsi molto bene. Mi spiega nei dettagli il loro funzionamento e ne parla spesso in seduta. Ogni anno bisogna fare un passaggio al gruppo successivo. In occasione del passaggio però accade qualcosa. Inizia a dire che vorrebbe aiutare Alberto a comportarsi meglio. Una volta si fa accompagnare da lui anche in seduta. Appena li incontro Alberto inizia a parlare sulla porta e si prepara ad entrare. Io fermo un attimo il suo discorso e rivolgendomi a Daniela le chiedo se è d’accordo che io senta anche Alberto. Lei mi dice che vuole che lui entri e io accetto di sentirli insieme ma solo per qualche minuto e in sua presenza per poi riprendere la seduta con solo Daniela. La volta dopo vengono insieme ma Alberto decide di andare via, accusando un malore. In quella seduta Daniela è molto su di giri. Non l’avevo mai vista in quello stato maniacale. Parla velocissima è molto entusiasta di un ritiro che ha appena fatto con il gruppo religioso. Mi spiega che lei ora pensa di aver capito cosa il Signore vuole da lei e che ora però non me lo può dire. Le dico che credo che sia molto importante quello che mi sta raccontando e che forse è necessario che me lo racconti con più calma senza cercare di dirmi tutto in quel momento altrimenti per me diventava difficile seguirla e invece ero molto interessata alla cosa. Nella seduta stessa alterna momenti di euforia ad altri di maggior lucidità in cui dice si sentirsi strana. In quell’occasione le do un appuntamento per il giorno dopo perché non riesco a capire bene la sua inaspettata euforia e, visto che in genere le sedute hanno su di lei un effetto di ridurre i suoi stati d’urgenza, prendo questa decisione. Non si presenta alla seduta per chiamarmi il giorno dopo e dirmi che sta molto male. Dice che mentre era distesa sul letto ha visto un ombra e si è molto spaventata ed è corsa nella camera del madre. Poi ha visto il diavolo, spiegandomi che in realtà era Giulio, suo figlio, ma lei in quel momento non riusciva a riconoscerlo. Urla e il bambino si spaventa e scappa via. Non riesce a staccarsi dalla madre e chiamano la signora che si occupa del gruppo religioso che la porta al pronto soccorso. La incontra un medico che le dà un calmante e decide di non mandarla al servizio di zona dicendo che sarebbe meglio che fosse seguita a Roma altrimenti rischiava che le togliessero i figli. 18 Daniela si sente sollevata da quest’idea del medico poiché lei vuole essere curata solo da me. Non vuole sentire i suoi parenti che la vogliono mandare da una psichiatra perche lei non è pazza. Per telefono le dico che quando ci vedremo possiamo pensare insieme un eventuale aiuto da una mia collega psichiatra e detto da per le sembra accettabile. Per circa 5 giorni la sento tutti i giorni al telefono essendo impossibilitata a vederla perché ero fuori Roma. Le fisso un appuntamento per quando rientro. Nel fra tempo le do due appuntamenti telefonici al giorno per raccontarmi cosa accade. Mi chiama puntualmente. Ha molta paura che in casa entri qualcuno, ha molta paura del buio e quando arriva la sera si angoscia molto. Il diavolo lascia spazio a Gesù che in un occasione vede dietro la madre ma questa volta non le ha fatto paura perché era fuori dalla casa ed era buono. Quando riprendiamo le sedute associa la causa della crisi al questionario che ha compilato per fare il passaggio al gruppo religioso. Le avevano chiesto chi erano “i suoi idoli di cui si sentiva schiava” e lei aveva pensato e scritto che fossero i figli e che non era giusto che fossero degli idoli perché non erano cose sue ma di Dio. Dice di aver sbagliato a pensare sempre a loro in modo così intenso e di avere voluto loro così bene. In quei giorni sentiva una voce che le diceva che lei sarebbe diventata la sposa di Dio. La rassicura anche di stare serena perché tutto si sarebbe sistemato ma lei inizia a pensare che per diventare sposa di Dio sarebbe dovuta morire a breve (era questo che non mi ha voluto dire in seduta il giorno prima della crisi). Quando la crisi rientra lei si da questa spiegazione: si era fatta troppo prendere dalla religione, che anche se era una cosa buona c’era stato “un troppo”. E lo ripete spesso. Io in quel momento lascio un po’ da parte le sue insistenti domande sul cercare di capire se ciò che aveva visto e sentito fosse vero o immaginato ma mi allineo alla sua idea di troppo e al suo diritto di riposo. Si lamenta infatti di avere sempre mal di testa, lo stesso che aveva avuto prima della crisi. Si sente stremata e ha voglia di rallentare. Focalizzo molto i miei interventi su questi aspetti come a voler mettere un velo in questa tela che si è improvvisamente squarciata con un’irruzione di reale. Riesco a fare l’invio ad una mia collega psichiatra e pian piano la situazione rientra. Alterna momenti in cui vuole capire cosa sia accaduto quel giorno ad altri in cui dice che dopo quella crisi qualcosa è cambiato e ora lei non si fa prendere dalle cose come prima. Il mal di testa diventa il campanello che segna uno stop ed è molto brava nell’ascoltarsi. Appena ha mal di testa si ferma e non vuole sentire nulla. Continua ad andare al gruppo religioso ma con meno frequenza. Vede Albero ma appena le viene mal di testa o spegne il telefono o torna a casa lasciandolo li o, come dice lei, “stacco il cervello e non lo sento e lui parla, parla, parla” sorride anche un pò divertita. In quel periodo le solite liti tra i genitori di Daniela e Alberto si sospendono, per poi riprendere dopo qualche mese. Partono per le vacanze estive e Daniela in quell’occasione sta molto bene. Torna a settembre moto calma. Riprende a lavorare come donna delle pulizie. Ogni tanto torna sull’episodio di giugno e ricorda che anche da piccola parlava con una voce che le teneva compagnia quando stava sola. Quella voce le ha sempre detto cosa doveva fare e cosa no fino a quando, dopo il tradimento del suo primo ragazzo lei ha deciso di non crederle più perché essere sempre buona non era servito a nulla. Subito dopo incontra Alberto che ora definisce “la mia croce di cui ho bisogno”. Non è chiaro se la voce la sentiva davvero o fosse solo un amico immaginario quello che è chiaro che l’ha sempre sostenuta. “Finché c’era lei io sapevo bene cosa dovevo fare, poi mi sono persa”. Qualche volta riporta dei sogni: in uno era in compagnia di Gesù in quale però ad un certo punto le si mette accano e la tocca nelle parti intime e lei le chiede il perché e a questa sua domanda Gesù smette. Del sogno dice che le sembrava un bel sogno “a parte quella parte” perché lei si sente rassicurata dalla sua esistenza però non capisce perché ad un certo punto lui si comporta così. Ne è turbata. Riprende l’idea della sposa di Gesù ma ora pensa che forse il modo di essere sua sposa non per forza la deve portare a morire e che può occuparsi dei figli ancora a lungo. È molto brava a trovare validi sponde d’appoggio per continuare a seguire i figli senza sentirsi troppo stanca. Si informa sui dopo scuola, crea nel giardino di casa degli spazi di gioco per loro e si organizza il 19 lavoro in modo da dedicare a loro qualche momento della giornata. In un altro sogno che segue di poco il precedente cammina verso una porta buia in cui non riesce a vedere cosa c’è. È molto spaventata ma il padre la aiuta chiamandola verso di lui e verso una zona più illuminata. Il padre in quest’ultimo anno sembra assumere un peso diverso per Daniela. Lo considera un punto di riferimento importante. È quello che un po’ più di prima media le sfuriate della madre e spesso è il promotore di iniziative di uscite familiari che a Daniela piacciono molto. Quando la madre si arrabbia con lei è il padre a parlare con Daniela, a proporre delle alternative di soluzione e a calmare le acque e per Daniela le sue parole sono più comprensibili delle urla della madre. Nell’ultimo anno con entrambi i genitori si scontra spesso sull’educazione dei figli. A Daniela da molto fastidio che loro intervengono con i due piccoli come fossero i genitori e non i nonni. Inoltre spesso li picchiano con cinte e bastoni, metodi mai utilizzati da Daniela ma non sempre riesce a sottrarli a questo. In quel periodo riporta un sogno in cui lei sta in una stanza in cui cade tanta sabbia che ricopre le persone presenti tranne lei, perché riesce a spostarla ma dopo un po’ la sabbia inizia a coprire anche lei e si spaventa. Questo sogno la preoccupa molto. Sente che deve pensare a troppe cose insieme e vorrebbe stare più calma a pensare solo ai figli e al lavoro. Inizia a pensare di andare a vivere da sola con i due bambini ma quando riporta questo in seduta si blocca su due fronti. Da una parte ha paura che se prende le case popolari “Alberto si infila dentro casa e non riesco più a farlo uscire”. Dall’altra assume per la prima volta una forte consapevolezza sulle sue criticità. Espone molto chiaramente di avere delle grandi difficoltà quando è fuori dalla casa dei genitori. Le piace stare in mezzo alle persone ma si spaventa anche molto, non riesce a parlare e a dire la sua e spesso sta in silenzio ad ascoltare. Non vuole che i suoi figli crescano nell’ambiente delle case popolari ed inoltre lei non si sente in grado di difendersi in un posto che ai suoi occhi è pieno di “altri disagi”. In casa sua conosce gli spazi, sa come muoversi e si sente protetta da questo. Per un po’ di tempo sembra abbandonare l’idea. La riprende quando dopo la morte della nonna, che abitava al piano di sotto della stessa casa, la badante comunica l’intenzione di lasciare l’appartamento. Daniela in seduta inizia a riportare il desiderio di trasferirsi nel piano di sotto con i bambini. Spiega che questo avrebbe permesso loro di essere una famiglia separata ma senza allontanarsi troppo. Lei avrebbe potuto organizzarsi le sue cose senza dover stare sotto l’organizzazione dei suoi ma allo stesso tempo senza perderli come punti di riferimento. Per mesi non riesce a fare la proposta ai suoi perché dice di averli spesso sentiti parlare del fatto che vogliono affittare l’appartamento. In quel periodo è molto arrabbiata con loro perché “preferiscono altri a me” ma non propone alternative all’affitto. Riesce a fare la proposta solo in una situazione di urgenza. In una delle ennesime liti la madre stremata le dice “ va via tu o vado via io” e Daniela, spaventata di trovarsi su una strada con i due bambini, propone al padre l’idea dell’appartamento di sotto. Qualche giorno dopo la lite il padre comunica a Daniela che hanno deciso che saranno loro a trasferirsi giù dopo che faranno dei lavori di ristrutturazione e ampliamento. Il padre appoggia quindi la sua idea e le propone di aiutarlo nei lavori. Daniela ne è contenta e anche spaventata ma come dice lei “c’è tempo prima che facciamo tutti i lavori e io intanto mi organizzo”. I lavori dell’appartamento sono in corso e anche quelli di Daniela. Commento al caso clinico F. Marone: Il commento di questo caso ci accompagnerà per tutto il pomeriggio, e servirà come contenitore in cui inseriremo la questione dell'inconscio reale, dell'uso clinico dell'inconscio reale e di quello che riusciremo a dire su di esso, di quanto il libro di Colette Soler ci aiuti a lavorare con questo concetto. Ringrazio Antonella Loriga per aver presentato un caso ottimo, sia dal punto di vista di ciò che ci riesce a trasmettere di tutto il lavoro che ha fatto con questa persona “fuori protocollo” – questione su cui lavoreremo e che mi sembra molto importante – sia per l'ottima posizione che ha avuto come terapeuta: non solo ha lavorato, ma ha mantenuto un’ottima posizione 20 terapeutica in tanti momenti, che cercheremo di evidenziare. La questione del “fuori protocollo” la possiamo agganciare al nostro punto di arresto: ci eravamo fermati su di una questione protocollare, perché in realtà l'inconscio che abbiamo tracciato era un inconscio “dentro il protocollo”, un inconscio che effettivamente dichiara i suoi protocolli, come sapere non saputo che si riesce a decodificare leggendolo in quanto strutturato come un linguaggio. Lacan, semplificatore della psicoanalisi, ci fornisce, con le sue formule, i protocolli per lavorare, che sono quelli linguistici, e ci consente di leggere l'inconscio, una volta che si sia presa dimestichezza con le “parole crociate” dell'inconscio. È questa la via protocollare dell'inconscio, la via dell'inconscio “verità”, che una volta decodificato produce i suoi effetti. Sono gli effetti che il cinema ci ha insegnato a valorizzare: il momento finale, catartico, che il funzionamento linguistico aiuta a scatenare; l'interpretazione giusta provoca la guarigione, qualcosa si apre, si leva il velo della rimozione, qualcosa emerge e il sintomo sparisce. Fino all'inconscio strutturato come un linguaggio, siamo nel protocollo. Poi, però, c’è la questione dei nuovi sintomi e dei soggetti cosiddetti “senza inconscio”. Che cos’è il “senza inconscio”, il “fuori inconscio”? È una questione importante, perché c’è un punto di reale che avanza, e che credo che Colette Soler aiuti a leggere nella maniera migliore. Dunque, che cos’è la questione del “senza inconscio”, o dei “nuovi sintomi”? Su di un versante positivo, rispetto all'inconscio reale, c’è l'idea che i protocolli linguistici, con pazienti del genere, non funzionano. Questo fatto lo mostra chiaramente Antonella, quando pone un momento di svolta importante, quando la richiesta di essere ascoltata della sua paziente si gioca sulla diversa posizione di Antonella – in rapporto al linguaggio molto bizzarro di questo soggetto – rispetto all'assistente sociale. L'assistente sociale, qui, fa un po' l'analista tradizionale, cioè la interpreta nel dirle: “Tu dici cos., ma in realtà sei una bugiarda...”. Come a dire: la tua verità è una menzogna, in realtà c’è una verità più profonda. Invece la posizione di Antonella è diversa, sta un passo di lato rispetto alla posizione di una verità strutturata che dovrebbe emergere, quella di un soggetto che dice qualcosa e lo dice nelle forme del linguaggio. Questo è il primo ingresso di Daniela all'interno di una domanda rivolta a lei. È un ingresso che avviene all'interno di un “ti credo, anche se forse non ci credo a quello che dici”, che è un “credo a te, a te come soggetto, credo che non sia vero che sei una bugiarda, tu dici la tua verità”, perché la verità di un soggetto può passare attraverso una menzogna. Una menzogna che però non è da decodificare immediatamente, dicendo: “tu mi stai mentendo”, c’è un soggetto dentro di te che dice un'altra verità, e questo io te lo restituisco di botto, il che sarebbe un esempio di psicoanalisi selvaggia. Freud ci parla della psicoanalisi selvaggia facendo l'esempio del suo giovane seguace, a cui si rivolge una donna che accusa tutta una serie di sintomi di tipo isterico: il giovane medico le dice che essendo divorziata non ha rapporti sessuali regolari e che dunque i suoi sintomi in definitiva dipendono da questo disordine. Freud ci fa capire che, in ultima istanza, tutto ciò potrebbe anche essere vero, ma che non è questo sapere, trasmesso immediatamente, che potrà guarire la paziente, che infatti fugge immediatamente. L'interpretazione, ci dice ancora Freud, deve infatti essere comunicata solo nel momento in cui il soggetto sia in grado di arrivarci da solo, solo quando è sulla soglia del poter pronunciare egli stesso le parole che l'analista gli sta per dire. L'assistente sociale, nel nostro caso, fa un po' l'analista selvaggia, come molti oggi fanno, dal momento che c’è un sapere psicoanalitico diffuso, un sapere freudiano, un saperne sull'inconscio strutturato come un linguaggio che fa sì che molti oggi si sentano analisti, e che la psicoanalisi si riduca proprio a questo tipo di interpretazioni selvagge. La posizione dell'inconscio non è sicuramente questa. La posizione dell'inconscio è una posizione di attesa, quale quella che ci delinea Antonella. È la posizione, per parafrasare le parole di Lacan, del “crederle senza crederci”: credere al soggetto, senza prendere per oro colato quello che lei dice. È il riconoscimento di un soggetto al di là di un messaggio che è sempre menzognero. Il messaggio del soggetto è sempre menzognero: ci sono delle menzogne meglio strutturate, e delle menzogne destrutturate, come nel caso di questo soggetto, ma il messaggio è sempre menzognero. È quello che lo stesso Freud ci ha insegnato, e qui troviamo molti punti in comune con Lacan. Quando Freud scrive a Fliess “non credo più ai miei nevrotici”, non credo più che effettivamente ci 21 sia stata la seduzione, il trauma reale, che effettivamente le pazienti isteriche siano state tutte soggette ad una violenza familiare, in effetti dice questo. È un non credere al contenuto della comunicazione, che significa però uno sforzo di credere diversamente al soggetto. È quello che poi l'analisi ci insegna, attraverso il percorso freudiano: che in analisi è impossibile mentire, perché in analisi qualsiasi menzogna esprime una verità del soggetto. Qualsiasi cosa che io mi inventi, comunque ne sono io l'artefice, sono io che me la sono inventata, e dunque comunicherà qualcosa di me. Se mi invento la fantasia più bizzarra, sarà la mia fantasia, e gli elementi che ci metterò dentro diranno sicuramente qualcosa di me. Dunque, in analisi è impossibile mentire: ma il contenuto non va valutato per quello che dice della realtà esterna, la realtà dei fatti, degli effetti, ma per quello che ci dice della realtà psichica del soggetto. E in effetti a noi non interessa che dica qualcosa della realtà esterna. Lo psicoanalista non è un investigatore – come viene alle volte rappresentato – che va a cercare conferme all'esterno, per stabilire come sono andate davvero le cose: questa è una rappresentazione dell'analista a volte simpatica, ma falsa. L'inconscio reale - ma questa è una posizione forse è un po' più mia che di Colette Soler – fa tutt'uno con la questione del fuori protocollo. L'inconscio reale è effettivamente un modo di far valere la parola al di là del protocollo, che è quello dell'inconscio strutturato come un linguaggio. L'inconscio reale è una maniera di affermarsi del reale, dunque della realtà interna del soggetto, della sua realtà psichica, che – potremmo dire – non passa per le strettoie del significante, organizzate secondo la metonimia e la metafora. Oppure – potremmo ancora dire – ci passa in un'altra maniera, in modo che il significante diventi “lettera”, “cifra”, “nome”, diventi qualcosa di altro: il rappresentante di un godimento che si esprime in un'altra forma, egualmente linguistica, ma che piuttosto che esprimersi secondo l'inconscio strutturato come un linguaggio, si esprime nei termini dell'inconscio destrutturato come “lalingua”. Che cos’è l'inconscio reale? L'inconscio reale, dice Colette Soler, è uno dei due inconsci. E che gli inconsci siano due mi sembra sia una cosa molto importante da sottolineare, dal punto di vista didattico. Questa bipartizione dell’inconscio significherebbe che l’inconscio strutturato come un linguaggio di cui abbiamo parlato finora, è – anche se questo esempio non piacerebbe a Lacan – come una sorta di strato superiore, che pesca in uno strato inferiore che è l’inconscio de “lalingua”, e che è un inconscio destrutturato. Cosa significa che l’inconscio de “lalingua” è un inconscio destrutturato? Innanzi tutto diciamo che cos’è “lalingua”, questo neologismo che Lacan ha creato. “Lalingua”, “lalangue” in francese, come ha sottolineato bene Jacques Adam, non si scrive mai con l’articolo: Lacan non ha mai utilizzato l’articolo nel dirlo, e anzi ha spesso lasciato sussistere l’ambiguità tra “lalingua” e “la lingua”. “Lalingua” è un neologismo che Lacan inventa a partire da qualcosa che rende già immediatamente evidente la sua sostanza che è, lo diciamo subito, di godimento: la lallazione. È il balbettio del bambino, ma non solo: è anche il balbettio di quei soggetti che non fanno passare il significante, il fonema, la parola attraverso i défilés dell’inconscio strutturato. Che cosa fa il bambino quando dice: “Ma, ma, pa, pa …”. In realtà, lì non c’è immediatamente un intento comunicativo: lì c’è innanzitutto un godimento che passa attraverso questa funzione particolarissima che caratterizza l’essere umano, e che è il fatto di parlare. E però, la parola si struttura, nell’inconscio non ancora strutturato come un linguaggio, in questo primo strato e secondo un godimento che passa attraverso quell’oralità che non è l’oralità del cibo, che ha una sua indipendenza rispetto ad essa, e che è l’oralità del dire, del dire innanzi tutto qualcosa che è inizialmente incomprensibile e apparentemente indicibile. I fonemi del bambino verranno poi irreggimentati, chiusi in una gabbia dagli adulti che diranno: “Sta dicendo mamma, non sta dicendo papà” e via di seguito. In effetti, essi vengono stretti a partire da qualcosa che invece è una “x” iniziale. Facciamo uno schema, che potete trovare in “Sovversione del soggetto”: 22 È la cellula elementare del grafo del desiderio, che poi si dispiegherà in altri tre schemi. Sarebbe interessante parlare del grafo del desiderio, che è una delle cose clinicamente più utili di Lacan. Qui si vede bene l’effetto del linguaggio su “lalingua”. Che cosa rappresenta questo schema? Ce lo possiamo rappresentare, appunto, come la mamma che in una certa misura dà forma linguistica alla lallazione del bambino. In Δ, in delta, noi abbiamo il soggetto reale: non il soggetto, quindi, rappresentato da un significante per un altro significante, che è tutto già inscritto all’interno del linguaggio, ma il momento originario, dello “nguee”, del grido del bambino non ancora inscritto nel linguaggio. Lo “nguee” del bambino è fuori dal linguaggio. Questo “nguee”, che è espressione del bambino non in quanto soggetto di linguaggio, ma in quanto soggetto fuori dal linguaggio, incontra “A”, all’incrocio in alto a destra. Che cosa è “A”? “A” è il tesoro dei significanti, l’Altro del significante. E chi è l’Altro del significante, in quel momento? Ovviamente la madre, colei che rappresenta l’Altro, colei che possiede il tesoro dei significanti, che possiede tutte le parole per dirlo, come recita il titolo del libro di Marie Cardinal. Che cosa fa la madre? Prende quello “nguee” e lo interpreta linguisticamente, cioè inscrive nell’incrocio in alto a sinistra “s(A)”, che significa “significato nell’Altro”. Che cosa è il “significato nell’Altro”? “Ho fame, ho sete, mi sono scocciato, mi fa male qui”. Il grido del bambino riceve dalla madre un’interpretazione linguistica, che trasforma retroattivamente il “delta”, il soggetto reale, il piccolo che dice “nguee” – che non significa niente, perché sta fuori dal linguaggio – lo trasforma, trasforma quel piccolo pezzetto di carne che dice “nguee” in un soggetto del linguaggio. Lo trasforma retroattivamente: al posto di quel “nguee”, che assume in seguito per la madre il significato di “ho fame, ho sete, ho sonno”, c’è un soggetto che ha già detto alla madre “ho fame, ho sete, ho sonno”, laddove in realtà questo è solo l’effetto4 retroattivo della madre sullo “nguee” del bambino. Da una parte vediamo quindi questa operazione di inscrizione in ciò che viene strutturato come un linguaggio, e che poi si articolerà in conscio e inconscio; dall’altra, c’è a otro significante (©), a menos de algo (a), que es lo que no es lenguaje: una parte che resta fuori dal linguaggio. Qui possiamo richiamare quello che dicevamo prima: ¨ © a Abbiamo qui grossomodo la stessa cosa: c’è un soggetto che è rappresentato da un significante, S1 hilo de esto (ho razonamiento, y si nosotros definimos algoritmo de la trasferencia sete, ho fame, ho sonno) per un el altro significante, S2 che è la– madre. L’S2 è il tesoro dei il sapere,ye el “a” rappresenta il “delta” dello precedente, l’“a meno di qualcosa”, so del amo –significanti, como el comienzo, discurso del analista como la schema jugada final, el come dicevamo prima. C’è un reale del bambino che resta fuori del discorso. Originariamente, il análisis seríalinguaggio el pasaje èdeuna uno a otro discurso. también otros dos che lo precede. Noi siamo trasposizione su di Además, un altro ordine di los un godimento forzati nel linguaggio: quello che Lacan affermerà, dicendo el chediscurso il desiderio è costretto a passare nei un lugar, en mi opinión, en la historia de un análisis. Por ejemplo, défilés del significante. Il linguaggio, che tante volte ci sembra l’acqua in cui nuotiamo come pesci, sappiamo bene che, quando siamo posti di fronte alle grandi questioni, ci viene a mancare, non ci corrisponde, ci tradisce. È nei momenti in cui dobbiamo esprimere autenticamente il nostro essere che ci accorgiamo della profonda estraneità del linguaggio. ¨ a © 23 Questo schema serve a dare una prima idea della differenza tra l’inconscio strutturato, che è quello che attraverso l’Altro rappresentato dalla madre si impone, e l’inconscio della lallazione, de “lalingua”, cioè quei tratti dell’inconscio che sono al di fuori del linguaggio strutturato, che non hanno una diretta esprimibilità linguistica e che rappresentano egualmente il soggetto, ma in una maniera diversa dal linguaggio strutturato. Non rappresentano il soggetto nell’articolazione tra due significanti: io mi rappresento come, per esempio, allievo di un maestro, marito di una moglie, mi rappresento cioè rispetto a un altro significante. Solo gli psicotici si rappresentano attraverso una significazione assoluta: uno psicotico può rappresentarsi come Napoleone, anche se non c’è nessuno che gli convalidi questo nome. Non c’è bisogno di un altro che gli restituisca il messaggio: io sono Napoleone, sono Dio e basta, non c’è bisogno di un altro, perché il soggetto psicotico già si rappresenta come l’Altro assoluto. Al di fuori della psicosi, però, la significazione nel linguaggio quotidiano funziona altrimenti: nel linguaggio, c’è bisogno di un altro significante perché il soggetto possa significarsi. Se sono psichiatra, è perché c’è un’istituzione in cui posso lavorare, c’è un titolo di studio che mi riconosce: ci devono essere le prove che c’è un Altro rispetto a cui il significante che mi rappresenta funziona. La modalità dell’inconscio reale, invece, è diversa: qui, c’è un significante che è impresso nella carne del soggetto. Sono i godimenti che effettivamente sono segnati dal linguaggio, ma che non necessitano di nessuna articolazione linguistica per esistere, per darsi. “Lalingua” rappresenta il godimento del soggetto assolutamente, e non mediatamente, attraverso un altro significante. Prima di entrare a pieno nel caso, l’ultima parola sulla questione del protocollo e del fuori protocollo. “Fuori protocollo” è una buona traduzione, in volgare, di uno dei più eterodossi e più “scandalosi” slogan lacaniani. Lo cito prima in francese, perché c’è una questione di traduzione che ha una certa importanza: “le psychanalyste ne s’autorise que de lui-même”, che in italiano viene abitualmente tradotto come “l’analista si autorizza da sé” e che invece, per ragioni su cui sarebbe troppo lungo soffermarsi, preferirei tradurre “l’analista non si autorizza se non lui stesso” – o, più semplicemente, “l’analista si autorizza lui stesso”. Il succo ovviamente, a parte la sfumatura, è quello che ha fatto scandalo, ed è una delle cose che ha più segnato, anche negativamente, la tradizione lacaniana in Italia. Esso però significa qualcosa di molto diverso da quello che viene normalmente inteso, è ovvio, e nessuno tra i lacaniani l’ha mai inteso così. Però, spesso, la gente intende “l’analista si autorizza da sé” nel senso che uno si sveglia la mattina e dice: “Faccio l’analista”. “L’analista si autorizza da sé” significa invece che l’analista è sempre fuori protocollo. Perché Lacan, dicendo “l’analista si autorizza lui stesso”, intendeva dire che non c’è nessun protocollo che autorizzi l’analista a compiere l’atto di cui lui comunque – a partire dalla sua formazione, a partire dalla sua preparazione, a partire quindi da tutta la sua esperienza teorica e personale – si assume sempre la responsabilità, senza mai poterla scaricare su di un qualsiasi protocollo. Non potrà mai dire: “Ho fatto così perché il protocollo analitico mi ha autorizzato a fare in questo senso”. Un episodio che cito sempre, e che vi racconto in forma abbreviata: io ho una formazione universitaria psichiatrica, sono medico, specialista in psichiatria, e ho lavorato a Napoli per lungo tempo in un ospedale psichiatrico in dismissione. Ricordo che una volta, nel corso di uno screening occasionale, facemmo ai nostri pazienti una lastra del torace e scoprimmo che un paziente, che l’anno prima era risultato negativo al controllo, aveva una neoformazione, un carcinoma a piccole cellule molto aggressivo, inoperabile. Fu un reperto casuale: non era un fumatore, aveva gli esami in perfetta regola, per cui dovetti consultarmi con i colleghi oncologi. Chiesi: “Non è operabile, cosa dovremmo fare?” E loro mi consigliarono una chemioterapia molto aggressiva. Allora obiettai: “Forse potremmo anche aspettare un attimo, per valutare l’opportunità di un intervento del genere, anche perché è inoperabile, e visto che la persona appare in buona salute perché non aspettare?”. Il protocollo mi ricorda questo, il fatto che il collega disse: “No, i protocolli dicono che questo è l’intervento da fare”. Già dopo la prima seduta di chemioterapia io vidi il paziente abbastanza debilitato; e per farla breve, questa persona morì tre mesi dopo l’inizio della chemioterapia. Questo per me è il protocollo: è questo orrore, l’orrore del fatto che, visto che ci sono delle regole che 24 prescrivono effettivamente che quando scatta una soglia allora si deve fare una certa cosa, poi non si fa una valutazione generale, non ci si assume la responsabilità di dire: “Non lo faccio fare”. E quando il paziente muore, si dice: “Il protocollo diceva che questa era la cosa giusta”. Invece l’analista, ogni volta che compie un atto, prende una decisone che è sempre fuori protocollo, che non scaricherà mai su di un protocollo. Ovviamente le questioni del mio esempio riguardavano un’istituzione: ma io lavoro anche in una istituzione, e sono quasi sempre fuori protocollo, e non ho nessuna delle mie carte in regola. Allora, la questione fuori protocollo per me significa questo: che ciascuno si assume la responsabilità del proprio atto. Allora, chi è questa Daniela, come ci appare? Riprendiamo lo schema del “discorso del maître” e del discorso dell’inconscio. Diciamo: che tipo di soggetto è questa Daniela? Se noi pensassimo dal punto di vista di tre figure diverse, il neurologo, lo psichiatra e l’analista, potemmo vedere tre tipi di soggetti diversi. I significanti della paziente si rappresenterebbero in maniera diversa nei confronti di tre rispettivi saperi: il sapere neurologico, il sapere psichiatrico e il sapere psicoanalitico – anzi, diciamo inizialmente sapere psicoterapeutico, che poi vorrei distinguere da quello psicoanalitico. Per un neurologo innanzitutto – ed è qualcosa che viene un po’ adombrato anche tra i dubbi che avanzava Antonella – una persona del genere sembra rinviare un poco, con i suoi significanti, ad una situazione deficitaria, sembra una persona che presenta un deficit. Il deficit, lo dice la parola stessa, ha un correlato, diciamo così, una risonanza (anche se poi a un esame autoptico non è che il cervello di un soggetto deficitario risulti spesso diverso da quello di un soggetto cosiddetto normale), il deficit allude quasi sempre ad una mancanza di tipo organico. Quindi, per il sapere neurologico, quella strutturazione bizzarra, significante di questo soggetto, alluderebbe ad un soggetto che non è il soggetto psichico di cui noi ci occupiamo: il soggetto di cui parla la neurologia è ovviamente il sistema nervoso centrale, quindi il deficit del soggetto è quello che colpisce il sistema nervoso. Per lo psichiatra, per il sapere psichiatrico, il soggetto qual è? È l’apparato psichico, un apparato psichico che spesso si dichiare come nel DSM, e viene visto come teoreticamente ateoretico, nel senso che non implica effettivamente una localizzazione, una sede, e perciò si parla di dissociazione psichica. Un soggetto del genere può essere visto come “dissociato”. Dissociato: che significa per uno psichiatra, diciamo così, “free”, sciolto, non legato a nessuna scuola? Significa nient’altro che la riduzione della sostanza, dell’essenza, al fenomeno. La dissociazione psichica è quella che si esprime attraverso un comportamento e un eloquio dissociato. Da un certo punto di vista è la tradizione bleuleriana: Bleuler, voi sapete, è il creatore del termine “schizofrenia”, ha avuto una certa influenza perfino su Freud, e però ha creato una sorta di mostro all’interno del sapere psichiatrico; e questo mostro è, se vogliamo, una sorta di misto tra psicanalisi e psichiatria. Però, anche di questo non possiamo parlare, e ve lo accenno soltanto. Quindi, riepilogando: il soggetto della neurologia è il sistema nervoso centrale; il soggetto della psichiatria, invece, è uno psichismo di cui nulla si sa, e che in effetti non è nient’altro che una sorta di metafora di quello che appare alla superficie: un comportamento dissociato, o un eloquio dissociato, viene tradotto in dissociazione psichica, ma che cosa questa sia non si sa. Mentre la fantasia della neurologia è che uno apra il cervello, e alla fine ci trovi la rotella mancante – il cervello più piccolo, qualche zona diciamo così lesa – per la psichiatra pura, per la psichiatria a-teoretica non c’è niente di tutto questo, e allora dissociazione psichica non è nient’altro che una metafora, un’essenzializzazione di quello che appare alla superficie, cioè quel comportamento che, per noi che ci definiamo “normali”, è dissociato, quel linguaggio, per noi “normali”, dissociato. Per lo psicoterapeuta, invece, è qui che la cosa inizia a diventare interessante. È un po’, lo abbiamo detto precedentemente, quell’operazione che non fa Antonella, ma l’assistente sociale. Per lo psicoterapeuta, le peculiarità e bizzarrie della paziente, le incoerenze nelle sue risposte, rinviano a un messaggio da interpretare: “tu in realtà dici delle menzogne, predichi bene e razzoli male, dici una cosa e poi ti comporti in un altro modo, etc. etc.” Questa è una via, diciamo così, psicoterapeutica e non psicoanalitica: è una via che inizia a diventare egualmente pericolosa e molto improduttiva, specialmente con quei soggetti che non si inscrivono puramente e semplicemente 25 all’interno di un percorso strutturato come un linguaggio, ma vi resistono. Ecco, la dissociazione psichica non è nient’altro, spesso, che l’effetto sull’osservatore dell’incapacità di capire quello che si verifica a livello dell’osservato: “dico che è un dissociato psichico il soggetto di cui io non capisco niente”. E allora, nella dissociazione psichica, c’è questo effetto, diciamolo tra virgolette, “controtranferenziale”: “io non ho capito niente, e tu sei un dissociato psichico”. Questa è la questione. Consideriamo invece la nostra posizione, rispetto a questo: e innanzitutto ritorniamo alla posizione dell’inconscio. “Posizione dell’inconscio” significa che l’inconscio non è l’inconscio della psicoanalisi selvaggia, quello che viene restituito a botta e risposta, ma è un luogo che attende che si mostri qualcosa del soggetto, del linguaggio del soggetto reale. Qui, c’è la grande questione che devo introdurre, dell’inconscio reale, ed essendo questa un’introduzione non la esauriremo certamente. La posizione dell’inconscio è quella posizione di cui dicevamo prima: “Ti credo, anche se non ci credo”. Per meglio dire, in questo caso: “Anche se non ci capisco niente di quello che tu mi dici, io comunque ti credo, credo che tu stia tentando di dirmi qualcosa. Non ho nessuna fretta nel restituirtela, questa cosa che mi stai dicendo, e se non capisco, non ho fretta”. Su questo, dopo, magari diremo qualcosa a proposito del libro di Colette Soler, o lo faremo in un’altra occasione. “Sono quel luogo, pongo davanti a te la possibilità di accogliere il tuo discorso, e di far sì che effettivamente nasca qualcosa a livello del soggetto, del soggetto di discorso, del soggetto reale, qualcosa che si manifesti, in parole o in forma diversa, in te, e che infine possa restituirti il benessere”. Perché in fondo il lavoro analitico questo dev’essere: un certo lavoro in direzione di un benessere, non diciamo di una guarigione, ma di un benessere che faccia “corpo”, faccia coppia con un “ben-dire” e però non si riduca a questo “ben-dire”. Si riduce, se vogliamo, al punto di arresto (credo che stamattina qualcuno facesse una citazione, forse era Marco, che parlava dell’obiettivo di un’analisi come il trovare una forma di identificazione al sintomo che per il soggetto sia maggiormente vivibile: ecco, questo è un benessere che possiamo dire) in cui il soggetto trova un sintomo maggiormente vivibile, un sintomo maggiormente sopportabile, in uno stato dell’essere che è comunque sintomatico. Non ci dimentichiamo degli “Studi sull’isteria”, il famoso scritto freudiano preanalitico, di quella famosa chiusa in cui Freud parla del percorso della psicoterapia (non si chiamava ancora psicoanalisi), della psicoterapia dell’isteria (così si intitola uno dei capitoli che lui firma) come di un passaggio dalla miseria nevrotica – anzi lui diceva dalla “miseria isterica” – alla “comune infelicità”. Questo era il passaggio, questo il è percorso. Che è un percorso di miglioramento, perché l’effetto di ricaduta in termini di benessere, di soddisfazione – altro termine forte che adopera Colette Soler – questo dev’essere evidenziato, contro l’idea che l’analisi sia un percorso che non ha niente a che vedere con il miglioramento fisico, che risulta molto nociva per la psicoanalisi, secondo me. Effettivamente il percorso psicoanalitico – e ciascuno poi, sulla base della propria esperienza personale, ne può veramente testimoniare, al di là dell’esperienza che fa come terapeuta – deve essere un percorso in cui ci sia della soddisfazione, del benessere, ci sia un progresso, i cui effetti di ricaduta soggettivi ciascuno porta su di sé e di cui testimonia. E però, come questa cosa si realizzi, questa è la questione grossa del protocollo. Protocollo, si diceva, che effettivamente, attraverso le interpretazioni, scioglieva qualcosa, e alla fine, come si dice a Napoli, tutto finiva a tarallucci e vino, e le cose andavano meglio. Nel nostro caso, come si articola il percorso di “soggettivazione”? Certo, questo è un soggetto molto particolare, e adesso cercheremo di definirlo meglio: è un soggetto che ha una struttura chiaramente di tipo psicotico, qui non c’è alcun dubbio, è un soggetto psicotico d.o.c., e lo era anche prima che si scatenasse una sintomatologia positiva. Colette Soler parla dell’inconscio reale avvicinandolo al nucleo psicotico della clinica kleiniana. Lei stessa dice: “Io mi meraviglio sempre dei colleghi che si scandalizzano quando si parla del nucleo psicotico, e si ribellano”. In realtà, l’inconscio reale potremmo dire che è il nucleo psicotico del soggetto. Tutta l’elaborazione dell’inconscio reale nasce in parallelo con quello che Lacan ha detto del significante nella psicosi. Cioè, l’inconscio reale funziona un poco come il significante nel reale per la psicosi. Sono degli “uno” che non fanno effettivamente catena, 26 cioè a cui manca quella funzione che Lacan chiama il capitonnage, l’impuntitura fornita dal tessitore attraverso il punto di capitone, che nel nostro caso è il Nome del Padre. Il Nome del Padre è ciò che effettivamente riesce a fare il punto della situazione, punto anche nel senso del “punto di capitone” che, come voi sapete, è il punto del materassaio, il percorso che il materassaio fa riprendendo indietro la tessitura del materasso. Il punto di capitone si mostrava anche nel grafo del desiderio, che vi ho mostrato prima: la funzione di capitonnage è quella di attribuire al “prima” il senso del “poi”. Non posso parlare molto del punto di capitone, perché se no non ne usciamo più: ci sarà sicuramente un'altra occasione, e questo per la serie: “è difficile cominciare dall’inizio, e non andare ancora più indietro”, e se ci mettiamo a parlare del Nome del Padre, non ne usciamo più. Il nostro, dicevo prima, è un soggetto molto particolare, e però io credo che la nuova clinica ponga dei problemi della clinica della psicosi. Io credo che inizialmente la clinica delle nevrosi ha insegnato molte cose alla clinica della psicosi: per cui, voglio dire, Schreber viene analizzato, anche se solo come testo, da Freud sulla base di quello che Freud stesso ha scoperto nella clinica delle nevrosi. Così poi è accaduto per la clinica postfreudiana, con la Klein, ad esempio. Lacan stesso inizialmente lavora con la psicosi sulla base della psicoanalisi nata come clinica delle nevrosi. Io credo che oggi la clinica dell’inconscio reale permetta alla psicosi di restituire il debito che aveva nei confronti della clinica delle nevrosi: cioè, la psicosi adesso insegna alla clinica a lavorare con soggetti che psicotici non sono, e che però hanno quello stesso inceppo nella strutturazione linguistica che si mostra, per ragioni di struttura, a causa della preclusione del Nome de Padre, nella clinica delle psicosi. Detto in soldoni, adesso lavorare con molti soggetti cosiddetti affetti dai nuovi sintomi, significa imparare dalla clinica delle psicosi come si lavora con il significante nel reale, con il significante fuori catena, con il significante, diciamo così, isolato, con il significante che non si aggancia ad altro, che non mostra l’azione effettiva del Nome del Padre. Come si fa? Lavoriamo un po’ sul caso. Vediamo le occorrenze del caso per mostrarne i punti forti. Ecco – qui seguo un poco le mie sottolineature – per esempio nella prima pagina, verso la fine del primo paragrafo, scrive Antonella: “Quando Daniela accompagna i figli sulla porta […] mi colpisce la sua costanza nell’avvicinarsi ogni volta e “tentare” di dire qualcosa”. Ecco, qui c’è questo “tentare”, e mi piace sia scritto tra virgolette, perché effettivamente mi sembra che in questo “tentare” si adombri un po’ la questione che Lacan pone all’inizio di quel testo che in italiano è stato tradotto molti anni fa in Scilicet 1-4, curato da Armando Verdiglione, come “Lo stordito” e che in realtà si dovrebbe tradurre con “Lo Stordetto”. Nel titolo francese, “L’Étourdit”, c’è infatti un gioco di parole tra étourdi, senza t, che significa “stordito”, e dit, che significa “detto”: quindi, “lo stordetto”. L’esordio di questo testo è celebre, e allude alla funzione del “dire” al di là del “detto”. Dice: “Che si dica resta dimenticato dietro ciò che si dice in ciò che s’intende” C’è quindi una funzione del dire che eccede il detto. Qui, nel caso clinico, nel “tentare di dire” mi sembra che si adombri una differenza che è importante tra le due funzioni del “detto”. Diciamolo banalmente: quella del comunicare, quella del significare, e quella dell’alludere ad altro rispetto al campo della significazione, quindi al campo del linguaggio. Quella dell’alludere agli altri significanti, che ovviamente apre lo spazio all’interprete rapido che dice: “Volevi dire questo? O vuoi dire quest’altro?” Alla mamma, in quel caso, che lo “nguee” lo etichetta subito come: “Voglio mangiare, voglio bere”, e comunque gli vuole dare forzosamente un significato. Qui ci sarebbero tante considerazioni da fare in campo educativo, quando effettivamente si vuole troppo riportare nella significazione qualcosa che forse, in alcuni momenti, deve rimanere fuori, non deve essere necessariamente significativa. Appunto, è in gioco questo “fuori”: la “funzione comunicativa” si oppone ad un’altra funzione, che, molto brutalmente, possiamo bollare come la “funzione di godimento”. Funzione di godimento – e ci vorrebbe una lezione intera per dire cosa sia il godimento in Lacan. Il godimento in Lacan è funzione del reale: è funzione del reale, e dunque non è qualcosa che passa attraverso la significazione. Se vogliamo, e in termini che non piacerebbero per niente a Lacan, ha a che fare più con qualcosa che il primo Freud avrebbe collegato al livello energetico che non al livello ermeneutico (e mi vengono in mente i termini che Ricoeur adopera proprio a proposito di 27 Freud: energetica ed ermeneutica). Non attiene tanto al livello ermeneutico, quello dell’interpretazione, in Freud, ma al livello energetico, quello che ha a che fare con il legame diretto con il reale, con un reale che vuole esprimersi, che vuole significarsi. Ma la significazione del reale non è la stessa significazione del linguaggio, cioè non allude ad un altro significante che lo interpreti: come dicevo – e questo è un termine che rinvia molto alla teoria delle psicosi – è una significazione assoluta, cioè non mediata da altri significanti. È quella significazione assoluta che certe volte si esprime nel comportamento. Tanti soggetti, la clinica ce lo insegna, ci dicono: “Lo faccio, e non so perché lo faccio.” Qui si colloca, effettivamente, il lavoro analitico: cercare di trovare le parole per dire le ragioni per le quali un soggetto fa quel che fa. C’è un aspetto di reale, c’è un aspetto che appunto collego all’energetica, c’è un aspetto immediatamente espressivo, che ha a che fare, quindi, con quel residuo che la parola materna non ha imbrigliato quando ha nominato lo “nguee” del bambino come “ho fame, ho sete, ho sonno”. Un residuo d’insoddisfazione che già per il primo Lacan è quello che poi genera il desiderio, ed è proprio il desiderio quello che sfugge dalle maglie della significazione. Il desiderio nasce dal fatto che il mio “nguee” è stato interpretato, per esempio, come “ho fame”: certo, il bambino emette questo “nguee”, la mamma gli dà il seno, e il bambino magari è anche contento, o meglio si accontenta. Succede anche a voi: se vi pestano un piede, vi fa male; poi vi danno mille euro in mano, e voi siete contenti, e non vi lamentate più: però il dolore non vi passa, rimane. La lettura da parte della mamma, diciamo così, può otturare, ma non azzerare definitivamente quel reale che lo “nguee” esprimeva. Allora, tornando al caso, c’è un “tentare” di dire qualcosa che non deve essere ridotto a un dire significantizzabile, esprimibile come un rapporto soggetto-predicato-complemento, ma che deve essere lasciato disperdersi, esprimersi, articolarsi. Credo che nella clinica l’analista debba fare un paio di cose fondamentali. La prima, per l’appunto, è di porre l’inconscio, cioè porre il luogo di accoglimento del soggetto altro, che sia il soggetto reale o il soggetto del significante. La seconda: deve dar tempo al tempo. Come diceva anche l’ultimo Lacan: “Per un’analisi, ci vuole tempo”. Ci vuole tempo. E se questa, secondo me, è una cosa molto vera nella terapia delle psicosi, serve tantissimo anche nella terapia delle nevrosi: ci vuole tempo per permettere al soggetto di organizzare le proprie soluzioni. Il che non è una cosa facile, specialmente per la terapia delle psicosi, ve lo garantisco: difendere il soggetto da tutte le interferenze, soprattutto quelle farmacologiche, ma anche da tutte le interferenze che impediscono al soggetto di trovare la propria soluzione, ecco, è cosa difficilissima per l’analista. Per questo, come vi dicevo, io al servizio pubblico non ho mai le carte a posto, non scrivo mai quello che mi dicono i pazienti, diciamo i loro fantasmi, o le loro minacce agli altri, o quello che magari, per stare con la coscienza tranquilla, qualcuno scriverebbe, passando anche a decisione del tipo dei ricoveri coatti, ecc. L’analista è anche quello che si deve assumere la responsabilità, ovviamente fondandosi sul suo sapere, sapendo quello che fa, e avendo anche una certa esperienza: deve permettere al soggetto di articolare la propria soluzione, anche se questa passa attraverso minacce, atti che potrebbero anche alludere a qualcosa di peggio, cose che poi, per la più gran parte delle volte, non hanno seguito. Il soggetto deve avere tempo, deve avere il tempo di articolare la propria soluzione, e l’analista è anche colui che permette al soggetto di avere questo tempo: glielo permette, gli dà lo spazio di esprimersi. C’è un fenomeno che nella clinica moderna si verifica spesso, ed è una delle difficoltà della nostra clinica, e chi ha una sua pratica lo sa bene: il soggetto parla, ma quando il terapeuta, quando l’analista interviene per dire qualcosa, spesso la sua parola cade nel vuoto. Il soggetto vuole continuare a dire, a dirsi senza cogliere altro. Quando il soggetto fa così, effettivamente gli si deve lasciare il tempo di articolare una vera domanda, una domanda con il punto interrogativo, una domanda che davvero attenda la risposta, e non si limiti invece a ripetere questioni che si vede bene che non vogliono la risposta, vogliono solo il tempo di avere lo spazio e una possibilità di articolarsi. R. Gerbaudo: E se la soluzione è perversa? Dare tempo per trovare le proprie soluzioni, il soggetto che sa dire le sue parole. Però, siccome parliamo d’inconscio reale, potrebbe essere anche una 28 direzione perversa della soluzione? F. Marone: Io sono particolarmente attento alla perversione. Voi forse lo sapete: a Napoli abbiamo fatto un volume sulla perversione, e io ho alcuni pazienti perversi. Recentemente sto seguendo un caso di necrofilia, su cui ho scritto qualcosa. Per me la questione della perversione è una questione importante, però per me la perversione non è tanto una questione di atto: per me la perversione è una questione di posizione del soggetto in rapporto all’altro. Il perverso non è quello dell’atto perverso. Spesso in analisi l’atto perverso si limita a un dire perverso, cioè a dire un fantasma perverso, e il fantasma perverso è tipico di ogni soggetto nevrotico. Il soggetto nevrotico ha un fantasma sempre perverso, perché il fantasma è strutturalmente perverso, in quanto legame tra un soggetto e un oggetto. Si tratta di un tratto perverso che permette il recupero di quel godimento che è inevitabilmente perso, alla nascita, da parte del soggetto. Quindi questa perversione è solo nel fantasma, è nella fantasticheria che io mi faccio di recuperare ciò che mi è stato sottratto. E quando lo dico è ancor meno perverso, perché nel dirlo io in una certa misura lo storno dall’azione. E del resto si dice: “Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”. In effetti il dire perverso è spesso un modo di fare passare in parole ciò che non si realizzerà mai. Il vero perverso in realtà dice molto poco della sua perversione, ma piuttosto la realizza. La perversione non è nel dire, e ovviamente ciò che si verifica fuori dallo studio dell’analista è affare del soggetto: quello che si può fare nello studio, sia quello pubblico che quello privato, è cercare di incidere attraverso il significante nel reale, per mezzo dello scambio che si verifica all’interno dello spazio analitico. All’interno di questo spazio, la perversione ha un senso diverso da quello dell’atto perverso: in genere, il soggetto perverso è colui che si fa, classicamente secondo Lacan, mezzo o strumento del godimento dell’altro. Che cosa significa farsi mezzo o strumento del godimento dell’altro? Il soggetto perverso, il soggetto che viene a dirvi che vuole compiere un atto perverso, se lo fa è innanzitutto per angosciarvi. Per il soggetto perverso che viene in analisi, la diagnosi di perversione sotto transfert la si fa proprio in questi termini: si tratta del soggetto il cui unico scopo è quello di farsi mezzo o strumento di godimento dell’Altro, ossia – detto più semplicemente – di turbare l’altro. Si tratta del soggetto che ti deve angosciare, ti deve fare nauseare con i suoi racconti, ti deve fare preoccupare o ti deve fare eccitare. È questo il vero soggetto perverso. Lo scopo del discorso, per il soggetto perverso, non è narrarsi, non è cercare una propria soluzione, ma piuttosto provocare un effetto nell’altro. Questo, la clinica lo mostra molto bene, ed è questa la perversione in analisi. Per tutto il resto, abbiamo a che fare con tratti di perversione, come dice Freud nello scritto “Un bambino viene picchiato”. Parliamo allora degli atti importanti che fa Antonella. Una volta detto che il fuori protocollo è la cornice importante della sua funzione analitica, in questa situazione l’atto è, innanzitutto, quello di aprire uno spazio. Come abbiamo detto prima: “Non ci credo, ma ti credo”. Rispetto all’assistente sociale, che le dava della bugiarda, Antonella le dà credito, sconfessa l’appellativo di bugiarda e quindi apre uno spazio in cui il soggetto si possa dispiegare: accoglie la domanda rivolta a lei. Si tratta, in effetti, della questione della domanda, la domanda, diciamo così, di psicoterapia o di analisi, come la vogliamo chiamare. Anche perché io preferisco dare al termine psicoterapia non l’accezione negativa che spesso si dà a questo termine in analisi (qualche volta meritatamente), ma quella larga, che gli dà lo stesso Freud, che appunto parla di psicoterapia dell’isteria: la psicoterapia dell’isteria, precursore della psicoanalisi. Quindi per me la psicoterapia è il tipo di psicoanalisi che un analista, inserito in una certa situazione, si può trovare a erogare. Antonella accoglie questa domanda, senza inviare la paziente alle colleghe. In realtà è una cosa molto difficile, e a me personalmente non è mai riuscito di inviare a un altro analista una persona che aveva fatto una domanda a me. Alla persona che mi fa una domanda di analisi che io non posso accogliere, se io le dico: “Non ho spazio, però le posso indicare un altro collega”, ecco, per quel che so, non è mai accaduto che qualcuno abbia accolto un suggerimento del genere. La domanda deve essere accolta, per così dire, personalmente: se c’è una domanda, e se è importante che la domanda venga accolta, è lo stesso terapeuta che deve farsene carico, sapendo che, se la indirizzerà a qualcun altro, la più gran parte delle volte – almeno parlo della mia esperienza personale – questa domanda 29 probabilmente si spegnerà, non avrà l’esito sperato. Un’altra immagine del caso che mi sembra rappresenti bene il quadretto di molti pazienti che oggi si presentano, è ciò che accade nel fine seduta della prima parte dei colloqui della paziente, quando, dopo aver parlato per tanto tempo, alla fine della seduta pone le questioni importanti. Sulla soglia dice: “Che cosa devo fare con i miei genitori e con il mio compagno?” Sono domande, ma che spesso – accade anche qui, e Antonella l’ha colto – non implicano una risposta immediata: sono domande che in una certa misura fanno legame, e qualche volta significano anche una certa resistenza a uscire, significano anche: “Vorrei stare ancora, di più”. Sono domande che significano “Non separiamoci”. Le traduciamo in termini così banali tanto per intenderci, per dire, come accennavamo prima, che effettivamente tra il “dire” e il “detto” c’è un fossato che non deve essere rapidamente colmato. Antonella lo coglie, e non riduce puramente e semplicemente quel dire alla formula: “Ha un ritardo cognitivo”, o, come si dice, al “Ma allora è scema”. Questa è una questione che, oltretutto, ha un aspetto psicoanalitico importante: nella teoria freudiana non c’è spazio per l’insufficienza mentale, come non c’è spazio per il deficit. Diciamo che in psicoanalisi l’unico spazio possibile per questa difficoltà, diciamo così, di articolazione della catena significante, è una certa forma di resistenza al sapere, una resistenza che non è sempre sul versante del soggetto del significante, ma qualche volta ha a che fare con il soggetto reale, quindi con un certo modo di rapportarsi del soggetto al significante tout court, ma che è comunque in questi termini, e non in termini di deficit, che deve essere vista. Ancora – e questa è una constatazione che Antonella fa e che mi sembra importante: lei fa l’esperienza che i suoi interventi non sembrano chiarire le cose, ma anzi inizialmente sembrano aumentare la confusione. Questo si pone sul versante di quel che io dicevo: c’è bisogno di tempo, cioè c’è bisogno che al soggetto venga dato il tempo di articolare la propria questione, senza metterci dei significanti che lo confondano. Perciò la buona lezione di tacere il più possibile, in analisi, resta comunque sempre valida: perché chi tace dice meno sciocchezze possibili. Resta comunque una questione molto importante, che ciascuno deve sempre avere a mente: che l’analista di sciocchezze ne fa sempre tantissime! Per questo motivo Lacan diceva: “C’è dell’analista”. Nelle pagine degli Scritti, ne “Il soggetto finalmente in questione” c’è infatti un passaggio dove dice: “… che ci sia dell’analista…”. Con questo partitivo, “dell’analista”, Lacan intende che nessuno è un analista a tutto tondo, 365 giorni all’anno, 24 ore su 24: l’analista è una funzione che un individuo riesce ad esprimere una volta ogni tanto – magari una volta al mese, oppure ogni due o tre mesi – quando fa qualcosa di buono! Prendiamola sul serio, questa cosa, perché c’è un reale dell’analista che è in gioco. È con il suo reale che l’analista deve innanzitutto saperci fare: anche l’analista è un soggetto dell’inconscio, dice delle sciocchezze, fa dei lapsus, fa degli atti mancati, ha dei propri sintomi. Un buon analista è quello che riesce ad utilizzarli. Lacan e Freud, se voi conoscete la loro biografia, facevano, come si suol dire a Napoli, cose da pazzi. Facevano di tutto e di peggio, con ciò che era il loro reale, e però ci sapevano fare, in maniera molto egregia, rispetto agli effetti di ricaduta del loro reale nel discorso del paziente. Si tratta di quell’atto analitico che precede il soggetto, quello che Lacan esprimerà anche dicendo che l’analista agisce spesso senza pensare: l’atto precede il pensiero, e questo fatto ha tante risonanze che non analizziamo in dettaglio. L’atto precede il pensiero, nel senso che l’atto è sempre, da un certo punto di vista, fuori protocollo. L’atto è sempre un azzardo, lo si sappia bene. L’atto è sempre fuori protocollo, è sempre un rischio, per quanto sapere un individuo abbia. Se un analista lo compie in seduta, siamo nella categoria dell’atto analitico, che, voi sapete, Lacan considera come un insieme più vasto all’interno di cui l’interpretazione freudiana classica è solo un piccolo evento. Quindi, se uno compie un atto del tipo: interrompere, troncare, procrastinare, differire una seduta, un qualsiasi altro atto, di quelli che facevano Freud e Lacan in seduta… Ci sono vari esempi: il cagnolino di Freud che passeggiava addosso al paziente, o alcune affermazioni di Lacan, come a un paziente gli diceva “Dottore, mi sento una merda” a cui Lacan rispose “Ma lei è una merda!” Ecco, dicevo, rispetto a cose del genere, la questione non è il prevedere, il sapere esattamente che cosa un atto del genere scatenerà: la questione importante per l’analista è saperci 30 fare con le conseguenze dell’atto, sapere gestire quel sommovimento che l’atto deve necessariamente provocare nell’altro. Perché l’analisi non è un riposino, non ci si stende sul divano per dormire: e allora la risonanza dell’atto ovviamente va valutata. Nelle sedute, Antonella, dicevamo, si accorge che le sue interpretazioni provocano confusione, il suo dire provoca confusione: in questi casi è bene fare un passo indietro, e permettere al discorso del soggetto, che è già così arduo da articolare, di trovare un altro po’ di tempo perché si proponga in termini diversi, che forse permettono di offrire un aggancio alla parola dell’analista. Infatti, nel testo del caso, c’è anche un bel rilievo controtransferenziale, dove si dice: “Devo fare un grosso sforzo per tollerare la mia stessa confusione, nel mettere in ordine i fatti che la paziente racconta”. Questo è vero, accade certe volte per l’interpretazione, egualmente per tanti atti dell’analista, come del terapeuta in generale. Mi ricordo che un mio docente di psichiatria, Antonio D’Errico, che scrisse un articolo che si chiamava: “Il farmaco assunto in fantasia”, il cui succo era che effettivamente il farmaco dato a un paziente era spesso un farmaco che assumeva lo stesso terapeuta “in fantasia”, perché tranquillizzava lui stesso, rispetto agli atti che il paziente avrebbe potuto fare. E io so che la gran parte della clinica psichiatrica si fa con questo spirito: ”Io devo stare tranquillo, e poi devo tenere le carte a posto e devo seguire i protocolli ecc. ecc.”. Qui, invece, c'è l’idea che l’analista deve tollerare la confusione dell’altro, deve tollerare l’angoscia che l’altro trasmette – non solo l'angoscia, diciamo così, derivante dai fatti suoi, ma anche da quei fatti suoi che potrebbero diventare fatti nostri, e cioè: “se quella esce e combina questo e quest’altro, poi come va la situazione?” Allora, è importante che qui si faccia questo rilievo. Mi piace questo caso, ripeto, perché mostra un’evoluzione molto limpida, guidata da alcune buone idee: quando gli si dà del tempo, il paziente in una certa misura si “istorizza”. Voi sapete che Lacan ha creato il termine “hystoire” con la y che, diciamo così, è una sorta di ibrido tra “histoire”, con la i, che significa “storia”, e “hystérie”, “isteria”: quindi potremmo dire “la storia isterizzata”. Io ho adottato la formula “istorizzarsi”, che è un misto tra “storicizzarsi” e “isterizzarsi”. La storia è sempre, in una certa misura, un’invenzione, una narrazione isterica, il romanzo familiare del nevrotico, un romanzo, come dicevano in varia misura Freud e Lacan, una storia che ci si racconta; la storia che si scrive per sé è sempre una storia un po’, diciamo così, sintomatica, che non corrisponde necessariamente, come dicevamo precedentemente, alla realtà storica vera e propria; porta molti elementi soggettivi, molti elementi sintomatici che, però, sono importanti. Un’istorizzazione nell’analisi è sempre un elemento importantissimo, quando questa possa farsi: nell’analisi dei nevrotici è indispensabile, nell’analisi dei psicotici quando è possibile che si faccia, quando è possibile che si racconti il proprio mito individuale, il proprio romanzo familiare. In questo caso, ovviamente, c’è una certa “formazione di compromesso”, perché il soggetto, almeno per quella che è la mia diagnosi, è un caso di psicosi di tipo paranoide: è una psicosi paranoide, e questo mi pare evidente da alcune cose che poi sottolineerò. In questo caso si vedono gli elementi di una storia ridotta all’osso, e l’osso fondamentalmente è quello degli amanti e dei persecutori. Non è che si capisca molto della storia di questa paziente: quello che si capisce è che ci sono alcune persone – che non a caso sono i genitori e il compagno – che si pongono rispetto a lei sull’asse immaginario. Non ho il tempo di schizzare lo “schema L” alla lavagna, perché penso che ci porterebbe troppo lontano: però sull’asse immaginario, non mediato dall’asse simbolico, noi vediamo le figure importanti dell’altro: i genitori e il compagno, che sono le persone con cui lei sta, e che però la vogliono strangolare, litigano con lei, l’hanno picchiata e sono, diciamo, i persecutori di cui lei ha bisogno, la croce che la fa stare bene, come dice lei: “la croce di cui ho bisogno”. E poi ci sono gli amanti, questi amanti mitici, il dio di cui diventerà sposa – particolare importante, importante anche per la terapia, che forse ha un piccolo risvolto rispetto a questo caso, e questo è un punto da problematizzare. In una terapia delle psicosi, il transfert è sempre o di tipo persecutorio o di tipo erotomanico, e se, così come diceva Freud per la terapia delle nevrosi, nessuno può essere sconfitto in effigie o in absentia, anche per la psicosi se nessuno può essere sconfitto in effige o in absentia, e questo si verifica anche per la perversione, anche se qui non ne possiamo parlare. Il terapeuta deve 31 necessariamente passare sotto questo giogo: quello che è il transfert negativo nella nevrosi deve diventare, nel caso della psicosi, almeno un transito in un transfert o persecutorio o erotomanico. L’analista non può rimanere troppo di lato, se effettivamente vuole portare a termine un’analisi di una psicosi: parliamo del transfert vero, che effettivamente trasforma l’analista nel “sintomo”, nel sintomo del soggetto; con questo ci deve saper fare. Al contrario, la tecnica che molto spesso si adotta in questi casi – parlo dei servizi pubblici in cui le cose si possono fare in questi termini – nel caso in cui il paziente ha un transfert persecutorio o erotomanico nei confronti del terapeuta, questi lo indirizza ad un altro collega, perché questo testimonierebbe che la cosa non va più bene. Ma questa è un’operazione sbagliata, secondo me, perché significa mettere da parte colui che è diventato un elemento importante per il paziente, e farlo seguire da un altro che spesso non riuscirà a fare assolutamente niente, perché il soggetto rimarrà catalizzato sull’altro che lo perseguita o lo ama alla follia: quindi, un’azione psicoterapeutica diventerà veramente impossibile. Sto parlando, ovviamente, di quei servizi in cui il versante psicoterapeutico è un versante importante, in cui non si ragiona solo farmacologicamente, altrimenti queste sono considerazioni superflue. Dunque, dicevamo la questione dell’istorizzazione. C’è già, precedentemente, la questione di un passaggio all’atto, anche se, diciamo così, più fittizio che reale: quella dell’assunzione delle pasticche di valeriana. Allora soffermiamoci un po’ sulla questione della diagnosi. Dicevamo: che cos’è che fa sì che la possiamo giudicare una psicotica, un soggetto psicotico? Banalmente, diciamo: qual è la caratteristica, la questione preliminare della psicosi? La questione preliminare, per riecheggiare il titolo del famoso articolo di Lacan – “Una questione preliminare ad ogni trattamento possibile delle psicosi” – che apre il secondo volume dei suoi Scritti, la questione preliminare è quella della preclusione del Nome del Padre. Allora, che cos’è la preclusione del Nome del Padre? Come si diagnostica la preclusione del Nome del Padre? Questa è una cosa su cui Colette Soler, in alcuni testi, si esprime molto nettamente, dicendo: la preclusione del Nome del Padre non è una cosa che si veda. Non c’è, potremmo dire, nessun cartello in cui ci sia scritto: “Soggetto psicotico - preclusione del Nome del Padre”! Questa è una cosa che si inferisce, ovviamente, si inferisce dagli effetti di questa mancanza. E come inferiamo effettivamente la preclusione del Nome del Padre in questo soggetto? Ci sono dei segni linguistici, quelli che per Bleuler sarebbero almeno due delle sue quattro A. Voi sapete che la diagnosi di schizofrenia, per Bleuler, si fa sulla base di quelle che vengono dette le quattro A di Bleuler, cioè: disturbo delle Associazioni e della Affettività, Ambivalenza e Autismo. Ambivalenza ed Autismo sono “sintomi” molto più sfumati, che possono dare origine anche ad interpretazioni, diciamo così, politicamente molto scorrette. Disturbi delle Associazioni e della Affettività, in effetti, sono quello che si evidenzia abbastanza palesemente in questo caso: il suo discorso pochi lo capiscono, certe volte fa dei risolini strani, delle risate che non si capisce bene dove vadano a parare, e dopo che si è parlato tanto, alla fine lei dice: “Allora mi devi aiutare a risolvere questo problema”, come se non si fosse parlato fino a quel momento proprio di quello. Questi sono dei segni, diciamo così, non conclusivi: i segni un po’ più forti, prima che emergano proprio dei fenomeni psicotici franchi, che saranno poi le allucinazioni che lei riferirà, diciamo così, come ascoltate, come nel passato, o i deliri veri e propri, quello di essere la “sposa di dio” e di dover morire per diventarlo. Prima di questo, però, è il suo stesso comportamento che, effettivamente, sembra mostrare un’assenza di quella che è la funzione del Nome del Padre, che è quella di offrire un appiglio forte al soggetto per orientarsi nelle sue scelte, nelle sue decisioni. Voi sapete che il Nome del Padre, in francese Nom du Père, è omofono con il Non du Père: il “Nome del Padre” è il “No del Padre”. Oggi si sottolinea molto la questione paterna come il “Sì del Padre”. È importante, però, che questo “Sì” non faccia dimenticare che il “Sì” può esistere solo su di una base in cui preesiste il “No”: è solo il “No” che rende possibile il “Sì”, così come in un universo in cui ci fosse solo il buio allora la luce non avrebbe alcun senso, il significante “luce” non avrebbe alcun senso; perché esista la luce deve esistere la alternanza tra la luce e il buio. Quindi, perché esista un “Sì” ci deve essere un “No” che consenta un appiglio. Il primo Lacan distribuiva le cose diversamente: il “No” era sul versante del padre, e il “Sì” era sul versante della madre. E qui il 32 No del Padre, che è il punto di appoggio del Soggetto, è il No secco, ciò che significa che effettivamente c’è un significante che non richiede un altro significante per significare: il No del Padre è il “No e basta”. Quando ero ragazzo io, c’era una canzone di Enzo Iannacci che diceva: “Ma perché? Perché no!”. Il “No del Padre” è questo “Perché no”, senza spiegazioni né ulteriori repliche, e questo è un elemento educativo importante per tanti bambini che continuano a ripetere, di fronte ai divieti: “Ma perché? E perché? E perché?” E’ importante che ci sia un “Perché no!”, che ci sia un arresto della catena significante, se no si va nell’analisi interminabile di Freud, cioè si può fare un regresso all’infinito nelle varie spiegazioni. Quindi ci vuole il no paterno: le spiegazioni ci vogliono, però devono avere un termine, ci deve essere un punto di arresto. In questo caso, il punto di arresto si vede che non c’è, e proprio nelle oscillazioni: in questo periodo Daniela, dice Antonella, compie una serie di azioni spesso in contrapposizione l’una all’altra, nel senso che, effettivamente, non c’è un punto di arresto che determina la separazione tra l’uno e l’altro campo. C’è una captazione a livello immaginario, quello che l’illustrazione dello “schema L” permette di esemplificare bene. Una captazione a livello immaginario, quello che la clinica non lacaniana definisce “la mancanza di confini tra sé e l’altro”. C’è un romanzo di Calvino, “Il cavaliere inesistente” se non erro, in cui c’è un certo Gurdulù che diventa tutte le cose che incontra per la propria strada, cioè si fa coniglio, pietra, fiume, cavallo, non ha limiti nei confronti dell’altro, incontra l’altro e vi si identifica immediatamente, non ha un punto di arresto a cui ancorarsi. In questo caso succede lo stesso, effettivamente. In più, ancora, un elemento molto importante è la sua posizione nei confronti dell’Altro. Possiamo disegnare questo semplice schema: Soggetto ------> Altro Soggetto <----- Altro Il vettore della nevrosi, diciamo così, è quello superiore, va dal Soggetto verso l’Altro, è cioè il tentativo di quello che poi Lacan dirà “rapporto sessuale con l’Altro”. Lacan dirà che non c’è rapporto sessuale con l’Altro, per. il soggetto cerca di averlo, cioè cerca, diciamo così, di copulare psichicamente con l’Altro, nel senso di entrare in contatto con l’altro soggetto, operazione destinata allo scacco. In un senso molto banale, il fatto che non ci sia rapporto sessuale significa tante cose, ma fondamentale significa quello che sapeva già Cartesio, cioè che ciascuno di voi, in questo momento, potrebbe essere un robot alieno che è stato messo qui a mio uso e consumo. C’è il film “The Truman Show” che rappresenta benissimo lo scacco alla questione del rapporto sessuale: attorno a Truman è tutto finto, è una messa in scena da parte dell’Altro di cui il soggetto non può sapere niente, perché io non so – per esempio – se, nel caso in cui io vi rompa la testa, dal vostro cervello usciranno una serie di rotelline che indicano che voi non siete veri, o altro. Perché, badate bene, io non posso entrare nella vostra testa. Se voi mi dite che avete apprezzato la mia relazione, non posso sapere se state dicendo il vero oppure mi state facendo un complimento e poi magari direte: “ma quello lì, che cretinate che ha detto”. È questa la questione: con l’Altro non si copula psichicamente, dobbiamo accontentarci degli oggetti che mentono. Il soggetto nevrotico, però, tende verso l’Altro, il vettore del soggetto nevrotico va verso l’Altro. Per il soggetto psicotico avviene la situazione assolutamente inversa, quella che Freud, nel suo scritto su Schreber, ha ben schematizzato: “è l’Altro che mi odia”, delirio persecutorio; “è l’Altro che mi ama”, delirio erotomanico. Sottolineo una cosa clinicamente importante: l’erotomania non è mai un grande amore del soggetto verso l’Altro; è l‘Altro che mi ama, e se io amo è perché l’Altro ama per primo. Questo è quello che De Clérambault aveva benissimo messo in evidenza: “è l’Altro che mi fa …”. È quello che si declina poi nell’ingiuria che spesso il soggetto sente pronunciare. Le ingiurie, diciamo così, le allucinazioni uditive dicono, in termini politicamente scorretti: “puttana, recchione”. Dicono: “l’Altro mi fa”, l’altro mi passivizza, gode di me. C’è una certa sodomizzazione psichica del soggetto. È quello che la clinica psichiatrica classica ha definito come “trasmissione del pensiero”, “furto del pensiero”: il fatto che l’altro ti penetri e ti metta qualcosa o ti 33 sottragga qualcosa, ma, comunque, tu sia oggetto dell’Altro. E lei è fatta oggetto: ci sono i colleghi di lavoro che se la fanno, Alberto che le mette le mani al collo, lei diventa un oggetto degli altri senza una soggettivazione di sé, e questo è molto evidente, è un discorso che come tale deve essere analizzato. Qua non ci interessa poi effettivamente che cosa sia successo, se veramente abbia giaciuto, se ci sia stata penetrazione o meno. Qui ci interessa effettivamente il discorso del soggetto, e la posizione che il soggetto ha all’interno del suo discorso: è questo che fa la diagnosi, la diagnosi è diagnosi clinica sotto transfert, che significa che quello che conta è quello che tu racconti a me, e non quello che ti è successo. Gli elementi che l’hanno un po’ compensata, e quelli che l’hanno un po’ scompensata. In relazione alla questione preliminare della psicosi, è sempre la questione paterna il problema della psicosi. Laddove manca il Nome del Padre, ciò che scompensa è quello che Lacan chiama l’incontro con “Un-padre nel reale”, che significa l’appello a una delle grandi questioni della vita, a cui il soggetto, in mancanza del supporto paterno, non può dare una risposta efficace e pronta. Un piccolo esempio clinico: chi lavora, come me, nell’istituzione pubblica sa bene che molti genitori, o parenti di pazienti, vengono e mi dicono: “Ah guardate, mio figlio, mia figlia stava benissimo fino a che …” Che cosa è successo? “È stato bocciato all’esame, oppure il ragazzo, la ragazza l’ha lasciato/a, il padrone gli ha fatto una partaccia, oppure è uscito con gli amici una volta, si è ubriacato, ha preso qualcosa, ha fumato e da allora sta male”. E allora la colpa diventa del ragazzo, della ragazza, del professore che l’ha bocciato o dello spinello che si è fatto: in realtà non è nessuna di queste cose qui. Effettivamente è l’incontro con le grandi questioni della vita, con tutte le cose naturalmente perturbanti – come “aspetta un figlio”, che si tratti di un uomo o di una donna – è l'incontro con le grandi questioni dell’esistenza che scompensa. Accade quello che succede a un oggetto fratturato, ma non ancora andato in pezzi: tu lo prendi in mano e si spacca, ma non perché tu l’abbia preso in mano, ma perché era già fratturato. Per la psicosi la questione è questa: c’è una causa, che diremmo occasionale, che è quella appunto dell’incontro con “Un-padre nel reale”. E poi c’è una causa materiale, che è la preclusione del Nome del Padre, il fatto che il significante paterno non è venuto al posto che gli spetta di diritto. Ed è per questo che io preferisco tradurre in italiano “forclusion” con “preclusione”: perché “forclusion” in francese non è un neologismo, ma è un termine della lingua, è un termine del diritto, un termine giuridico che significa, grosso modo, “impedire a un soggetto di diritto di venire al posto che gli spetta”. E questo termine, in italiano, si traduce con “preclusione”, mentre se noi lo traduciamo “forclusione” creiamo un neologismo nella lingua italiana che Lacan non ha voluto, perché Lacan non ha scelto di coniarlo in francese. Lacan ne ha creati molti, ma in questo caso non ha scelto un neologismo, ha scelto un temine del diritto. Questa è una posizione che è innanzitutto di Contri, il primo traduttore italiano di Lacan, ed è una posizione che io ritengo molto sensata. Ed è la preclusione del Nome del Padre la causa materiale. Ora, qui, data la preclusione, che cos'è che ha organizzato la paziente e che cos'è che l’ha disorganizzata? Se il problema si situa sul versante paterno – e si rivela nella passivizzazione della soggetto – la mia esperienza mi dice invece che il versante materno in genere ha sempre una funzione altamente compensante, e questo sia che si tratti di uomini, sia che si tratti di donne. Io ho tanti pazienti psicotici maschi che si organizzano molto bene facendo le mamme dei propri figli, facendo le buone mamme, non i papà: non dando la legge, ma accudendoli, e io una volta ho scritto, assumendomi una grossa responsabilità, una certificazione per un paziente paranoico molto grave, spesso aggressivo, che qualche volta sono stato costretto a ricoverare in trattamento sanitario obbligatorio, a cui la moglie separata voleva sottrarre completamente i figli, con cui invece il mio paziente aveva un rapporto stupendo. Lui si preoccupa, vive in funzione dei giorni in cui questi ragazzi vanno da lui. Io ho testimoniato che il fatto che lui fosse un paziente psicotico non escludeva che lui fosse un ottimo padre – l’ho dovuto dire in questi termini, magari non ha a che fare con la funzione paterna lacaniana, ma era per farmi capire dalle forze dell’ordine. E, in effetti, ormai questa è una cosa, diciamo così, di cui posso parlare a cuor leggero, perché sono passati alcuni anni, i ragazzi sono ormai maggiorenni, e il mio paziente non ha mai avuto dei problemi. 34 Anzi c’erano addirittura delle guardie del quartiere dove io lavoro che mi hanno detto: “Ah sì, io lo conosco, viene sempre a scuola dove anch’io ho i miei figli, è molto attento”. E questo, nonostante il fatto che quando si scompensava era molto violento, aggressivo. Però, la funzione materna era per lui una funzione decisamente compensante. Ci sono anche dei soggetti che, in effetti, il peso, la responsabilità dei figli, non riescono a sopportarli: nel nostro caso, invece, per la paziente mi sembra che il fatto di fare la buona mamma, in una certa misura, la abbia un po’ organizzata, e le abbia permesso di tenere. Così come anche “la croce” l’aveva abbastanza organizzata – il microcompito di tenere buono Alberto, di avere qualcosa di cui occuparsi che era, diciamo così, la croce Alberto. E in effetti, per quanto fosse fonte di sofferenza, era una sofferenza molto imparentata con il godimento lacaniano, cioè la faceva essere ed organizzarsi come soggetto. Un’altra cosa sul punto di vista diagnostico. Vedo che per la gran parte del suo discorso – e questo fa anche la differenza tra il soggetto nevrotico e il soggetto psicotico – lei parla dei genitori al plurale: è l’Altro genitoriale, come se non ci fosse una differenziazione, come se ci fosse un’indistinzione tra il côté materno e il côté paterno che, in genere, nei soggetti nevrotici sono invece sempre molto evidenziati. Anche quando il padre è assente dal discorso del soggetto nevrotico, anche quando si tace del padre la madre al contrario emerge. Qui invece sembra che il discorso coinvolga i genitori come la massa dell’Altro, dell’Altro genitoriale, in cui non c’è la differenza sessuale: c’è la massa dell’Altro e c’è un’aggressività che transita sul versante immaginario tra il soggetto e l’altro, con i rimproveri, le aggressioni. Però, che cosa è che la scompensa fortemente? È questo messaggio che le arriva quando le chiedono questa cosa molto, molto bizzarra: “Chi erano i suoi idoli di cui si sentiva schiava?” Mi sembra una questione molto curiosa, e che probabilmente non sarà stata espressa in questi termini... A. Loriga: Allora, in realtà, per quello che ci ho messo un po’ a capirla, in realtà sì: quindi sono più matti di lei! Perché il questionario, che poi lei a un certo punto mi porta, perché lei su questa famosa crisi di giugno continua a lavorarci, quindi lei, a un certo punto, mi porta il questionario e in effetti c’è proprio scritto così: “quali sono gli idoli dai quali ti senti schiava?”, nel senso degli idoli, come il Vitello d'oro di cui si legge nella Bibbia. F. Marone: Questo è molto importante, e dà anche una maggiore consistenza al trauma che lei subisce da parte di questa questione, perché è una questione che le arriva, diciamo così, attraverso una via che coinvolge non solo gli uomini ma anche Dio. Questa è una questione effettivamente molto delicata, così come le domande da parte dell’interlocutore, che erano domande di uomini, la confondevano. Qui si tratta di una domanda che passa attraverso il circuito divino: è ovvio che la confonda molto e la scompensi. Effettivamente, c’è un’istanza di significazione forte, a cui lei non sa trovare una risposta se non in queste forme francamente deliranti. A. Loriga: Tanto che, oltretutto, una piccola parentesi mi sembrava carina per dire che, in quel periodo là, siccome lei aveva collocato i figli come gli idoli, lei, in quel periodo, li voleva proteggere, li voleva mandare in collegio per proteggerli da se stessa. In quel periodo, lei stessa ha detto: “Li mando dalle suore siccome io devo morire”. Anche nel delirio, i figli li ha protetti. Poi non li ha mandati in collegio, però, c’è tutto un lungo periodo dove voleva metterli lì per proteggerli. M. Pacelli: Rischiavano di essere persecutori, rischiavano di passare identificati dalla parte dei persecutori... A. Loriga: Lei però intelligentemente li ha protetti... F. Marone: Da idoli, diciamo, a schiavisti: idoli di cui si sente schiava, quindi, idoli che diventano persecutori, certamente, e quindi effettivamente lei non può trovare… A. Loriga: Qui è scompensata da che cosa? F. Marone: Qui c’è l’incontro con Un-padre nel reale... M. Pacelli: Di un padre persecutore? F. Marone: Certamente, qui è l’equivalente... M. Pacelli: È schreberiana, in questo caso. F. Marone: Sì, è una questione schreberiana. Certo Schreber si scompensa perché sta per 35 addivenire a un posto troppo importante, nominato presidente della corte di appello di Dresda. Lei, invece, viene scompensata nel suo piccolo da una questione: non è il luogo importante in cui la vogliono mettere, ma il luogo importante da cui le arriva questa domanda; è una domanda troppo grande per lei da sopportare, e a cui non può che rispondere in questa maniera così delirante. Per salvarsi si deve trovare questo posto, diciamo così, eletto, un posto in cui effettivamente la sposa di Cristo si de-metaforizza, cioè lei diventa davvero la sposa di Cristo, e quindi Cristo fa anche le cose sporche con lei. R. Gerbaudo: “Ci prova!!” F. Marone: Ci prova con lei, le mette le mani addosso, diventa materialmente la sposa di Cristo. La funzione materna compensa il soggetto così come dei supplenti esterni, supplenti di tipo maschile: ossia, il compagno che è la croce che, però, le è necessaria; oppure, nella ultima fase, anche il padre si mostra come supporto comprensibile, le sue parole sono più comprensibili delle urla della madre. A. Loriga: Ma è molto recente questa cosa: per moltissimo tempo, sono stati “i miei” e basta, neanche i miei genitori, “i miei”. Nel discorso, da poco che io capisco chi è l’uno e chi è l’altro ed è recentissima questa questione del padre. F. Marone: Certo, è riuscita ad isolare nell’esterno un elemento, è riuscita a fare la differenza. M. Pacelli: Questo forse è anche correlato al fatto che il padre ha preso la decisione di andare al piano di sotto: questo inizio di distinzione è dovuto al fatto che forse questo padre ha preso una decisione rispetto a questa figlia... F. Marone: Una decisione, certo, questo ha fatto sì che si possa mostrare qualcosa di una funzione paterna discorsiva. Un’ultima cosa voglio dire, che sta un poco sul versante dell’inconscio reale, di cui non abbiamo parlato tantissimo oggi, e che è la questione della scatola. A. Loriga: La scatola è quando lei arriva, ad un certo punto, che non vede Alberto da tanto tempo e dice: “Io è come se avessi una scatola e quello che c’è dentro è là, le cose che erano dentro sono rimaste là e io sono persa”. Lei dice cosi: “Nella scatola non c’è niente perché le cose che vi erano dentro sono là”. F. Marone: Ecco, infatti, in genere che cosa è l’inconscio reale? Cioè, che funzione ha l’inconscio reale? L’inconscio reale, come dicevamo, esprime delle significazioni assolute, legate alle tracce di godimento lasciate dalla lingua materna nel soggetto, e che non sono ulteriormente interpretabili. Debbono essere recepite, accolte, valorizzate eventualmente, ma valorizzate nella loro funzione di godimento, non nella loro funzione di significazione. Colette Soler trae un esempio clinico da Freud, dallo scritto freudiano sul feticismo. Non so se voi conoscete l’esordio freudiano del testo sul feticismo: il primo esempio di feticcio che Freud fa è un esempio molto bizzarro, ed è un esempio che probabilmente riguarda l’Uomo dei lupi nella fase successiva alla sua analisi con Freud. Freud parla di un uomo che era affascinato dalle donne che avevano un certo scintillio sul naso, “Glanz auf der Nase”; poi, attraverso l’analisi, questa cosa risulta dipendere da una omofonia tra “Glanz auf der Nase”, cioè scintillio sul naso, in tedesco, e una delle lingue in cui il piccolo era stato cresciuto, e cioè l’inglese, laddove “Glanz auf der Nase” suonava un po’ come “glance at the nose”, cioè “sguardo al naso”, ed era un certo sguardo al naso che, diciamo così, calamitava l’attenzione del soggetto. In verità, questo esempio freudiano mi ha sempre colpito perché è un esempio molto poco perspicuo, molto poco evidente di feticcio e, però mi sembra un buon esempio relativo all’inconscio reale. Io chiesi interrogativamente a Colette Soler, al convegno di Roma, perché lei facesse questo esempio, che mi sembrava che attenesse molto alla classica metafora freudiana. In realtà “Glanz auf der Nase” era la metafora per via fonetica di “glance at the nose”, e il soggetto si faceva rappresentare dal secondo sintagma significante, “Glanz auf der Nase”, scintillio sul naso, ma in realtà, ciò che era l’S1, di cui l’altro era metafora, era “glance at the nose”, cioè lo sguardo al naso. Allora, se questo processo di sostituzione dello sguardo da parte dello scintillio è un processo che si opera all’interno dell’inconscio strutturato come un linguaggio, però il fatto che “lo sguardo al naso” dica il soggetto, cioè lo inchiodi, in effetti attiene maggiormente alla questione che riguarda lalingua, più che al linguaggio strutturato. Freud non offre una spiegazione ulteriore del perché poi 36 lo sguardo al naso fosse un elemento di attrattiva, e la poca perspicuità è data anche da questo: che la sostituzione di “glance at the nose” da parte di “Glanz auf der Nase” non aumenta la comprensibilità, né la aumenta il fatto di sostituire l’uno all’altro elemento. Non si capisce effettivamente qual è la determinazione di godimento che leghi il sintagma al soggetto: la sostituzione la si capisce sulla base di fonemi analoghi, ma perché il soggetto fosse attirato da uno sguardo al naso, questo non lo si capisce. Questo è un esempio che Colette Soler fa nel libro, ed è una questione che riguarda lalingua: c’è una determinazione attinente alla lingua materna attraverso cui si produce una formazione significante, come nel nostro caso può essere “scatola”. Queste cose la terapeuta fa bene a non interrogarle ulteriormente, perché qui per la paziente hanno una significazione assoluta, probabilmente attengono a qualcosa rispetto a cui non c’è un’opportunità di demetaforizzazione possibile, non c’è un percorso da fare in una catena significante. Sono dei suoni, sono delle cose che fanno la sostanza del soggetto, che il soggetto deve poter dire e che il terapeuta deve lasciare dispiegare senza forzarle sulla via della strutturazione, sulla via della significantizzazione. L’inconscio reale è un saperci fare con queste cose, permettere all’altro di dispiegare questi significanti e di farne un uso che non deve decidere l’analista, ma deve lasciare allo stesso soggetto. Ed è lo stesso soggetto che, nel nostro caso, attraverso le strade che le vengono aperte anche dal padre, sta riuscendo a separarsi un po’ dall’Altro. La separazione che si verifica alla fine è una separazione importante: finalmente può uscire da questo asse immaginario, in cui si muove prevalentemente Thanatos e un po’ Eros, perché c’è anche la sessualità del padre, che è pericolosa in alcuni momenti; c’è un percorso di separazione che, con l’aiuto della terapeuta, questo soggetto sta facendo, ed è anche grazie ai suoi interventi che ha avuto la possibilità di fare. I suoi interventi prudenti, che non hanno forzato la via del significante articolato, hanno permesso, invece, ai suoi significanti di dispiegarsi e di trovare le loro strade. R. Gerbaudo: La funzione della lingua è quella di far emergere questi significanti impastati di godimento, renderli linguistici non tanto per metterli in catena... F. Marone: Sì, certamente... S. Leali: Una domanda che mi ero preparata e mi rimane rispetto agli affetti de lalangue che, a fine analisi, mentre magari se siamo fortunati riusciamo un po’ ad identificare il sintomo, invece, la Soler dice, restano vivi come se fossero testimonianza di qualcosa di insaputo, questo mi aveva colpito molto… F. Marone: Certamente, qui ci sarebbe un capitolo grosso, perché in effetti – io l’ho detto inizialmente – qui ho parlato molto come Fulvio Marone, prendendo e facendo il nano sulle spalle del gigante Colette Soler, dando un’interpretazione anche mia. In effetti, per Colette Soler l’inconscio reale è molto legato alla fine dell’analisi: lei lavora moltissimo su qualcosa su cui non possiamo ora molto soffermarci, cioè la prefazione all’edizione inglese del Seminario XI, che comincia dicendo: “quando l’esp di un laps, cioè lo spazio di un lapsus, non ha più alcuna portata di senso, o interpretazione, allora siamo nell’inconscio reale”. Che significa – traducendolo in termini banali – che quando si è attraversato bene e compiutamente tutto il mare, l’universo dell’inconscio strutturato come linguaggio, si approda sulle spiagge dell’inconscio reale: si è esaurito lo spazio del senso e della interpretazione, e si approda su quei significanti che non hanno né senso né interpretazione. Questo approdo è la fine dell’analisi, l’inconscio reale come approdo dell’analisi. Secondo me, però – e questa cosa l’ho trattata anche nella relazione che ho fatto a Napoli, al nostro Convegno FPL – la questione non si articola solamente e semplicemente sul “non ha più alcuna portata di senso o interpretazione”: secondo me l’inconscio reale, per alcuni soggetti, è qualcosa che si verifica d’emblée. C’è una portata di senso e di interpretazione che non riesce a farsi valere nell’analisi e la percentuale tra i due inconsci, l’inconscio strutturato come un linguaggio e l’inconscio reale, gioca per tanti soggetti – e per tante questioni che vengono tradotte attualmente come “nuovi sintomi” – gioca del tutto a favore dell’inconscio reale. Allora, il lavoro con l’inconscio strutturato come un linguaggio diventa molto difficile, con questi soggetti, ma non è che non si faccia, che non si possa fare analisi. È questo che io farei valere rispetto alla questione del 37 “senza inconscio”: perché parlare di “senza inconscio” mi sembra – per come leggo io alcuni testi – in fondo nient’altro che un appello etico al soggetto a farsi un inconscio. Ossia: “Fatevi un inconscio per poterci poi lavorare, fatevi un inconscio, ovviamente, strutturato come un linguaggio, fatevi un inconscio freudiano, perché altrimenti l’analista non riesce a lavorare”. Per me, invece, la questione posta da Colette Soler è molto diversa, e cioè che questo è l’inconscio reale, ed è egualmente l’oggetto dell’analisi, ovviamente di un’analisi diversa, di un’analisi che ha molto da imparare dall’analisi delle psicosi e ovviamente è molto in difetto rispetto ai metodi tradizionali delle analisi delle nevrosi, ma è comunque analisi. L’analista, e mi sembra che la sua opera lo mostri bene, ha molto da fare, ha dei risultati ottimi da conseguire anche lavorando con soggetti del genere. R. Gerbaudo: Se gli inconsci sono due, la clinica dovrebbe essere duplice? F. Marone: Non una duplicità della clinica, ma una capacità della clinica psicoanalitica di “farsi in due”, per fornire la risposta appropriata all’una o all’altra manifestazione dell’inconscio. Testo a cura di: Loredana Bove, Patrizia Centi, Antonella Loriga, Anna Maria Marsili, Marco Pacelli, Laura Sanna. Revisione del testo a cura di Marco Pacelli e Renato Gerbaudo