Lezione 1 Adattamento/Addomesticamento

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Lezione 1 Adattamento/Addomesticamento
ENCICLOPEDIA FILOSOFICA
ADATTAMENTO
(adaptation;
Anpassung;
accomodation,
adaptation;
adaptación).
–
SOMMARIO:
I.
Biologia:
1.
Aspetti
dell’adattamento
biologico.
‐
2.
Questioni
storiche
ed
epistemologiche
relative
alla
nozione
di
adattamento.
‐
II.
Psicologia
adattamento
‐
III.
Sociologia
adattamento
I.
BIOLOGIA
1.
Aspetti
dell’adattamento
biologico.
–
Sul
piano
fenomenologico
l’evoluzione
della
materia
vivente
si
manifesta
attraverso
due
modalità:
una
è
la
produzione
di
biodiversità,
l’altra
è
la
produzione
di
adattamento
biologico.
Nello
spazio
concettuale
e
teorico
della
biologia,
l’adattamento
occupa
il
centro
della
vasta
area
semantica
popolata
dai
concetti
di
carattere,
variazione,
genotipo,
fe‐notipo,
ambiente,
selezione,
fitness,
organismo,
popolazione,
evoluzione.
Il
termine
adattamento
è
entrato
nel
lessico
specialistico
della
biologia
portandosi
dietro
significati
fondati
sul
senso
comune,
così
come
è
accaduto
per
termini
come
evoluzione
e
selezione
che
possono
veicolare
anche
visioni
del
mondo
del
tutto
estranee,
se
non
proprio
in
conflitto,
con
la
rappresentazione
scientifica
della
natura
(E.
Fox
Keller
‐
E.
Lloyd,
Keywords
in
Evolutionary
Biology,
Cambridge
(Massachusetts)
1992).
I
sistemi
viventi
sono
sistemi
gerarchici
sia
in
termini
strutturali
(organismo
unicellulare,
organismo
multicellulare,
popolazione
e
biocenosi
sono
quattro
distinti
livelli
di
organizzazione
unitaria
della
materia
vivente,
ognuno
caratterizzato
da
proprietà
nuove
non
prevedibili
a
partire
dal
livello
inferiore),
sia
funzionali
(c’è
gerarchia
anche
nell’azione
dei
vincoli
esterni
e
interni
che
modellano
l’organizzazione
di
un
sistema
vivente);
e
gli
adattamenti,
che
si
manifestano
come
risultati
di
vicende
evolutive
diverse,
si
presentano
sotto
forme
differenti.
Tuttavia,
la
forza
(e
anche
in
parte
la
debolezza)
del
concetto
di
adattamento
si
basa
sulla
sua
enorme
ineguagliata
capacità
di
riunire
un’immensa
ed
eterogenea
rac‐colta
di
dati
osservativi
e
sperimentali
servendosi
di
un
unico
principio
esplicativo:
il
principio
di
selezione.
Gli
adattamenti
si
manifestano
e
possono
essere
indagati
nella
loro
dinamica
diacronica
(si
tratta
allora
del
processo
di
adattamento),
oppure
nella
loro
configurazione
(pattern
negli
autori
anglosassoni)
sincronica
(stato
di
adattamento,
condizione
dell’essere
adattato);
perciò
l’adattamento
è
definibile
in
almeno
due
modi
diversi:
diacronicamente,
l’adatta‐mento
consiste
in
una
reazione
favorevole
di
un
soggetto
esposto
al
cambiamento
di
un
fattore
ambientale;
sincronicamente
è
percepito
come
stato
di
congruità
tra
organismo
e
ambiente.
Questa
differenza
tra
processo
e
configurazione
è
di
grande
importanza,
dato
che
le
cause
che
hanno
originato
un
adattamento
evolutivo
non
necessariamente
ancora
agiscono
quando
noi
ne
osserviamo
gli
effetti.
Assolutamente
decisiva
è
poi
la
differenza
tra
gli
adattamenti
rispetto
al
tipo
di
soggetto
che
si
adatta.
Le
possibilità
sono
due
sole:
chi
si
adatta
è
un
organismo
individuale
(non
importa
se
uni
o
pluricellulare),
oppure
è
una
popolazione
(in
genetica,
popolazione
non
è
una
semplice
classe
di
oggetti‐individui
a
cui
è
estesa
una
proprietà
individuale,
ma
un
insieme
di
oggetti‐
individui
che
godono
di
una
proprietà
Adattamento
1
sopraindividuale:
cioè
la
capacità
di
una
totale
mescolanza
genetico‐riproduttiva
–
panmissia
–
che
in
quanto
proprietà
relazionale
non
può
essere
goduta
singolarmente).
Gli
adattamenti,
inoltre,
si
manifestano
alle
scale
micro‐
e
macroevolutiva;
mentre
gli
adattamenti
microevolutivi,
però,
sono
passibili
di
indagine
sperimentale,
per
quelli
macroevolutivi,
finora,
si
possono
raccogliere
solo
prove
indirette
della
passata
dinamica
processuale.
Da
quanto
detto,
allora,
si
comprende
come
la
biologia
non
possieda
una
definizione
non
ambigua
di
adattamento,
anche
se
poi
l’adattamento
compare
nelle
definizioni
di
organismo
vivente,
come
quella
di
Pietro
Omodeo:
«Un
organismo
vivente
è
definibile
come
un
sistema
aperto,
cellulare,
delimitato
da
un
confine
selettivo,
percorso
da
flussi
autoregolati
di
materia,
energia
e
informazione
grazie
ai
quali
è
suscettibile
di
riprodursi
e
di
evolvere
attraverso
le
generazioni,
adattandosi
ad
ambienti
mutevoli»
(P.
Omodeo,
What
is
a
Living
Being?,
in
M.
Rizzotti
[a
cura
di],
Defining
Life,
Padova
1996,
pp.
187‐198).
Globalmente
il
termine
adattamento
si
applica
ad
almeno
tre
tipi
di
fenomeni
molto
diversi
tra
loro:
1)
il
processo
inerente
tutti
i
viventi,
che
comporta
l’aggiustamento
di
caratteristiche
fisiologiche,
morfologiche,
etologiche
in
accordo
con
l’ambiente
di
vita
(adattamento
come
“risposta
adattativa”
indotta
da
un
fattore
ecologico:
p.
es.
l’abbronzatura
della
pelle
per
esposizione
ai
raggi
UV);
2)
lo
stato
con
cui
un
carattere
geneticamente
determinato
si
manifesta
e
che,
in
un
certo
contesto,
conferisce
un
vantaggio
al
suo
portatore
rispetto
ad
altri
individui
che
sono
portatori
di
stati
alternativi
del
carattere
(come
nel
caso
del
gene
per
l’emoglobina
s,
emoglobina
mutata
responsabile
dell’anemia
falciforme,
una
patologia
anche
molto
grave;
la
mutazione
negli
individui
eterozigoti
conferisce
però
una
notevole
protezione
contro
l’infezione
malarica,
per
cui
nelle
aree
malariche
gli
individui
falcemici
eterozigoti
hanno
salute
migliore
sia
rispetto
agli
omozigoti
falcemici
affetti
da
gravissima
anemia,
sia
rispetto
agli
omozigoti
sani,
non
anemici,
ma
assai
facilmente
soggetti
alla
malaria;
e
ancora
come
nel
caso
del
mimetismo
fanerico
di
certe
farfalle,
o
della
resistenza
dei
batteri
patogeni
agli
antibiotici);
3)
il
possesso
di
strutture
complesse,
ereditate
filogeneticamente,
che
permettono
lo
svolgimento
di
funzioni
di
livello
elevato
(branchie
e
pinne
dei
pesci
come
macroscopi‐
ci
adattamenti
all’ambiente
acquatico
e
al
nuoto;
dispositivi
di
ecolocazione
dei
pipistrelli
come
adattamenti
per
la
predazione,
ecc.).
Le
differenze
tra
questi
tre
tipi
di
adattamento
sono
rimarchevoli.
Nel
primo
caso,
la
risposta
adattativa
individuale
è
esclusivamente
fenotipica;
si
tratta
di
un
cambiamento
di
natura
quantitativa
nella
regolazione
genica
che
provoca
l’aumento
o
la
diminuzione
di
una
o
più
proteine
(p.
es.
viene
sintetizzata
più
o
meno
melanina),
ed
è
di
solito
reversibile;
si
parla
in
tal
caso
di
adattamento
biologico
di
tipo
ecologico,
fisiologico,
postgenetico;
in
pratica
c’è
un
processo
di
adattamento
individuale
ma
non
c’è
evoluzione,
perché
la
costituzione
genetica
dell’individuo
non
viene
per
nulla
modificata
durante
il
processo
reattivo.
Nel
secondo
caso
si
tratta
di
adattamento
ENCICLOPEDIA FILOSOFICA
biologico
di
tipo
genetico,
evolutivo;
è
un
cambiamento
qualitativo
(alla
base
si
trova
una
mutazione
che
produce
novità
genetica)
e
di
norma
irreversibile;
c’è
adattamento
perché
c’è
evoluzione
della
popolazione
attraverso
selezione
naturale
(secondo
il
precedente
esempio,
in
ambiente
malarico
gli
eterozigoti
anemici
arrivano
all’età
adulta
con
maggiore
probabilità
rispetto
agli
altri
due
genotipi;
il
numero
delle
copie
dei
genotipi
eterozigoti
aumenta
nel
tempo:
la
costituzione
genetica
della
popolazione
–
i
rapporti
di
frequenza
tra
i
tre
genotipi
–
cambia
deterministicamente
nel
passaggio
da
una
generazione
alla
successiva).
L’adattamento
di
terzo
tipo
è
macroevolutivo
e
di
norma
irreversibile;
le
sue
cause,
molteplici
e
complesse,
coinvolgono
i
processi
di
sviluppo
su
tempi
lunghi.
2.
Questioni
storiche
ed
epistemologiche
relative
alla
nozione
di
adattamento.
–
Uno
dei
fondamenti
della
biologia
moderna
è
costituito
dall’assunto
secondo
il
quale
tutti
gli
adattamenti
di
un
organismo
(inteso
o
come
individuo
o
come
popolazione)
al
proprio
ambiente
sono
spiegabili
ricorrendo
al
processo
di
selezione
naturale.
Quest’ultima
è
innanzitutto
un
effetto,
precisamente
è
il
risultato
dell’interazione
tra
la
variazione
genetica
fenotipicamente
espressa
e
la
variazione
spazio‐temporale
dell’ambiente;
di
fatto
si
presenta
come
riproduzione
differenziale
di
genotipi
incarnati
in
fenotipi.
La
selezione
diventa
una
causa,
la
prima
causa
di
evoluzione,
quando
dalla
descrizione
del
processo
evolutivo
si
passa
all’indagine
sui
fattori
eziologici;
la
selezione
è
la
causa,
l’unica
causa,
dell’adattamento.
Come
è
noto,
furono
Charles
Darwin
e
Alfred
Russell
Wallace
a
identificare
nella
selezione
naturale
la
causa
dell’evoluzione
adattativa;
le
loro
idee
furono
illustrate
nel
1858
alla
Linnean
Society
di
Londra.
Darwin
aveva
riflettuto
a
lungo
sulla
questione
a
partire
dal
1838,
quando,
dopo
avere
letto
il
Saggio
sul
principio
di
popolazione
(London
1798)
di
Thomas
R.
Malthus,
aveva
iniziato
un
processo
ventennale
di
revisione
critica
delle
proprie
idee
giovanili
(D.
Ospovat,
The
Development
of
Darwin's
Theory,
Cambridge
1981;
Mayr,
1982),
innanzitutto
rifiutando
la
posizione
finalistica
che
all’epoca
caratterizzava
lo
studio
della
natura
ispirato
alla
Natural
Theology
(London
1802)
di
William
Paley
(1743‐1805).
Paley
aveva
impiegato
l’analogia
dell’orologiaio
cieco,
un
argomento
finalistico
fondato
sull’idea
che
qualcosa
di
irriducibilmente
complesso
come
un
orologio
spinge
inevitabilmente
a
credere
all’esistenza
di
un
orologiaio,
di
complessità
superiore
a
quella
del
manufatto.
Paley
sosteneva
che
l’adattamento
perfetto
delle
specie
al
loro
ambiente
dimostrava
l’esistenza
di
un
architetto
divino.
Il
tema
dell’intelligent
design,
cruciale
nelle
argomentazioni
del
creazionismo
contemporaneo,
riprende
esplicitamente
l’analogia
di
Paley,
criticando
alcuni
aspetti
della
spiegazione
scientifica,
materialista
e
laica
dell’adattamento.
Prima
di
Darwin,
la
nozione
di
adattamento
era
utilizzata
da
Lamarck
e
si
caratterizzava
per
l’idea
di
un
adeguamento
all’ambiente
raggiunto
in
forza
di
una
tendenza
interna
degli
organismi
ad
agire
secondo
i
propri
bisogni.
Nell’ottica
lamarckiana
gli
adattamenti
conse‐
guiti
dai
genitori
vengono
trasmessi
alla
pro‐genie
(ereditarietà
dei
caratteri
acquisiti).
Negli
anni
Adattamento
2
posteriori
all’elaborazione
della
teoria
sintetica
dell’evoluzione,
gli
studi
sull’adattamento
sono
stati
caratterizzati
da
un
approccio
funzionalista
e
ingegneristico
che
culmina
in
quello
che,
negli
anni
Settanta,
alcuni
critici
hanno
chiamato
«adattamentismo»
(R.
Lewontin,
Adattamento,
in
Enciclopedia
Einaudi,
vol.
I,Torino
1977,
pp.198‐214;
Id.,
L'adatta­mento,
in
P.
Omodeo
[a
cura
di],
Storia
naturale
ed
evoluzione,
Milano
1978,
pp.
39‐49;
S.J.
Gould
‐
R.
Lewontin,
The
Spandrels
of
San
Marco
and
the
Panglossian
Paradigm,
in
«Proceedings
of
the
Royal
Society
of
London,
B»
205
[1979],
pp.
581‐598.).
Per
“programma
adattamentista”
si
intende
il
ricorso
pregiudiziale
a
spiegazioni
selezioniste,
scartando
dall’analisi
causale
fattori
che,
come
la
crescita
allometrica
e
i
vincoli
dello
sviluppo,
potrebbero
in
linea
di
principio
essere
altrettanto
esplicativi.
I
due
paleontologi
Stephen
J.
Gould
(1942‐2002)
e
Elisabeth
Vrba,
che
sono
tra
i
maggiori
critici
degli
eccessi
del
selezionismo,
distinguono
tra
adattamenti
veri
e
propri
(caratteri
che
sono
evoluti
per
effetto
diretto
del
meccanismo
di
selezione)
ed
esattamenti
(ex­
aptations,
in
inglese),
cioè
caratteri
evoluti
inizialmente
per
un
certo
uso,
i
quali,
una
volta
allentati
i
vincoli
selettivi
che
li
hanno
modellati,
sono
disponibili
a
essere
cooptati
per
una
nuova
differente
funzione
(S.J.
Gould
‐
E.
Vrba,
Exaptation:
a
Missing
Term
in
the
Science
of
Form,in
«Paleobiology»
8
(1982),
pp.
4‐15;
E.
Mayr,
The
Growth
of
Biological
Thought,
Cambridge
(Massachus‐setts)
1982,
tr.
it.
di
B.
Continenza
et
al.,
Storia
del
pensiero
biologico,Torino
1990).
S.
FORESTIERO
II.
PSICOLOGIA.
–
La
questione
dell’adatta‐mento
ricorre
specie
in
quegli
autori
il
cui
modello
di
mente
si
ispira
in
qualche
modo
alla
biologia
o
quanto
meno
suppone
una
conti‐nuità
tra
corpo
e
psiche;
laddove
invece
si
insiste
sull’alterità
della
psiche,
il
tema,
quando
non
negletto,
è
declinato
nei
termini
di
un
co‐
stitutivo
disadattamento
dell’essere
umano,
per
via
dell’eccedenza
della
cultura
e
del
desiderio
rispetto
alla
realtà
naturale,
e
pure
sociale
(in
questo
senso
Lacan
ripropone
in
sostanza
l’agostiniano
cor
inquietum).
Va
d’altra
parte
notata
la
frequente
indeterminazione
del
termine
ad
quem
dell’adattamento,
ora
l’ambiente
in
senso
biologico,
ora
in
senso
sociale.
Il
funzionalismo
è
certo
la
corrente
che
nella
psicologia
moderna,
a
cavallo
tra
‘800
e
‘900,
ha
per
prima
focalizzato
la
questione
dell’adattamento,
nella
misura
in
cui
esso
abbraccia
incondizionatamente
il
paradigma
evoluzionistico:
scopo
della
psiche,
con
le
sue
varie
funzioni
(facoltà),
è
l’ottimizzazione
dell’adattamento
dell’organismo
all’ambiente,
e
quanto
più
la
psiche
è
evoluta,
tanto
maggiori
possibilità
di
sopravvivenza,
ceteris
pari­bus,
essa
offre.
Se
nel
funzionalismo
l’adattamento
conserva
una
connotazione
finalistica,
il
succedaneo
comportamentismo,
che
pure
ha
a
cuore
il
problema,
ne
prevede
una
concezione
per
lo
più
meccanica:
sono
appresi
e
mantenuti
quei
comportamenti
che,
pur
emessi
casualmente,
vengono
premiati
(il
«rinforzo»
di
cui
parla
Skinner),
cioè
risultano
consoni
alle
richieste
ambientali.
Gli
sviluppi
recenti
del
cognitivismo,
superando
le
forzate
astrazioni
di
studi
meramente
condotti
in
laboratorio,
tornano
dal
canto
loro,
con
la
corrente
«ecologica»,
a
focalizzare
il
Adattamento
ENCICLOPEDIA FILOSOFICA
rapporto
con
l’ambiente:
il
concreto
essere
umano
non
è
propriamente
assimilabile
a
un
elaboratore
di
informazioni,
dacché
il
computer
non
ha
il
problema
di
sopravvivere
in
un
ambiente
naturale
e
sociale,
né
quello
di
riprodursi
come
specie.
Nella
ricorrente
dialettica
di
«assimilazione»
e
«accomodamento»,
che
secondo
Piaget
qualifica
lo
sviluppo
cognitivo
dal
bambino
all’adulto,
il
secondo
polo
consiste
nella
ri‐
strutturazione
degli
schemi
mentali,
onde
me‐
tabolizzare
quegli
stimoli
e
quelle
situazioni
ambientali
ormai
divenuti
inassimilabili
entro
lo
schema
vigente.
Come
dire
che
l’adatta‐mento
è
work
in
progress,
che
caratterizza
l’ontogenesi
psichica
dell’essere
umano,
procedendo
di
concerto
con
le
fasi
di
sviluppo
biopsicologiche
geneticamente
programmate.
La
psicoanalisi
pone
il
problema
dell’adattamento
in
primo
piano
con
Heinz
Hartmann
e
la
sua
psicologia
dell’io,
individuando,
proprio
nell’adattamento,
un
quarto
punto
di
vista
metapsicologico
da
affiancare
ai
tre
freudiani:
occorre
indagare
i
processi
psichici,
anche
quelli
conflittuali,
interrogandone
altresì
la
funzione
adattiva
o
meno.
Così,
in
luogo
dell’eversivo
disadattamento
dell’es
sia
rispetto
alla
società
(si
ricordi
il
freudiano
«disagio»
della
civiltà),
sia
rispetto
alla
natura
(si
veda
l’antibiologica
pulsione
di
morte),
la
corrente
inaugurata
da
Hartmann
sottolinea
piuttosto
la
funzione
di
normatività
adattiva
svolta
dall’Io.
M.
FORNARO
III.
SOCIOLOGIA.
–
In
sociologia
il
termine
adattamento
è
stato
originariamente
introdotto,
mutuandolo
dalla
biologia,
da
quegli
autori
che,
soprattutto
nel
corso
del
sec.
XIX,
interpretavano
l’evoluzione
sociale
in
analogia
con
quella
naturale,
e
ripreso
in
tempo
più
recenti
segnatamente
da
quanti
hanno
riproposto
un'interpretazione
biologica
unificata
del
comportamento
sociale.
Esso
è
conseguentemente
venuto
a
indicare
il
rapporto
che
intercorre
tra
una
collettività
e
il
suo
ambiente
cir‐
costante,
sia
sociale
sia
naturale,
e
implica
l’idea
che
un
certo
grado
di
adattamento,
maggiore
o
minore,
sia
una
condizione
di
esistenza
per
qualsiasi
collettività
3
umana
(gruppi,
organizzazioni,
società).
L’evoluzione
delle
strutture
sociali
sarebbe,
in
quest’ottica,
l’espressione
del
principio
biologico
per
cui
la
vita
è
il
costante
adattamento
delle
relazioni
interne
di
un
organismo
alle
sue
relazioni
esterne.
Talcott
Parsons
ha
approfondito
e
sistematizzato
questo
pensiero,
separandolo
tuttavia
dall’originaria
impronta
bioanalogica,
dal
momento
che
il
parallelismo
tra
organismo
sociale
e
organismo
animale
non
è
mai
riuscito
ad
andare
oltre
i
limiti
di
una
mera
similitudine.
Egli
ha
inserito
l’adattamento
tra
i
quattro
imperativi
funzionali
di
ogni
sistema
sociale,
al
pari
del
conseguimento
degli
scopi
collettivi,
dell’integrazione
dei
ruoli
e
del
mantenimento
della
struttura
latente.
La
sopravvivenza
di
una
collettività
è
legata
alla
sua
capacità
di
stabilire
e
coltivare
dei
rapporti
con
l’ambiente
esterno,
sia
adattandosi
alle
sue
coercizioni,
alle
sue
esigenze
e
ai
suoi
eventuali
cambiamenti,
sia
adattando
l’ambiente
ai
propri
bisogni,
cioè
controllandolo
e
modificandolo.
Così
si
spiega
la
continua
invenzione
e
modifica
di
strutture
sociali
e
istituzioni,
sviluppate
dalle
collettività
per
far
fronte
alle
esigenze
poste
dall’interazione
con
l’ambiente.
P.
VOLONTÉ
BIBL.:
Per
la
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II:
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➨ COGNITIVISMO; COMPORTAMENTISMO;
EVOLUZIONE; FUNZIONALISMO; METAPSICOLOGIA;
SOCIOBIOLOGIA. ➨
ENCICLOPEDIA FILOSOFICA
BOMPIANI, MILANO, 2006
Addomesticamento
ADDOMESTICAMENTO
(ingl.
Domestication, fr.
Domestication, ted.
Zähmung). Sin dalle sue origini, la storia
dell'umanità è stata contraddistinta dai
suoi ripetuti tentativi di superare i
vincoli
imposti
dall'ambiente.
È
probabile che inizialmente la ricerca e lo
sviluppo di questa autonomia, ottenuta
attraverso un crescente controllo dei
prodotti e dei processi della natura,
siano stati motivati in termini simbolicoaffettivi, anche se poi il processo di
affrancamento dalla natura si caratterizzò per i suoi risvolti più o meno
direttamente economici, energetici, collegati alla sopravvivenza dei gruppi
umani e alle trasformazioni delle
società. E' accertato che a partire dal
tardo Neolitico l'emergere del fenomeno
urbano e delle civiltà antiche furono
connessi e promossi dallo sviluppo
dell'addomesticamento grazie al quale la
nostra specie riuscì innanzitutto a
ridurre la propria dipendenza da risorse
alimentari
prelevate
in
natura,
attraverso la caccia e la raccolta, e
caratterizzate da una disponibilità e da
un'abbondanza fluttuanti e aleatorie.
Andò originandosi per questa via un
doppio reciproco condizionamento:
piante e animali addomesticati incisero
fortemente sull'evoluzione biologica e
culturale della nostra specie, che
divenne a sua volta il principale fattore
ambientale, la forza che orientò
l'evoluzione delle specie domestiche.
Sebbene trasformato, questo doppio
legame persiste ancora oggi.
I fondatori. Cronologicamente,
le precondizioni che permisero la nascita
dell'allevamento sono state fatte risalire
alle ultime fasi del Paleolitico, quando
nei territori boreali le bande di cacciatori
umani dovettero contattare i branchi di
lupi, anche essi, come gli uomini,
organizzati gerarchicamente in funzione
della caccia.
L'uomo e il lupo
evolvettero perciò, in stato di simpatria
S. Forestiero
come specie sociali, dedite alla caccia e
predatrici di grandi mammiferi. Anzi è
verosimile che uomini e lupi cacciassero
uno stesso tipo di preda e vi sono
parecchie probabilità che l'uomo abbia
potuto tenere presso di sé esemplari di
lupo, come sembrano indicare alcune
testimonianze
archeologiche
sulla
cattività di specie selvatiche. Resti assai
antichi di Canis (la distinzione
osteologica tra lupo e cane non è sempre
possibile) trovati in siti abitati dall'uomo
presistorico in Anatolia (9000 anni fa),
Inghilterra (9500 anni fa), Idaho (10.400
anni fa), Iraq-Monti Zagros (12.000 anni
fa) testimoniano dell'antichità del
legame tra Homo sapiens sapiens e i
progenitori del cane moderno.
Di
particolarissimo interesse è il reperto,
nella parte settentrionale dello Stato di
Israele, di una tomba con i resti di un
cucciolo di cane o di lupo di 4-5 mesi di
età posti accanto a quelli di una persona
anziana (Davis e Valla, 1978). Questa
giace ranicchiata sul fianco destro; il
braccio sinistro portato verso il capo,
con il polso sistemato sotto la tempia.
L'eccezionalità del ritrovamento è però
nell'atteggiamento della mano sinistra
del morto, che è tenuta sul dorso del
cucciolo in una postura significativa di
affettività e di attaccamento (Serpell,
1996). La sepoltura, appartenente alla
cultura
Natufian
del
Paleolitico
superiore-Mesolitico, risale a 10.000 12.000 anni fa e viene interpretata come
un segno di una condizione di
preaddomesticamento (Davis e Valla,
cit.). Un altro caso notevole, ma molto
più recente del precedente, proviene da
un sito delle Alpi francesi abitato circa
6000 anni fa, dove è stata documentata
la presenza di un orsacchiotto catturato
all'età di circa sei mesi e quasi
certamente tenuto in cattività per
almeno cinque anni (Chaix et al., 1997).
Questi due ritrovamenti, in particolare,
hanno
sollecitato l'elaborazione di
un'ipotesi sulla nascita dell'allevamento
1
Addomesticamento
visto come conseguenza dell'abitudine
di tenere presso di sé, in qualità di
animali da compagnia, esemplari di
alcune tra le specie selvatiche con cui
l'uomo entrava in contatto. In principio,
il legame con le prime specie allevate
sarebbe stato perciò di natura non
immediatamente
economica,
per
diventarlo in un secondo tempo quando,
anche grazie ad una migliorata
conoscenza delle caratteristiche ecoetologiche di queste specie, l'uomo ne
avrebbe tentato la gestione attraverso la
riproduzione in cattività. D'altra parte
l'abitudine di tenere cuccioli o adulti di
selvatici come animali da compagnia è
ampiamente
dimostrata
da
dati
etnologici (vedi per es. Diamond, 1997).
Dopo il cane furono domesticati
nell'Asia sudoccidentale, intorno all'VIII
millennio a.C. , la pecora, la capra e il
maiale (quest’ultimo anche in Cina);
intorno al VI millennio a.C. il bue nella
stessa area e in India; duemila anni più
tardi il cavallo in Ucraina, l'asino in
Egitto e il bufalo asiatico forse in Cina; la
specie a cui appartengono il lama e
l'alpaca fu domesticata sulle Ande verso
il 3500 a.C.; i camelidi paleartici mille
anni più tardi: il cammello in Asia
centrale e il dromedario in Arabia. Nel
suo saggio sul ruolo dell'ambiente nella
storia delle società umane, Jared
Diamond, un biogeografo dell'UCLA,
osserva che sulla carta sono candidati
alla domesticazione
148 specie di
mammiferi terrestri (72 nella Paleartide Eurasia e Nordafrica - 51 nell'Africa
sudsahariana, 24 nelle Americhe, 1
specie - il canguro rosso - in Australia)
ma che solo 14 specie sono state
pienamente rese domestiche (13 in
Eurasia e 1 - l'antenato del lama e della
alpaca - nelle Americhe). Dunque poco
meno della metà (48%) delle specie
candidate sono originarie dell'Eurasia;
di quelle domesticate quasi tutte (93%)
sono eurasiatiche. In pratica su 72 specie
paleartiche candidate, 13 (18%) sono
state addomesticate. Chiedendosi le
S. Forestiero
ragioni del predominio della fauna
eurasiatica negli allevamenti di tutto il
mondo, Diamond argomenta riconoscendovi l'azione di fattori biogeografici:
soprattutto la maggiore biodiversità
ecosistemica dell'Eurasia.
Una situazione analoga si ripete con
l'agricoltura di specie erbacee, anche se
in questo caso il contrasto tra Eurasia e
altre regioni è meno drammatico.
Considerando le erbacee a seme grosso
(10-40 mg) si hanno 56 taxa di cui ben 33
sono di tipo paleartico, più precisamente
a gravitazione mediterranea (Diamond,
cit). Sicché il proto-agricoltore di
quell'area aveva a disposizione quasi il
60% delle piante erbacee utili all'Uomo.
Da qui forse si comprende meglio
perché
l'allevamento e l'agricoltura
siano pratiche che per molte specie
iniziano nel Vicino Oriente Antico e più
o meno contemporaneamente.
Il
processo
che
condusse
alla
domesticazione di animali e piante fu
innescato da tre diversi fattori: 1) i
cambiamenti climatici avvenuti alla fine
dell'Era glaciale, quando la maggior
parte delle popolazioni umane viveva
ancora di caccia, pesca e della raccolta di
prodotti vegetali, 2) la riduzione delle
terre abitabili e 3) infine, l'assottigliamento delle popolazioni naturali dei
grandi ungulati.
Grosso modo nell'VIII millennio a.C.
l'agricoltura compare nell'area della
Mezzaluna fertile (e più o meno
contemporaneamente
nel Sud-Est
asiatico e nelle Americhe). La maggior
parte dei dati disponibili riguarda l'Asia
sudoccidentale (Zohary e Hopf, 1994)
dove l'inizio della produzione di cibo
viene realizzata a partire da poche
specie locali di cereali : grano (Triticum
monococcum, che ha forme selvatiche e
forme coltivate; T. dicoccoides, specierazza selvatica da cui deriva la specie
coltivata T. dicoccum ambedue collettivamente note come T. turgidum), orzo
(Hordeum vulgare spontaneum da cui
origina la moderna sottospecie coltiva2
Addomesticamento
ta), segale (Secale cereale), avena (con le
razze selvatiche sterilis e fatua ritenute
progenitrici della forma coltivata sativa,
tutte e tre riunite nel complesso di
specie esaploidi interfertili Avena sativa).
Alla fine del V millennio a.C. a partire
dall'Asia Centrale o dal Sud-est asiatico
si diffusero verso il Vicino Oriente e
l'Europa il miglio (Panicum miliaceum, di
cui non è ben identificata la forma
selvatica originaria), il pabbio (Setaria
italica coltivata nel bacino superiore del
Fiume Giallo già nel VI millennio a.C. e
certamente derivata dalla specie eurasiatica S. viridis) e il riso (le più antiche
coltivazioni di Oryza sativa sono quelle
dell'India e del Pakistan di 5000 anni fa,
ma mancano dati archeobotanici che
permettano di identificare l'area di
origine del suo progenitore selvatico).
Nel loro splendido resoconto sull'addomesticamento delle piante in Eurasia D.
Zohary e M. Hopf, ricostruendo le
vicende di oltre settanta specie, arrivano
a concludere che i tre principali cereali
più antichi: il grano grosso (Triticum
turgidum), il farro (T. monococcum) e
l'orzo, sono quasi sempre accompagnati
da legumi come la lenticchia (Lens
culinaris, addomesticata sin dal 6800
a.C.), il pisello, il cece, la fava e la
vecciola (rispettivamente Pisum sativum,
Cicer arietinum, Vicia faba e V. ervilia,
tutte specie coltivate a partire dal 6000
a.C. circa). Per il lino (Linum
usitatissimum), pianta appartenente alla
pattuglia fondatrice dell'agricoltura, i
resti di forme coltivate indicano date
prossime a 8000 anni fa, mentre per le
altre specie produttrici di fibre tessili si
ritiene che la canapa (Cannabis sativa)
fosse coltivata in Cina almeno 4500 anni
fa e si conoscono frammenti di stoffe di
cotone
(Gossypium
arboreum,
G.
herbaceum), provenienti da Harappa e
Mohenjo-Daro, risalenti a 4800 anni fa
(ref. in Zohary e Hopf, cit.).
Altre fasi nella domesticazione delle piante.
Una seconda fase, più tardiva, inizia
S. Forestiero
attorno al IV millennio a.C. e copre il
periodo che segna il passaggio dal
Neolitico all'Età del Bronzo. Questa fase
si caratterizza per l'invenzione dell'orticoltura attraverso l'addomesticamento
nel Vicino Oriente di importanti alberi
da frutta: ulivo, vite, palma da datteri,
fico (Zohary e Spiegel-Roy, 1975).
Diversamente dai cereali e dalle
leguminose coltivate (erbe annue di tipo
r-selezionato) che garantiscono raccolti
annuali con investimenti a breve termine e che permettono una temporanea
mobilità degli agricoltori (c'è infatti uno
scarto di parecchi mesi tra la mietitura e
la semina), gli alberi da frutta sono,
invece, specie perenni (K-selezionate
rispetto ai cereali) che fruttificano solo 38 anni dopo la messa a stabile dimora e
che perciò richiedono agricoltori con
abitudini di vita pienamente sedentarie.
Con la coltivazione degli alberi da frutta
assistiamo anche al passaggio dall'impiego della riproduzione sessuale tipica
delle forme selvatiche alla propagazione
per via vegetativa dei fenotipi domestici.
Queste varietà sono ottenute e mantenute non attraverso seme ma gestendo
la linea somatica della pianta attraverso
le margotte, le talee, i polloni e, più
tardi, ricorrendo all'innesto.
L'evitamento della riproduzione sessuale impedisce la produzione della grande
variabilità genetica, con l'elevato tasso di
eterozigosi tipico delle popolazioni
naturali in cui c'è esoincrocio.
Le
tecniche di propagazione vegetativa,
infatti, evitando la segregazione genetica
dei caratteri, consentono la fissazione
delle caratteristiche ritenute desiderabili
dai coltivatori.
La frutticoltura dunque è basata sul
depotenziamento del ruolo della
selezione. Partendo da una popolazione
di varianti individuali, l'agricoltore del
Calcolitico sceglieva le piante con i frutti
migliori ma non ne piantava i semi; egli
le riproduceva, invece, per via agamica,
ottenendo cloni di individui geneticamente identici. Il successo degli orti e
3
Addomesticamento
dei frutteti, in definitiva, è stato il
prodotto più importante della scoperta
della clonazione avvenuta probabilmente circa 5500 anni fa.
La terza fase, corrispondente, in particolare, alla coltivazione di specie come
melo, pero, susino e ciliegio, risale al I
millennio a.C. ed è dipesa dalla propagazione di cloni ottenuta attraverso
l'innesto: una tecnica piuttosto sofisticata adottata sicuramente molto più
tardi rispetto alle altre tecniche di
riproduzione agamica e che sembra
essere stata applicata per la prima volta
in Cina sugli agrumi (Cooper e Chapot,
1977: ref. in Zohary e Hopf, cit.).
In sostanza, per quanto riguarda l'inizio
e la diffusione dell'orticoltura nel Vecchio Mondo sembrano esservi alcuni
punti fermi: la coltivazione degli alberi
da frutta compare nel Vicino Oriente;
l'orticoltura si sviluppa solo dopo
l'affermazione della cerealicoltura; come
già per i cereali, si assiste alla domesticazione contemporanea di parecchi
alberi da frutta; la loro coltivazione si
avvale della scoperta della propagazione
vegetativa e rappresenta un investimento a lungo termine che richiede
l'affermarsi della sedentarietà; dal
Vicino Oriente Antico, l'orticoltura si
diffonde poi in tutto il bacino del
Mediterraneo e verso l'Asia sudoccidentale; l'invenzione dell'innesto consente
l'avviarsi di una terza fase di domesticazione dei vegetali del Vecchio Mondo.
Il passaggio dal foraggiamento all'agricoltura e all'allevamento nelle Americhe
è assai meno documentato che nel
Vecchio Mondo; tuttavia è probabile
che esso sia iniziato un poco più tardi e
avvenuto più lentamente che altrove. In
America, inoltre, la diffusione dell'agricoltura
ebbe
una
distribuzione
geografica molto più discontinua ed
eterogenea. L'agricoltura americana
nacque nelle regioni temperate del
Messico centrale, dell'Ecuador e del
Perù (Reed, 1977); in Messico tracce di
fagioli coltivati risalgono a 9000 anni fa,
S. Forestiero
la zucca a bottiglia era coltivata forse già
prima di quella data, come pure il mais
(Cavalli Sforza et al., 1994). La
coltivazione della patata verosimilmente
ebbe origine in Colombia intorno ai
10.000 anni fa; in Messico originò la
domesticazione del pomodoro ed è
probabile che tra il 7000 e il 5000 a.C. gli
abitanti delle terre alte messicane
abbiano iniziato a coltivare l'avocado e il
peperoncino; la manioca fu invece
coltivata nelle aree tropicali.
Biodiversità tassonomica e domesticazione.
La biodiversità tassonomica degli
organismi addomesticati include anche
batteri e lieviti impiegati nella
panificazione e nella vinificazione, nella
produzione di birra, di distillati, di
formaggi e yogurt. La fermentazione è
un processo conosciuto da 7000 anni e
oggi batteri e funghi vegono impiegati
nel trattamento de rifiuti e nell’industria
farmaceutica. Tra I Funghi, le specie
domestiche coltivate a scopo alimentare
sono una quarantina (5-6 su scala
industriale) su un totale di circa 72.000
specie note. I funghi di più antica
domesticazione
sono
tutti
non
micorrizogeni e perciò tecnicamente più
facili da coltivare; è il caso di Auricularia
auricula, un fungo del legno, coltivato
già dal 600 d.C., o dei comuni
champignon, Agaricus bisporus, che
crescono sul letame, coltivati dal 1600
d.C., mentre le prime Amanita e i
Tricholoma, taxa micorrizogeni, sono
stati domesticati solo negli ultimi venti
anni (Chang, 1993). Delle 511 famiglie di
pianti vascolari conosciute, 173 (34%)
possiedono specie addomesticate. Le
famiglie più importanti sono una
dozzina: Graminacee (con 379 specie
addomesticate), Leguminose (con 337
specie), Rosacee (158), Solanacee (115),
Composite (86), Cucurbitacee (53),
Labiate (52), Rutacee (54), Crucifere (43),
Ombrellifere (41), Chenopodiacee (34),
Zingberacee (31) e Palme (30). Altre 48
famiglie comprendono ognuna una sola
4
Addomesticamento
specie. A livello tassonomico di specie,
su 320.000 piante vascolari ne sono
addomesticate circa 2500; di esse un
centinaio possono dirsi di grande
importanza alimentare, ma solo 15-20
sono fondamentali per l’alimentazione
umana (Hawksworth e Kalin-Harroyo,
1995). Tra circa 1.000.000 di specie di
Insetti solo l’ape, un imenottero, e il
baco da seta, una farfalla, sono specie
domestiche e di grande impatto
economico. Di 50.000 specie di
Vertebrati, il nucleo di taxa domesticati
è formato di 30-40 specie tra mammiferi
e uccelli. I taxa di interesse per l’acquacoltura, infine, raggiungono le 200
specie e comprendono pesci marini,
pesci d’acqua dolce e specie diadrome
insieme a molluschi, crostacei, rane,
testuggini e piante acquatiche (Hawk
sworth e Kalin-Harroyo, cit.)
Suscettibilità all’addomesticamento. - Gli
insuccessi anche recenti, nell'addomesticamento di specie selvatiche come
la vigogna, le zebre, l'orso grizzly,
l'ippopotamo, il bufalo africano, il
bisonte americano,
l'alce, l'antilope
taurotrago, il cervo nobile ci danno
l'occasione per
riflettere sui motivi
retrostanti
e
sulle
eventuali
caratteristiche che predispongono una
specie selvatica all'addomesticamento.
Oltre un secolo fa Francis Galton delineò
I contorni di quell ache potremmo
chiamare sindrome da addomesticamento (Galton, 1865), e in effetti non è
difficile identificare sulla carta un
numero minimo di tratti bio-ecologici e
comportamentali comuni a molti degli
animali domestici e che ne hanno
faciliato l’addomesticamento. Tra questi
preadattamenti spiccano una nicchia
trofica ampia (con dieta
erbivora
oppure onnivora), una demografia del
tipo delle specie r-selezionate (con tasso
intrinseco di accrescimento e velocità di
sviluppo ontogenetico relativamente
elevati), il possesso di costumi sociali
gregari (grazie ai quali, ad esempio, è
S. Forestiero
stato possibile addomesticare i bovidi
che restano in gruppo e possono essere
guidati in mandria e non invece i cervidi
il cui comportamento di fuga prevede la
dispersione). Gli aspetti etologici delle
specie candidate sono particolarmente
importanti: sicuramente favorevoli sono
la tendenza a formare grandi gruppi
piuttosto che una socialità a base
famigliare; fondamentale è la presenza
di struttura gerarchica con gruppi misti
di maschi e femmine, un comportamento sessuale caratterizzato da
promiscuità riproduttiva, un corteggiamento con segnali basati su posture e
movimenti, la presenza di imprinting, la
prole di tipo precoce, una piccola
distanza di fuga ed una bassa reattività
all'Uomo (Hale, 1969). La territorialità è
invece di ostacolo all'addomesticamento; i casi del cane e del gatto fanno
eccezione visto che la loro abitudine di
concentrare escrementi ed urine sempre
negli stessi luoghi (un annesso dei
costumi territoriali) ne ha facilitato la
adozione come animali da compagnia.
In complesso, l'insieme dei preadattamenti in vista della domesticazione
configurano un'elevata adattabilità ad
un ampio spettro di condizioni ambientali, dunque una marcata plasticità
fenotipica. Tuttavia va detto che oggi,
almeno in alcuni casi, l'importanza di
certi preadattamenti, come quelli legati
al comportamento sociale e sessuale o
alla formazione del legame madre-figlio,
viene molto diminuita da pratiche di
gestione che prevedono l'inseminazione
artificiale, il trasferi- mento di embrioni,
l'incubazione artificiale, il miglioramento della dieta (Siegel in Hefez, 1975).
Il passaggio all'allevamento è però
determinato anche da condizioni estrinseche come i fattori geografici: per
esempio la presenza di rilievi montani
percorsi dalle mandrie durante brevi
migrazioni altitudinali favorisce il
passaggio all'allevamento delle specie
indigene, diversamente dalle pianure
ove la stagionalità dei fattori abiotici
5
Addomesticamento
obbliga ad estese e assai più lunghe
migrazioni latitudinali. Storicamente la
domesticità di specie di pianura si è
realizzata solo nei casi rari della
pastorizia nomade come per millenni è
avvenuto in Asia centrale, ove la stessa
organizzazione spaziale dei gruppi
umani è dovuta mutare per adattarsi
attraverso la migrazione alla stagionalità
del pascolo (Turri, 1983).
Effetti evolutivi. - Il primo capitolo
dell'Origine delle specie e i due volumi
sulla Variazione allo stato domestico sono
dedicati da Darwin agli effetti evolutivi
dell'addomesticamento (Darwin, 1859,
1868). Innanzitutto Darwin giudica
l'addomesticamento qualcosa di più
complesso che rendere
un animale
meno selvatico, ammansirlo: pensa che
all'addomesticamento corrisponda il
controllo della riproduzione, ritiene che
esso sia un processo finalizzato, che sia
capace di provocare un aumento della
fecondità e che possa causare la
riduzione di certi organi. Imputa
all'addomesticamento l'incremento della
variazione intraspecifica delle "varietà
domestiche", che osserva essere di gran
lunga superiore a quella interspecifica
delle affini forme selvatiche; infine,
sostiene
l'esistenza anche di una
selezione inconscia di varianti collegate
a quelle esplicitamente sottoposte a
selezione artificiale. In generale, la
domesticazione è definibile come il
processo con cui una popolazione
naturale diviene adattata all'uomo e
all'ambiente di cattività attraverso una
combinazione di ripetuti cambiamenti
genetici e di eventi di sviluppo indotti
ambientalmente ad ogni generazione
(Price, 1984). Esistono anche altre
definizioni
di
addomesticamento:
Clutton-Brock (p. 32, cit.), ad esempio,
definisce domestico l'animale riprodotto in cattività a scopo di profitto economico da parte di una comunità umana
che esercita il controllo totale sulla sua
riproduzione, sull'organizzazione ter-
S. Forestiero
ritoriale e sulla fornitura di cibo (ma
vedi anche Zeuner, 1963; Ucko &
Dimbleby, 1969; Mason, 1984), e
naturalmente si potrebbe obbiettare
come fa Robert Delort (1984) che queste
definizioni sono imprecise e che nessuna
di esse è completamente pertinente. Ma
proprio Delort, riportando il punto di
vista di Geoffroy Saint-Hilare secondo
cui "domesticare un animale consiste
nell'abituarlo a vivere e riprodursi nelle
dimore dell'uomo o nei suoi paraggi"
(Delort, cit.; trad. it. p. 123), ci consente
di identificare il denominatore comune
a tutte le definizioni di addomesticamento, l'elemento racchiuso nel principio basilare per cui sono domestici gli
animali e le piante la cui riproduzione è
controllata dall'uomo. Per cui animali
pure continuativamente utilizzati dall'Uomo come l'elefante, la vigogna, o le
lontre impiegate in India per pescare e i
cormorani in Cina, non sono da considerarsi animali propriamente domestici.
In sostanza lo stato di specie addomesticata viene raggiunto attraverso la
separazione fisica delle popolazioni
associate all'uomo da quelle viventi in
natura. La caduta del flusso genico, la
presenza di regimi selettivi differenti,
l'inbreeding e la deriva genetica sono i
principali fattori che hanno sinora
promosso e perfezionato l'isolamento
riproduttivo e quindi la divergenza
evolutiva e l'origine dei fenotipi domestici. Il ruolo del caso è fondamentale
nelle primissime fasi del processo di
domesticazione, quando la composizione genetica della popolazione
colonizzatrice viene interessata da colli
di bottiglia e da effetto del fondatore.
Nonostante
agiscano
più
fattori
evolutivi, l'evoluzione delle specie
domestiche è dovuta soprattutto
all'azione di meccanismi deterministici
di tipo selettivo sotto forma di selezione
artificiale, di selezione naturale (che
migliora l'adattamento all'ambiente di
cattività) e di rilassamento della selezione su caratteri che in cattività, col
6
Addomesticamento
trascorrere delle generazioni, tendono
perciò a diventare selettivamente
neutrali
(potrebbero
esserlo,
per
esempio, la capacità di evitare il
predatore o l'abilità di trovare cibo e
riparo). La selezione artificiale, praticata
più o meno coscientemente, si distingue
dalla selezione naturale per essere un
processo orientato e molto più veloce
(Falconer, 1981). Praticamente la selezione artificiale è sempre <<forte>> perché
lo stock dei riproduttori è molto più
ristretto dell'insieme degli adulti;
inoltre, siccome la scelta dei riproduttori
avviene prima della riproduzione,
accade che la selezione artificiale è non
successiva ma antecedente l'accoppiamento (fatto interessante anche sotto
il profilo teorico visto che permette una
stima a priori del vantaggio selettivo per
ciascun riproduttore).
La selezione
artificiale, diversamente da quella
naturale che dura fino al momento
dell'estinzione della specie, agisce per
un limitato numero di generazioni
(inizialmente ha forma direzionale, poi
diventa di tipo stabilizzante) e, a
differenza di quella naturale che è
opportunistica, ha carattere finalistico e
progressivo: essa è cioè migliorativa.
Questo, ovviamente, non vuol dire che
attraverso la selezione artificiale la
domesticazione apra la strada al
miglioramento illimitato del carattere
fenotipico che interessa: tutt’altro. È
dimostrato che quando certi caratteri
sono soggetti a forte selezione, la fertilità
e altri tratti coinvolti nel successo
riproduttivo diminuiscono per azione di
geni pleiotropici (Falconer, cit.). Gli
effetti
dell'addomesticamento
sulla
variazione di piante e animali sono
spesso vistosi e possono riguardare
molti tratti biologici. Per esempio
Triticum aestivum, oggi la specie
economicamente più importante di
grano, è una pianta evoluta completamente sotto domesticazione (essa è
formata da un complesso di popolazioni
esaploidi tra loro interfertili, tutte
S. Forestiero
derivate da uno stock originario di T.
turgidum, tetraploide, incrociato con
Aegilops squarrosa, che invece è un
diploide selvatico, infestante, con areale
a gravitazione centroasiatica). Nel caso
del mais abbiamo, invece, un grande
cambiamento nella grandezza della
cariosside e nella taglia della pannocchia
che, passando dalla forma selvatica a
quella coltivata, cresce anche più di
trenta volte in lunghezza (Diamond,
cit.). D'altra parte la selezione per la
taglia ha comportato nel mais come pure
in altre piante la perdita secondaria
della capacità di dispersione autonoma
dei semi. Negli alberi da frutta si osserva
come l'adozione della propagazione
vegetativa abbia provocato un forte
rallentamento della loro velocità di
evoluzione. Siccome un clone può
durare molte centinaia di anni durante i
quali, a ciclo sessuale sospeso, i correlati
meccanismi genetici sono inattivi, la
divergenza genetica tra varietà coltivate
e popolazioni naturali di alberi da frutta
può essere perciò anche molto piccola.
Quest'attesa
è
confermata
dalle
osservazioni
sull'autoecologia
dei
cultivar delle specie da frutta, che è
estremamente simile a quella delle
specie selvatiche. L'esatto opposto è
avvenuto invece per i cereali: grano,
orzo, segale, avena e riso domestici,
tutte specie ottenute per selezione,
manifestano esigenze climatiche differenti da quelle delle specie selvatiche da
cui derivano. Nelle piante, altre modificazioni dovute alla domesticità riguardano aspetti più o meno direttamente
collegati all'impollinazione (per esempio
nella palma da dattero si passa
dall'anemocoria delle forme selvatiche
alla antropocoria di quelle domestiche
con un conseguente cambiamento del
rapporto sessi che muta da circa 1:1 a
circa 1:25-1:50), o connessi alla capacità
di produrre frutti partenocarpici (come
nel banano, negli agrumi coltivati e in
alcuni cloni di peri e di fichi), o
modifiche
dei
meccanismi
di
7
Addomesticamento
determinazione del sesso (nella vite, per
esempio, si passa dalla dioecia tipica
delle popolazioni selvatiche all'ermafroditismo delle forme coltivate). Ovviamente cospicue le modificazioni evolutive a carico di caratteri morfologici e
fisiologici dei frutti e dei semi quali la
taglia, la durezza, il contenuto in
zuccheri, in olio, l'eliminazione di
eventuali composti tossici e i miglioramenti di vari aspetti del sapore,
lunghezza e tenacia delle fibre, ecc.
(Zohary e Hopf, cit.). Come per le
piante, gli effetti dell'addomesticamento
sugli animali sono molteplici ed
eterogenei. Nei mammiferi i primi stadi
della domesticazione sono di norma
accompagnati da una diminuzione della
taglia corporea che poi negli stadi
avanzati potrà essere mantenuta
maggiore o minore di quella dei
progenitori selvatici. Aumenta la
variabilità del colore del pelame e del
disegno del manto, come pure sono più
vistose e variate orecchie e coda;
aumenta lo spessore dello strato adiposo
sottocutaneo. Il cranio va incontro a
molti
cambiamenti:
per
esempio
diminuisce
in
molte
specie
la
dimensione del cervello, si riducono lo
splancnocranio e la dimensione dei
denti, la regione facciale; aumenta
invece la variazione a carico delle corna.
E' noto che la selezione può aumentare o
diminuire la velocità di sviluppo ed è
probabile che durante la domesticazione
in molti casi sia accaduto qualcosa di
simile. Ci sono evidenze che la
domesticazione acceleri il raggiungimento dell'età adulta; questo avviene
per esempio in molti animali da fattoria
(Hale, 1969) e nel cane (ref. in Price,
1984); ma accade anche l'opposto:
l'adulto può conservare tratti anatomici
tipici dei giovani (deposizione di grasso
sottocutaneo, mascelle più corte, ecc.).
Se ne sono interessati I caratteri
etologici, allora, cme nel caso del cane, si
parla di neotenia comportamentale. Il
comportamento
del
cane
adulto
S. Forestiero
condivide molti aspetti con quello di un
giovane di lupo; per esempio in
entrambi c’è una forte predisposizione
al gioco e una più bassa aggressività.
L'idea è che il mantenimento nel cane
adulto di moduli comportamentali tipici
dei canidi giovani sia stato permesso in
cattività dal rilassamento
della
selezione naturale su caratteristiche
come l'aggressività non più indispensabili per assicurarsi il raggiungimento
di quello stato sociale elevato che è
necessario al successo riproduttivo. Di
norma
in
cattività,
infatti,
la
disponibilità delle risorse alimentari e
genetiche è regolata dall'allevatore e il
successo riproduttivo piuttosto che
giovarsi di una spiccata aggressività,
viene assicurato da doti di flessibilità e
addomesticabilità che sono tipiche degli
stadi giovanili
(ref. in Price, cit.).
Sebbenenlla storia evolutiva di Homo
sapiens, iniziata circa 200.000 anni fa,
l’addomesticamento
debba
essere
considerato un processo assolutamente
recente, tuttavia esso ha avuto
un’influenza enorme per avere prodotto
un forte aumento della biomassa
alimentare e un decremento dell’incostanza nella disponibilità delle risorse
alimentari. Il cambiamento di un fattore
biotico fondamentale, che ha influenza
diretta sull’ N di popolazione (in
particolare sul suo valore critico detto
capacità portante dell'ambiente), è stato
giudicato responsabile dello spostamento di individui di Homo sapiens
sapiens da aree relativamente sature e
con elevata pressione demografica verso
aree in precedenza disabitate o
demograficamente sottosature (rapporto
di densità stimato stimato di 100:1). E'
stato prima ipotizzato e poi ampiamente
dimostrato che il fenomeno noto come
"espansione demica" fu responsabile
della diffusione dei geni umani (e di
correlati culturali come le lingue) negli
spazi geografici colonizzati dalle
popolazioni in movimento
(per un
ampio resoconto si vedano Ammerman
8
Addomesticamento
e Cavalli-Sforza, 1984 e il più recente
Cavalli-Sforza et al., 1994). Sempre in
un'ottica evolutiva merita considerazione un ulteriore, benché indesiderato
effetto dell'addomesticamento, anche
esso collegato all'espansione demica, e
cioè lo sviluppo di molte malattie
infettive dovute al passaggio di virus,
batteri ed eucarioti parassiti dagli
animali domestici all'uomo. Zoonosi
sono state descritte per molti mammiferi
e uccelli domestici, semidomestici o
semplicemente antropofili. Malattie
come il morbillo, la tubercolosi e il
vaiolo, per esempio, sono causate nella
nostra specie da patogeni strettamente
imparentati con quelli di molti bovini
domestici; anche il maiale è attaccato da
patogeni affini a quelli responsabili
nell'Uomo
dell'influenza
e
della
pertosse, e sembra dimostrato che
Plasmodium falciparum, lo sporozoo
responsabile della forma più grave di
malaria, sia evoluto per trasferimento
dall'ospite aviario a quello umano
(Waters et. al, 1991; citato in Diamond,
1997). E' certo che la scarsa igiene (anche
in Europa, per esempio, ancora fino a
pochi decenni or sono, c’era molta
mescolanza e stretto contatto fisico tra
uomini e animali), l'incremento della
densità demografica e, più tardi,
un'aumentata
mobilità
individuale
hanno favorito nelle popolazioni umane
l'esplosione di epidemie caratterizzate
da tassi di mortalità anche elevatissimi.
Domesticazione tra natura e cultura. Un'antica tradizione eleusina
narra che la postura eretta venne agli
uomini dal giorno in cui Demetra donò
loro i cereali e l'agricoltura e che prima
di allora gli esseri umani camminassero
a quattro zampe, come i neonati e gli
animali quadrupedi. Traspare forte da
questa credenza la consapevolezza del
valore
radicalmente
innovativo
dell'agricoltura per l'uomo. L'antichità
del mito ci informa anche che il ruolo
cruciale
della
domesticazione
in
S. Forestiero
generale, come elemento fondante della
natura culturale della nostra specie, fu
pienamente avvertito già in un lontano
passato, quando venne accolta l'idea che
fosse attributo pienamente umano la
capacità di
modificare la natura,
realizzando attraverso lo sforzo e gli
artifici del lavoro un ordine nuovo,
prima inesistente. Una capacità e un
ordine che sono premessa e risultato di
quello che la modernità chiama
"gestione razionale della natura e delle
sue risorse". In un certo senso, oggi le
scienze naturali, la paletnologia e
l'archeologia danno ragione di quel mito
dimostrando che l'addomesticamento
ha rappresentato un punto cruciale nel
cammino dell'umanità, una svolta
economica formidabile, un modificatore
potente dell'evoluzione culturale e
biologica della nostra specie. La
domesticazione ha mutato anche il
destino evolutivo di animali e piante.
Molte delle loro caratteristiche biologiche, e in qualche caso la loro stessa
esistenza,
dipendono
direttamente
dall'intervento dell'uomo, dalle sue
necessità, dai suoi progetti; possono
rispondere alle sue esigenze alimentari,
di protezione, di lavoro, di locomozione;
possono
riflettere
idiosincrasie
e
rispecchiare valori estetici e gusti di
un'epoca o di una società come dimostrano le centinaia di razze di cani e di
gatti, i pesci ornamentali cinesi e giapponesi, o l'industria internazionale della
floricultura con le molte migliaia di
cultivar di piante da fiori. Con lo
sviluppo delle biotecnologie la nozione
di addomesticamento andrà forse
modificata. Qui l'addomesticamento
compie un salto quantico, un progresso
qualitativo: invece di agire sui fenotipi
l'uomo sta imparando a modificare
direttamente i genotipi. Le biotecnologie
permettono il superamento della barriera allo scambio genico tra specie non
imparentate: un ostacolo naturale contro
cui le tecniche di selezione sono
inefficaci. Le biotecnologie contempo9
Addomesticamento
S. Forestiero
ranee consentono, inoltre, di costruire
specie con genotipi del tutto nuovi;
genomi inesistenti in natura che, grazie
a procedure ottimizzate e mirate a
risultati altamente specifici, possono
esprimersi
in
un
miglioramento
qualitativo o quantitativo di prodotti e
di processi di varia natura. Se è vero che
nessuna altra pratica mette in crisi la
nozione
di
<<naturale>>
e
di
<<naturalità>> quanto l'addomesticamento tradizionale, tanto più allora
questo può essere detto delle biotecnologie la cui capacità di rendere estremamente <<innaturali>> gli organismi
sembra sfidare ancora una volta non
solo la nostra intelligenza ma soprattutto la capacità della nostra specie di
creare un nuovo sistema di valori in cui
collocare e comprendere questa ulteriore
forma di domesticazione.
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L’agricoltura
di Saverio Forestiero
Nello sviluppo dell’agricoltura del Novecento il ruolo della scienza e della
tecnologia è stato sempre in crescita. Inizialmente attraverso il miglioramento
genetico delle varietà coltivate, più tardi con la produzione di nuove varietà per
incrocio o per mutagenesi, e ancora con la razionalizzazione dei metodi di
coltura, di concimazione, di irrigazione, di raccolta e conservazione. La tendenza
all’aumento medio della produttività agricola ha percorso tutto il secolo; con le
“rivoluzioni verdi” degli anni Venti e Cinquanta l’incremento riguarda il grano e
il riso ed è la svolta per centinaia di milioni di persone. L’interesse agli aspetti
nutrizionali degli alimenti e la nascita delle agrobiotecnologie rappresentano due
ulteriori progressi delle scienze agronomiche. L’attenzione per i problemi
ambientali connessi all’agricoltura è recente ma si va radicando l’idea che
l’agricoltura del futuro debba essere sicura, sostenibile e a basso input esterno.
L’impatto della moderna agricoltura sulle condizioni economiche e sociali delle
popolazioni rurali è molto pesante specialmente nelle aree più povere del sud del
mondo. Ed è sempre più chiaro che lo sviluppo di molti di quei Paesi passa per la
produzione agricola commerciale a patto però che il mercato mondiale sia
regolato equamente e non manipolato dalle politiche protezionistiche dei Paesi
economicamente più forti.
Cesto di grano al mercato di Harer,
Etiopia
Seicento, Storia: Dalla
rifeudalizzazione alla
rivoluzione agricola
Seicento, Scienza e
tecnologia: Storia naturale
e agronomia
708
Agricoltura, un poliedro dalle mille facce
Come tutti gli altri animali, anche la nostra specie per vivere ha bisogno di energia che il corpo ricava a livello cellulare mediante reazioni di ossidoriduzione di una grande varietà di composti chimici
presenti negli alimenti. A differenza delle altre specie animali,
però, l’uomo non si limita a prelevare il cibo dalla natura, ma oramai da 10 mila anni produce i suoi alimenti attraverso l’agricoltura
e l’allevamento. Gli sviluppi dell’agricoltura, le sue trasformazioni
storiche, i suoi successi e i suoi fallimenti sono macroscopicamente collegati a una terna di variabili bioecologiche: habitat disponibili per la coltivazione (superfici coltivabili, qualità pedologica dei
terreni, acqua per irrigazione), tipi di organismi disponibili per la
produzione alimentare (specie e varietà di vegetali e animali), demografia umana (numero di individui da nutrire adeguatamente);
a questo si aggiungono un insieme di saperi e di tecniche relative al
miglioramento e all’innovazione di prodotto e di processo, e infine
i fattori del mercato, visto che i prodotti agricoli come altri beni
possono venire scambiati, di solito secondo le leggi della domanda
e dell’offerta. Tra le molte tecniche di cui l’agricoltura si serve ci sono le applicazioni della genetica agraria, le agrobiotecnologie produttrici di organismi geneticamente modificati, la chimica dei concimi, le tecnologie collegate alle difese dai patogeni, quelle proprie
della meccanizzazione agricola, dello stoccaggio razionale dei raccolti, le tecnologie di conservazione. Tra i tanti e differenti aspetti
economici, un ruolo strategico nell’ultimo ventennio del Novecento ha assunto la questione del protezionismo per cui molti Paesi
ricchi sostengono l’agricoltura interna ed erigono barriere all’importazione di prodotti dai Paesi più poveri del Terzo Mondo. Oltre ai rapporti con questioni ecologiche, genetiche ed economiche,
l’agricoltura ha a che fare, spesso direttamente, anche con una se-
rie di problematiche sociopolitiche collegate alle esigenze e alle trasformazioni delle comunità e delle società nelle quali gli operatori
del settore a vario titolo si trovano ad agire. È il caso dell’impatto
sociale e demografico delle migrazioni interne ed esterne, da nazione a nazione, dei lavoratori addetti all’agricoltura, al temporaneo incremento della forza lavoro collegata al lavoro stagionale e, a
partire dal secondo dopoguerra, alla sua diminuzione tendenziale
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L’agricoltura
La coltivazione a terrazzamenti
nei Paesi occidentali in conseguenza dell’accresciuta meccanicizzazione, automazione e industrializzazione delle pratiche agricole e
zootecniche.
Nel Novecento i progressi dell’agricoltura e il suo impatto sulla società sono stati influenzati anche dal rapporto locale/globale (giocato sul piano ecologico e su quello economico), dalla nostra relativa ignoranza della natura dei vincoli ecologici da rispettare (si ignora, per esempio, il reale impatto ecologico dell’incremento delle terre coltivabili sottratte alle foreste tropicali pluviali sulla biodiversità
tassonomica, sulla funzionalità degli ecosistemi, sulla circolazione
atmosferica e oceanica, dunque sul clima) e dai problemi sanitari,
umani e veterinari, connessi con le pratiche agricole e zootecniche
(la stretta vicinanza fisica tra uomini e animali degli allevamenti intensivi in Cina e in altri Paesi asiatici ad alta densità demografica,
sembra facilitare i cambiamenti di ospite e la trasmissibilità di patogeni di polli, maiali e altre specie domestiche). È chiaro perciò che,
anche se il cuore dell’agricoltura resta l’insieme delle conoscenze e
delle pratiche collegate alla produzione di cibo per l’alimentazione
umana e degli animali di cui l’uomo si nutre, tuttavia i problemi affrontati dalle scienze e dalle tecnologie agronomiche non sono limitabili a singoli campi specialistici ma riguardano sempre più spesso
e intensamente il modello globale di sviluppo socio-economico di
intere grandi comunità. Al giorno d’oggi, infatti, non si tratta tanto
di aumentare la produzione alimentare, il problema è piuttosto
quello di garantirne un’equa distribuzione. L’economista indiano
Amartya Sen, premio Nobel 1998 per l’economia, sostiene nei suoi
scritti che la causa maggiore delle carestie non va cercata nella scarsità di cibo ma piuttosto in fattori sociali ed economici, certamente
più difficili e complessi da governare di quelli legati alla produzione di alimenti. Un approccio sistemico ai problemi dell’agricoltura
più che portare alla semplice lotta contro la fame attraverso l’aumento della produzione può comportare la lotta contro le condizioni di povertà in cui vivono molte centinaia di milioni di essere
umani.
Migliorie
Su 320 mila specie di piante vascolari, cioè dotate di tessuti cavi utilizzati per il trasporto delle sostanze nutritive, l’uomo ne ha addomesticate sinora circa 2.500. Un centinaio di queste specie sono di
grande importanza alimentare, ma solo una ventina sono fondamentali per l’alimentazione umana. Le otto più importanti piante
coltivate (grano, riso, mais, orzo, avena, segale, miglio, sorgo) sono
tutte graminacee coltivate già millenni o secoli addietro. I progressi
dell’agricoltura nel Novecento non riguardano perciò la domesticazione di nuove specie selvatiche ma piuttosto l’incremento della resa per unità di superficie coltivata. Questo ha permesso tra gli anni
Sessanta e Settanta di produrre calorie sufficienti al fabbisogno
mondiale annuo.
Questi progressi vengono dalla creazione di cultivar – ossia di varietà coltivata di una specie, da cui l’abbreviazione – attraverso procedimenti di selezione dei fenotipi dotati di caratteristiche idonee
alle varie esigenze dei coltivatori. La genetica è nata nell’Ottocento
indagando le caratteristiche ereditarie di una pianta ortiva, il pisello, e, con la scoperta delle leggi di Mendel, si è sviluppata grazie alle indagini di tre genetisti vegetali. L’ibridazione del mais iniziata
negli Stati Uniti nel 1910 ha portato a un fortissimo incremento della produzione a partire dagli anni Trenta. Gli studi di Thomas H.
Morgan (1866-1945) su Drosophila, il moscerino della frutta e dell’aceto, chiarirono il ruolo dei cromosomi come sedi del materiale
ereditario. Particolarmente decisivi sono stati gli studi sull’endogamia attraverso cui si individuarono i limiti degli incroci tra parenti,
capaci di fare emergere caratteri recessivi nocivi.
Altrettanto importanti sono stati quelli sull’esogamia praticata
quando, incrociando individui di razze differenti, si vogliono introdurre caratteri nuovi e vantaggiosi in una popolazione. In questo
modo negli anni Trenta furono gettate le basi scientifiche della
scienza della riproduzione animale. Insieme a queste tecniche vanno ricordate quelle di inseminazione artificiale sviluppate in Russia
e da lì diffuse in tutto il mondo. Anche l’acquacoltura ha compiuto
Settecento, Storia:
La rivoluzione agricola
Ottocento, Storia:
Campagne e capitalismo
agrario, Le trasformazioni
dell’ambiente fisico
709
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Scienza e tecnologia “Conosci te stesso”: l’organismo e l’ambiente, la salute e la malattia
Amartya Sen – Sviluppo e libertà
Secondo Amartya Sen lo sviluppo non è altro che
un processo di “enlarging people choices”, tendente
cioè ad aumentare le possibilità di scelta degli individui
e, in particolare, a eliminare quelle illibertà che impediscono alle persone di lottare contro le privazioni. La
libertà, secondo la celebre formulazione dell’economista indiano, è un fattore costitutivo dello sviluppo; libertà economiche e politiche si rafforzano a vicenda.
Una scoperta di Sen, rimasta giustamente famosa, è che
non si sono mai verificate carestie in una democrazia,
per quanto povera; le carestie hanno invece colpito territori coloniali, dittature e Stati a partito unico. La Cina
ad esempio, rispetto all’India, si è integrata con maggior
successo nell’economia di mercato, grazie soprattutto a
una diffusa alfabetizzazione di base, mentre l’India paga le conseguenze della sua noncuranza nei confronti
dell’istruzione e dell’assistenza sanitaria con uno stato
di grave arretratezza sociale. Tuttavia, dalla conquista
dell’indipendenza, in India non si sono più verificate
carestie, mentre quella sofferta dalla Cina dal ‘58 al ‘61
(che fece 30 milioni di vittime) è attribuita da Sen alla
mancanza di libertà democratiche: solo se i governanti
devono rispondere al popolo, sostiene Sen, saranno incentivati ad assecondarne i bisogni.
Rivoluzioni verdi
Analisi a infrarossi di una pianta di sorgo
Analisi fatta nell’ambito
di un progetto finalizzato a
selezionare una varietà di pianta
di sorgo più resistente alle
condizioni ambientali, da
impiegarsi per la produzione
di combustibili biologici.
progressi passando dalla modalità estensiva a quella intensiva tecnicamente molto più avanzata e sostenuta da input energetico; il numero delle specie di pesci, crostacei e molluschi allevati è cresciuto
e l’uso di gabbie ha permesso l’allevamento commerciale anche di
specie marine. Nel Ventesimo secolo l’incremento di produttività
ha riguardato quasi tutte le colture agricole, ma in modo molto forte quelle cerealicole. Lo stesso si osserva nella produttività animale;
per esempio nei confronti del latte vaccino, del peso medio delle
mucche, del numero di agnelli per pecora, oppure rispetto al contenuto di grasso del latte, al peso della lana per pecora, al numero
di uova per gallina, ecc.
L’incremento di produzione è da ricollegarsi per la prima parte del
secolo a metodi di coltivazione più efficaci e per la seconda parte al
miglioramento genetico delle sementi. Naturalmente la faccenda è
molto complicata e non è possibile una valutazione precisa del peso netto del miglioramento genetico sulle rese visto che nel frattempo veniva anche ridotta l’influenza di fitoparassiti e infestanti o aumentata la fertilità dei suoli attraverso concimazioni mirate. Inoltre
non va dimenticato che si sono avuti miglioramenti delle qualità nutrizionali dei prodotti. Con l’ingresso delle biotecnologie si è aperto un nuovo orizzonte per l’agricoltura. Gli obiettivi possibili sono
molteplici, alcuni, come la produzione di cereali ingegnerizzati arricchiti di vitamine, OGM (Organismi Geneticamente Modificati)
capaci di sintetizzare nuovi principi nutritivi o molecole di interesse farmacologico, sono assolutamente inediti. L’opinione pubblica,
tuttavia, è in molti casi perplessa e interroga i ricercatori sull’esistenza di eventuali problemi di biosicurezza. Il rifiuto delle biotecnologie avrebbe conseguenze negative per tutta l’umanità; la questione è delicata e i protagonisti del dibattito (scienziati, società civile, mondo dell’informazione) hanno il dovere di confrontarsi portando nel dibattito competenza, chiarezza, onestà intellettuale.
710
Nel 1944 l’americano Norman E. Borlaug (1914-) inizia a lavorare
in Messico come genetista agrario e patologo vegetale a un programma di ricerca sul grano. In accordo con il governo messicano e
per conto delle Fondazioni Rockefeller e Ford, Borlaug fonda un
centro internazionale per il miglioramento genetico del mais e del
grano. Lo scopo principale è quello di creare un tipo di frumento
resistente alle ruggini nere che regolarmente ne distruggono i raccolti. Borlaug ha successo e alla fine degli anni Cinquanta incrocia
il grano messicano con una varietà giapponese resistente all’allettamento, ossia alla piegatura verso terra dei fusti. Così la resa della
nuova varietà è raddoppiata e il grano messicano di Borlaug attecchisce anche in Pakistan. Nel 1962 Borlaug crea nelle Filippine un
centro di ricerca sulla risicoltura da dove in pochi anni escono eccezionali varietà di riso. In questo modo l’agricoltura tropicale compie un enorme progresso e in parte recupera il ritardo su quella dei
Paesi temperati; milioni di persone sono sottratte alla fame. Nel
1970 a Borlaug viene conferito il premio Nobel per la pace.
In realtà anche in Italia, e con più di trent’anni in anticipo rispetto
a Borlaug, era avvenuta un’analoga rivoluzione verde quando il
marchigiano Nazzareno Strampelli (1866-1942), agronomo presso
la Stazione sperimentale di granicoltura di Rieti, dopo 14 anni di ricerca e centinaia di incroci produce nel 1917 la varietà “Carlotta”
(dal nome della moglie) di grano tenero. I geni chiave erano per la
riduzione della taglia e l’insensibilità al fotoperiodo, cioè il periodo
di esposizione della pianta alla luce. Con Strampelli si compie la rivoluzione verde italiana; nel ventennio fascista l’Italia si affranca
dall’importazione di frumento per la panificazione. In un secondo
momento fu la volta del grano duro; si selezionano varietà in base
all’altezza del culmo, l’allettamento, la tardività, il periodo di fioritura e il numero di spighette. La resa passa da circa una tonnellata
per ettaro nel 1920 a tre tonnellate per ettaro nel 1996 (nello stesso
periodo quella di grano tenero passa da una tonnellata a cinque tonnellate). I grani di Strampelli furono diffusi in tutto il mondo: Messico, Argentina, Brasile, Russia, Spagna. Alla fine degli anni Quaranta le varietà di Strampelli vengono piantate in Cina su di un territorio grande 10 volte l’Italia. La produzione cinese ne esce quintuplicata. La rivoluzione verde inaugurata da Strampelli e da Borlaug ha interessato molti Paesi asiatici e dell’America Latina ma non
ha avuto alcun riscontro in Africa dove tuttora un terzo della popolazione adulta subsahariana è malnutrita. In Africa le rese per ettaro sono minori che altrove e nel 60 percento dei Paesi negli ultimi
anni del Novecento la produzione è addirittura diminuita. La diffusione dell’AIDS e le guerre locali aggravano la situazione africana
sottraendo forza lavoro all’agricoltura, d’altra parte la scarsezza
d’acqua non permette l’avvio delle colture come il riso e il frumen-
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L’agricoltura
to su cui si è fondata la rivoluzione verde asiatica favorita anche dall’esistenza di funzionali infrastrutture viarie, dall’impiego di concimi, dall’esistenza di tradizioni locali di monocolture, tutte condizioni che non si ritrovano nei paesi africani. Tuttavia le nuove biotecnologie possono rappresentare una formidabile occasione di
progresso per l’agricoltura africana e più in generale per l’agricoltura dei Paesi poveri e di quelli emergenti, visto che il 90 percento
dei coltivatori di piante transgeniche è rappresentato da contadini
poveri di questi Paesi. Naturalmente la questione è complessa e
l’applicazione con successo delle agrobiotecnologie in Africa è ostacolata dalle varie regolamentazioni nazionali sull’impiego di piante
ingegnerizzate, dai pregiudizi e dai timori che le popolazioni dei
Paesi occidentali hanno verso gli OGM, dalle questioni commerciali legate al pagamento di royalties, dalla diffidenza di molti agricoltori e governi africani verso l’agricoltura biotech.
Agricoltura e ambiente
I vistosi cambiamenti nella vegetazione terrestre e nella destinazione dei suoli durante il Ventesimo secolo sono legati all’espansione
dell’agricoltura. Attualmente oltre il 30 percento della superficie
mondiale coperta da vegetazione è costituita da piante coltivate (il
doppio rispetto a inizio secolo). I suoli non ghiacciati e sabbiosi del
pianeta ammontano a circa 133 milioni di ettari, pari a poco meno
del 30 percento della superficie planetaria; di questa superficie poco più del 25 percento circa è coltivabile; e se all’inizio del Novecento è coltivata una superficie di suoli pari all’Australia (circa otto
milioni di ettari), alla fine degli anni Novanta la superficie coltivata
eguaglia quella del Sudamerica (circa 17 milioni di ettari). Da quando esiste l’agricoltura, l’ampiezza delle superfici coltivate e quella
delle aree destinate ai pascoli sono andate crescendo a scapito delle
aree boschive e ancora di più a scapito delle praterie e delle aree
steppiche adatte a soddisfare la crescente richiesta di granaglie. La
domanda di cereali ha avuto un’impennata specialmente in concomitanza con l’espansione demografica del Novecento. Nel 1930 l’estensione delle aree coltivate era quattro volte superiore a quella del
1700, nel 1990 era sei volte superiore. In alcuni casi è stata la politica, attraverso l’imposizione di piani programmatici pluriennali, a
indurre cambiamenti dell’ambiente.
Nell’ex Unione Sovietica, durante la seconda metà degli anni Cinquanta, Mosca decide di aumentare la produzione cerealicola dell’Unione innalzando il rendimento delle vecchie colture e aumentando le superfici arabili e seminabili a cereali. In meno di un decennio si procede così al dissodamento di amplissime fasce delle
terre nere delle steppe kazache destinate alle colture di miglio e grano; le terre vergini transuraliche vennero rapidamente colonizzate
da molte centinaia di migliaia di persone, vennero fondati nuovi
centri abitati, furono costruiti impianti agricoli, autorimesse e officine per i trattori. L’impiego di fertilizzanti fu massiccio; così pure
quello di pesticidi. L’impatto ecologico di questa estensivizzazione
dell’agricoltura fu enorme ma forse meno drammatico di quello indotto negli stessi anni dalla coltivazione del cotone in Uzbekistan.
La coltura del cotone richiede molta acqua, una risorsa che non poteva essere garantita dalle scarse precipitazioni dell’Uzbekistan,
un’area continentale tipicamente semidesertica. I pianificatori sovietici decisero allora di ricorrere all’irrigazione artificiale prelevando l’acqua dai fiumi della rete idrografica. I due più grandi fiumi
della regione, immissari del lago d’Aral, l’Amu-Darya a sud e il SyrDarya a nord-est, in territorio kazaco, furono deviati e l’acqua fu incanalata artificialmente verso gli immensi campi di cotone. Nel giro
di pochi anni fu evidente che il lago d’Aral, diviso tra Kazakistan a
nord e Uzbekistan a sud, che all’epoca per estensione era il terzo
grande lago della Terra (68.700 km2), si stava ritirando. A partire dal
1960, in circa quarant’anni, la superficie si è più che dimezzata, il
volume d’acqua si è ridotto di oltre l’80 percento, la superficie libera si è abbassata passando da 53 m slm a 35 m slm; naturalmente la
salinità è cresciuta, di oltre quattro volte. Di conseguenza la fauna
ittica è stata decimata, passando da 24 a quattro sole specie. Molte
delle specie di uccelli, mammiferi e rettili, per limitarsi ai soli vertebrati, che popolavano le aree umide attorno al grande lago sono
scomparse. Venendo meno la massa d’acqua e la sua azione mitigatrice, il clima ha assunto un più spiccato carattere continentale con
inverni più freddi ed estati più calde; l’aridità è aumentata in tutta
la regione. Di conseguenza l’evaporazione è superiore alle precipitazioni e allora il livello del lago continua a diminuire per effetto del
mutamento climatico indotto. Questo scompenso idrologico ha
prodotto l’innalzamento della falda freatica che a sua volta ha provocato la salinizzazione dei suoli diventati praticamente inservibili
per l’agricoltura a meno di costosissime bonifiche. Inoltre la desertificazione dei suoli in cui si trovano concentrate grandi quantità di
sale ne favorisce la degradazione e la polverizzazione; si calcola che
ogni anno i venti che spirano sull’Aral trasferiscano nell’atmosfera
e trasportano in molte aree del pianeta molte decine di milioni di
tonnellate di polveri salate. Anche la geografia è mutata; a seguito
dell’abbassamento del livello del lago, una piccola isola posta al centro del bacino meridionale si è unita alla terraferma per emersione
del fondale. Attualmente una specie di penisola separa quasi completamente il lago in due bacini residui, uno settentrionale e uno
meridionale. Naturalmente il collasso ecologico del lago d’Aral ha
indotto una serie di contraccolpi economici (crollando la pesca infatti è venuta meno la maggiore risorsa economica delle popolazioni del lago ed è imploso l’indotto manifatturiero collegato all’industria della pesca) e di crisi sociali (rapido aumento della disoccupazione, peggioramento delle condizioni igieniche. cronicizzazione di
malattie, disgregazione delle famiglie e delle comunità) che si sono
saldati ai problemi politici generati negli anni Novanta dal disfacimento dell’ex Unione Sovietica. La tragedia ambientale, perché di
questo si tratta, e umana del lago d’Aral rappresenta un esempio
perfetto degli effetti destabilizzanti scatenati da politiche agricole
miopi, incapaci di tenere nel debito conto i delicati equilibri degli
ecosistemi in cui l’agricoltura viene praticata.
Novecento*, Storia:
Ambiente e ambientalismo,
Il fenomeno della
deruralizzazione
Novecento*, Scienza
e tecnologia: Dall’etica
medica alla bioetica,
Dall’ingegneria genetica
al progetto genoma umano,
La biodiversità, La genetica
Mais geneticamente modificato in grado
di resistere all’azione dei fertilizzanti
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La biodiversità
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di Saverio Forestiero
Ricchezza di specie, di geni e di ecosistemi; la nozione di biodiversità si fonda su
una concezione gerarchica dei viventi e ne mette in luce le differenze rispetto alla
dimensione genetica, tassonomica, ecologica. Biodiversità è un concetto
moderno, ha carattere sintetico, presenta risvolti teoricamente interessanti per la
genetica, la biosistematica, l’ecologia e la biogeografia, viene impiegato in
ambito applicativo (conservazione della natura, agricoltura, didattica e
comunicazione delle scienze naturali). Recenti studi comparativi dimostrano
l’esistenza di una forte correlazione spaziale tra diversità tassonomicaecosistemica e diversità linguistica di alcuni gruppi umani, nonché tra i fenomeni
di estinzione delle specie e delle lingue.
Il progetto delle Nazioni Unite sulla valutazione della
biodiversità globale
Nonostante il successo limitato (gli Stati Uniti non ne hanno firmato la Convenzione relativa), la Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente e lo Sviluppo (UNCED) tenuta a Rio de Janeiro nel
maggio 1992 ha dato al tema della biodiversità una risonanza enorme, come mai prima era accaduto. La biodiversità (dall’inglese biodiversity, contrazione di biological diversity) è un oggetto di studio
che genetisti, sistematici ed ecologi indagano da decenni anche se la
parola risale solo agli anni Ottanta del Novecento. Fino ad allora il
discorso sulle differenze tra i viventi era rimasto circoscritto agli addetti ai lavori. Poi, a metà degli anni Ottanta, quando diventa chiaro che le estinzioni di piante, animali e la perdita di interi ecosistemi stanno procedendo così velocemente da mettere in pericolo anche il benessere della nostra specie, la biodiversità diviene tema di
discussione anche fuori dei circoli scientifici. La nozione si è subito
caricata di elementi extrabiologici: economici, politici, giuridici ed
etici. A quel punto, il discorso sulla biodiversità, ampliato fino a
comprendere riflessioni sui costi economici e sociali delle violente
modificazioni antropiche dell’ambiente, si è trasformato in un discorso sul “problema della biodiversità”, sulla perdita di biodiversità. Accanto alla nozione scientifica si è rapidamente sviluppato un
grande dibattito socialmente costruito che, focalizzandosi sul progressivo impoverimento delle ricchezze biologiche, rilancia la riflessione sul rapporto uomo-natura e sull’indispensabile compromesso
tra necessità ambientali e necessità dello sviluppo economico; esigenze tradizionalmente conflittuali nella società moderna. La Convenzione sulla diversità biologica, firmata da 159 dei 183 Stati partecipanti alla conferenza di Rio del 1992, aveva come obiettivo generale la conservazione della biodiversità, l’uso sostenibile delle risorse biologiche, nonché la distribuzione giusta ed equa dei benefici derivati dall’uso delle risorse genetiche. Se da una parte l’esistenza di un problema della biodiversità e la conseguente necessità di
avviarlo a soluzione sono stati riconosciuti da tutti i partecipanti alla conferenza di Rio, d’altro canto tutti si sono anche trovati d’accordo nel giudicare il patrimonio di conoscenze di base sulla biodiversità ancora troppo esiguo e lacunoso per fondarvi sopra scelte di
medio e lungo termine di natura politica ed economica. Partendo
dal presupposto che la biodiversità è una risorsa vitale per la popolazione mondiale odierna e per le future generazioni e che pertanto
la sua conservazione è irrinunciabile, la comunità internazionale, at-
Esemplare di Sula nebouxii
fotografata sulle isole Galapagos
traverso il Programma Ambiente delle Nazioni Unite (UNEP), ha
iniziato ad attuare la Convenzione sulla Diversità Biologica commissionando uno studio sull’insieme delle conoscenze oggi esistenti sulla biodiversità. L’enorme lavoro di ricognizione degli aspetti
biologici e sociali della biodiversità, promosso dall’UNEP e sostenuto dallo strumento finanziario rappresentato dal Global Environmental Facility (GEF), ha prodotto un’analisi critica del problema,
la Valutazione della Biodiversità Globale (Global Biodiversity Assessment – GBA). Sotto forma di volume, la GBA sintetizza in 1140
pagine l’immensa ed eterogenea quantità di dati e di principi teorici a fondamento degli studi sulla biodiversità. Bisogna riflettere su
un aspetto peculiare della GBA: esso rappresenta il primo insieme
di conoscenze altamente integrate e aggiornate sulla biodiversità
dell’intera biosfera, tanto più sorprendente se si pensa che è stato
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Scienza e tecnologia “Conosci te stesso”: l’organismo e l’ambiente, la salute e la malattia
Bambini appartenenti a etnie diverse
Ottocento, Storia:
Le trasformazioni
dell’ambiente fisico
ottenuto in poco meno di tre anni di lavoro. La comunità internazionale dei ricercatori è riuscita a superare molte difficoltà sia di ordine concettuale sia di ordine pratico: dalla pianificazione all’organizzazione del lavoro; dall’eterogeneità dei problemi sul reperimento e l’organizzazione delle conoscenze all’attuazione rapidissima del
progetto; dalle innumerevoli diverse opzioni tematiche tra cui scegliere alla complessa articolazione delle gerarchie di coordinamento in cui compaiono istituzioni politiche, economiche, musei, università, parchi nazionali e altre istituzioni scientifiche, insieme a
molte centinaia di biologi, ecologi, economisti, specialisti di singoli
settori della ricerca direttamente coinvolti nel GBA.
Le componenti della biodiversità
Disponiamo di una decina di differenti definizioni di “diversità biologica-biodiversità”, e tutte in qualche modo enfatizzano la molteplicità di dimensioni e di livelli a cui la varietà dei viventi si manifesta e può essere osservata. La più antica è stata elaborata nel 1987
dall’Ufficio per la Valutazione della Tecnologia (OTA), presso il
Congresso degli Stati Uniti d’America:
“La diversità biologica si riferisce alla varietà e alla variabilità degli
organismi viventi e ai sistemi ecologici in cui essi si trovano. La diversità è definibile come il numero e la frequenza relativa di differenti oggetti. Nel caso della diversità biologica questi oggetti si trovano a diversi livelli di organizzazione: dagli ecosistemi nel loro
complesso alle strutture chimiche che costituiscono le basi moleco-
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lari dell’eredità. Pertanto il termine comprende i differenti ecosistemi, le specie, i geni nonché le loro abbondanze relative ”.
La biodiversità rappresenta, dunque, l’insieme delle differenze osservabili tra gli esseri viventi. Tali differenze possono essere descritte in rapporto ai geni, alle specie e agli ecosistemi ed espresse attraverso delle misure quantitative. Qualsiasi caratterizzazione della
biodiversità deve rifarsi ai saperi di tre discipline: la genetica che fornisce la descrizione dello stato della variazione intra e interspecifica; la sistematica che dà una rappresentazione organizzata delle differenze tra tutte le specie di organismi; l’ecologia che ricerca le regole che presiedono al funzionamento dei grandi sistemi ambientali in cui la diversità genetica e quella tassonomica si trovano necessariamente integrate.
Consideriamo dunque la diversità genetica. La biologia insegna che
l’essere differenti è una caratteristica propria dei viventi. La differenza è un attributo che fonda l’individualità degli organismi e costituisce una condizione necessaria alla loro evoluzione. La diversità
genetica, in particolare, consiste nell’insieme di tutte le differenze
ereditabili esistenti tra gli individui in una popolazione, e tra le diverse popolazioni, differenze che sono riconoscibili a livello genico.
Essa è riconducibile alle differenze di sequenza nelle coppie di basi
degli acidi nucleici. Le novità genetiche compaiono per mutazione.
La struttura e il numero dei cromosomi, come pure la quantità di
DNA contenuto in una cellula (dimensione del genoma) costituiscono alcuni tipi di diversità genetica. Nei batteri, per esempio, le
dimensioni dei genomi variano ampiamente da 6x105bp a più di 107
bp (coppie di basi componenti il DNA). Il genoma del micoplasma,
uno dei più piccoli organismi procarioti, contiene circa 400 geni,
mentre negli altri batteri il numero di geni varia tra 500 e 8 mila. La
maggioranza degli eucarioti possiede, invece, qualcosa come 50 mila geni e un contenuto di DNA estremamente differente, variabile
tra 8,8 x 106 bp e 6,9 x 1011bp (nell’uomo sono state stimate 3 x 109
bp). Tuttavia è a livello delle popolazioni e delle specie che la diversità genetica è stata studiata in grande dettaglio. La grandissima
maggioranza delle specie vegetali e animali, infatti, mostra caratteri
variabili sia nella stessa popolazione, sia tra popolazioni diverse della stessa specie. La variabilità dei caratteri ereditabili è importante
per la sopravvivenza delle specie, e quindi per la conservazione della biodiversità, perché, grazie alla selezione naturale, permette alle
popolazioni di cambiare la propria costituzione genetica nel corso
del tempo, adattandosi ad ambienti mutevoli. Quanto più è piccola
la variabilità genetica di una specie tanto più lento sarà il suo cambiamento evolutivo e minore, perciò, la sua capacità di sopravvivere e adattarsi geneticamente ai cambiamenti ambientali.
Per diversità tassonomica si intende, restrittivamente, il numero di
specie presenti in un habitat o in un luogo circoscritto. Taxon si dice di un qualsiasi gruppo di organismi sufficientemente distinto da
altri organismi, in possesso di un nome e collocato a uno dei livelli
La sistematica biologica
La sistematica è quella parte della zoologia e della botanica che cerca di ordinare gli organismi in
gruppi, appartenenti ai diversi livelli di un sistema,
(specie, generi, famiglie ecc.), a seconda dei rapporti
e delle affinità tra i gruppi stessi.
I criteri usati per costruire la sistematica sono stati
diversi nel tempo: esigenze di caccia, pesca e in generale di sopravvivenza hanno dato origine a classificazioni legate alla stagionalità, ai metodi di cattura,
alla pericolosità o meno degli animali. All’inizio la si-
stematica fu una catalogazione degli animali e delle
piante in base a somiglianze morfologiche; oggi, tuttavia, le conoscenze di anatomia comparata, di embriologia, di biochimica forniscono altri elementi di
valutazione. L’attenzione si è spostata sulle popolazioni e su fenomeni biologici complessi, la cui spiegazione necessita del contributo di diverse discipline.
Inoltre la sistematica attuale è basata su criteri evolutivi, nel tentativo di stabilire i vincoli di parentela fra
gli organismi.
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La biodiversità
della gerarchia. Ad esempio Homo sapiens e Canidi sono due taxa
collocati a due distinti livelli gerarchici; uno è una specie, l’altro è
una famiglia. Il punto di vista tassonomico della biodiversità è diventato in poco tempo così popolare che il numero di specie si è affermato ovunque sui media come sinonimo di biodiversità tout
court anche se è solo una delle tre componenti della biodiversità. La
diversità di specie dell’intera biosfera corrisponde al totale delle
specie animali, vegetali, fungine e batteriche esistenti sul pianeta. Le
stime sulle specie esistenti variano da un minimo di 3-10 milioni (secondo l’ecologo britannico Robert May, 1990) fino a 30 milioni (è la
stima di Thomas Erwin, 1982) fino a massimi compresi nell’intervallo 50-100 milioni (secondo uno dei massimi esperti di biodiversità tassonomica, Edward O. Wilson di Harvard, 1992). Stime prudenziali circa la diversità totale riportano 12-13 milioni di specie,
fornendo un quadro in cui spiccano gli Insetti con i 2/3 del totale, i
funghi e i microrganismi. Anche il numero delle specie conosciute
non è accertato. Una delle stime più attendibili delle specie note alla scienza le valuta intorno ai 2 milioni (in Italia sono registrate oltre 5.600 specie di piante e 55.600 specie di animali). Lo studio della diversità tassonomica sta alla base della sistematica biologica: disciplina che identifica, classifica e dà un nome ai diversi tipi di organismi esistenti. Quanto più una specie è filogeneticamente distante dalle altre, cioè quanto più rappresenta un ramo isolato nel
grande albero della vita, tanto più essa contribuisce all’estensione
della biodiversità.
Le differenze ecologiche sono le più difficili da definire. Il peso dell’habitat (cioè dei fattori non biologici come la temperatura, l’umidità, la salinità, il pH ecc.) sulle differenze tra ecosistemi può essere grandissimo. Si pensi anche solo alle differenze tra ecosistemi acquatici ed ecosistemi subaerei-terrestri, e quindi alla differenza tra
biodiversità terrestre e biodiversità marina. Anche la diversità ecologica è articolata in più livelli gerarchici, da quello popolazionistico, a quello di nicchia, di habitat, di ecosistema, di paesaggio, di
bioma, cioè del complesso di ecosistemi di una data area contraddistinta da un certo tipo si vegetazione. Una migliore caratterizzazione si ottiene individuando tre componenti principali (dette rispettivamente a ß ? della diversità ecologica distinguibili tra di loro
a seconda della scala spaziale di osservazione e misura. La diversità
ecosistemica viene di solito indagata localmente e limitatamente alle biocenosi, le componenti viventi di un ecosistema, rapportando
matematicamente la ricchezza di specie (il numero di specie presenti in quell’ecosistema) alla loro abbondanza relativa (numero di
individui presenti in ciascuna specie).
Una sala dedicata alla biodiversità
all’interno del Museo di Storia Naturale
di New York
di estinzioni (Ordoviciano 440 Ma, Devoniano 365 Ma, Permiano
225 Ma, Triassico 210 Ma, Cretaceo 65 Ma) che fu innescata da un
rapidissimo raffreddamento della Terra che provocò la scomparsa
di circa il 95 percento delle specie animali marine.
La distribuzione geografica della diversità tassonomica (numero di
specie presenti in un’area) sulle terre emerse non è uniforme. La diversità generalmente è elevata nelle aree calde e umide del globo, diminuisce dall’equatore verso i poli e con l’aumento dell’altitudine.
Negli oceani, poi, esiste correlazione tra diversità tassonomica e
profondità. Per gli organismi pelagici la massima ricchezza tassonomica si situa tra –1.000 m e –1.500 m di batimetria.
Le aree del pianeta a più alta diversità di specie sono le regioni circumequatoriali dove gli ecosistemi di foresta pluviale (circa il 7 percento delle terre emerse) forse contengono oltre il 90 percento di
tutte le specie conosciute. Nelle regioni temperate manifestano
Esemplare di koala con cucciolo al collo
Questi marsupiali, che ora
vivono quasi esclusivamente in
Australia, sono, dopo i
monotremi, i mammiferi più
primitivi; la loro esistenza nel
Laurenziano è testimoniata da
reperti fossili dall’inizio del
Cretaceo.
Storia e geografia della biodiversità
La biodiversità oggi osservabile è il risultato di un processo storico
lunghissimo iniziato tra 3.900 e 3.400 milioni di anni fa (Ma) con la
comparsa della vita sul pianeta. Considerando il fatto che l’evoluzione biologica è un fenomeno irreversibile (potendo cominciare
daccapo, la storia della vita sulla Terra sarebbe sicuramente diversa
da quella che conosciamo) ne deriva che l’attuale biodiversità è un
fenomeno contingente, storicamente determinato. Dallo sfocato panorama della ricostruzione paleontologica spiccano chiari due elementi: il fatto che la diversità macrotassonomica (intesa come ricchezza di tipi organizzativi) ha raggiunto il suo apice circa 530 Ma
fa nel Cambriano; il fatto che la diversità di famiglia e di specie è andata aumentando dal Cambriano al Pleistocene con poche battute
d’arresto, in corrispondenza delle fasi, di solito brevi e isolate, di
estinzione di massa. Un durissimo colpo alla biodiversità venne dalla terribile catastrofe del tardo Permiano, la terza delle cinque gran-
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Scienza e tecnologia “Conosci te stesso”: l’organismo e l’ambiente, la salute e la malattia
sono fenomeni che sembrano favoriti nelle aree equatoriali-tropicali da condizioni climatiche pressoché ottimali, relativamente inalterate per decine o centinaia di migliaia di anni.
Mentre alcuni habitat, come quello della foresta tropicale pluviale o
quello della barriera corallina, sono ricchissimi di specie, altri, come
per esempio l’habitat della tundra o quello del semideserto, sono
poveri di specie, pur ospitando animali e piante biologicamente
molto interessanti. Differenti valori di biodiversità tra siti differenti
dipendono innanzitutto dalla superficie considerata e poi, ovviamente, dalla scala a cui la diversità è misurata. Il numero di specie
presenti in un’area aumenta con la superficie dell’area campionata.
Anche a parità di superficie, tuttavia, alcune aree sono particolarmente ricche di specie rispetto ad altre e costituiscono dei centri di
diversità locale. Un’importantissima componente geografica della
diversità è data dalle specie endemiche, specie, cioè che sono esclusive di un’area considerata: per esempio il varano di Komodo è un
rettile esclusivo dell’isola di Komodo.
Felci nella foresta pluviale nello Stato di
Victoria in Australia
Novecento*, Storia:
Ambiente e ambientalismo,
La demografia
Diversità bioculturale
Novecento*, Scienza e
tecnologia: La genetica,
La sociobiologia, L’ecologia:
aspetti scientifici e problemi
di conservazione, L’etologia,
L’evoluzione
dell’evoluzionismo
Una veduta panoramica del Sahara
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grande ricchezza di piante le zone a clima mediterraneo del Sud
Africa con 8.600 specie e dell’Australia Occidentale con oltre 5.500
specie. L’esistenza di tali gradienti geografici della biodiversità ha
cause molteplici non ancora ben comprese, ma collegabili, comunque, alle condizioni facilitanti la formazione e il mantenimento di
nuove specie. Speciazione e conservazione della ricchezza di specie
Da oltre un decennio, naturalisti, etnologi e linguisti si sono fatti
sempre più attenti ai rapporti tra la diversità biologica e quella culturale. Il confronto tra queste due forme di diversità ha fatto scaturire la nozione di diversità bioculturale: l’insieme delle varietà esibite, in una area geografica, dai sistemi naturali e da quelli culturali.
Questi studi mostrano come i molteplici aspetti della diversità dei
viventi siano tra loro intimamente collegati, profondamente capaci
di modellarsi reciprocamente attraverso la storia delle attività umane sul pianeta. C’è una crescente consapevolezza che la nostra specie fa parte integrante della natura e che la sua azione ha aiutato a
modellare molti degli ambienti cosiddetti naturali della biosfera.
Esisterebbe cioè una vera e propria co-evoluzione tra gli esseri umani e gli ambienti naturali in cui la nostra specie è evoluta. Ecco allora che comprendere il posto dell’uomo nella natura e il ruolo delle
lingue e delle culture che definiscono quel posto diventa sempre più
importante e decisivo in una visione globale, olistica, della diversità.
Gli studi interdisciplinari sulla diversità bioculturale mostrano che
i modelli globali di distribuzione geografica della biodiversità coincidono in maniera significativa con i modelli di distribuzione della
diversità linguistica, presa come descrittore della diversità culturale
nel suo complesso. Il tema è affascinante e già sono in corso tentativi di stimare, attraverso indici quantitativi (sensibili alla ricchezza
di specie animali e vegetali, all’ampiezza dell’area geografica considerate e all’entità demografica delle popolazioni umane), la diversità bioculturale di vaste regioni del globo. I primi risultati dicono
che il bacino amazzonico, l’Africa centrale e l’area peninsulare-insulare indomalese e melanesiana sono i tre complessi geografici dove si osserva il massimo grado di diversità naturale e culturale. Ma
anche le aree del globo segnate dai più elevati tassi di estinzione di
specie e di lingue-culture.