Lezione 1 Adattamento/Addomesticamento
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Lezione 1 Adattamento/Addomesticamento
ENCICLOPEDIA FILOSOFICA ADATTAMENTO (adaptation; Anpassung; accomodation, adaptation; adaptación). – SOMMARIO: I. Biologia: 1. Aspetti dell’adattamento biologico. ‐ 2. Questioni storiche ed epistemologiche relative alla nozione di adattamento. ‐ II. Psicologia adattamento ‐ III. Sociologia adattamento I. BIOLOGIA 1. Aspetti dell’adattamento biologico. – Sul piano fenomenologico l’evoluzione della materia vivente si manifesta attraverso due modalità: una è la produzione di biodiversità, l’altra è la produzione di adattamento biologico. Nello spazio concettuale e teorico della biologia, l’adattamento occupa il centro della vasta area semantica popolata dai concetti di carattere, variazione, genotipo, fe‐notipo, ambiente, selezione, fitness, organismo, popolazione, evoluzione. Il termine adattamento è entrato nel lessico specialistico della biologia portandosi dietro significati fondati sul senso comune, così come è accaduto per termini come evoluzione e selezione che possono veicolare anche visioni del mondo del tutto estranee, se non proprio in conflitto, con la rappresentazione scientifica della natura (E. Fox Keller ‐ E. Lloyd, Keywords in Evolutionary Biology, Cambridge (Massachusetts) 1992). I sistemi viventi sono sistemi gerarchici sia in termini strutturali (organismo unicellulare, organismo multicellulare, popolazione e biocenosi sono quattro distinti livelli di organizzazione unitaria della materia vivente, ognuno caratterizzato da proprietà nuove non prevedibili a partire dal livello inferiore), sia funzionali (c’è gerarchia anche nell’azione dei vincoli esterni e interni che modellano l’organizzazione di un sistema vivente); e gli adattamenti, che si manifestano come risultati di vicende evolutive diverse, si presentano sotto forme differenti. Tuttavia, la forza (e anche in parte la debolezza) del concetto di adattamento si basa sulla sua enorme ineguagliata capacità di riunire un’immensa ed eterogenea rac‐colta di dati osservativi e sperimentali servendosi di un unico principio esplicativo: il principio di selezione. Gli adattamenti si manifestano e possono essere indagati nella loro dinamica diacronica (si tratta allora del processo di adattamento), oppure nella loro configurazione (pattern negli autori anglosassoni) sincronica (stato di adattamento, condizione dell’essere adattato); perciò l’adattamento è definibile in almeno due modi diversi: diacronicamente, l’adatta‐mento consiste in una reazione favorevole di un soggetto esposto al cambiamento di un fattore ambientale; sincronicamente è percepito come stato di congruità tra organismo e ambiente. Questa differenza tra processo e configurazione è di grande importanza, dato che le cause che hanno originato un adattamento evolutivo non necessariamente ancora agiscono quando noi ne osserviamo gli effetti. Assolutamente decisiva è poi la differenza tra gli adattamenti rispetto al tipo di soggetto che si adatta. Le possibilità sono due sole: chi si adatta è un organismo individuale (non importa se uni o pluricellulare), oppure è una popolazione (in genetica, popolazione non è una semplice classe di oggetti‐individui a cui è estesa una proprietà individuale, ma un insieme di oggetti‐ individui che godono di una proprietà Adattamento 1 sopraindividuale: cioè la capacità di una totale mescolanza genetico‐riproduttiva – panmissia – che in quanto proprietà relazionale non può essere goduta singolarmente). Gli adattamenti, inoltre, si manifestano alle scale micro‐ e macroevolutiva; mentre gli adattamenti microevolutivi, però, sono passibili di indagine sperimentale, per quelli macroevolutivi, finora, si possono raccogliere solo prove indirette della passata dinamica processuale. Da quanto detto, allora, si comprende come la biologia non possieda una definizione non ambigua di adattamento, anche se poi l’adattamento compare nelle definizioni di organismo vivente, come quella di Pietro Omodeo: «Un organismo vivente è definibile come un sistema aperto, cellulare, delimitato da un confine selettivo, percorso da flussi autoregolati di materia, energia e informazione grazie ai quali è suscettibile di riprodursi e di evolvere attraverso le generazioni, adattandosi ad ambienti mutevoli» (P. Omodeo, What is a Living Being?, in M. Rizzotti [a cura di], Defining Life, Padova 1996, pp. 187‐198). Globalmente il termine adattamento si applica ad almeno tre tipi di fenomeni molto diversi tra loro: 1) il processo inerente tutti i viventi, che comporta l’aggiustamento di caratteristiche fisiologiche, morfologiche, etologiche in accordo con l’ambiente di vita (adattamento come “risposta adattativa” indotta da un fattore ecologico: p. es. l’abbronzatura della pelle per esposizione ai raggi UV); 2) lo stato con cui un carattere geneticamente determinato si manifesta e che, in un certo contesto, conferisce un vantaggio al suo portatore rispetto ad altri individui che sono portatori di stati alternativi del carattere (come nel caso del gene per l’emoglobina s, emoglobina mutata responsabile dell’anemia falciforme, una patologia anche molto grave; la mutazione negli individui eterozigoti conferisce però una notevole protezione contro l’infezione malarica, per cui nelle aree malariche gli individui falcemici eterozigoti hanno salute migliore sia rispetto agli omozigoti falcemici affetti da gravissima anemia, sia rispetto agli omozigoti sani, non anemici, ma assai facilmente soggetti alla malaria; e ancora come nel caso del mimetismo fanerico di certe farfalle, o della resistenza dei batteri patogeni agli antibiotici); 3) il possesso di strutture complesse, ereditate filogeneticamente, che permettono lo svolgimento di funzioni di livello elevato (branchie e pinne dei pesci come macroscopi‐ ci adattamenti all’ambiente acquatico e al nuoto; dispositivi di ecolocazione dei pipistrelli come adattamenti per la predazione, ecc.). Le differenze tra questi tre tipi di adattamento sono rimarchevoli. Nel primo caso, la risposta adattativa individuale è esclusivamente fenotipica; si tratta di un cambiamento di natura quantitativa nella regolazione genica che provoca l’aumento o la diminuzione di una o più proteine (p. es. viene sintetizzata più o meno melanina), ed è di solito reversibile; si parla in tal caso di adattamento biologico di tipo ecologico, fisiologico, postgenetico; in pratica c’è un processo di adattamento individuale ma non c’è evoluzione, perché la costituzione genetica dell’individuo non viene per nulla modificata durante il processo reattivo. Nel secondo caso si tratta di adattamento ENCICLOPEDIA FILOSOFICA biologico di tipo genetico, evolutivo; è un cambiamento qualitativo (alla base si trova una mutazione che produce novità genetica) e di norma irreversibile; c’è adattamento perché c’è evoluzione della popolazione attraverso selezione naturale (secondo il precedente esempio, in ambiente malarico gli eterozigoti anemici arrivano all’età adulta con maggiore probabilità rispetto agli altri due genotipi; il numero delle copie dei genotipi eterozigoti aumenta nel tempo: la costituzione genetica della popolazione – i rapporti di frequenza tra i tre genotipi – cambia deterministicamente nel passaggio da una generazione alla successiva). L’adattamento di terzo tipo è macroevolutivo e di norma irreversibile; le sue cause, molteplici e complesse, coinvolgono i processi di sviluppo su tempi lunghi. 2. Questioni storiche ed epistemologiche relative alla nozione di adattamento. – Uno dei fondamenti della biologia moderna è costituito dall’assunto secondo il quale tutti gli adattamenti di un organismo (inteso o come individuo o come popolazione) al proprio ambiente sono spiegabili ricorrendo al processo di selezione naturale. Quest’ultima è innanzitutto un effetto, precisamente è il risultato dell’interazione tra la variazione genetica fenotipicamente espressa e la variazione spazio‐temporale dell’ambiente; di fatto si presenta come riproduzione differenziale di genotipi incarnati in fenotipi. La selezione diventa una causa, la prima causa di evoluzione, quando dalla descrizione del processo evolutivo si passa all’indagine sui fattori eziologici; la selezione è la causa, l’unica causa, dell’adattamento. Come è noto, furono Charles Darwin e Alfred Russell Wallace a identificare nella selezione naturale la causa dell’evoluzione adattativa; le loro idee furono illustrate nel 1858 alla Linnean Society di Londra. Darwin aveva riflettuto a lungo sulla questione a partire dal 1838, quando, dopo avere letto il Saggio sul principio di popolazione (London 1798) di Thomas R. Malthus, aveva iniziato un processo ventennale di revisione critica delle proprie idee giovanili (D. Ospovat, The Development of Darwin's Theory, Cambridge 1981; Mayr, 1982), innanzitutto rifiutando la posizione finalistica che all’epoca caratterizzava lo studio della natura ispirato alla Natural Theology (London 1802) di William Paley (1743‐1805). Paley aveva impiegato l’analogia dell’orologiaio cieco, un argomento finalistico fondato sull’idea che qualcosa di irriducibilmente complesso come un orologio spinge inevitabilmente a credere all’esistenza di un orologiaio, di complessità superiore a quella del manufatto. Paley sosteneva che l’adattamento perfetto delle specie al loro ambiente dimostrava l’esistenza di un architetto divino. Il tema dell’intelligent design, cruciale nelle argomentazioni del creazionismo contemporaneo, riprende esplicitamente l’analogia di Paley, criticando alcuni aspetti della spiegazione scientifica, materialista e laica dell’adattamento. Prima di Darwin, la nozione di adattamento era utilizzata da Lamarck e si caratterizzava per l’idea di un adeguamento all’ambiente raggiunto in forza di una tendenza interna degli organismi ad agire secondo i propri bisogni. Nell’ottica lamarckiana gli adattamenti conse‐ guiti dai genitori vengono trasmessi alla pro‐genie (ereditarietà dei caratteri acquisiti). Negli anni Adattamento 2 posteriori all’elaborazione della teoria sintetica dell’evoluzione, gli studi sull’adattamento sono stati caratterizzati da un approccio funzionalista e ingegneristico che culmina in quello che, negli anni Settanta, alcuni critici hanno chiamato «adattamentismo» (R. Lewontin, Adattamento, in Enciclopedia Einaudi, vol. I,Torino 1977, pp.198‐214; Id., L'adattamento, in P. Omodeo [a cura di], Storia naturale ed evoluzione, Milano 1978, pp. 39‐49; S.J. Gould ‐ R. Lewontin, The Spandrels of San Marco and the Panglossian Paradigm, in «Proceedings of the Royal Society of London, B» 205 [1979], pp. 581‐598.). Per “programma adattamentista” si intende il ricorso pregiudiziale a spiegazioni selezioniste, scartando dall’analisi causale fattori che, come la crescita allometrica e i vincoli dello sviluppo, potrebbero in linea di principio essere altrettanto esplicativi. I due paleontologi Stephen J. Gould (1942‐2002) e Elisabeth Vrba, che sono tra i maggiori critici degli eccessi del selezionismo, distinguono tra adattamenti veri e propri (caratteri che sono evoluti per effetto diretto del meccanismo di selezione) ed esattamenti (ex aptations, in inglese), cioè caratteri evoluti inizialmente per un certo uso, i quali, una volta allentati i vincoli selettivi che li hanno modellati, sono disponibili a essere cooptati per una nuova differente funzione (S.J. Gould ‐ E. Vrba, Exaptation: a Missing Term in the Science of Form,in «Paleobiology» 8 (1982), pp. 4‐15; E. Mayr, The Growth of Biological Thought, Cambridge (Massachus‐setts) 1982, tr. it. di B. Continenza et al., Storia del pensiero biologico,Torino 1990). S. FORESTIERO II. PSICOLOGIA. – La questione dell’adatta‐mento ricorre specie in quegli autori il cui modello di mente si ispira in qualche modo alla biologia o quanto meno suppone una conti‐nuità tra corpo e psiche; laddove invece si insiste sull’alterità della psiche, il tema, quando non negletto, è declinato nei termini di un co‐ stitutivo disadattamento dell’essere umano, per via dell’eccedenza della cultura e del desiderio rispetto alla realtà naturale, e pure sociale (in questo senso Lacan ripropone in sostanza l’agostiniano cor inquietum). Va d’altra parte notata la frequente indeterminazione del termine ad quem dell’adattamento, ora l’ambiente in senso biologico, ora in senso sociale. Il funzionalismo è certo la corrente che nella psicologia moderna, a cavallo tra ‘800 e ‘900, ha per prima focalizzato la questione dell’adattamento, nella misura in cui esso abbraccia incondizionatamente il paradigma evoluzionistico: scopo della psiche, con le sue varie funzioni (facoltà), è l’ottimizzazione dell’adattamento dell’organismo all’ambiente, e quanto più la psiche è evoluta, tanto maggiori possibilità di sopravvivenza, ceteris paribus, essa offre. Se nel funzionalismo l’adattamento conserva una connotazione finalistica, il succedaneo comportamentismo, che pure ha a cuore il problema, ne prevede una concezione per lo più meccanica: sono appresi e mantenuti quei comportamenti che, pur emessi casualmente, vengono premiati (il «rinforzo» di cui parla Skinner), cioè risultano consoni alle richieste ambientali. Gli sviluppi recenti del cognitivismo, superando le forzate astrazioni di studi meramente condotti in laboratorio, tornano dal canto loro, con la corrente «ecologica», a focalizzare il Adattamento ENCICLOPEDIA FILOSOFICA rapporto con l’ambiente: il concreto essere umano non è propriamente assimilabile a un elaboratore di informazioni, dacché il computer non ha il problema di sopravvivere in un ambiente naturale e sociale, né quello di riprodursi come specie. Nella ricorrente dialettica di «assimilazione» e «accomodamento», che secondo Piaget qualifica lo sviluppo cognitivo dal bambino all’adulto, il secondo polo consiste nella ri‐ strutturazione degli schemi mentali, onde me‐ tabolizzare quegli stimoli e quelle situazioni ambientali ormai divenuti inassimilabili entro lo schema vigente. Come dire che l’adatta‐mento è work in progress, che caratterizza l’ontogenesi psichica dell’essere umano, procedendo di concerto con le fasi di sviluppo biopsicologiche geneticamente programmate. La psicoanalisi pone il problema dell’adattamento in primo piano con Heinz Hartmann e la sua psicologia dell’io, individuando, proprio nell’adattamento, un quarto punto di vista metapsicologico da affiancare ai tre freudiani: occorre indagare i processi psichici, anche quelli conflittuali, interrogandone altresì la funzione adattiva o meno. Così, in luogo dell’eversivo disadattamento dell’es sia rispetto alla società (si ricordi il freudiano «disagio» della civiltà), sia rispetto alla natura (si veda l’antibiologica pulsione di morte), la corrente inaugurata da Hartmann sottolinea piuttosto la funzione di normatività adattiva svolta dall’Io. M. FORNARO III. SOCIOLOGIA. – In sociologia il termine adattamento è stato originariamente introdotto, mutuandolo dalla biologia, da quegli autori che, soprattutto nel corso del sec. XIX, interpretavano l’evoluzione sociale in analogia con quella naturale, e ripreso in tempo più recenti segnatamente da quanti hanno riproposto un'interpretazione biologica unificata del comportamento sociale. Esso è conseguentemente venuto a indicare il rapporto che intercorre tra una collettività e il suo ambiente cir‐ costante, sia sociale sia naturale, e implica l’idea che un certo grado di adattamento, maggiore o minore, sia una condizione di esistenza per qualsiasi collettività 3 umana (gruppi, organizzazioni, società). L’evoluzione delle strutture sociali sarebbe, in quest’ottica, l’espressione del principio biologico per cui la vita è il costante adattamento delle relazioni interne di un organismo alle sue relazioni esterne. Talcott Parsons ha approfondito e sistematizzato questo pensiero, separandolo tuttavia dall’originaria impronta bioanalogica, dal momento che il parallelismo tra organismo sociale e organismo animale non è mai riuscito ad andare oltre i limiti di una mera similitudine. Egli ha inserito l’adattamento tra i quattro imperativi funzionali di ogni sistema sociale, al pari del conseguimento degli scopi collettivi, dell’integrazione dei ruoli e del mantenimento della struttura latente. La sopravvivenza di una collettività è legata alla sua capacità di stabilire e coltivare dei rapporti con l’ambiente esterno, sia adattandosi alle sue coercizioni, alle sue esigenze e ai suoi eventuali cambiamenti, sia adattando l’ambiente ai propri bisogni, cioè controllandolo e modificandolo. Così si spiega la continua invenzione e modifica di strutture sociali e istituzioni, sviluppate dalle collettività per far fronte alle esigenze poste dall’interazione con l’ambiente. P. VOLONTÉ BIBL.: Per la parte II: H. HARTMANN, IchPsychologie und Anpassungsproblem, Wien‐Leipzig 1939; tr. it. di M. Low‐Beer, Psicologia dell’Io e problema dell’adattamento, Torino 1966; L. GORLOW ‐ W. KATVOSKY, Readings in the Psychology of Adjustement, New York 1959; AA.VV., Les processus d’adaptation: symposium de l’Association de psychologie scientifique de langue française, a cura di F. Meyer et al., Paris 1967; J. PIA‐GET, L’équilibration des structures cognitives: problème central du développement, Paris 1975; tr. it. di G. Di Stefano, L’equilibrazione delle strutture cognitive: problema centrale dello sviluppo, Torino 1981. Per la parte III: AA.VV., Toward a General Theory of Action, a cura di T. Parsons ‐ E.A. Shils, Cambridge (Massachusetts) 1951; AA.VV., Man in Adaptation. The Biosocial Background, a cura di Y.A. Cohen, Chicago 1974. ➨ COGNITIVISMO; COMPORTAMENTISMO; EVOLUZIONE; FUNZIONALISMO; METAPSICOLOGIA; SOCIOBIOLOGIA. ➨ ENCICLOPEDIA FILOSOFICA BOMPIANI, MILANO, 2006 Addomesticamento ADDOMESTICAMENTO (ingl. Domestication, fr. Domestication, ted. Zähmung). Sin dalle sue origini, la storia dell'umanità è stata contraddistinta dai suoi ripetuti tentativi di superare i vincoli imposti dall'ambiente. È probabile che inizialmente la ricerca e lo sviluppo di questa autonomia, ottenuta attraverso un crescente controllo dei prodotti e dei processi della natura, siano stati motivati in termini simbolicoaffettivi, anche se poi il processo di affrancamento dalla natura si caratterizzò per i suoi risvolti più o meno direttamente economici, energetici, collegati alla sopravvivenza dei gruppi umani e alle trasformazioni delle società. E' accertato che a partire dal tardo Neolitico l'emergere del fenomeno urbano e delle civiltà antiche furono connessi e promossi dallo sviluppo dell'addomesticamento grazie al quale la nostra specie riuscì innanzitutto a ridurre la propria dipendenza da risorse alimentari prelevate in natura, attraverso la caccia e la raccolta, e caratterizzate da una disponibilità e da un'abbondanza fluttuanti e aleatorie. Andò originandosi per questa via un doppio reciproco condizionamento: piante e animali addomesticati incisero fortemente sull'evoluzione biologica e culturale della nostra specie, che divenne a sua volta il principale fattore ambientale, la forza che orientò l'evoluzione delle specie domestiche. Sebbene trasformato, questo doppio legame persiste ancora oggi. I fondatori. Cronologicamente, le precondizioni che permisero la nascita dell'allevamento sono state fatte risalire alle ultime fasi del Paleolitico, quando nei territori boreali le bande di cacciatori umani dovettero contattare i branchi di lupi, anche essi, come gli uomini, organizzati gerarchicamente in funzione della caccia. L'uomo e il lupo evolvettero perciò, in stato di simpatria S. Forestiero come specie sociali, dedite alla caccia e predatrici di grandi mammiferi. Anzi è verosimile che uomini e lupi cacciassero uno stesso tipo di preda e vi sono parecchie probabilità che l'uomo abbia potuto tenere presso di sé esemplari di lupo, come sembrano indicare alcune testimonianze archeologiche sulla cattività di specie selvatiche. Resti assai antichi di Canis (la distinzione osteologica tra lupo e cane non è sempre possibile) trovati in siti abitati dall'uomo presistorico in Anatolia (9000 anni fa), Inghilterra (9500 anni fa), Idaho (10.400 anni fa), Iraq-Monti Zagros (12.000 anni fa) testimoniano dell'antichità del legame tra Homo sapiens sapiens e i progenitori del cane moderno. Di particolarissimo interesse è il reperto, nella parte settentrionale dello Stato di Israele, di una tomba con i resti di un cucciolo di cane o di lupo di 4-5 mesi di età posti accanto a quelli di una persona anziana (Davis e Valla, 1978). Questa giace ranicchiata sul fianco destro; il braccio sinistro portato verso il capo, con il polso sistemato sotto la tempia. L'eccezionalità del ritrovamento è però nell'atteggiamento della mano sinistra del morto, che è tenuta sul dorso del cucciolo in una postura significativa di affettività e di attaccamento (Serpell, 1996). La sepoltura, appartenente alla cultura Natufian del Paleolitico superiore-Mesolitico, risale a 10.000 12.000 anni fa e viene interpretata come un segno di una condizione di preaddomesticamento (Davis e Valla, cit.). Un altro caso notevole, ma molto più recente del precedente, proviene da un sito delle Alpi francesi abitato circa 6000 anni fa, dove è stata documentata la presenza di un orsacchiotto catturato all'età di circa sei mesi e quasi certamente tenuto in cattività per almeno cinque anni (Chaix et al., 1997). Questi due ritrovamenti, in particolare, hanno sollecitato l'elaborazione di un'ipotesi sulla nascita dell'allevamento 1 Addomesticamento visto come conseguenza dell'abitudine di tenere presso di sé, in qualità di animali da compagnia, esemplari di alcune tra le specie selvatiche con cui l'uomo entrava in contatto. In principio, il legame con le prime specie allevate sarebbe stato perciò di natura non immediatamente economica, per diventarlo in un secondo tempo quando, anche grazie ad una migliorata conoscenza delle caratteristiche ecoetologiche di queste specie, l'uomo ne avrebbe tentato la gestione attraverso la riproduzione in cattività. D'altra parte l'abitudine di tenere cuccioli o adulti di selvatici come animali da compagnia è ampiamente dimostrata da dati etnologici (vedi per es. Diamond, 1997). Dopo il cane furono domesticati nell'Asia sudoccidentale, intorno all'VIII millennio a.C. , la pecora, la capra e il maiale (quest’ultimo anche in Cina); intorno al VI millennio a.C. il bue nella stessa area e in India; duemila anni più tardi il cavallo in Ucraina, l'asino in Egitto e il bufalo asiatico forse in Cina; la specie a cui appartengono il lama e l'alpaca fu domesticata sulle Ande verso il 3500 a.C.; i camelidi paleartici mille anni più tardi: il cammello in Asia centrale e il dromedario in Arabia. Nel suo saggio sul ruolo dell'ambiente nella storia delle società umane, Jared Diamond, un biogeografo dell'UCLA, osserva che sulla carta sono candidati alla domesticazione 148 specie di mammiferi terrestri (72 nella Paleartide Eurasia e Nordafrica - 51 nell'Africa sudsahariana, 24 nelle Americhe, 1 specie - il canguro rosso - in Australia) ma che solo 14 specie sono state pienamente rese domestiche (13 in Eurasia e 1 - l'antenato del lama e della alpaca - nelle Americhe). Dunque poco meno della metà (48%) delle specie candidate sono originarie dell'Eurasia; di quelle domesticate quasi tutte (93%) sono eurasiatiche. In pratica su 72 specie paleartiche candidate, 13 (18%) sono state addomesticate. Chiedendosi le S. Forestiero ragioni del predominio della fauna eurasiatica negli allevamenti di tutto il mondo, Diamond argomenta riconoscendovi l'azione di fattori biogeografici: soprattutto la maggiore biodiversità ecosistemica dell'Eurasia. Una situazione analoga si ripete con l'agricoltura di specie erbacee, anche se in questo caso il contrasto tra Eurasia e altre regioni è meno drammatico. Considerando le erbacee a seme grosso (10-40 mg) si hanno 56 taxa di cui ben 33 sono di tipo paleartico, più precisamente a gravitazione mediterranea (Diamond, cit). Sicché il proto-agricoltore di quell'area aveva a disposizione quasi il 60% delle piante erbacee utili all'Uomo. Da qui forse si comprende meglio perché l'allevamento e l'agricoltura siano pratiche che per molte specie iniziano nel Vicino Oriente Antico e più o meno contemporaneamente. Il processo che condusse alla domesticazione di animali e piante fu innescato da tre diversi fattori: 1) i cambiamenti climatici avvenuti alla fine dell'Era glaciale, quando la maggior parte delle popolazioni umane viveva ancora di caccia, pesca e della raccolta di prodotti vegetali, 2) la riduzione delle terre abitabili e 3) infine, l'assottigliamento delle popolazioni naturali dei grandi ungulati. Grosso modo nell'VIII millennio a.C. l'agricoltura compare nell'area della Mezzaluna fertile (e più o meno contemporaneamente nel Sud-Est asiatico e nelle Americhe). La maggior parte dei dati disponibili riguarda l'Asia sudoccidentale (Zohary e Hopf, 1994) dove l'inizio della produzione di cibo viene realizzata a partire da poche specie locali di cereali : grano (Triticum monococcum, che ha forme selvatiche e forme coltivate; T. dicoccoides, specierazza selvatica da cui deriva la specie coltivata T. dicoccum ambedue collettivamente note come T. turgidum), orzo (Hordeum vulgare spontaneum da cui origina la moderna sottospecie coltiva2 Addomesticamento ta), segale (Secale cereale), avena (con le razze selvatiche sterilis e fatua ritenute progenitrici della forma coltivata sativa, tutte e tre riunite nel complesso di specie esaploidi interfertili Avena sativa). Alla fine del V millennio a.C. a partire dall'Asia Centrale o dal Sud-est asiatico si diffusero verso il Vicino Oriente e l'Europa il miglio (Panicum miliaceum, di cui non è ben identificata la forma selvatica originaria), il pabbio (Setaria italica coltivata nel bacino superiore del Fiume Giallo già nel VI millennio a.C. e certamente derivata dalla specie eurasiatica S. viridis) e il riso (le più antiche coltivazioni di Oryza sativa sono quelle dell'India e del Pakistan di 5000 anni fa, ma mancano dati archeobotanici che permettano di identificare l'area di origine del suo progenitore selvatico). Nel loro splendido resoconto sull'addomesticamento delle piante in Eurasia D. Zohary e M. Hopf, ricostruendo le vicende di oltre settanta specie, arrivano a concludere che i tre principali cereali più antichi: il grano grosso (Triticum turgidum), il farro (T. monococcum) e l'orzo, sono quasi sempre accompagnati da legumi come la lenticchia (Lens culinaris, addomesticata sin dal 6800 a.C.), il pisello, il cece, la fava e la vecciola (rispettivamente Pisum sativum, Cicer arietinum, Vicia faba e V. ervilia, tutte specie coltivate a partire dal 6000 a.C. circa). Per il lino (Linum usitatissimum), pianta appartenente alla pattuglia fondatrice dell'agricoltura, i resti di forme coltivate indicano date prossime a 8000 anni fa, mentre per le altre specie produttrici di fibre tessili si ritiene che la canapa (Cannabis sativa) fosse coltivata in Cina almeno 4500 anni fa e si conoscono frammenti di stoffe di cotone (Gossypium arboreum, G. herbaceum), provenienti da Harappa e Mohenjo-Daro, risalenti a 4800 anni fa (ref. in Zohary e Hopf, cit.). Altre fasi nella domesticazione delle piante. Una seconda fase, più tardiva, inizia S. Forestiero attorno al IV millennio a.C. e copre il periodo che segna il passaggio dal Neolitico all'Età del Bronzo. Questa fase si caratterizza per l'invenzione dell'orticoltura attraverso l'addomesticamento nel Vicino Oriente di importanti alberi da frutta: ulivo, vite, palma da datteri, fico (Zohary e Spiegel-Roy, 1975). Diversamente dai cereali e dalle leguminose coltivate (erbe annue di tipo r-selezionato) che garantiscono raccolti annuali con investimenti a breve termine e che permettono una temporanea mobilità degli agricoltori (c'è infatti uno scarto di parecchi mesi tra la mietitura e la semina), gli alberi da frutta sono, invece, specie perenni (K-selezionate rispetto ai cereali) che fruttificano solo 38 anni dopo la messa a stabile dimora e che perciò richiedono agricoltori con abitudini di vita pienamente sedentarie. Con la coltivazione degli alberi da frutta assistiamo anche al passaggio dall'impiego della riproduzione sessuale tipica delle forme selvatiche alla propagazione per via vegetativa dei fenotipi domestici. Queste varietà sono ottenute e mantenute non attraverso seme ma gestendo la linea somatica della pianta attraverso le margotte, le talee, i polloni e, più tardi, ricorrendo all'innesto. L'evitamento della riproduzione sessuale impedisce la produzione della grande variabilità genetica, con l'elevato tasso di eterozigosi tipico delle popolazioni naturali in cui c'è esoincrocio. Le tecniche di propagazione vegetativa, infatti, evitando la segregazione genetica dei caratteri, consentono la fissazione delle caratteristiche ritenute desiderabili dai coltivatori. La frutticoltura dunque è basata sul depotenziamento del ruolo della selezione. Partendo da una popolazione di varianti individuali, l'agricoltore del Calcolitico sceglieva le piante con i frutti migliori ma non ne piantava i semi; egli le riproduceva, invece, per via agamica, ottenendo cloni di individui geneticamente identici. Il successo degli orti e 3 Addomesticamento dei frutteti, in definitiva, è stato il prodotto più importante della scoperta della clonazione avvenuta probabilmente circa 5500 anni fa. La terza fase, corrispondente, in particolare, alla coltivazione di specie come melo, pero, susino e ciliegio, risale al I millennio a.C. ed è dipesa dalla propagazione di cloni ottenuta attraverso l'innesto: una tecnica piuttosto sofisticata adottata sicuramente molto più tardi rispetto alle altre tecniche di riproduzione agamica e che sembra essere stata applicata per la prima volta in Cina sugli agrumi (Cooper e Chapot, 1977: ref. in Zohary e Hopf, cit.). In sostanza, per quanto riguarda l'inizio e la diffusione dell'orticoltura nel Vecchio Mondo sembrano esservi alcuni punti fermi: la coltivazione degli alberi da frutta compare nel Vicino Oriente; l'orticoltura si sviluppa solo dopo l'affermazione della cerealicoltura; come già per i cereali, si assiste alla domesticazione contemporanea di parecchi alberi da frutta; la loro coltivazione si avvale della scoperta della propagazione vegetativa e rappresenta un investimento a lungo termine che richiede l'affermarsi della sedentarietà; dal Vicino Oriente Antico, l'orticoltura si diffonde poi in tutto il bacino del Mediterraneo e verso l'Asia sudoccidentale; l'invenzione dell'innesto consente l'avviarsi di una terza fase di domesticazione dei vegetali del Vecchio Mondo. Il passaggio dal foraggiamento all'agricoltura e all'allevamento nelle Americhe è assai meno documentato che nel Vecchio Mondo; tuttavia è probabile che esso sia iniziato un poco più tardi e avvenuto più lentamente che altrove. In America, inoltre, la diffusione dell'agricoltura ebbe una distribuzione geografica molto più discontinua ed eterogenea. L'agricoltura americana nacque nelle regioni temperate del Messico centrale, dell'Ecuador e del Perù (Reed, 1977); in Messico tracce di fagioli coltivati risalgono a 9000 anni fa, S. Forestiero la zucca a bottiglia era coltivata forse già prima di quella data, come pure il mais (Cavalli Sforza et al., 1994). La coltivazione della patata verosimilmente ebbe origine in Colombia intorno ai 10.000 anni fa; in Messico originò la domesticazione del pomodoro ed è probabile che tra il 7000 e il 5000 a.C. gli abitanti delle terre alte messicane abbiano iniziato a coltivare l'avocado e il peperoncino; la manioca fu invece coltivata nelle aree tropicali. Biodiversità tassonomica e domesticazione. La biodiversità tassonomica degli organismi addomesticati include anche batteri e lieviti impiegati nella panificazione e nella vinificazione, nella produzione di birra, di distillati, di formaggi e yogurt. La fermentazione è un processo conosciuto da 7000 anni e oggi batteri e funghi vegono impiegati nel trattamento de rifiuti e nell’industria farmaceutica. Tra I Funghi, le specie domestiche coltivate a scopo alimentare sono una quarantina (5-6 su scala industriale) su un totale di circa 72.000 specie note. I funghi di più antica domesticazione sono tutti non micorrizogeni e perciò tecnicamente più facili da coltivare; è il caso di Auricularia auricula, un fungo del legno, coltivato già dal 600 d.C., o dei comuni champignon, Agaricus bisporus, che crescono sul letame, coltivati dal 1600 d.C., mentre le prime Amanita e i Tricholoma, taxa micorrizogeni, sono stati domesticati solo negli ultimi venti anni (Chang, 1993). Delle 511 famiglie di pianti vascolari conosciute, 173 (34%) possiedono specie addomesticate. Le famiglie più importanti sono una dozzina: Graminacee (con 379 specie addomesticate), Leguminose (con 337 specie), Rosacee (158), Solanacee (115), Composite (86), Cucurbitacee (53), Labiate (52), Rutacee (54), Crucifere (43), Ombrellifere (41), Chenopodiacee (34), Zingberacee (31) e Palme (30). Altre 48 famiglie comprendono ognuna una sola 4 Addomesticamento specie. A livello tassonomico di specie, su 320.000 piante vascolari ne sono addomesticate circa 2500; di esse un centinaio possono dirsi di grande importanza alimentare, ma solo 15-20 sono fondamentali per l’alimentazione umana (Hawksworth e Kalin-Harroyo, 1995). Tra circa 1.000.000 di specie di Insetti solo l’ape, un imenottero, e il baco da seta, una farfalla, sono specie domestiche e di grande impatto economico. Di 50.000 specie di Vertebrati, il nucleo di taxa domesticati è formato di 30-40 specie tra mammiferi e uccelli. I taxa di interesse per l’acquacoltura, infine, raggiungono le 200 specie e comprendono pesci marini, pesci d’acqua dolce e specie diadrome insieme a molluschi, crostacei, rane, testuggini e piante acquatiche (Hawk sworth e Kalin-Harroyo, cit.) Suscettibilità all’addomesticamento. - Gli insuccessi anche recenti, nell'addomesticamento di specie selvatiche come la vigogna, le zebre, l'orso grizzly, l'ippopotamo, il bufalo africano, il bisonte americano, l'alce, l'antilope taurotrago, il cervo nobile ci danno l'occasione per riflettere sui motivi retrostanti e sulle eventuali caratteristiche che predispongono una specie selvatica all'addomesticamento. Oltre un secolo fa Francis Galton delineò I contorni di quell ache potremmo chiamare sindrome da addomesticamento (Galton, 1865), e in effetti non è difficile identificare sulla carta un numero minimo di tratti bio-ecologici e comportamentali comuni a molti degli animali domestici e che ne hanno faciliato l’addomesticamento. Tra questi preadattamenti spiccano una nicchia trofica ampia (con dieta erbivora oppure onnivora), una demografia del tipo delle specie r-selezionate (con tasso intrinseco di accrescimento e velocità di sviluppo ontogenetico relativamente elevati), il possesso di costumi sociali gregari (grazie ai quali, ad esempio, è S. Forestiero stato possibile addomesticare i bovidi che restano in gruppo e possono essere guidati in mandria e non invece i cervidi il cui comportamento di fuga prevede la dispersione). Gli aspetti etologici delle specie candidate sono particolarmente importanti: sicuramente favorevoli sono la tendenza a formare grandi gruppi piuttosto che una socialità a base famigliare; fondamentale è la presenza di struttura gerarchica con gruppi misti di maschi e femmine, un comportamento sessuale caratterizzato da promiscuità riproduttiva, un corteggiamento con segnali basati su posture e movimenti, la presenza di imprinting, la prole di tipo precoce, una piccola distanza di fuga ed una bassa reattività all'Uomo (Hale, 1969). La territorialità è invece di ostacolo all'addomesticamento; i casi del cane e del gatto fanno eccezione visto che la loro abitudine di concentrare escrementi ed urine sempre negli stessi luoghi (un annesso dei costumi territoriali) ne ha facilitato la adozione come animali da compagnia. In complesso, l'insieme dei preadattamenti in vista della domesticazione configurano un'elevata adattabilità ad un ampio spettro di condizioni ambientali, dunque una marcata plasticità fenotipica. Tuttavia va detto che oggi, almeno in alcuni casi, l'importanza di certi preadattamenti, come quelli legati al comportamento sociale e sessuale o alla formazione del legame madre-figlio, viene molto diminuita da pratiche di gestione che prevedono l'inseminazione artificiale, il trasferi- mento di embrioni, l'incubazione artificiale, il miglioramento della dieta (Siegel in Hefez, 1975). Il passaggio all'allevamento è però determinato anche da condizioni estrinseche come i fattori geografici: per esempio la presenza di rilievi montani percorsi dalle mandrie durante brevi migrazioni altitudinali favorisce il passaggio all'allevamento delle specie indigene, diversamente dalle pianure ove la stagionalità dei fattori abiotici 5 Addomesticamento obbliga ad estese e assai più lunghe migrazioni latitudinali. Storicamente la domesticità di specie di pianura si è realizzata solo nei casi rari della pastorizia nomade come per millenni è avvenuto in Asia centrale, ove la stessa organizzazione spaziale dei gruppi umani è dovuta mutare per adattarsi attraverso la migrazione alla stagionalità del pascolo (Turri, 1983). Effetti evolutivi. - Il primo capitolo dell'Origine delle specie e i due volumi sulla Variazione allo stato domestico sono dedicati da Darwin agli effetti evolutivi dell'addomesticamento (Darwin, 1859, 1868). Innanzitutto Darwin giudica l'addomesticamento qualcosa di più complesso che rendere un animale meno selvatico, ammansirlo: pensa che all'addomesticamento corrisponda il controllo della riproduzione, ritiene che esso sia un processo finalizzato, che sia capace di provocare un aumento della fecondità e che possa causare la riduzione di certi organi. Imputa all'addomesticamento l'incremento della variazione intraspecifica delle "varietà domestiche", che osserva essere di gran lunga superiore a quella interspecifica delle affini forme selvatiche; infine, sostiene l'esistenza anche di una selezione inconscia di varianti collegate a quelle esplicitamente sottoposte a selezione artificiale. In generale, la domesticazione è definibile come il processo con cui una popolazione naturale diviene adattata all'uomo e all'ambiente di cattività attraverso una combinazione di ripetuti cambiamenti genetici e di eventi di sviluppo indotti ambientalmente ad ogni generazione (Price, 1984). Esistono anche altre definizioni di addomesticamento: Clutton-Brock (p. 32, cit.), ad esempio, definisce domestico l'animale riprodotto in cattività a scopo di profitto economico da parte di una comunità umana che esercita il controllo totale sulla sua riproduzione, sull'organizzazione ter- S. Forestiero ritoriale e sulla fornitura di cibo (ma vedi anche Zeuner, 1963; Ucko & Dimbleby, 1969; Mason, 1984), e naturalmente si potrebbe obbiettare come fa Robert Delort (1984) che queste definizioni sono imprecise e che nessuna di esse è completamente pertinente. Ma proprio Delort, riportando il punto di vista di Geoffroy Saint-Hilare secondo cui "domesticare un animale consiste nell'abituarlo a vivere e riprodursi nelle dimore dell'uomo o nei suoi paraggi" (Delort, cit.; trad. it. p. 123), ci consente di identificare il denominatore comune a tutte le definizioni di addomesticamento, l'elemento racchiuso nel principio basilare per cui sono domestici gli animali e le piante la cui riproduzione è controllata dall'uomo. Per cui animali pure continuativamente utilizzati dall'Uomo come l'elefante, la vigogna, o le lontre impiegate in India per pescare e i cormorani in Cina, non sono da considerarsi animali propriamente domestici. In sostanza lo stato di specie addomesticata viene raggiunto attraverso la separazione fisica delle popolazioni associate all'uomo da quelle viventi in natura. La caduta del flusso genico, la presenza di regimi selettivi differenti, l'inbreeding e la deriva genetica sono i principali fattori che hanno sinora promosso e perfezionato l'isolamento riproduttivo e quindi la divergenza evolutiva e l'origine dei fenotipi domestici. Il ruolo del caso è fondamentale nelle primissime fasi del processo di domesticazione, quando la composizione genetica della popolazione colonizzatrice viene interessata da colli di bottiglia e da effetto del fondatore. Nonostante agiscano più fattori evolutivi, l'evoluzione delle specie domestiche è dovuta soprattutto all'azione di meccanismi deterministici di tipo selettivo sotto forma di selezione artificiale, di selezione naturale (che migliora l'adattamento all'ambiente di cattività) e di rilassamento della selezione su caratteri che in cattività, col 6 Addomesticamento trascorrere delle generazioni, tendono perciò a diventare selettivamente neutrali (potrebbero esserlo, per esempio, la capacità di evitare il predatore o l'abilità di trovare cibo e riparo). La selezione artificiale, praticata più o meno coscientemente, si distingue dalla selezione naturale per essere un processo orientato e molto più veloce (Falconer, 1981). Praticamente la selezione artificiale è sempre <<forte>> perché lo stock dei riproduttori è molto più ristretto dell'insieme degli adulti; inoltre, siccome la scelta dei riproduttori avviene prima della riproduzione, accade che la selezione artificiale è non successiva ma antecedente l'accoppiamento (fatto interessante anche sotto il profilo teorico visto che permette una stima a priori del vantaggio selettivo per ciascun riproduttore). La selezione artificiale, diversamente da quella naturale che dura fino al momento dell'estinzione della specie, agisce per un limitato numero di generazioni (inizialmente ha forma direzionale, poi diventa di tipo stabilizzante) e, a differenza di quella naturale che è opportunistica, ha carattere finalistico e progressivo: essa è cioè migliorativa. Questo, ovviamente, non vuol dire che attraverso la selezione artificiale la domesticazione apra la strada al miglioramento illimitato del carattere fenotipico che interessa: tutt’altro. È dimostrato che quando certi caratteri sono soggetti a forte selezione, la fertilità e altri tratti coinvolti nel successo riproduttivo diminuiscono per azione di geni pleiotropici (Falconer, cit.). Gli effetti dell'addomesticamento sulla variazione di piante e animali sono spesso vistosi e possono riguardare molti tratti biologici. Per esempio Triticum aestivum, oggi la specie economicamente più importante di grano, è una pianta evoluta completamente sotto domesticazione (essa è formata da un complesso di popolazioni esaploidi tra loro interfertili, tutte S. Forestiero derivate da uno stock originario di T. turgidum, tetraploide, incrociato con Aegilops squarrosa, che invece è un diploide selvatico, infestante, con areale a gravitazione centroasiatica). Nel caso del mais abbiamo, invece, un grande cambiamento nella grandezza della cariosside e nella taglia della pannocchia che, passando dalla forma selvatica a quella coltivata, cresce anche più di trenta volte in lunghezza (Diamond, cit.). D'altra parte la selezione per la taglia ha comportato nel mais come pure in altre piante la perdita secondaria della capacità di dispersione autonoma dei semi. Negli alberi da frutta si osserva come l'adozione della propagazione vegetativa abbia provocato un forte rallentamento della loro velocità di evoluzione. Siccome un clone può durare molte centinaia di anni durante i quali, a ciclo sessuale sospeso, i correlati meccanismi genetici sono inattivi, la divergenza genetica tra varietà coltivate e popolazioni naturali di alberi da frutta può essere perciò anche molto piccola. Quest'attesa è confermata dalle osservazioni sull'autoecologia dei cultivar delle specie da frutta, che è estremamente simile a quella delle specie selvatiche. L'esatto opposto è avvenuto invece per i cereali: grano, orzo, segale, avena e riso domestici, tutte specie ottenute per selezione, manifestano esigenze climatiche differenti da quelle delle specie selvatiche da cui derivano. Nelle piante, altre modificazioni dovute alla domesticità riguardano aspetti più o meno direttamente collegati all'impollinazione (per esempio nella palma da dattero si passa dall'anemocoria delle forme selvatiche alla antropocoria di quelle domestiche con un conseguente cambiamento del rapporto sessi che muta da circa 1:1 a circa 1:25-1:50), o connessi alla capacità di produrre frutti partenocarpici (come nel banano, negli agrumi coltivati e in alcuni cloni di peri e di fichi), o modifiche dei meccanismi di 7 Addomesticamento determinazione del sesso (nella vite, per esempio, si passa dalla dioecia tipica delle popolazioni selvatiche all'ermafroditismo delle forme coltivate). Ovviamente cospicue le modificazioni evolutive a carico di caratteri morfologici e fisiologici dei frutti e dei semi quali la taglia, la durezza, il contenuto in zuccheri, in olio, l'eliminazione di eventuali composti tossici e i miglioramenti di vari aspetti del sapore, lunghezza e tenacia delle fibre, ecc. (Zohary e Hopf, cit.). Come per le piante, gli effetti dell'addomesticamento sugli animali sono molteplici ed eterogenei. Nei mammiferi i primi stadi della domesticazione sono di norma accompagnati da una diminuzione della taglia corporea che poi negli stadi avanzati potrà essere mantenuta maggiore o minore di quella dei progenitori selvatici. Aumenta la variabilità del colore del pelame e del disegno del manto, come pure sono più vistose e variate orecchie e coda; aumenta lo spessore dello strato adiposo sottocutaneo. Il cranio va incontro a molti cambiamenti: per esempio diminuisce in molte specie la dimensione del cervello, si riducono lo splancnocranio e la dimensione dei denti, la regione facciale; aumenta invece la variazione a carico delle corna. E' noto che la selezione può aumentare o diminuire la velocità di sviluppo ed è probabile che durante la domesticazione in molti casi sia accaduto qualcosa di simile. Ci sono evidenze che la domesticazione acceleri il raggiungimento dell'età adulta; questo avviene per esempio in molti animali da fattoria (Hale, 1969) e nel cane (ref. in Price, 1984); ma accade anche l'opposto: l'adulto può conservare tratti anatomici tipici dei giovani (deposizione di grasso sottocutaneo, mascelle più corte, ecc.). Se ne sono interessati I caratteri etologici, allora, cme nel caso del cane, si parla di neotenia comportamentale. Il comportamento del cane adulto S. Forestiero condivide molti aspetti con quello di un giovane di lupo; per esempio in entrambi c’è una forte predisposizione al gioco e una più bassa aggressività. L'idea è che il mantenimento nel cane adulto di moduli comportamentali tipici dei canidi giovani sia stato permesso in cattività dal rilassamento della selezione naturale su caratteristiche come l'aggressività non più indispensabili per assicurarsi il raggiungimento di quello stato sociale elevato che è necessario al successo riproduttivo. Di norma in cattività, infatti, la disponibilità delle risorse alimentari e genetiche è regolata dall'allevatore e il successo riproduttivo piuttosto che giovarsi di una spiccata aggressività, viene assicurato da doti di flessibilità e addomesticabilità che sono tipiche degli stadi giovanili (ref. in Price, cit.). Sebbenenlla storia evolutiva di Homo sapiens, iniziata circa 200.000 anni fa, l’addomesticamento debba essere considerato un processo assolutamente recente, tuttavia esso ha avuto un’influenza enorme per avere prodotto un forte aumento della biomassa alimentare e un decremento dell’incostanza nella disponibilità delle risorse alimentari. Il cambiamento di un fattore biotico fondamentale, che ha influenza diretta sull’ N di popolazione (in particolare sul suo valore critico detto capacità portante dell'ambiente), è stato giudicato responsabile dello spostamento di individui di Homo sapiens sapiens da aree relativamente sature e con elevata pressione demografica verso aree in precedenza disabitate o demograficamente sottosature (rapporto di densità stimato stimato di 100:1). E' stato prima ipotizzato e poi ampiamente dimostrato che il fenomeno noto come "espansione demica" fu responsabile della diffusione dei geni umani (e di correlati culturali come le lingue) negli spazi geografici colonizzati dalle popolazioni in movimento (per un ampio resoconto si vedano Ammerman 8 Addomesticamento e Cavalli-Sforza, 1984 e il più recente Cavalli-Sforza et al., 1994). Sempre in un'ottica evolutiva merita considerazione un ulteriore, benché indesiderato effetto dell'addomesticamento, anche esso collegato all'espansione demica, e cioè lo sviluppo di molte malattie infettive dovute al passaggio di virus, batteri ed eucarioti parassiti dagli animali domestici all'uomo. Zoonosi sono state descritte per molti mammiferi e uccelli domestici, semidomestici o semplicemente antropofili. Malattie come il morbillo, la tubercolosi e il vaiolo, per esempio, sono causate nella nostra specie da patogeni strettamente imparentati con quelli di molti bovini domestici; anche il maiale è attaccato da patogeni affini a quelli responsabili nell'Uomo dell'influenza e della pertosse, e sembra dimostrato che Plasmodium falciparum, lo sporozoo responsabile della forma più grave di malaria, sia evoluto per trasferimento dall'ospite aviario a quello umano (Waters et. al, 1991; citato in Diamond, 1997). E' certo che la scarsa igiene (anche in Europa, per esempio, ancora fino a pochi decenni or sono, c’era molta mescolanza e stretto contatto fisico tra uomini e animali), l'incremento della densità demografica e, più tardi, un'aumentata mobilità individuale hanno favorito nelle popolazioni umane l'esplosione di epidemie caratterizzate da tassi di mortalità anche elevatissimi. Domesticazione tra natura e cultura. Un'antica tradizione eleusina narra che la postura eretta venne agli uomini dal giorno in cui Demetra donò loro i cereali e l'agricoltura e che prima di allora gli esseri umani camminassero a quattro zampe, come i neonati e gli animali quadrupedi. Traspare forte da questa credenza la consapevolezza del valore radicalmente innovativo dell'agricoltura per l'uomo. L'antichità del mito ci informa anche che il ruolo cruciale della domesticazione in S. Forestiero generale, come elemento fondante della natura culturale della nostra specie, fu pienamente avvertito già in un lontano passato, quando venne accolta l'idea che fosse attributo pienamente umano la capacità di modificare la natura, realizzando attraverso lo sforzo e gli artifici del lavoro un ordine nuovo, prima inesistente. Una capacità e un ordine che sono premessa e risultato di quello che la modernità chiama "gestione razionale della natura e delle sue risorse". In un certo senso, oggi le scienze naturali, la paletnologia e l'archeologia danno ragione di quel mito dimostrando che l'addomesticamento ha rappresentato un punto cruciale nel cammino dell'umanità, una svolta economica formidabile, un modificatore potente dell'evoluzione culturale e biologica della nostra specie. La domesticazione ha mutato anche il destino evolutivo di animali e piante. Molte delle loro caratteristiche biologiche, e in qualche caso la loro stessa esistenza, dipendono direttamente dall'intervento dell'uomo, dalle sue necessità, dai suoi progetti; possono rispondere alle sue esigenze alimentari, di protezione, di lavoro, di locomozione; possono riflettere idiosincrasie e rispecchiare valori estetici e gusti di un'epoca o di una società come dimostrano le centinaia di razze di cani e di gatti, i pesci ornamentali cinesi e giapponesi, o l'industria internazionale della floricultura con le molte migliaia di cultivar di piante da fiori. Con lo sviluppo delle biotecnologie la nozione di addomesticamento andrà forse modificata. Qui l'addomesticamento compie un salto quantico, un progresso qualitativo: invece di agire sui fenotipi l'uomo sta imparando a modificare direttamente i genotipi. Le biotecnologie permettono il superamento della barriera allo scambio genico tra specie non imparentate: un ostacolo naturale contro cui le tecniche di selezione sono inefficaci. Le biotecnologie contempo9 Addomesticamento S. Forestiero ranee consentono, inoltre, di costruire specie con genotipi del tutto nuovi; genomi inesistenti in natura che, grazie a procedure ottimizzate e mirate a risultati altamente specifici, possono esprimersi in un miglioramento qualitativo o quantitativo di prodotti e di processi di varia natura. Se è vero che nessuna altra pratica mette in crisi la nozione di <<naturale>> e di <<naturalità>> quanto l'addomesticamento tradizionale, tanto più allora questo può essere detto delle biotecnologie la cui capacità di rendere estremamente <<innaturali>> gli organismi sembra sfidare ancora una volta non solo la nostra intelligenza ma soprattutto la capacità della nostra specie di creare un nuovo sistema di valori in cui collocare e comprendere questa ulteriore forma di domesticazione. BIBLIOGRAFIA AMMERMAN A.J. , L. L. CAVALLISFORZA (1984) The Neolithic transition and the genetics of populations in Europe. Princeton U.P., Princeton (trad. it. Boringhieri, Torino 1986). CAVALLI-SFORZA L. L., MENOZZI P. e A. PIAZZA (1994) The history and geography of human genes. Princeton U.P., Princeton (trad. it., Adelphi, Milano 1997). CHAIX L., BRIDAULT A. e R. PICAVET (1997) A tamed brown bear (Ursus arctos L.) of the Late Mesolithic from La Grande-Rivoire (Isère, France)? 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DIZIONARIO DI BIOLOGIA (diretto da Aldo Fasolo) UTET, Torino, 2003: 8-14 10 412-711_Vol1_Scienza.QXD 6-06-2007 12:09 Pagina 708 L’agricoltura di Saverio Forestiero Nello sviluppo dell’agricoltura del Novecento il ruolo della scienza e della tecnologia è stato sempre in crescita. Inizialmente attraverso il miglioramento genetico delle varietà coltivate, più tardi con la produzione di nuove varietà per incrocio o per mutagenesi, e ancora con la razionalizzazione dei metodi di coltura, di concimazione, di irrigazione, di raccolta e conservazione. La tendenza all’aumento medio della produttività agricola ha percorso tutto il secolo; con le “rivoluzioni verdi” degli anni Venti e Cinquanta l’incremento riguarda il grano e il riso ed è la svolta per centinaia di milioni di persone. L’interesse agli aspetti nutrizionali degli alimenti e la nascita delle agrobiotecnologie rappresentano due ulteriori progressi delle scienze agronomiche. L’attenzione per i problemi ambientali connessi all’agricoltura è recente ma si va radicando l’idea che l’agricoltura del futuro debba essere sicura, sostenibile e a basso input esterno. L’impatto della moderna agricoltura sulle condizioni economiche e sociali delle popolazioni rurali è molto pesante specialmente nelle aree più povere del sud del mondo. Ed è sempre più chiaro che lo sviluppo di molti di quei Paesi passa per la produzione agricola commerciale a patto però che il mercato mondiale sia regolato equamente e non manipolato dalle politiche protezionistiche dei Paesi economicamente più forti. Cesto di grano al mercato di Harer, Etiopia Seicento, Storia: Dalla rifeudalizzazione alla rivoluzione agricola Seicento, Scienza e tecnologia: Storia naturale e agronomia 708 Agricoltura, un poliedro dalle mille facce Come tutti gli altri animali, anche la nostra specie per vivere ha bisogno di energia che il corpo ricava a livello cellulare mediante reazioni di ossidoriduzione di una grande varietà di composti chimici presenti negli alimenti. A differenza delle altre specie animali, però, l’uomo non si limita a prelevare il cibo dalla natura, ma oramai da 10 mila anni produce i suoi alimenti attraverso l’agricoltura e l’allevamento. Gli sviluppi dell’agricoltura, le sue trasformazioni storiche, i suoi successi e i suoi fallimenti sono macroscopicamente collegati a una terna di variabili bioecologiche: habitat disponibili per la coltivazione (superfici coltivabili, qualità pedologica dei terreni, acqua per irrigazione), tipi di organismi disponibili per la produzione alimentare (specie e varietà di vegetali e animali), demografia umana (numero di individui da nutrire adeguatamente); a questo si aggiungono un insieme di saperi e di tecniche relative al miglioramento e all’innovazione di prodotto e di processo, e infine i fattori del mercato, visto che i prodotti agricoli come altri beni possono venire scambiati, di solito secondo le leggi della domanda e dell’offerta. Tra le molte tecniche di cui l’agricoltura si serve ci sono le applicazioni della genetica agraria, le agrobiotecnologie produttrici di organismi geneticamente modificati, la chimica dei concimi, le tecnologie collegate alle difese dai patogeni, quelle proprie della meccanizzazione agricola, dello stoccaggio razionale dei raccolti, le tecnologie di conservazione. Tra i tanti e differenti aspetti economici, un ruolo strategico nell’ultimo ventennio del Novecento ha assunto la questione del protezionismo per cui molti Paesi ricchi sostengono l’agricoltura interna ed erigono barriere all’importazione di prodotti dai Paesi più poveri del Terzo Mondo. Oltre ai rapporti con questioni ecologiche, genetiche ed economiche, l’agricoltura ha a che fare, spesso direttamente, anche con una se- rie di problematiche sociopolitiche collegate alle esigenze e alle trasformazioni delle comunità e delle società nelle quali gli operatori del settore a vario titolo si trovano ad agire. È il caso dell’impatto sociale e demografico delle migrazioni interne ed esterne, da nazione a nazione, dei lavoratori addetti all’agricoltura, al temporaneo incremento della forza lavoro collegata al lavoro stagionale e, a partire dal secondo dopoguerra, alla sua diminuzione tendenziale 412-711_Vol1_Scienza.QXD 6-06-2007 12:09 Pagina 709 L’agricoltura La coltivazione a terrazzamenti nei Paesi occidentali in conseguenza dell’accresciuta meccanicizzazione, automazione e industrializzazione delle pratiche agricole e zootecniche. Nel Novecento i progressi dell’agricoltura e il suo impatto sulla società sono stati influenzati anche dal rapporto locale/globale (giocato sul piano ecologico e su quello economico), dalla nostra relativa ignoranza della natura dei vincoli ecologici da rispettare (si ignora, per esempio, il reale impatto ecologico dell’incremento delle terre coltivabili sottratte alle foreste tropicali pluviali sulla biodiversità tassonomica, sulla funzionalità degli ecosistemi, sulla circolazione atmosferica e oceanica, dunque sul clima) e dai problemi sanitari, umani e veterinari, connessi con le pratiche agricole e zootecniche (la stretta vicinanza fisica tra uomini e animali degli allevamenti intensivi in Cina e in altri Paesi asiatici ad alta densità demografica, sembra facilitare i cambiamenti di ospite e la trasmissibilità di patogeni di polli, maiali e altre specie domestiche). È chiaro perciò che, anche se il cuore dell’agricoltura resta l’insieme delle conoscenze e delle pratiche collegate alla produzione di cibo per l’alimentazione umana e degli animali di cui l’uomo si nutre, tuttavia i problemi affrontati dalle scienze e dalle tecnologie agronomiche non sono limitabili a singoli campi specialistici ma riguardano sempre più spesso e intensamente il modello globale di sviluppo socio-economico di intere grandi comunità. Al giorno d’oggi, infatti, non si tratta tanto di aumentare la produzione alimentare, il problema è piuttosto quello di garantirne un’equa distribuzione. L’economista indiano Amartya Sen, premio Nobel 1998 per l’economia, sostiene nei suoi scritti che la causa maggiore delle carestie non va cercata nella scarsità di cibo ma piuttosto in fattori sociali ed economici, certamente più difficili e complessi da governare di quelli legati alla produzione di alimenti. Un approccio sistemico ai problemi dell’agricoltura più che portare alla semplice lotta contro la fame attraverso l’aumento della produzione può comportare la lotta contro le condizioni di povertà in cui vivono molte centinaia di milioni di essere umani. Migliorie Su 320 mila specie di piante vascolari, cioè dotate di tessuti cavi utilizzati per il trasporto delle sostanze nutritive, l’uomo ne ha addomesticate sinora circa 2.500. Un centinaio di queste specie sono di grande importanza alimentare, ma solo una ventina sono fondamentali per l’alimentazione umana. Le otto più importanti piante coltivate (grano, riso, mais, orzo, avena, segale, miglio, sorgo) sono tutte graminacee coltivate già millenni o secoli addietro. I progressi dell’agricoltura nel Novecento non riguardano perciò la domesticazione di nuove specie selvatiche ma piuttosto l’incremento della resa per unità di superficie coltivata. Questo ha permesso tra gli anni Sessanta e Settanta di produrre calorie sufficienti al fabbisogno mondiale annuo. Questi progressi vengono dalla creazione di cultivar – ossia di varietà coltivata di una specie, da cui l’abbreviazione – attraverso procedimenti di selezione dei fenotipi dotati di caratteristiche idonee alle varie esigenze dei coltivatori. La genetica è nata nell’Ottocento indagando le caratteristiche ereditarie di una pianta ortiva, il pisello, e, con la scoperta delle leggi di Mendel, si è sviluppata grazie alle indagini di tre genetisti vegetali. L’ibridazione del mais iniziata negli Stati Uniti nel 1910 ha portato a un fortissimo incremento della produzione a partire dagli anni Trenta. Gli studi di Thomas H. Morgan (1866-1945) su Drosophila, il moscerino della frutta e dell’aceto, chiarirono il ruolo dei cromosomi come sedi del materiale ereditario. Particolarmente decisivi sono stati gli studi sull’endogamia attraverso cui si individuarono i limiti degli incroci tra parenti, capaci di fare emergere caratteri recessivi nocivi. Altrettanto importanti sono stati quelli sull’esogamia praticata quando, incrociando individui di razze differenti, si vogliono introdurre caratteri nuovi e vantaggiosi in una popolazione. In questo modo negli anni Trenta furono gettate le basi scientifiche della scienza della riproduzione animale. Insieme a queste tecniche vanno ricordate quelle di inseminazione artificiale sviluppate in Russia e da lì diffuse in tutto il mondo. Anche l’acquacoltura ha compiuto Settecento, Storia: La rivoluzione agricola Ottocento, Storia: Campagne e capitalismo agrario, Le trasformazioni dell’ambiente fisico 709 412-711_Vol1_Scienza.QXD 6-06-2007 12:09 Pagina 710 Scienza e tecnologia “Conosci te stesso”: l’organismo e l’ambiente, la salute e la malattia Amartya Sen – Sviluppo e libertà Secondo Amartya Sen lo sviluppo non è altro che un processo di “enlarging people choices”, tendente cioè ad aumentare le possibilità di scelta degli individui e, in particolare, a eliminare quelle illibertà che impediscono alle persone di lottare contro le privazioni. La libertà, secondo la celebre formulazione dell’economista indiano, è un fattore costitutivo dello sviluppo; libertà economiche e politiche si rafforzano a vicenda. Una scoperta di Sen, rimasta giustamente famosa, è che non si sono mai verificate carestie in una democrazia, per quanto povera; le carestie hanno invece colpito territori coloniali, dittature e Stati a partito unico. La Cina ad esempio, rispetto all’India, si è integrata con maggior successo nell’economia di mercato, grazie soprattutto a una diffusa alfabetizzazione di base, mentre l’India paga le conseguenze della sua noncuranza nei confronti dell’istruzione e dell’assistenza sanitaria con uno stato di grave arretratezza sociale. Tuttavia, dalla conquista dell’indipendenza, in India non si sono più verificate carestie, mentre quella sofferta dalla Cina dal ‘58 al ‘61 (che fece 30 milioni di vittime) è attribuita da Sen alla mancanza di libertà democratiche: solo se i governanti devono rispondere al popolo, sostiene Sen, saranno incentivati ad assecondarne i bisogni. Rivoluzioni verdi Analisi a infrarossi di una pianta di sorgo Analisi fatta nell’ambito di un progetto finalizzato a selezionare una varietà di pianta di sorgo più resistente alle condizioni ambientali, da impiegarsi per la produzione di combustibili biologici. progressi passando dalla modalità estensiva a quella intensiva tecnicamente molto più avanzata e sostenuta da input energetico; il numero delle specie di pesci, crostacei e molluschi allevati è cresciuto e l’uso di gabbie ha permesso l’allevamento commerciale anche di specie marine. Nel Ventesimo secolo l’incremento di produttività ha riguardato quasi tutte le colture agricole, ma in modo molto forte quelle cerealicole. Lo stesso si osserva nella produttività animale; per esempio nei confronti del latte vaccino, del peso medio delle mucche, del numero di agnelli per pecora, oppure rispetto al contenuto di grasso del latte, al peso della lana per pecora, al numero di uova per gallina, ecc. L’incremento di produzione è da ricollegarsi per la prima parte del secolo a metodi di coltivazione più efficaci e per la seconda parte al miglioramento genetico delle sementi. Naturalmente la faccenda è molto complicata e non è possibile una valutazione precisa del peso netto del miglioramento genetico sulle rese visto che nel frattempo veniva anche ridotta l’influenza di fitoparassiti e infestanti o aumentata la fertilità dei suoli attraverso concimazioni mirate. Inoltre non va dimenticato che si sono avuti miglioramenti delle qualità nutrizionali dei prodotti. Con l’ingresso delle biotecnologie si è aperto un nuovo orizzonte per l’agricoltura. Gli obiettivi possibili sono molteplici, alcuni, come la produzione di cereali ingegnerizzati arricchiti di vitamine, OGM (Organismi Geneticamente Modificati) capaci di sintetizzare nuovi principi nutritivi o molecole di interesse farmacologico, sono assolutamente inediti. L’opinione pubblica, tuttavia, è in molti casi perplessa e interroga i ricercatori sull’esistenza di eventuali problemi di biosicurezza. Il rifiuto delle biotecnologie avrebbe conseguenze negative per tutta l’umanità; la questione è delicata e i protagonisti del dibattito (scienziati, società civile, mondo dell’informazione) hanno il dovere di confrontarsi portando nel dibattito competenza, chiarezza, onestà intellettuale. 710 Nel 1944 l’americano Norman E. Borlaug (1914-) inizia a lavorare in Messico come genetista agrario e patologo vegetale a un programma di ricerca sul grano. In accordo con il governo messicano e per conto delle Fondazioni Rockefeller e Ford, Borlaug fonda un centro internazionale per il miglioramento genetico del mais e del grano. Lo scopo principale è quello di creare un tipo di frumento resistente alle ruggini nere che regolarmente ne distruggono i raccolti. Borlaug ha successo e alla fine degli anni Cinquanta incrocia il grano messicano con una varietà giapponese resistente all’allettamento, ossia alla piegatura verso terra dei fusti. Così la resa della nuova varietà è raddoppiata e il grano messicano di Borlaug attecchisce anche in Pakistan. Nel 1962 Borlaug crea nelle Filippine un centro di ricerca sulla risicoltura da dove in pochi anni escono eccezionali varietà di riso. In questo modo l’agricoltura tropicale compie un enorme progresso e in parte recupera il ritardo su quella dei Paesi temperati; milioni di persone sono sottratte alla fame. Nel 1970 a Borlaug viene conferito il premio Nobel per la pace. In realtà anche in Italia, e con più di trent’anni in anticipo rispetto a Borlaug, era avvenuta un’analoga rivoluzione verde quando il marchigiano Nazzareno Strampelli (1866-1942), agronomo presso la Stazione sperimentale di granicoltura di Rieti, dopo 14 anni di ricerca e centinaia di incroci produce nel 1917 la varietà “Carlotta” (dal nome della moglie) di grano tenero. I geni chiave erano per la riduzione della taglia e l’insensibilità al fotoperiodo, cioè il periodo di esposizione della pianta alla luce. Con Strampelli si compie la rivoluzione verde italiana; nel ventennio fascista l’Italia si affranca dall’importazione di frumento per la panificazione. In un secondo momento fu la volta del grano duro; si selezionano varietà in base all’altezza del culmo, l’allettamento, la tardività, il periodo di fioritura e il numero di spighette. La resa passa da circa una tonnellata per ettaro nel 1920 a tre tonnellate per ettaro nel 1996 (nello stesso periodo quella di grano tenero passa da una tonnellata a cinque tonnellate). I grani di Strampelli furono diffusi in tutto il mondo: Messico, Argentina, Brasile, Russia, Spagna. Alla fine degli anni Quaranta le varietà di Strampelli vengono piantate in Cina su di un territorio grande 10 volte l’Italia. La produzione cinese ne esce quintuplicata. La rivoluzione verde inaugurata da Strampelli e da Borlaug ha interessato molti Paesi asiatici e dell’America Latina ma non ha avuto alcun riscontro in Africa dove tuttora un terzo della popolazione adulta subsahariana è malnutrita. In Africa le rese per ettaro sono minori che altrove e nel 60 percento dei Paesi negli ultimi anni del Novecento la produzione è addirittura diminuita. La diffusione dell’AIDS e le guerre locali aggravano la situazione africana sottraendo forza lavoro all’agricoltura, d’altra parte la scarsezza d’acqua non permette l’avvio delle colture come il riso e il frumen- 412-711_Vol1_Scienza.QXD 6-06-2007 12:09 Pagina 711 L’agricoltura to su cui si è fondata la rivoluzione verde asiatica favorita anche dall’esistenza di funzionali infrastrutture viarie, dall’impiego di concimi, dall’esistenza di tradizioni locali di monocolture, tutte condizioni che non si ritrovano nei paesi africani. Tuttavia le nuove biotecnologie possono rappresentare una formidabile occasione di progresso per l’agricoltura africana e più in generale per l’agricoltura dei Paesi poveri e di quelli emergenti, visto che il 90 percento dei coltivatori di piante transgeniche è rappresentato da contadini poveri di questi Paesi. Naturalmente la questione è complessa e l’applicazione con successo delle agrobiotecnologie in Africa è ostacolata dalle varie regolamentazioni nazionali sull’impiego di piante ingegnerizzate, dai pregiudizi e dai timori che le popolazioni dei Paesi occidentali hanno verso gli OGM, dalle questioni commerciali legate al pagamento di royalties, dalla diffidenza di molti agricoltori e governi africani verso l’agricoltura biotech. Agricoltura e ambiente I vistosi cambiamenti nella vegetazione terrestre e nella destinazione dei suoli durante il Ventesimo secolo sono legati all’espansione dell’agricoltura. Attualmente oltre il 30 percento della superficie mondiale coperta da vegetazione è costituita da piante coltivate (il doppio rispetto a inizio secolo). I suoli non ghiacciati e sabbiosi del pianeta ammontano a circa 133 milioni di ettari, pari a poco meno del 30 percento della superficie planetaria; di questa superficie poco più del 25 percento circa è coltivabile; e se all’inizio del Novecento è coltivata una superficie di suoli pari all’Australia (circa otto milioni di ettari), alla fine degli anni Novanta la superficie coltivata eguaglia quella del Sudamerica (circa 17 milioni di ettari). Da quando esiste l’agricoltura, l’ampiezza delle superfici coltivate e quella delle aree destinate ai pascoli sono andate crescendo a scapito delle aree boschive e ancora di più a scapito delle praterie e delle aree steppiche adatte a soddisfare la crescente richiesta di granaglie. La domanda di cereali ha avuto un’impennata specialmente in concomitanza con l’espansione demografica del Novecento. Nel 1930 l’estensione delle aree coltivate era quattro volte superiore a quella del 1700, nel 1990 era sei volte superiore. In alcuni casi è stata la politica, attraverso l’imposizione di piani programmatici pluriennali, a indurre cambiamenti dell’ambiente. Nell’ex Unione Sovietica, durante la seconda metà degli anni Cinquanta, Mosca decide di aumentare la produzione cerealicola dell’Unione innalzando il rendimento delle vecchie colture e aumentando le superfici arabili e seminabili a cereali. In meno di un decennio si procede così al dissodamento di amplissime fasce delle terre nere delle steppe kazache destinate alle colture di miglio e grano; le terre vergini transuraliche vennero rapidamente colonizzate da molte centinaia di migliaia di persone, vennero fondati nuovi centri abitati, furono costruiti impianti agricoli, autorimesse e officine per i trattori. L’impiego di fertilizzanti fu massiccio; così pure quello di pesticidi. L’impatto ecologico di questa estensivizzazione dell’agricoltura fu enorme ma forse meno drammatico di quello indotto negli stessi anni dalla coltivazione del cotone in Uzbekistan. La coltura del cotone richiede molta acqua, una risorsa che non poteva essere garantita dalle scarse precipitazioni dell’Uzbekistan, un’area continentale tipicamente semidesertica. I pianificatori sovietici decisero allora di ricorrere all’irrigazione artificiale prelevando l’acqua dai fiumi della rete idrografica. I due più grandi fiumi della regione, immissari del lago d’Aral, l’Amu-Darya a sud e il SyrDarya a nord-est, in territorio kazaco, furono deviati e l’acqua fu incanalata artificialmente verso gli immensi campi di cotone. Nel giro di pochi anni fu evidente che il lago d’Aral, diviso tra Kazakistan a nord e Uzbekistan a sud, che all’epoca per estensione era il terzo grande lago della Terra (68.700 km2), si stava ritirando. A partire dal 1960, in circa quarant’anni, la superficie si è più che dimezzata, il volume d’acqua si è ridotto di oltre l’80 percento, la superficie libera si è abbassata passando da 53 m slm a 35 m slm; naturalmente la salinità è cresciuta, di oltre quattro volte. Di conseguenza la fauna ittica è stata decimata, passando da 24 a quattro sole specie. Molte delle specie di uccelli, mammiferi e rettili, per limitarsi ai soli vertebrati, che popolavano le aree umide attorno al grande lago sono scomparse. Venendo meno la massa d’acqua e la sua azione mitigatrice, il clima ha assunto un più spiccato carattere continentale con inverni più freddi ed estati più calde; l’aridità è aumentata in tutta la regione. Di conseguenza l’evaporazione è superiore alle precipitazioni e allora il livello del lago continua a diminuire per effetto del mutamento climatico indotto. Questo scompenso idrologico ha prodotto l’innalzamento della falda freatica che a sua volta ha provocato la salinizzazione dei suoli diventati praticamente inservibili per l’agricoltura a meno di costosissime bonifiche. Inoltre la desertificazione dei suoli in cui si trovano concentrate grandi quantità di sale ne favorisce la degradazione e la polverizzazione; si calcola che ogni anno i venti che spirano sull’Aral trasferiscano nell’atmosfera e trasportano in molte aree del pianeta molte decine di milioni di tonnellate di polveri salate. Anche la geografia è mutata; a seguito dell’abbassamento del livello del lago, una piccola isola posta al centro del bacino meridionale si è unita alla terraferma per emersione del fondale. Attualmente una specie di penisola separa quasi completamente il lago in due bacini residui, uno settentrionale e uno meridionale. Naturalmente il collasso ecologico del lago d’Aral ha indotto una serie di contraccolpi economici (crollando la pesca infatti è venuta meno la maggiore risorsa economica delle popolazioni del lago ed è imploso l’indotto manifatturiero collegato all’industria della pesca) e di crisi sociali (rapido aumento della disoccupazione, peggioramento delle condizioni igieniche. cronicizzazione di malattie, disgregazione delle famiglie e delle comunità) che si sono saldati ai problemi politici generati negli anni Novanta dal disfacimento dell’ex Unione Sovietica. La tragedia ambientale, perché di questo si tratta, e umana del lago d’Aral rappresenta un esempio perfetto degli effetti destabilizzanti scatenati da politiche agricole miopi, incapaci di tenere nel debito conto i delicati equilibri degli ecosistemi in cui l’agricoltura viene praticata. Novecento*, Storia: Ambiente e ambientalismo, Il fenomeno della deruralizzazione Novecento*, Scienza e tecnologia: Dall’etica medica alla bioetica, Dall’ingegneria genetica al progetto genoma umano, La biodiversità, La genetica Mais geneticamente modificato in grado di resistere all’azione dei fertilizzanti 711 412-711_Vol1_Scienza.QXD 6-06-2007 12:09 La biodiversità Pagina 699 di Saverio Forestiero Ricchezza di specie, di geni e di ecosistemi; la nozione di biodiversità si fonda su una concezione gerarchica dei viventi e ne mette in luce le differenze rispetto alla dimensione genetica, tassonomica, ecologica. Biodiversità è un concetto moderno, ha carattere sintetico, presenta risvolti teoricamente interessanti per la genetica, la biosistematica, l’ecologia e la biogeografia, viene impiegato in ambito applicativo (conservazione della natura, agricoltura, didattica e comunicazione delle scienze naturali). Recenti studi comparativi dimostrano l’esistenza di una forte correlazione spaziale tra diversità tassonomicaecosistemica e diversità linguistica di alcuni gruppi umani, nonché tra i fenomeni di estinzione delle specie e delle lingue. Il progetto delle Nazioni Unite sulla valutazione della biodiversità globale Nonostante il successo limitato (gli Stati Uniti non ne hanno firmato la Convenzione relativa), la Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente e lo Sviluppo (UNCED) tenuta a Rio de Janeiro nel maggio 1992 ha dato al tema della biodiversità una risonanza enorme, come mai prima era accaduto. La biodiversità (dall’inglese biodiversity, contrazione di biological diversity) è un oggetto di studio che genetisti, sistematici ed ecologi indagano da decenni anche se la parola risale solo agli anni Ottanta del Novecento. Fino ad allora il discorso sulle differenze tra i viventi era rimasto circoscritto agli addetti ai lavori. Poi, a metà degli anni Ottanta, quando diventa chiaro che le estinzioni di piante, animali e la perdita di interi ecosistemi stanno procedendo così velocemente da mettere in pericolo anche il benessere della nostra specie, la biodiversità diviene tema di discussione anche fuori dei circoli scientifici. La nozione si è subito caricata di elementi extrabiologici: economici, politici, giuridici ed etici. A quel punto, il discorso sulla biodiversità, ampliato fino a comprendere riflessioni sui costi economici e sociali delle violente modificazioni antropiche dell’ambiente, si è trasformato in un discorso sul “problema della biodiversità”, sulla perdita di biodiversità. Accanto alla nozione scientifica si è rapidamente sviluppato un grande dibattito socialmente costruito che, focalizzandosi sul progressivo impoverimento delle ricchezze biologiche, rilancia la riflessione sul rapporto uomo-natura e sull’indispensabile compromesso tra necessità ambientali e necessità dello sviluppo economico; esigenze tradizionalmente conflittuali nella società moderna. La Convenzione sulla diversità biologica, firmata da 159 dei 183 Stati partecipanti alla conferenza di Rio del 1992, aveva come obiettivo generale la conservazione della biodiversità, l’uso sostenibile delle risorse biologiche, nonché la distribuzione giusta ed equa dei benefici derivati dall’uso delle risorse genetiche. Se da una parte l’esistenza di un problema della biodiversità e la conseguente necessità di avviarlo a soluzione sono stati riconosciuti da tutti i partecipanti alla conferenza di Rio, d’altro canto tutti si sono anche trovati d’accordo nel giudicare il patrimonio di conoscenze di base sulla biodiversità ancora troppo esiguo e lacunoso per fondarvi sopra scelte di medio e lungo termine di natura politica ed economica. Partendo dal presupposto che la biodiversità è una risorsa vitale per la popolazione mondiale odierna e per le future generazioni e che pertanto la sua conservazione è irrinunciabile, la comunità internazionale, at- Esemplare di Sula nebouxii fotografata sulle isole Galapagos traverso il Programma Ambiente delle Nazioni Unite (UNEP), ha iniziato ad attuare la Convenzione sulla Diversità Biologica commissionando uno studio sull’insieme delle conoscenze oggi esistenti sulla biodiversità. L’enorme lavoro di ricognizione degli aspetti biologici e sociali della biodiversità, promosso dall’UNEP e sostenuto dallo strumento finanziario rappresentato dal Global Environmental Facility (GEF), ha prodotto un’analisi critica del problema, la Valutazione della Biodiversità Globale (Global Biodiversity Assessment – GBA). Sotto forma di volume, la GBA sintetizza in 1140 pagine l’immensa ed eterogenea quantità di dati e di principi teorici a fondamento degli studi sulla biodiversità. Bisogna riflettere su un aspetto peculiare della GBA: esso rappresenta il primo insieme di conoscenze altamente integrate e aggiornate sulla biodiversità dell’intera biosfera, tanto più sorprendente se si pensa che è stato 699 412-711_Vol1_Scienza.QXD 6-06-2007 12:09 Pagina 700 Scienza e tecnologia “Conosci te stesso”: l’organismo e l’ambiente, la salute e la malattia Bambini appartenenti a etnie diverse Ottocento, Storia: Le trasformazioni dell’ambiente fisico ottenuto in poco meno di tre anni di lavoro. La comunità internazionale dei ricercatori è riuscita a superare molte difficoltà sia di ordine concettuale sia di ordine pratico: dalla pianificazione all’organizzazione del lavoro; dall’eterogeneità dei problemi sul reperimento e l’organizzazione delle conoscenze all’attuazione rapidissima del progetto; dalle innumerevoli diverse opzioni tematiche tra cui scegliere alla complessa articolazione delle gerarchie di coordinamento in cui compaiono istituzioni politiche, economiche, musei, università, parchi nazionali e altre istituzioni scientifiche, insieme a molte centinaia di biologi, ecologi, economisti, specialisti di singoli settori della ricerca direttamente coinvolti nel GBA. Le componenti della biodiversità Disponiamo di una decina di differenti definizioni di “diversità biologica-biodiversità”, e tutte in qualche modo enfatizzano la molteplicità di dimensioni e di livelli a cui la varietà dei viventi si manifesta e può essere osservata. La più antica è stata elaborata nel 1987 dall’Ufficio per la Valutazione della Tecnologia (OTA), presso il Congresso degli Stati Uniti d’America: “La diversità biologica si riferisce alla varietà e alla variabilità degli organismi viventi e ai sistemi ecologici in cui essi si trovano. La diversità è definibile come il numero e la frequenza relativa di differenti oggetti. Nel caso della diversità biologica questi oggetti si trovano a diversi livelli di organizzazione: dagli ecosistemi nel loro complesso alle strutture chimiche che costituiscono le basi moleco- 700 lari dell’eredità. Pertanto il termine comprende i differenti ecosistemi, le specie, i geni nonché le loro abbondanze relative ”. La biodiversità rappresenta, dunque, l’insieme delle differenze osservabili tra gli esseri viventi. Tali differenze possono essere descritte in rapporto ai geni, alle specie e agli ecosistemi ed espresse attraverso delle misure quantitative. Qualsiasi caratterizzazione della biodiversità deve rifarsi ai saperi di tre discipline: la genetica che fornisce la descrizione dello stato della variazione intra e interspecifica; la sistematica che dà una rappresentazione organizzata delle differenze tra tutte le specie di organismi; l’ecologia che ricerca le regole che presiedono al funzionamento dei grandi sistemi ambientali in cui la diversità genetica e quella tassonomica si trovano necessariamente integrate. Consideriamo dunque la diversità genetica. La biologia insegna che l’essere differenti è una caratteristica propria dei viventi. La differenza è un attributo che fonda l’individualità degli organismi e costituisce una condizione necessaria alla loro evoluzione. La diversità genetica, in particolare, consiste nell’insieme di tutte le differenze ereditabili esistenti tra gli individui in una popolazione, e tra le diverse popolazioni, differenze che sono riconoscibili a livello genico. Essa è riconducibile alle differenze di sequenza nelle coppie di basi degli acidi nucleici. Le novità genetiche compaiono per mutazione. La struttura e il numero dei cromosomi, come pure la quantità di DNA contenuto in una cellula (dimensione del genoma) costituiscono alcuni tipi di diversità genetica. Nei batteri, per esempio, le dimensioni dei genomi variano ampiamente da 6x105bp a più di 107 bp (coppie di basi componenti il DNA). Il genoma del micoplasma, uno dei più piccoli organismi procarioti, contiene circa 400 geni, mentre negli altri batteri il numero di geni varia tra 500 e 8 mila. La maggioranza degli eucarioti possiede, invece, qualcosa come 50 mila geni e un contenuto di DNA estremamente differente, variabile tra 8,8 x 106 bp e 6,9 x 1011bp (nell’uomo sono state stimate 3 x 109 bp). Tuttavia è a livello delle popolazioni e delle specie che la diversità genetica è stata studiata in grande dettaglio. La grandissima maggioranza delle specie vegetali e animali, infatti, mostra caratteri variabili sia nella stessa popolazione, sia tra popolazioni diverse della stessa specie. La variabilità dei caratteri ereditabili è importante per la sopravvivenza delle specie, e quindi per la conservazione della biodiversità, perché, grazie alla selezione naturale, permette alle popolazioni di cambiare la propria costituzione genetica nel corso del tempo, adattandosi ad ambienti mutevoli. Quanto più è piccola la variabilità genetica di una specie tanto più lento sarà il suo cambiamento evolutivo e minore, perciò, la sua capacità di sopravvivere e adattarsi geneticamente ai cambiamenti ambientali. Per diversità tassonomica si intende, restrittivamente, il numero di specie presenti in un habitat o in un luogo circoscritto. Taxon si dice di un qualsiasi gruppo di organismi sufficientemente distinto da altri organismi, in possesso di un nome e collocato a uno dei livelli La sistematica biologica La sistematica è quella parte della zoologia e della botanica che cerca di ordinare gli organismi in gruppi, appartenenti ai diversi livelli di un sistema, (specie, generi, famiglie ecc.), a seconda dei rapporti e delle affinità tra i gruppi stessi. I criteri usati per costruire la sistematica sono stati diversi nel tempo: esigenze di caccia, pesca e in generale di sopravvivenza hanno dato origine a classificazioni legate alla stagionalità, ai metodi di cattura, alla pericolosità o meno degli animali. All’inizio la si- stematica fu una catalogazione degli animali e delle piante in base a somiglianze morfologiche; oggi, tuttavia, le conoscenze di anatomia comparata, di embriologia, di biochimica forniscono altri elementi di valutazione. L’attenzione si è spostata sulle popolazioni e su fenomeni biologici complessi, la cui spiegazione necessita del contributo di diverse discipline. Inoltre la sistematica attuale è basata su criteri evolutivi, nel tentativo di stabilire i vincoli di parentela fra gli organismi. 412-711_Vol1_Scienza.QXD 6-06-2007 12:09 Pagina 701 La biodiversità della gerarchia. Ad esempio Homo sapiens e Canidi sono due taxa collocati a due distinti livelli gerarchici; uno è una specie, l’altro è una famiglia. Il punto di vista tassonomico della biodiversità è diventato in poco tempo così popolare che il numero di specie si è affermato ovunque sui media come sinonimo di biodiversità tout court anche se è solo una delle tre componenti della biodiversità. La diversità di specie dell’intera biosfera corrisponde al totale delle specie animali, vegetali, fungine e batteriche esistenti sul pianeta. Le stime sulle specie esistenti variano da un minimo di 3-10 milioni (secondo l’ecologo britannico Robert May, 1990) fino a 30 milioni (è la stima di Thomas Erwin, 1982) fino a massimi compresi nell’intervallo 50-100 milioni (secondo uno dei massimi esperti di biodiversità tassonomica, Edward O. Wilson di Harvard, 1992). Stime prudenziali circa la diversità totale riportano 12-13 milioni di specie, fornendo un quadro in cui spiccano gli Insetti con i 2/3 del totale, i funghi e i microrganismi. Anche il numero delle specie conosciute non è accertato. Una delle stime più attendibili delle specie note alla scienza le valuta intorno ai 2 milioni (in Italia sono registrate oltre 5.600 specie di piante e 55.600 specie di animali). Lo studio della diversità tassonomica sta alla base della sistematica biologica: disciplina che identifica, classifica e dà un nome ai diversi tipi di organismi esistenti. Quanto più una specie è filogeneticamente distante dalle altre, cioè quanto più rappresenta un ramo isolato nel grande albero della vita, tanto più essa contribuisce all’estensione della biodiversità. Le differenze ecologiche sono le più difficili da definire. Il peso dell’habitat (cioè dei fattori non biologici come la temperatura, l’umidità, la salinità, il pH ecc.) sulle differenze tra ecosistemi può essere grandissimo. Si pensi anche solo alle differenze tra ecosistemi acquatici ed ecosistemi subaerei-terrestri, e quindi alla differenza tra biodiversità terrestre e biodiversità marina. Anche la diversità ecologica è articolata in più livelli gerarchici, da quello popolazionistico, a quello di nicchia, di habitat, di ecosistema, di paesaggio, di bioma, cioè del complesso di ecosistemi di una data area contraddistinta da un certo tipo si vegetazione. Una migliore caratterizzazione si ottiene individuando tre componenti principali (dette rispettivamente a ß ? della diversità ecologica distinguibili tra di loro a seconda della scala spaziale di osservazione e misura. La diversità ecosistemica viene di solito indagata localmente e limitatamente alle biocenosi, le componenti viventi di un ecosistema, rapportando matematicamente la ricchezza di specie (il numero di specie presenti in quell’ecosistema) alla loro abbondanza relativa (numero di individui presenti in ciascuna specie). Una sala dedicata alla biodiversità all’interno del Museo di Storia Naturale di New York di estinzioni (Ordoviciano 440 Ma, Devoniano 365 Ma, Permiano 225 Ma, Triassico 210 Ma, Cretaceo 65 Ma) che fu innescata da un rapidissimo raffreddamento della Terra che provocò la scomparsa di circa il 95 percento delle specie animali marine. La distribuzione geografica della diversità tassonomica (numero di specie presenti in un’area) sulle terre emerse non è uniforme. La diversità generalmente è elevata nelle aree calde e umide del globo, diminuisce dall’equatore verso i poli e con l’aumento dell’altitudine. Negli oceani, poi, esiste correlazione tra diversità tassonomica e profondità. Per gli organismi pelagici la massima ricchezza tassonomica si situa tra –1.000 m e –1.500 m di batimetria. Le aree del pianeta a più alta diversità di specie sono le regioni circumequatoriali dove gli ecosistemi di foresta pluviale (circa il 7 percento delle terre emerse) forse contengono oltre il 90 percento di tutte le specie conosciute. Nelle regioni temperate manifestano Esemplare di koala con cucciolo al collo Questi marsupiali, che ora vivono quasi esclusivamente in Australia, sono, dopo i monotremi, i mammiferi più primitivi; la loro esistenza nel Laurenziano è testimoniata da reperti fossili dall’inizio del Cretaceo. Storia e geografia della biodiversità La biodiversità oggi osservabile è il risultato di un processo storico lunghissimo iniziato tra 3.900 e 3.400 milioni di anni fa (Ma) con la comparsa della vita sul pianeta. Considerando il fatto che l’evoluzione biologica è un fenomeno irreversibile (potendo cominciare daccapo, la storia della vita sulla Terra sarebbe sicuramente diversa da quella che conosciamo) ne deriva che l’attuale biodiversità è un fenomeno contingente, storicamente determinato. Dallo sfocato panorama della ricostruzione paleontologica spiccano chiari due elementi: il fatto che la diversità macrotassonomica (intesa come ricchezza di tipi organizzativi) ha raggiunto il suo apice circa 530 Ma fa nel Cambriano; il fatto che la diversità di famiglia e di specie è andata aumentando dal Cambriano al Pleistocene con poche battute d’arresto, in corrispondenza delle fasi, di solito brevi e isolate, di estinzione di massa. Un durissimo colpo alla biodiversità venne dalla terribile catastrofe del tardo Permiano, la terza delle cinque gran- 701 412-711_Vol1_Scienza.QXD 6-06-2007 12:09 Pagina 702 Scienza e tecnologia “Conosci te stesso”: l’organismo e l’ambiente, la salute e la malattia sono fenomeni che sembrano favoriti nelle aree equatoriali-tropicali da condizioni climatiche pressoché ottimali, relativamente inalterate per decine o centinaia di migliaia di anni. Mentre alcuni habitat, come quello della foresta tropicale pluviale o quello della barriera corallina, sono ricchissimi di specie, altri, come per esempio l’habitat della tundra o quello del semideserto, sono poveri di specie, pur ospitando animali e piante biologicamente molto interessanti. Differenti valori di biodiversità tra siti differenti dipendono innanzitutto dalla superficie considerata e poi, ovviamente, dalla scala a cui la diversità è misurata. Il numero di specie presenti in un’area aumenta con la superficie dell’area campionata. Anche a parità di superficie, tuttavia, alcune aree sono particolarmente ricche di specie rispetto ad altre e costituiscono dei centri di diversità locale. Un’importantissima componente geografica della diversità è data dalle specie endemiche, specie, cioè che sono esclusive di un’area considerata: per esempio il varano di Komodo è un rettile esclusivo dell’isola di Komodo. Felci nella foresta pluviale nello Stato di Victoria in Australia Novecento*, Storia: Ambiente e ambientalismo, La demografia Diversità bioculturale Novecento*, Scienza e tecnologia: La genetica, La sociobiologia, L’ecologia: aspetti scientifici e problemi di conservazione, L’etologia, L’evoluzione dell’evoluzionismo Una veduta panoramica del Sahara 702 grande ricchezza di piante le zone a clima mediterraneo del Sud Africa con 8.600 specie e dell’Australia Occidentale con oltre 5.500 specie. L’esistenza di tali gradienti geografici della biodiversità ha cause molteplici non ancora ben comprese, ma collegabili, comunque, alle condizioni facilitanti la formazione e il mantenimento di nuove specie. Speciazione e conservazione della ricchezza di specie Da oltre un decennio, naturalisti, etnologi e linguisti si sono fatti sempre più attenti ai rapporti tra la diversità biologica e quella culturale. Il confronto tra queste due forme di diversità ha fatto scaturire la nozione di diversità bioculturale: l’insieme delle varietà esibite, in una area geografica, dai sistemi naturali e da quelli culturali. Questi studi mostrano come i molteplici aspetti della diversità dei viventi siano tra loro intimamente collegati, profondamente capaci di modellarsi reciprocamente attraverso la storia delle attività umane sul pianeta. C’è una crescente consapevolezza che la nostra specie fa parte integrante della natura e che la sua azione ha aiutato a modellare molti degli ambienti cosiddetti naturali della biosfera. Esisterebbe cioè una vera e propria co-evoluzione tra gli esseri umani e gli ambienti naturali in cui la nostra specie è evoluta. Ecco allora che comprendere il posto dell’uomo nella natura e il ruolo delle lingue e delle culture che definiscono quel posto diventa sempre più importante e decisivo in una visione globale, olistica, della diversità. Gli studi interdisciplinari sulla diversità bioculturale mostrano che i modelli globali di distribuzione geografica della biodiversità coincidono in maniera significativa con i modelli di distribuzione della diversità linguistica, presa come descrittore della diversità culturale nel suo complesso. Il tema è affascinante e già sono in corso tentativi di stimare, attraverso indici quantitativi (sensibili alla ricchezza di specie animali e vegetali, all’ampiezza dell’area geografica considerate e all’entità demografica delle popolazioni umane), la diversità bioculturale di vaste regioni del globo. I primi risultati dicono che il bacino amazzonico, l’Africa centrale e l’area peninsulare-insulare indomalese e melanesiana sono i tre complessi geografici dove si osserva il massimo grado di diversità naturale e culturale. Ma anche le aree del globo segnate dai più elevati tassi di estinzione di specie e di lingue-culture.