Capitale, territorio e la retorica della competitività

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Capitale, territorio e la retorica della competitività
BOLLETTINO DELLA SOCIETÀ GEOGRAFICA ITALIANA
ROMA - Serie XIII, vol. VIII (2015), pp. 417-429
FABIO POLLICE
CAPITALE, TERRITORIO E LA RETORICA
DELLA COMPETITIVITÀ
Introduzione. – Il capitale ha un ruolo nodale nei processi di territorializzazione, ruolo che nel corso della storia è progressivamente cresciuto, divenendo
sempre più centrale e pervasivo. Questo è accaduto perché, se in passato l’effetto territorializzante del capitale era un riflesso dell’appropriazione fisica dello
spazio geografico e della sua risignificazione, in tempi più recenti, complice l’evoluzione stessa del capitalismo, la territorializzazione (Turco, 1988; 2002; 2010)
è divenuta una strategia per controllare, orientare e potenziare il processo di accumulazione del capitale e rafforzare il suo controllo sulla società. In queste
brevi note si cercherà di spiegare come e perché questo avviene, soffermandosi
sulle conseguenze che tale comportamento ha sui territori e sulle loro dinamiche evolutive, e lo si farà traendo ispirazione dalle considerazioni sviluppate da
Harvey nei suoi scritti e in particolare nel suo ultimo volume.
Secondo il geografo inglese il rapporto tra capitale e spazio geografico è un
momento imprescindibile per cogliere la natura stessa del capitalismo e le sue
«contraddizioni»; il capitale, infatti, «letteralmente crea il proprio spazio e il proprio tempo e insieme la propria natura caratteristica» (Harvey, 2014, p. 106).
L’affermazione ha di certo un contenuto più generale, ma nel corso del volume
diviene il riferimento interpretativo per una riflessione più puntuale sul rapporto tra capitale e territorio o, più precisamente, tra capitale e paesaggio, visto
che la categoria concettuale a cui più spesso Harvey fa riferimento è per l’appunto quella di paesaggio.
È nel paesaggio che il capitale si rappresenta ed è in esso che prende forma
il dispositivo capitalistico, influenzando l’agire individuale e collettivo e manifestando nel contempo il suo totale potere egemonico. Una capacità di trasformazione sostenuta dal neoliberismo (Harvey, 2005) che ne costituisce il fondamento epistemologico; fondamento che la crisi economica non solo non ha messo
in crisi, ma ha addirittura rafforzato (Peck, Theodore e Brenner, 2012). Gli spazi
urbani rappresentano l’esempio più rimarchevole dell’intreccio tra pratiche neoliberiste e interessi capitalistici (Swyngedouw, Moulaert e Rodriguez, 2002;
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Brenner e Theodore, 2002) ed è lì che la retorica della competitività compie a
pieno la sua funzione di supporto alla «territorializzazione» capitalistica.
Capitale e pratiche di territorializzazione. – L’iniziale domanda a cui si cercherà di dare risposta è quella relativa alle motivazioni che spingerebbero il capitale a plasmare lo spazio geografico attraverso specifiche pratiche di territorializzazione. Ebbene la prima risposta, quella più immediata, discende dalla definizione stessa di capitalismo inteso come «qualsiasi formazione sociale in cui i
processi di circolazione e accumulazione di capitale siano egemonici e dominanti nel fornire e plasmare le basi materiali, sociali e intellettuali della vita sociale» (Harvey, 2014, p. 19). Se questa è la dimensione «sociale» del capitalismo,
l’agente territorializzante non può che essere il capitale che, detenendo il controllo dello spazio geografico (1), ha la necessità di adattarlo in termini funzionali, simbolici e progettuali, rappresentandosi in esso e attraverso di esso. L’adattamento funzionale dello spazio geografico è per il capitale una pratica imprescindibile in quanto consente l’appropriazione, prima, e lo sfruttamento, poi, della
dotazione patrimoniale, materiale e immateriale, di cui i territori dispongono.
L’adattamento, si noti bene, non è «funzionale» al miglioramento delle condizioni di benessere della comunità locale, ma al perseguimento degli obiettivi propri
del capitale che nello specifico non mira soltanto ad appropriarsi del plusvalore
prodotto dal lavoro, ma anche ad appropriarsi del «capitale territoriale» accumulato nel tempo dalla comunità locale. Questa appropriazione può accompagnarsi a due distinte strategie: da un lato, quella che potremmo definire come strategia di «consolidamento orientato» dei processi di accumulazione, in cui il capitale attiva un dispositivo che consente di appropriarsi dei benefici economici e nel
contempo di riprodurre le condizioni territoriali che favoriscono l’accumulazione; dall’altro, quella che potremmo al contrario definire come strategia di «sfruttamento sistematico» in cui il capitale si appropria del patrimonio territoriale senza preoccuparsi della sua riproduzione. Una pratica, quest’ultima, che tende
spesso a prevalere sulla prima sia per la difficoltà di mantenere un effettivo controllo sul territorio e sulle sue risorse, sia perché ha ritorni più rapidi e costi notevolmente più bassi. Citando Joseph Stiglitz, Harvey sottolinea come ci siano
«due modi per arricchirsi: creare ricchezza o toglierla agli altri. Il primo aggiunge
qualcosa alla società. Il secondo di solito sottrae; perché, nel venir tolta, la ricchezza va distrutta» (Harvey, 2014, p. 137). Il danno, tuttavia, non consiste solo
nella sottrazione e/o nella distruzione delle risorse territoriali, ma nella radicale
trasformazione del contesto posta in essere dal capitale per trarre il massimo be(1) In realtà tra territorializzazione e controllo dello spazio geografico esiste una relazione di evidente reciprocità: il controllo rende praticabile la territorializzazione, mentre quest’ultima si manifesta a sua volta come forma di controllo. Come sottolinea Turco «il processo di territorializzazione istituisce tre forme di controllo sulla superficie terrestre [che] investono rispettivamente il piano simbolico, quello materiale e quello organizzativo» (2010, p. 51).
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neficio dallo sfruttamento economico delle suddette risorse, alterando i riferimenti identitari e quel tessuto relazionale che costituisce l’essenza dei luoghi e
la determinante ultima delle loro potenzialità di sviluppo. In effetti, quando «appropriazione e sfruttamento» delle risorse territoriali non richiedono il coinvolgimento delle comunità locali, l’azione del capitale assume i connotati di una semplice spoliazione, limitata nel tempo e nello spazio, e non vi è interesse alcuno
a operare inutili e onerosi interventi di riterritorializzazione. Il comportamento
del capitale è in questi casi puramente predatorio, ed è reso possibile dal controllo che direttamente o indirettamente il capitale ha sul territorio stesso, prima
ancora che sulle sue risorse. Profondamente diverso è il caso in cui il capitale,
pur proponendosi uno sfruttamento sistematico dei territori in cui viene a operare, ha interesse che gli stessi mantengano o addirittura accrescano la propria
capacità di produrre ricchezza. In questi casi la comunità locale deve divenire
parte integrante del dispositivo capitalistico e all’adattamento funzionale deve
affiancarsi l’adattamento simbolico e progettuale, l’unico che possa assicurare
una risignificazione dello spazio.
La comunità locale per partecipare al «progetto capitalistico» deve sentirsene
parte e giungere a condividerne finalità e azioni; deve divenire parte integrante
del dispositivo capitalistico. Le modalità attraverso le quali opera la territorializzazione eterocentrata di matrice capitalistica sono profondamente mutate nel corso
del tempo. Riprendendo la classificazione proposta da Turco (2010, p. 54), alla
pratica della «dominazione», propria del colonialismo, si è diffusamente sostituita
quella della «appropriazione» – espressione emblematica del neocolonialismo – e
quella più subdola e pervasiva della «acculturazione», dove il controllo simbolico
dello spazio assolve una funzione nodale e assolutamente caratterizzante.
Un esempio emblematico è rappresentato proprio dal concetto di competitività territoriale e dal ruolo che questo assolve nei rapporti tra capitale e territorio. Un concetto con una forte carica evocativa e un potere performante sullo
spazio geografico, che dimostra assai efficacemente quale ruolo possa svolgere
il linguaggio nella strutturazione dello spazio (2).
Il mito della competitività. – Per far sì che il territorio con la sua dotazione
patrimoniale possa divenire parte del dispositivo capitalistico, sono necessarie
due condizioni di contesto: da una parte, un sistema istituzionale che assicuri la
legittimazione del controllo sul patrimonio stesso da parte del capitale e, dall’altra, un progetto politico – «territoriale» nella propaganda governativa – che giustifichi il dispositivo evidenziandone i benefici diretti e indiretti per la colletti-
(2) «La simbolica della parola resta decisiva nel plasmare una simbolica del territorio e possiamo
dire che non solo quest’ultimo si costituisce linguisticamente, ma ogni processo configurativo della
territorialità si collega a una qualche fermentazione del linguaggio, ancorandosi a modelli discorsivi
o narrativi» (Turco, 2010, p. 55).
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vità, secondo una precisa retorica del potere che tende a dimostrare la propria
utilità sociale e l’imprescindibilità della propria azione. Il progetto politico, che
fino a qualche decennio addietro veniva solitamente a identificarsi con l’obiettivo stesso dello sviluppo, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso incomincia a fare riferimento sempre più esplicito e strutturato all’obiettivo della competitività, concetto mutuato dall’economia aziendale che nel volgere di pochi anni
diviene un riferimento costante nella definizione delle politiche di sviluppo ai
diversi livelli istituzionali.
Applicare il concetto di competitività a un territorio vuol dire considerarlo
alla stregua di un’azienda che è, in estrema sintesi, un sistema socio-tecnico che
crea ricchezza aggiuntiva attraverso l’utilizzo combinato delle risorse di cui può
disporre. Ciò vuol dire che un territorio, al pari di un’azienda, può produrre ricchezza se è in grado di combinare in maniera efficiente le risorse a propria disposizione e/o quelle che può attrarre dall’esterno. Il parallelo sembra funzionare, ma vi sono due differenze fondamentali relative alla diversa soggettualità
e all’obiettivo che ne orienta l’agire. Nell’azienda capitalistica la soggettualità è
in capo all’imprenditore e questo opera secondo una logica di profitto che prevede l’appropriazione sistematica di una quota parte del valore prodotto dal lavoro. La competitività viene misurata attraverso il mercato, indipendentemente
dall’equità del comportamento imprenditoriale, come capacità di soddisfare in
maniera più efficiente, efficace e qualitativamente adeguata le esigenze della
domanda. Con riferimento al territorio, invece, non solo non vi è una soggettualità (Pollice e Urso, 2013) paragonabile a quella dell’imprenditore capitalistico, ma l’obiettivo, che non può essere in alcun modo identificato con la sola
creazione di ricchezza, non può ottenersi attraverso il meccanismo di appropriazione del plusvalore proprio del capitalismo. Nonostante questa evidente
contraddizione, economisti ed esperti hanno elevato un po’ ovunque la competitività allo stato di «legge naturale della moderna economia capitalistica» (Kitson, Martin e Tyler, 2004) cercando progressivamente di accreditarla come indicatore di sviluppo territoriale. Inizialmente, infatti, il concetto di competitività
territoriale veniva utilizzato per indicare la performance economica della sola
componente produttiva del territorio, tanto da essere identificato con la produttività del lavoro. In Porter, ad esempio, il legame tra produttività e competitività
è strettissimo: l’obiettivo principale di un paese è quello di elevare la qualità
della vita dei propri cittadini, ma questo obiettivo può essere raggiunto solo attraverso la crescita dei livelli di produttività (Porter, 1998a; 1998b; 2001a;
2001b). Lo stesso Krugman, che pure è fortemente critico nei confronti del concetto di competitività territoriale, non manca di sottolineare che «Productivity
isn’t everything, but in the long run it is. A country’s ability to improve its standard of living over time depends almost entirely on its ability to raise its output
per worker» (Krugman, 1994, p. 9). La dimensione prevalentemente economica
della competitività territoriale emerge anche dalle definizioni che sono in larga
parte incentrate sulla capacità attrattiva dei territori, come quella proposta da
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Storper (1997, p. 20) per il quale la competitività consiste nella «ability of an (urban) economy to attract and maintain firms with stable or rising market shares
in an activity while maintaining or increasing standards of living for those who
participate in it». Nella definizione di Storper il riferimento alla produttività è implicito, in quanto le imprese possono avere quote di mercato stabili o crescenti,
accompagnate da un contestuale incremento dei profitti, solo in presenza di livelli di produttività crescenti o stabilmente al di sopra di quelli ottenuti dalla
concorrenza. Va infine sottolineato che il miglioramento del livello di benessere
di cui beneficia chi opera all’interno di questo tessuto economico – «who partecipate in it» – non è che una conseguenza degli effetti redistributivi sul reddito
ed è strumentale alla riproduzione delle condizioni territoriali che sottendono i
risultati produttivi delle imprese. È solo nel corso dell’ultimo decennio che il
concetto di competitività territoriale, pur nell’ambito del medesimo approccio
interpretativo, ha assunto declinazioni più socio-territoriali. Nella definizione di
Meyer-Stamer (2008, p. 7) si legge ad esempio che la competitività è «the ability
of a locality or region to generate high and rising incomes and improve the livelihoods of the people living there». L’elemento nodale ed esplicativo è ancora
nella capacità di produrre ricchezza, ma questa viene esplicitamente definita come una capacità territoriale e non meramente economica, mentre ne vengono
enfatizzate le ricadute sociali. Che la competitività tenda progressivamente a divenire un prodotto territoriale lo si evince ancor più chiaramente nella definizione che ne hanno dato più di recente Dijkstra, Annoni e Kozovska per i quali
la regional competitiveness è «the ability to offer an attractive and sustainable
environment for firms and residents to live and work» (2011, p. 4). In realtà la riflessione scientifica tende sempre più a concentrarsi sulle determinanti della
competitività territoriale, mentre il livello di produttività ne diviene un indicatore, quello che Gardiner, Martin e Tyler definiscono come «revealed regional
competitiveness» (2004). Ma competitività e produttività restano di fatto sinonimi, tanto che, nei rapporti sulla Global Competitiveness elaborati dal World Economic Forum, la competitività torna a essere definita come quell’insieme di «institutions, policies and factors that determine the level of productivity of a country» (Schwab e Porter, 2007; Schwab e Sala-i-Martin, 2012).
La riflessione scientifica sembra dunque concordare sul fatto che la competitività di un territorio si manifesti attraverso un livello di produttività del proprio
sistema d’imprese superiore a quello dei territori concorrenti e discenda da condizioni di ordine interno, come l’efficienza tecnologica o quella organizzativa,
ma anche da specifiche condizioni di contesto, ossia da quel vasto insieme di risorse materiali e immateriali che costituiscono il patrimonio territoriale; patrimonio a cui le imprese possono attingere costantemente e liberamente.
Bisogna tuttavia sottolineare che, come il beneficio che l’impresa trae dall’utilizzo delle risorse territoriali – soprattutto quando ascrivibili alla categoria delle risorse immateriali – appare spesso di difficile misurazione, così anche i costi
derivanti dall’utilizzazione stessa non sono sempre quantificabili; senza contare
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che vi sono risorse patrimoniali, come il capitale sociale, il cui utilizzo non ha
effetti negativi, anzi, ove avvenga correttamente, ne ha di addirittura positivi e
incrementali. La possibilità che il capitale possa contribuire in maniera diretta e
indiretta a incrementare il patrimonio territoriale è fuori di dubbio, ma la probabilità che questo accada e che possa bilanciare gli effetti negativi derivanti
dall’utilizzazione del suddetto patrimonio è veramente bassa, se non addirittura
nulla; e questo perché il capitale si muove in base a una logica di profitto che
postula l’esternalizzazione dei costi e l’internalizzazione dei benefici. Il capitale
non deve peraltro preoccuparsi della riproduzione del patrimonio territoriale,
in quanto un eventuale processo di depauperamento territoriale che azzerasse
o riducesse fortemente i benefici localizzativi potrebbe essere risolto con la delocalizzazione degli investimenti. L’attenzione del capitale per il territorio è assai maggiore prima dell’investimento e mira a sollecitare gli attori pubblici a
porre in essere quegli interventi di adeguamento infrastrutturale che consentano di accrescere la redditività dell’investimento che si sta andando a realizzare.
Peraltro, creando una giustificazione all’intervento pubblico – solitamente legata alla creazione di posti di lavoro – tende a costruire intorno ad esso e all’azione di governo consenso sociale e, in questo modo, ne rafforza la leadership.
L’alleanza tra Stato e capitale, fondamento del dispositivo capitalistico, tende
così a rinsaldarsi; il ruolo del primo, tuttavia, non è soltanto quello di creare le
condizioni di contesto perché possa essere assicurata la riproduzione del capitale, ma anche quello di sostenerne il processo di espansione. Come? In primo
luogo, proprio attraverso quella quota della spesa pubblica che viene indirizzata a creare le condizioni per la riproduzione del capitale. Gli interventi di adeguamento dell’infrastrutturazione materiale e immateriale del territorio vanno
infatti affidati a imprese private, ossia al capitale, e questa diviene una nuova
occasione di investimento, di profitto e, dunque, di accumulazione. Posto che
la spesa pubblica è largamente sostenuta dalla tassazione del lavoro, si ottiene
così che ritorni al capitale larga parte di quella ricchezza prodotta che era stata
precedentemente impegnata come remunerazione della forza lavoro. Tutto
questo mentre il patrimonio territoriale, al contrario, rischia di subire un progressivo depauperamento. L’obiettivo della competitività territoriale è comunque raggiunto in quanto il territorio è stato in grado di attrarre investimenti, migliorando il proprio livello di infrastrutturazione, e questo ha consentito di accrescere il prodotto interno lordo e l’occupazione. Si tratta di una contraddizione di cui, invero, si erano accorti gli stessi critici della competitività territoriale
che pure non sembra abbiano compreso a fondo tutte le conseguenze di un
approccio neoliberista (Brenner, 2004) che rischia di accrescere i divari (Cheshire e Gordon, 1996) e ridurre i livelli di coesione sociale. L’efficacia di un modello di sviluppo territoriale, invece, non può che essere misurata in termini di
miglioramento sostenibile del livello di benessere della comunità locale, dove
per sostenibile si intende sia un miglioramento che non vada a incidere negativamente sulle risorse territoriali, consentendo alle generazioni future di godere
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di un analogo livello di benessere (equità intergenerazionale), sia un miglioramento diffuso dei livelli di benessere, accompagnato cioè da un processo redistributivo della ricchezza (equità intragenerazionale). Ebbene, una crescente
competitività territoriale non è in grado di assicurare alla comunità locale un
miglioramento sostenibile del livello di benessere e, inoltre, tende a incidere
negativamente anche sul benessere dei territori concorrenti, visto che, come
detto, la competizione non è un gioco a somma zero. Un esempio degli effetti
sulla comunità locale può essere dato dai valori immobiliari. Una crescente
competitività territoriale fa infatti crescere il valore degli immobili, ma questo
incremento non solo va prevalentemente a beneficio dei possessori di immobili a fini speculativi, ma incide negativamente sulle classi meno abbienti per le
quali si riduce la possibilità di acquistare un immobile e, conseguentemente, di
migliorare le proprie condizioni di vita.
Considerazioni analoghe possono svilupparsi in merito agli incrementi di
produttività che, per quanto discendano in larga misura dallo sfruttamento delle
risorse territoriali – ivi compresa la professionalizzazione della forza lavoro – determinano solitamente un aumento meno che proporzionale dei livelli salariali.
Ciò accade non solo per la tendenza propria del capitale ad appropriarsi degli
incrementi di produttività – anche quando ascrivibili al lavoro – ma anche per
esigenze di ordine concorrenziale che obbligano a investire parte di questi benefici nella ricerca di ulteriori incrementi di produttività; ricerca che non necessariamente viene realizzata in loco e, di conseguenza, può non avere ricadute
dirette sul contesto territoriale. Inoltre il capitale, pressato dall’esigenza di accrescere i livelli di produttività, facendo ricorso alla retorica della competitività territoriale, sollecita lo Stato a realizzare sul territorio ulteriori interventi che consentano di accrescere i vantaggi localizzativi, avvantaggiandosene in termini di
produttività e recuperando indirettamente quota parte di quanto ha versato ai lavoratori sotto forma di redditi distribuiti. Trova dunque conferma quanto efficacemente sintetizzato da Harvey: «Il capitale punta a produrre un paesaggio geografico favorevole alla sua stessa riproduzione e alla sua ulteriore evoluzione»
(Harvey, 2014, p. 150).
Il contesto geografico dove l’azione territorializzante del capitale diviene più
diffusa e pervasiva è sicuramente la città. L’interesse del capitale per la città, in
quanto luogo privilegiato di accumulazione, è sempre stato elevato (3), ma nel
corso degli ultimi decenni è andato addirittura aumentando, soprattutto nelle regioni maggiormente sviluppate, dove le città sono state interessate da un vero e
proprio processo di «riconversione produttiva». Un processo che in prima istanza
può essere letto come una conseguenza della ridefinizione della divisione internazionale del lavoro che le ha obbligate a passare da un’economia fordista a
una post-fordista. Harvey sostiene tuttavia che si tratta di un processo indotto
(3) «Gli agglomerati urbani in effetti sono ambienti spaziali costruiti che collettivamente sono favorevoli al sostegno di particolari insiemi di attività produttive» (Harvey, 2014, p. 153).
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dal capitale stesso nel suo costante processo espansivo (4). In realtà qui Harvey
riprende le considerazioni già sviluppate in passato (Harvey, 2003; 2005) in merito all’uso strumentale dei progetti di sviluppo urbano per assorbire il surplus di
capitale ed evitare crisi di sovraccumulazione. Questi progetti rappresentano infatti una modalità efficiente per differire nel tempo e nello spazio l’impiego del
surplus, in quanto richiedono solitamente grosse quantità di capitale e lavoro. Il
riferimento è a ciò che Harvey stesso definisce fix spazio-temporali (5).
Nell’attuale sistema economico, le città possono acquisire o consolidare una
posizione di rilievo all’interno dei networks nazionali e internazionali solo se sfruttano in maniera intensiva e orientata il fattore produttivo più abbondante, quello
che da sempre qualifica le città e che, a oggi, costituisce il fattore critico dell’economia della conoscenza: la ricchezza e la varietà del tessuto relazionale. Una caratterizzazione, quella appena richiamata, che è a sua volta intimamente collegata
alla «cultura» come fenomeno localmente determinato e sostrato imprescindibile
del tessuto relazionale. Se si accetta questa interpretazione, lo sviluppo e la diffusione di politiche culture-led a scala urbana vengono a essere direttamente o indirettamente riconducibili a un obiettivo di riposizionamento della città all’interno
dello scenario economico internazionale. Il riposizionamento «culturale» della città
non si esaurisce sul piano meramente produttivo, ma investe in maniera profonda
e pervasiva la sfera sociale, perché è in essa che si producono i vantaggi competitivi che la città deve consolidare per rendere efficace il proprio riposizionamento.
Tuttavia, molte delle esperienze sin qui maturate prescindono in tutto o in parte
dal coinvolgimento della comunità locale e si incentrano su interventi di infrastrutturazione culturale che, oltre all’eccessiva enfatizzazione degli investimenti materiali rispetto a quelli immateriali, determinano processi di gentrification che hanno
effetti opposti sul piano della coesione sociale e del rafforzamento del tessuto relazionale urbano. La rigenerazione culturale, sganciata da una pianificazione de-
(4) «La costruzione di un paesaggio geografico favorevole all’accumulazione di capitale in un’epoca diventa, per farla breve, un ostacolo all’accumulazione nella successiva. Il capitale perciò deve
svalutare gran parte del capitale fisso nel paesaggio geografico esistente per costruire un paesaggio
del tutto nuovo con un’immagine diversa. Questa è la scintilla che produce crisi localizzate intense e
distruttive […] il capitale crea un paesaggio geografico che soddisfa i suoi bisogni in un certo momento solo per doverlo distruggere in un momento successivo per agevolare l’ulteriore espansione e
la trasformazione qualitativa del capitale» (Harvey, 2014, pp. 158-159).
(5) Per Harvey si può parlare di fix spazio-temporali quando «Una certa parte del capitale totale
viene, letteralmente e fisicamente, “fissata” nella e sulla terra per un periodo relativamente lungo. Ma
fix si riferisce anche metaforicamente a come gli investimenti di lungo termine nelle espansioni geografiche forniscono una soluzione (un fix nel senso di un aggiustamento) per le crisi di sovraccumulazione di capitale […] L’organizzazione di nuove divisioni territoriali del lavoro, quella di nuovi complessi
di risorse e quella di nuove regioni come spazi dinamici di accumulazione del capitale offrono tutte
nuove opportunità di generare profitti e di assorbire le eccedenze di capitale e lavoro. Tali espansioni
geografiche spesso, però, mettono in pericolo i valori già “fissati” in altri luoghi. A questa contraddizione non si può sfuggire. O il capitale se ne va e lascia una scia di devastazione e svalutazione (come nel
caso di Detroit), oppure rimane fermo e finisce per annegare nelle eccedenze di capitale che produce
inevitabilmente, ma per le quali non può trovare sfoghi redditizi» (Harvey, 2014, pp. 155-156).
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mocratica e da un’ideologia sociale, diviene così un’altra manifestazione di quella
forma di neoliberismo che tende ad asservire la città alle logiche del mercato globale (Oosterlynck e González, 2013), in cui la competitività non è finalizzata al
miglioramento delle condizioni di benessere della comunità locale, ma alla mera
produzione di ricchezza a beneficio delle reti internazionali e dei soggetti economici che ne sono alla base. Un orientamento, questo, che troverebbe conferma
nella stessa natura degli interventi di infrastrutturazione culturale, sempre più
spesso caratterizzati da tendenze omologanti, determinate dall’esigenza di attrarre
segmenti transnazionali più attraverso la spettacolarizzazione di una cultura «globale» che attraverso una reinterpretazione autentica delle culture locali. Quanto
mercificazione e spettacolarizzazione del luogo siano legate alle logiche proprie
del capitale viene efficacemente stigmatizzato da Harvey:
Città come Barcellona, Istanbul, New York e Melbourne diventano
brand, per esempio, in quanto destinazioni turistiche o nodi di attività
economiche in virtù delle loro caratteristiche peculiari e di speciali qualità
culturali. Se non sono disponibili tratti unici particolari, si assume un architetto famoso, come Frank Gehry, e gli si fa realizzare un edificio firmato
(come il museo Guggenheim a Bilbao) per colmare la lacuna. Ovunque
storia, cultura, unicità e autenticità vengono trasformate in merci e vendute a turisti, imprenditori in erba e capi d’azienda, generando rendite monopolistiche per gli interessi fondiari, gli sviluppatori immobiliari e gli speculatori. Il ruolo della rendita monopolistica di classe che viene ottenuta
dall’aumento dei valori fondiari e dei prezzi degli immobili in città come
New York, Hong Kong, Shanghai, Londra e Barcellona è di grandissima
importanza per il capitale in generale. Il processo di gentrification che poi
viene avviato è, a livello mondiale, una parte determinante di un’economia basata tanto sull’accumulazione per espropriazione quanto sulla creazione di ricchezza attraverso nuovi investimenti urbani [2014, pp. 145-146].
Non si vuole naturalmente criticare tout court la rigenerazione culturale come strategia di riposizionamento della città, ma solo l’uso strumentale che se n’è
fatto a livello politico ed economico negli ultimi decenni, evidenziandone gli effetti negativi che ne sono derivati sul piano sociale, economico e culturale. Occorre dunque de-strumentalizzare questo indirizzo strategico e sottrarlo alle logiche neoliberiste che ne hanno sin qui guidato lo sviluppo, utilizzandone, ove
possibile, le stesse categorie concettuali in modo da dimostrare come queste si
prestino a interpretazioni diametralmente opposte e possano costituire il fondamento di un nuovo modello di rigenerazione culturale incentrato sul «luogo»
piuttosto che sul «mercato».
Conclusioni. – Dalle considerazioni sin qui sviluppate emerge assai chiaramente che il rapporto tra capitale e territorio è divenuto nel tempo sempre più
pervasivo in quanto il capitale non si limita più a creare il proprio spazio econo-
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mico, appropriandosi delle risorse di contesto, ma interviene direttamente nei
processi di territorializzazione con finalità che poco hanno a che vedere con il
miglioramento sostenibile del benessere della comunità locale. L’azione territorializzante – anche se per la sua stessa natura andrebbe definita deterritorializzante – avviene sia in maniera diretta, attraverso gli investimenti/disinvestimenti
produttivi e gli interventi di adattamento funzionale del contesto territoriale, sia
in maniera indiretta, orientando – anche e soprattutto attraverso la retorica della
competitività – l’intervento pubblico e i comportamenti individuali e collettivi.
Se un tempo l’azione del capitale si esauriva nel controllo del territorio e delle
sue risorse con comportamenti che andavano dalla coercizione alla persuasione
economica, adesso, nell’economia della conoscenza, questa azione deve necessariamente mirare al coinvolgimento delle comunità locali, facendo in modo che
introiettino gli obiettivi del capitale e li avvertano come espressione della propria volontà, di una volontà collettiva. L’immagine-obiettivo di una città competitiva, veicolata congiuntamente dal capitale e dalle istituzioni, si impone rapidamente sulle altre e assume un valore performante sulla realtà stessa. E così la logica della competitività non ci appare soltanto come necessaria o desiderabile,
ma come assolutamente imprescindibile e ci si sforza di perseguirla a ogni livello istituzionale giungendo addirittura a rinunciare, in nome di un ineffabile «successo competitivo», alla nostra stessa identità e ai principi stessi su cui si basa la
nostra civiltà. Dimentichiamo che obiettivi come coesione sociale e territoriale e
competitività, che pure sono alla base delle politiche di sviluppo dell’Unione
Europea e della comunità internazionale, sono per definizione in antitesi. La
competizione è un gioco che ha vincitori e perdenti e tende ad accrescere le disparità piuttosto che a ridurle. Se la competitività «might be defined as the success with which regions and cities compete with one another in some way» (Kitson, Martin e Tyler, 2004, p. 991), per una regione che «vince» ce n’è di certo
una che «perde», e a nulla serve ripetere che una libera competizione comporta
benefici diffusi per tutti gli attori, perché non si è in un regime di concorrenza
perfetta e perché l’umanità non può continuare a misurare se stessa attraverso il
parametro economico della produttività.
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process of territorialisation, adapting the geographical space to its own purposes of accumulation. The territorializing action of capital takes different forms, which sometimes coexist within the same space-time context, but the most pervasive one is no doubt the one
working through acculturation, because it makes local communities its means of territorialisation. The rhetoric of competitiveness is one of the most remarkable examples of how
capital succeeds in its aim. Supported by a large part of the scientific debate and manipulated by governments at all institutional levels, the myth of territorial competitiveness
Capitale, territorio e la retorica della competitività 429
threatens to enslave place to the logic of capital, compromising in the long run those
prospects for development that are instead considered to be as the ultimate goal of competitiveness itself. Cities with their strategic plans and urban regeneration policies are
among the areas where the shaping effect of capital and the contradictions of the capitalist device become more evident.
Università del Salento, Dipartimento di Storia, Società e Studi sull’Uomo
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