Il testo, l`analisi, l`interpretazione II

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Il testo, l`analisi, l`interpretazione II
Societ� Dante Alighieri - Comitato di Napoli
Il testo, l'analisi, l'interpretazione II
Enzo Rega, Il testo, l'analisi, l'interpretazione II
(a cura di) Matteo D'AmbrosioSe negli anni Settanta c'è stato forse un eccesso di riflessione teorica (meta-letteraria) ad
accompagnare la produzione letteraria stessa, tanto che chi scriveva lo faceva portandosi addosso il peso intero della
responsabilità di ciò che andava scrivendo – e di come lo andava facendo –, di questi nostri tempi
disimpegnati, invece, di tanto non sembra essere rimasto più nulla. Così, Matteo D'Ambrosio, professore associato di
Storia della critica letteraria all'Università di Napoli "Federico II", ha raccolto un pugno di agguerriti studenti laureatisi
presso la sua cattedra riuniti prima in un convegno a Napoli tenuto all'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e poi nel
volume che ne raccoglie gli atti: Il testo, l'analisi, l'interpretazione. Volume secondo (Liguori, Napoli 2002, pp. 298, euro
16,00; il primo volume uscito nel 1995 presso lo stesso editore raccoglieva gli interventi di un gruppo di specialisti già
affermati).
Come a tracciare una sorta di continuità nella discontinuità, il volume che raccoglie soprattutto contributi di ambito
semiotico e narratologico in un rapporto stretto fra teoria e indagine testuale, è aperto però dall'intervento di Dante Della
Terza (professore emerito della Harvard University, già ordinario di storia della critica letteraria e di letteratura italiana,
rispettivamente nell'Università della Calabria e alla "Federico II" di Napoli) dedicato a "Benedetto Croce lettore e interprete
della letteratura italiana del Novecento". Della Terza vi mette in rilievo come "l'autorità teoretica" di Croce abbia fatto da
filtro nel recepire e dare rilievo a ciò che a lui sembrava importante e viceversa a negare spazio e credito nel dibattito
italiano a ciò che gli appariva di segno opposto, dividendosi in questo i compiti con Giovanni Gentile nel loro
compagnonnage di altissimo livello, prima della rottura, sulle pagine della rivisita "La Critica": Croce si occupava di
letteratura e Gentile di filosofia nazionale. In poesia, la preferenza di Croce, mette in rilievo Della Terza, va a Carducci,
prediligendo in lui soprattutto la poesia "storica" per la quale apprezza la "rude tempra dell'artiere che si sente investito
della responsabilità di ricostruire [...] quei capitoli della storia d'Italia che gli sembrano più esaltanti" (p. 6). "Disamato" è
invece D'Annunzio, con un distinguo però fra il D'Annunzio più valido, quello dell'Alcyone ad esempio, dotato di inventiva
versatile e di una eloquenza pluricorde, da un lato, e, dall'altro, invece, il poeta ornato e fautore della guerra,
fiancheggiatore del regime fascista. Il Croce "novecentista" che ha apprezzato Carducci, con capacità "proiettiva" ha, per
la narrativa, "optato per una prosa-racconto all'altezza della vita, che ha trovato nel Verga scrittore il suo inventivo
fautore" (p. 9).Sminuita invece, da Croce, l'importanza di Pirandello nel panorama novecentesco. I crociani più zelanti
hanno poi accentuato le posizioni di Croce, cristallizzandole, mentre esse, raccomanda Della Terza, vanno ricondotte
comunque alle circostanze in cui erano state elaborate.
In altro contesto e in altra temperie ci portano i due saggi del curatore del volume, Matteo D'Ambrosio. In "La nozione
sklovskiana di Ostranenie", viene attentamente analizzato il concetto di "straniamento" di Viktor_klovskij con particolare
riferimento al fondamentale saggio intitolato "L'arte come procedimento", apparso in Unione sovietica nel 1919 e
considerato il manifesto del Formalismo, "una delle più radicali e innovative, per progettualità e risultati, tra le tendenze
della teoria e della critica letteraria del primo Novecento" (p. 22). D'Ambrosio sottolinea come l'attenzione di Klovskij
vada soprattutto a quella che si può chiamare "pragmatica della composizione", cioè al modo con il quale i materiali
verbali vengono disposti ed elaborati in un testo letterario con la preoccupazione di "disautomatizzare" la percezione.
Cioè sottrarla all'automatismo ingenerato dall'abitudine e, straniando gli oggetti – e presentandoli in qualche
modo come nuovi – ridare senso alla vita stessa. "L'arte, secondo Klovskij, deve assumere una prospettiva non
abituale, in modo da riattivare la nostra capacità di osservazione" (pp. 23-24).
Nell'altro suo contributo, "L'autore come misologo. La tradizione letteraria postmoderna alla ricerca del silenzio e della
dissoluzione della forma", D'Ambrosio parte dal saggio dell'americano di origine egiziana Ihab Hassan, The
Dismemberment of Orpheus, pubblicato inizialmente nel 1964 e poi riedito nel 1982, nel quale per la prima volta il
termine "postmoderno" viene utilizzato in esclusivo riferimento alla letteratura. Hassan "ha insomma preceduto in ordine
di tempo i più importanti contributi sull'argomento, e notevolmente influenzato anche quelli dedicati ad ambiti molto
lontani dalla letteratura" (p. 262; corsivo nel testo). Il saggio di Hassan non è mai stato tradotto in Italia e quindi non è
stato adeguatamente considerato nel dibattito che da noi si è sviluppato sul postmoderno. Un concetto questo, per
Hassan, instabile sia sematicamente che storicamente, che implica dunque al suo interno una pluralità e complementarietà
di elementi tra loro diversi, se non addirittura antitetici. Ma, comunque, il postmoderno, per lo studioso americano, è
senza dubbio "antiformale, anarchico e de-creativo" (dichiarazione di Hassan, riportata a p. 265).
Tra le questioni cruciali trattate nel resto del volume dai giovani laureati, Paolo Graziano affronta quella di una definizione
semiotica del simbolo, per concludere che siamo lontani da un'univoca determinazione di tale concetto, data anche la
consapevolezza raggiunta che bisogna superare la centralità del testo scritto, sul quale insiste uno studioso pur
fondamentale come Umberto Eco, in una realtà come la nostra in cui si registra grande diffusione di sistemi comunicativi
multimediali fino alla nascita dell'ipertesto: una definizione di "simbolo" dunque non più semplicemente complementare a
quella di "segno" e che parta da una serie di casi particolari, come per Saussurre che considerava sistemi di
significazione reali come le forme di cortesia, i riti simbolici, i segnali militari, l'alfabeto dei sordomuti ecc. La questione
del rapporto fra "Parola e usura" viene affrontata da Ferdinando Goglia con riferimento particolare alla poesia di Emilio
Villa: la sua è "un'opera di radicale scardinamento delle convenzioni comunicazionali, i diversi livelli –
immaginativo, sintattico, grammaticale, lessicale, morfologico, grafico – risultando come aggrediti da una
metabolia virale che ne smembrasse le strutture consolidate, lasciandone fluttuare instabilmente gli elementi costitutivi"
(p. 89). Con alla base, nota il giovane studioso, la stessa inquietudine e la stessa insoddisfazione che avevano agitato le
avanguardie della prima metà del Novecento. Su "L'ambigua oscurità del linguaggio poetico" si sofferma ancora Raffaella
Romano, con il riferimento alle teorie strutturalistico-semiotiche di Jurij Lotman, Michel Riffaterre, Jean Cohen. Abbiamo
già visto prima il procedimento di straniamento analizzato da _klovskij, e poi il lavoro di Emilio Villa. Ora l'attenzione viene
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richiamata sul doppio carattere di "oscurità" e "ambiguità" della poesia, che produce sensi inafferrabili, al di là del linguaggio
referenziale, stimolando dunque il lettore a un vero e proprio sforzo attivo di decodificazione, passando però attraverso
l'esperienza del "disorientamento": "Accade così che, posto di fronte all'universo poetico, ambiguo e complesso, il lettore
provi spesso un senso di smarrimento e una sensazione di incomprensione, nata dalla perdita di orientamento e di
intelligibilità. Le immagini evocano tutta una serie di analogie eterogenee entro le quali il lettore finisce col non orizzontarsi
più: l'eccessivo grado di "disponibilità semantica comporta a sua volta la dispersione dei significati" (p. 123). Tale
ambiguità, che è "corollario" necessario della poesia (R. Jakobson), dunque cambia la nostra stessa percezione della realtà
mostrando elementi che tenderebbero invece a sfuggire all'osservazione e alla comunicazione ordinarie. Le analisi
teoriche si accompagnano, in questo saggio, all'esame della poesia di Andrea Zanzotto, la cui "oscurità sta a indicare il
compimento a ritroso del cammino verso 1'"origine del proprio essere” (p. 149). Passando dalla poesia alla
narrativa, Roberta Belardini si occupa de "Il testo narrativo di finzione" e del passaggio dal romanzo all'anti-romanzo, con
le questioni dell'indebolimento della funzione "autore" e della precarietà dell'intreccio, e concludendo con l'analisi di E se
una notte d'inverno un viaggiatore di Italo Calvino la cui caratteristica peculiare sta nell'aver testualizzato il lettore
implicito, di solito un "modello trascendentale, il cui ruolo viene assunto dal narratore che diventa lettore dei segni del
testo. Sul rapporto fra "verità" e "falsità", su cooperazione e non-cooperazione nel testo di simulazione, come quello in cui
l'apparenza non corrisponde al proprio essere, si sofferma invece Annalisa Guida. Su questa linea, infine, Linda Ariano
studia la figura dell'autore in quel cantiere di romanzo che è rimasto Petrolio di Pier Paolo Pasolini: "l'autore "esibisce" un
messaggio mentre il testo ne veicola un altro che non solo l'autore ostenta di ignorare, ma di cui finge di non conoscere
nemmeno la pista possibile: l'autore simula l'ignoranza delle diverse interpretazioni della lettera" (p. 246). La fine, o la
sospensione, dunque di un patto fra autore e lettore, una convenzione che viene troncata in un approccio diversificato al
fare letterario all’interno di una realtà odierna sempre più complessa e variegata. Da qui forse, controtendenza, il
bisogno di rialzare il nuovo tasso di riflessione teorica e di indagine critica.
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