Da Camelot a “Yes we can” così nascono le frasi celebri
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Da Camelot a “Yes we can” così nascono le frasi celebri
@ LUNEDÌ 12 APRILE 2010 PER SAPERNE DI PIÙ www.imdb.com/title/tt1139328/ it.wikipedia.org/wiki/Ghostwriter ■ 27 Gli americani SORENSEN E KENNEDY NOONAN E REAGAN FAVREAU E OBAMA Fu di Sorensen l’esortazione “Non chiedere che cosa la nazione possa fare...” Peggy Noonan è la prima donna speechwriter. Reagan la interpretava da attore consumato A meno di trent’anni, Jon Favreau mette le ali della retorica al carisma del presidente Obama Stati Uniti I segretari del “principe” esperti nel cercare i termini che si fanno strada nel cuore degli elettori Da Camelot a “Yes we can” così nascono le frasi celebri (segue dalla copertina) VITTORIO ZUCCONI utte le memorabii frasi, i colpi d’ala ciceroniani, che ricordiamo e attribuiamo ai capi di stato americani sono farina di sacchi altrui, panificata dai più bravi per corrispondere alla persona — o più spesso all’immagine pubblica — del personaggio che le pronuncia. Il «giorno che vivrà per sempre nell’infamia», gridato da Franklyn Roosevelt per denunciare Pearl Harbour e dichiarare la guerra fu la coproduzione di almeno cinque dei dieci retori che lui usava abitualmente. Furono Ralph Williams e Malcolm Moos, nomi oscuri, coloro che denunciarono, con la voce di Eisenhower il «complesso militar-industria- T nald Reagan, attore professionista, interpretava con studiata sincerità, divenne protagonista, autrice di libri, personalità televisiva, soltanto dopo avere lasciato la Casa Bianca. Il suo talento, che raggiunse l’apice nella citazione poetica affidata al presidente alla cerimonia per l’addio agli astronauti del Challenger disintegrati in volo — «siete volati oltre il sudiciume della Terra e avete toccato il volto di Dio» — nascondeva la dose di cinismo indispensabile a sopravvivere in questo mondo di muti che parlano con la voce degli altri. «Non vi innamorate mai di un politico perché sono tutti una delusione. Non è colpa loro, lo sono e basta». Tanto più cristallina è la voce, tanto più alta la sofferenza dei suggeritori. Il giovanissimo e brillantissimo «fantasma in capo» di Barack Obama, il nep- pure trentenne Jon Favreau, colui che mette le ali della retorica al carisma del presidente, fu pizzicato a sfogare la propria frustrazione in un bar di Washington, con una sagoma di cartone della odiata Hillary Clinton che lui adoperava in pose e atteggiamenti sconvenienti. Ma Obama lo adora, perché sa quanto alte volino le sue parole e quanto bene sappia tagliare i discorsi sulla misura dell’uomo, anche se il vecchio Sorensen con affettuosa malizia ha fatto sapere di essere lui, l’ottantenne Cyrano kennedyano, ad avere suggerito lo slogan vincente della campagna elettorale, lo «Yes we can», sì, possiamo. Ormai, in tutto il mondo, la figura di questi segretari del principe, di questi uomini che devono trovare le parole che da soli i politicanti non saprebbe- ro trovare, è inevitabile, come il truccatore che spalma il fondo tinta con minore o maggiore discrezione, il parrucchiere che spruzza l’ultima lacca sui capelli prima della diretta, il regista produttore che deve scegliere scenografie, sfondi, luci e profili. La matita spuntata di Lincoln che cambiò la storia americana con il discorso prima della battaglia è diventata un ufficio di 12 spettri permanenti, alla Casa Bianca, anacronistica come la luce della fiammella a petrolio che illuminava la sua elegante grafia sulla carta giallina, la notte di novembre del 1863. «Nessun discorso vale niente, se la politica che vuole esprimere non vale niente», ci confrota Peggy Noonan, la regina della retorica e forse ci crede. © RIPRODUZIONE RISERVATA Il geniale Theodore Sorensen è il Mago Merlino della parola che costruì il mito di Kennedy «Ma quale ghost writer! Io mi ritengo semmai uno speech writer, ossia un consulente, anche di buon livello, che non determina la linea, ma se richiesto aiuta a formularla in modo acconcio rispetto alle varie sedi». Un punto rimarchevole è che il Cavaliere, già prefattore di Erasmo e Machiavelli, vorrebbe tanto far credere che lui non ha bisogno di penne ombra; e così, quando gli dissero che di suo pugno avrebbe fatto meglio a scrivere di don Lurio che di don Sturzo, la prese malissimo arri- Ben presto la moltiplicazione dei “negri” si è fatta non solo vistosa, ma anche assurda vando a proporre una specie di sfida «sulla vita e sull’opera omnia» del sacerdote di Caltagirone. Ma poi, alla lunga, deve averci anche fatto il callo; tanto che qualche tempo fa, intervenuto alla Fiera di Bari, ha pubblicamente definito “un mattone” il discorso che gli avevano preparato e si è messo a parlare a braccio. Nel frattempo, però, il suo ghost writer Stracquadanio è diventato onorevole e magari, al prossimo giro, lo fa pure sottosegretario. Tutto il potere, dunque, ai fantasmi — o quasi. © RIPRODUZIONE RISERVATA Il film L’UOMO NELL’OMBRA Il nuovo film di Roman Polanski, “L’uomo nell’ombra” è tratto dal romanzo di Robert Harris. È la storia di uno scrittore (Ewan McGregor) che accetta di completare le memorie dell’ex primo ministro britannico Adam Lang (Pierce Brosnan), che ricorda Tony Blair. L’incarico gli arriva dopo la misteriosa morte del suo predecessore in un incidente. Lang viene accusato di terrorismo... le», producendo un’eco indimenticata. E appartiene al geniale Theodore Sorensen, il Mago Merlino della parola che costruì la Camelot kennedyana, l’esortazione a «non chiedere che cosa la nazione possa fare per me, ma che cosa io possa fare per la nazione», frasi che nel ciuffo fresco di JFK e nella sua affabile passione parvero, per un lancinante momento, vere. Deve essere, quello dello scrittore nell’ombra, il mestiere più frustrante del mondo. Robert Schlesinger, figlio del grande storico Arthur che contribuì non poco ai discorsi kennedyani, ha raccontato lo zelo, la fatica e la frustrazione che bollono sotto tra quelli che il padre chiamava «i fantasmi della Casa Bianca» e che appartengono a una bizzarra, spesso invisibile confraternita di frustrati. Una delle frasi più commoventi pronunciate da George W. Bush sulle rovine delle Due Torri — «sia che noi vi portiamo davanti alla giustizia, sia che portiamo la giustizia davanti a voi, giustizia sarà fatta» — fu concepita da uno speechwriter di Clinton, che la telefonò a un collega rimasto a lavorare nella scuderia di Bush che la inserì nel discorso. Altri si odiano, si rimproverano la vanità, tentazione proibita, come accadde al principale spettro di Bush, Micheal Gerson, accusato da un altro fantasma, Matt Scully, di farsi troppo bello e di violare il primo comandamento degli autori spettrali: la invisibilità. Peggy Noonan, la prima speechwriter femmina, capace di incantevoli e commoventi immagini con sensibilità femminile che Ro- Repubblica Nazionale