p. Cesare Pesce - Atma-o

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p. Cesare Pesce - Atma-o
CESARE PESCE
STORIA E VITA MISSIONARIA
Collana diretta da P. Piero Gheddo
Ufficio Storico del Pime - Via F.D. Guerrazzi, 11
00152 Roma - Tel. 06.58.39.151
1 - Piero Gheddo, Missione Brasile. I 50 anni del Pime nella Terra di Santa
Croce (1946-1996), pagg. 384 + 32 fotografiche, € 12,91
2 - Paolo Manna, Virtù apostoliche, pagg. 460, € 15,49
3 - Piero Gheddo, Dai nostri inviati speciali. 125 anni di giornalismo missionario da Le Missioni Cattoliche a Mondo e Missione (1872-1997), pagg. 124, €
5,68
4 - Piero Gheddo, Missione Amazzonia. I 50 anni del Pime nel Nord Brasile
(1948-1998), pagg. 484 + 32 fotografiche, € 15,49
5 - Giuseppe Butturini, Le missioni cattoliche in Cina tra le due guerre mondiali, pagg. 334, € 15,49
6 - Piero Gheddo, Missione America. I 50 anni del Pime negli Stati Uniti,
Canada e Messico (1947-1997), pp. 176 + 16 fotografiche, € 9,30
7 - Piero Gheddo, Missione Bissau. I 50 anni del Pime in Guinea-Bissau (19471997), pag. 464 + 32 fotografiche, € 15,49
8 - Amelio Crotti, Noè Tacconi (1873-1942), il primo Vescovo di Kaifeng (Cina),
pag. 368, € 14,46
9 - Mauro Colombo, Aristide Pirovano (1915-1997), il Vescovo dei due mondi,
pag. 384 + 32 fotografiche, € 12,91
10 - Piero Gheddo, Pime, 150 anni di missione (1850-2000), pagg. 1230, € 25,82
11 - Domenico Colombo (a cura), Pime (1850-2000). Documenti di fondazione,
pagg. 462, € 15,49
12 - Piero Gheddo, Il santo col martello: Felice Tantardini, 70 anni di Birmania,
pagg. 240 + 16 fotografiche, € 10,33
13 - Angelo Montonati, Angelo Ramazzotti Fondatore del PIME (1800-1861),
pagg. 224 + 8 fotografiche, € 10,33
14 - Piero Gheddo, Paolo Manna (1872-1952), Fondatore della Pontificia Unione
Missionaria, pagg. 400 + 4 fotografiche, € 14,46
15 - Pino Cazzaniga, Giappone missione difficile. I 50 anni del Pime nel Paese del
Sol Levante, pagg. 304 + 16 fotografiche, € 13,00
16 - Amelio Crotti, Gaetano Pollio (1911-1991), Arcivescovo di Kaifeng (Cina),
pagg. 186 + 32 fotografiche, € 13,00
17 - Piero Gheddo, Carlo Salerio, Missionario in Oceania e Fondatore delle Suore
della Riparazione (1827-1870), pagg. 288, € 12,00
18 - AA.VV., Le missioni estere di Angelo Ramazzotti. Radici storiche e spirituali,
pagg. 192, € 10,00
19 - Domenico Colombo (a cura), Un pastore secondo il cuore di Dio. Lettere del
Servo di Dio mons. Angelo Ramazzotti (1850-1861), pagg. 592, € 20,00
20 - Piero Gheddo (a cura), Alfredo Cremonesi (1902-1953). Un martire per il
nostro tempo, pagg. 240 + 8 fotografiche, € 12,00
21 - Domenico Colombo (a cura), Un pastore secondo il cuore di Dio. Testimonianze
sul Servo di Dio mons. Angelo Ramazzotti, pagg. 416, € 16,00
22 - Piero Gheddo, Cesare Pesce. Una vita in Bengala (1919-2002), pagg. 208, € 10,00
PIERO GHEDDO
CESARE PESCE
Una vita in Bengala
(1919-2002)
Prefazione di mons. Martino Canessa
Vescovo di Tortona
EDITRICE MISSIONARIA ITALIANA
Copertina e inserto fotografico di Bruno Maggi
Foto a colori di copertina di Giampiero Sandionigi
© 2004 EMI della Coop. SERMIS
Via di Corticella, 181 - 40128 Bologna
Tel. 051/32.60.27 - Fax 051/32.75.52
e-mail: [email protected]
web: http://www.emi.it
N.A. 2079
ISBN 88-307-1375-9
Finito di stampare nel mese di settembre 2004 dalle Grafiche Universal
per conto della GESP - Città di Castello (PG)
PREFAZIONE
A Padre Piero Gheddo, noto giornalista e scrittore, va tutta la
mia fraterna e affettuosa riconoscenza, poiché lo scorso anno, nel
primo anniversario della morte di Padre Cesare Pesce, nostro missionario e Suo confratello, ha accolto con entusiasmo l’invito del
Centro Missionario Diocesano di Tortona a scriverne la biografia.
Personalmente ho incontrato solo poche volte Padre Pesce, per
cui ho acquisito una certa conoscenza di lui solo attraverso il suo epistolario.
Le sue 154 lettere conservate nell’archivio del nostro Centro
Missionario, lasciano trasparire una vita offerta per il regno di Dio
e i poveri con dedizione serena, generosa e appassionata, facendo
emergere la figura di un missionario pieno di fede e di buon senso,
dall’anima giovanile.
Il presente libro, uscito dalla mente e dal cuore di Padre
Gheddo, è sicuramente il migliore contributo per veicolare il messaggio umano e religioso di Padre Cesare Pesce.
Leggo nell’introduzione dell’autore: “Questo libro dovrebbe
essere letto soprattutto dai giovani. È un libro di avventure non
romanzesche ma reali che dovrebbe suscitare il desiderio di percorrere le strade del mondo, avvicinare altri popoli, spendere la vita nel
gettare ponti di comprensione e di aiuto verso i continenti e l’umanità più lontana”.
Auspico veramente che il ricordo vivo di Padre Pesce sospinga
qualcuno a raccogliere il testimone di chi nella vita ha preso sul serio
il Vangelo.
+ MARTINO CANESSA
Vescovo di Tortona
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CRONOLOGIA
di padre Cesare Pesce tratta dai suoi testi
1919 -
Nasce a Novi Ligure il 26 settembre da
Michelangelo (sacrestano della Collegiata di Novi
Ligure, morto nel 1955) e da Ernestina Montessoro,
morta poco più di un anno dopo la nascita di Cesare,
ultimo figlio preceduto dal fratello Natale (nato nel
1906) e dalla sorella Maria (nata nel 1912 e morta nel
2001).
1930 Entra nel seminario diocesano di Tortona per la
prima ginnasio. Nel 1937, dopo il liceo, entra nel
Pime a Milano per gli studi teologici.
1942 Ordinato sacerdote il 29 marzo dal card. Schuster,
per un anno è prefetto degli alunni dell’Istituto a
Monza, poi mandato ad aiutare nella parrocchia di
Alzate Brianza (Como), dove si interessa dei perseguitati politici e degli ebrei, aiutandoli a fuggire in
Svizzera. Ricorda che “nell’ultimo anno di guerra,
sulle colline della Brianza (1945), strano partigiano
senza fede politica, invece di ammazzare le stupide
repubblichine, le facevo scappare a casa loro a fare
la calza, firmato ‘Comitato di Liberazione’” (Strade
della Vita, pag. 12).
1944 Mons. Lorenzo Maria Balconi, superiore generale
del Pime, dice a padre Pesce che è destinato in
Bengala: si prepari a partire appena finita la guerra.
1945 Dopo la fine della guerra è destinato viceparroco
alla parrocchia di San Rocco a Voghera, provincia
di Pavia ma diocesi di Tortona.
1948 (18 aprile) - Padre Pesce, a San Rocco di Voghera, partecipa
attivamente alla campagna elettorale per la D.C.
(vedi Strade della Vita, pag. 11).
1948 (10 ottobre) - Parte da Genova a Napoli e poi a Port Said; a
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Bombay il 4 novembre: in treno a Nagpur e
Calcutta e poi ancora in treno e in barca a Dinajpur,
dove arriva il 14 novembre (Pakistan orientale).
1949 (1° gennaio) - Pesce attraversa il confine fra Pakistan e India e si
ferma a Mal Bazar, dove vive con il parroco padre
Giuseppe Milozzi. Rimane poco più di tre mesi in
India e nell’aprile 1949 viene espulso dal governo
indiano.
1949 Il vescovo di Dinajpur, mons. Giuseppe Obert,
accoglie padre Cesare nella casa episcopale per
imparare l’inglese e il bengalese.
1950 A giugno padre Pesce va a Daulighat (Nariampur),
paese in mezzo alla giungla, per imparare il santul
prima con padre Luigi Martinelli, poi con padre
Ferdinando Sozzi.
1951 Il vescovo di Dinajpur nomina padre Pesce direttore del collegio e della scuola di Dinajpur (dove vive
con padre Stefano Monfrini) e incomincia la scuola
superiore della missione per suggerimento del
Nunzio. Rimane a Dinajpur fino al dicembre 1951,
quando finiscono le scuole. Poi chiede egli stesso di
andare in una missione fra la gente e il vescovo lo
accontenta.
1952 (1° gennaio) - Raggiunge Ruhea, una missione quasi abbandonata
che deve rilanciare: è l’unico prete. Vengono poi
con lui i padri Luigi Verpelli, Luigi Carrea e Mario
Alvigini, che sarà il suo successore a Ruhea.
1955 Muore il papà di padre Cesare che era sacrestano
della Collegiata di Novi ligure (Alessandria, diocesi
di Tortona).
1956 Padre Pesce accoglie a Ruhea fratel Massimo
Teruzzi, un fratello col carisma di curare i malati:
aveva contratto la lebbra e accoglierlo in missione
era un atto di coraggio. Massimo si dedica alla cura
dei malati, specialmente dei lebbrosi, con grande
carità e spirito di sacrificio.
1957 Negli ultimi anni della sua permanenza a Ruhea,
padre Cesare avvicina i Khotryio, popolazione indù
di bassa casta che promette di farsi cristiana. Poi
muore il figlio piccolo del “thakur” (santone) che
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guida il movimento e si mormora che questa è la
vendetta degli dei perché i Khotryio abbandonano
la fede indù. La conversione dei Khotryio sfuma in
un attimo: una grande delusione per Cesare!
1960 Primo ritorno in Italia a marzo, ci rimane otto mesi
e mezzo. Riparte il 10 dicembre e arriva in Bengala
il 20 dicembre: pochi mesi in Italia lo avevano fatto
aumentare di 15 chili! Ritorna a Ruhea, ma si accorge che il giovane padre Alvigini fa molto bene e
chiede al vescovo di lasciare a lui la missione.
1963 Il 19 luglio muore a Dinajpur, in concetto di santità, fratel Massimo Teruzzi, compagno di missione
di padre Pesce, lebbroso ed eroe della carità.
1963 Padre Pesce va a Thakurgaon a iniziare una nuova
missione.
1965 All’inizio dell’anno Cesare incomincia a costruire la
nuova chiesa di Thakurgaon, ma poco dopo scoppia un conflitto fra India e Pakistan e il governatore della provincia ordina a tutti gli stranieri di
abbandonare il paese. Il vescovo di Dinajpur richiama Pesce e, invece di mandarlo in Italia, lo manda
in una missione vicina alla capitale Dacca, lontana
dalla frontiera con l’India.
1965 (15 dicembre) -Pesce scrive da Mothbari (Dacca) a mons.
Pirovano. Da tre mesi è in una missione dispersa
nella giungla non lontano dalla capitale, con un
anziano missionario americano che ha problemi di
cuore. È responsabile di una grande scuola e inventa per gli alunni cristiani un concorso, per stimolarli a conoscere la Bibbia.
1966 In estate, cessato ogni pericolo di guerra, ritorna a
Thakurgaon e rilancia la sua iniziativa intitolata
“Bible Contest by Correspondence”, Concorso
biblico per corrispondenza. Con l’aiuto della catechista suor Vincenza, prepara uno schema di regole chiare e precise per i partecipanti, con le norme
del concorso, gli esami finali, i premi, ecc. Stampa
centinaia di volantini e li manda a tutte le parrocchie e organizzazioni diocesane di Dinajpur: riceve
in breve più di mille adesioni e iscrizioni, dalle
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scuole elementari fino alle superiori e agli adulti.
Il vescovo di Dinajpur, mons. Giuseppe Obert, dà
le dimissioni. La Nunziatura avvia l’inchiesta fra i
sacerdoti diocesani per comporre una terna di nomi
fra i quali scegliere il nuovo vescovo. Padre Cesare
Pesce risulta il primo della terna fra i diocesani: il
vescovo poi sarà scelto fuori diocesi, il bengalese
mons. Michael Rozario, oggi arcivescovo di Dacca.
1969 Il superiore generale del Pime, mons. Aristide
Pirovano, richiama temporaneamente Pesce in
Italia per dirigere l’associazione “Mani Tese", nata
nel 1963 al Centro missionario del Pime a Milano.
1969 In maggio padre Cesare diventa segretario di Mani
Tese a Milano, ma intanto si iscrive alla Pontificia
Università Lateranense a Roma e ottiene il diploma
di teologia pastorale con specializzazione catechetica, che gli servirà molto in Bengala. Nell’infuocato
ambiente “sessantottino”, padre Pesce non si è più
adattato, specie in “Mani Tese”, che sembrava stesse sfuggendo di mano agli Istituti missionari: trasformandosi da associazione fondata dai missionari
per aiutare i progetti di sviluppo delle missioni, in
gruppi politicizzati per “la liberazione dei popoli
poveri”.
1970 (novembre) - Cesare arriva a Dinajpur dall’Italia e il vescovo lo
manda a Mariampur, dove vive i tempi drammatici
della lotta per l’indipendenza del Bengala dal
Pakistan, da cui nasce il Bangladesh. A Thakurgaon
è andato padre Mario Alvigini.
1971 Nel marzo 1971 scoppia la rivolta dei bengalesi
contro l’esercito pakistano. Il 17 aprile, in India, un
governo provvisorio in esilio proclama l’indipendenza del Bangladesh, riconosciuta dal governo
indiano il 6 dicembre 1971.
1973 Nel marzo 1973 il vescovo chiama padre Pesce a
Dinajpur per metterlo a capo del “Centro catechistico diocesano". Risiede nella Bishop’s House,
continuando anche a lavorare nella parrocchia di
Mariampur.
1974 (marzo) Pesce finisce il suo impegno a Mariampur e si stabi1968 -
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lisce a Dinajpur per il Centro catechistico diocesano
1975 A maggio il vescovo lo manda a sostituire il parroco di Saidpur, mantenendo ancora l’incarico di
direttore del Centro catechistico diocesano.
1977 8 gennaio – Dopo una breve vacanza in Italia alla
fine del 1976, riparte da Roma per il Bangladesh; il
14 gennaio è a Dinajpur (Lettera a mons. Meriggi
del 25 gennaio 1977).
1977 maggio È nominato parroco di Saidpur, dove già si recava
la domenica per ministero; continua a mantenere la
carica di direttore del Centro catechistico diocesano.
1979 P. Pesce stampa la prima edizione del volumetto
Strade della vita (con la prefazione dell’amico francescano padre Nazareno Fabbretti), paga le spese
acquistando un certo numero di copie, che affida al
direttore del Centro missionario diocesano di
Tortona, mons. Libero Meriggi, perché le venda
realizzando qualcosa per la sua missione (la seconda edizione è del 1989).
1979 (inizio luglio) -Lascia la parrocchia di Saidpur e si trasferisce a
Pathorgata, dove rimane fino al 1995.
1981 Tra maggio e luglio padre Cesare ritorna rapidamente in Italia, per visitare la sorella gravemente
ammalata.
1988 A Natale 1988, il vescovo di Dinajpur, mons.
Theotonius Gomes, consacra a Pathorgata il primo
prete della parrocchia e anche il primo oraon della
diocesi di Dinajpur: 36 anni, “contadino di nascita
e di carattere, quindi tenace nelle sue idee”: un
uomo di fede che rappresenta una delle massime
soddisfazioni e consolazioni spirituali del ministero
di padre Pesce in Bangladesh.
1989 «Il Popolo» del 16/7/89 scrive che padre Pesce “è
rientrato nella sua città... da dove mancava dal
1981”. Ancora su «Il Popolo» del 5 novembre 1989
c’è la notizia che Pesce ancora una volta è ripartito
per il Bangladesh. Il 31 ottobre 1989 egli scrive da
Pathorgata a mons. Meriggi: “Eccomi da quattro
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1992 -
1992 -
1995 -
1995 -
1995 (Natale) -
1998 -
2000 -
2002 -
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giorni finalmente alla mia vecchia Pathorgata...”.
Nel marzo-maggio 1992, la diocesi di Dinajpur e i
missionari del Pime organizzano feste e celebrazioni in onore di padre Pesce per il suo cinquantesimo
di sacerdozio. Prima l’hanno festeggiato i preti
locali ed esteri, con i catechisti; una settimana dopo,
festa alla casa del Pime a Dacca, alla presenza di
tutti i quaranta membri dell’Istituto e del Nunzio
apostolico; infine la solenne e festosa giornata di
augurio a livello della diocesi di Dinajpur, voluta
dal vescovo locale.
In luglio ritorna in Italia per problemi di ischemia
cardiaca, pochi mesi dopo ritorna in Bangladesh,
nella sua Pathorgata.
In aprile è ricoverato alla clinica Gulsan di Dhaka
per l’operazione di ernia inguinale. In maggio è
obbligato a tornare in Italia per convalescenza e
riposo.
Durante la vacanza in Italia, riceve l’offerta di assumere una parrocchia sull’Appennino Ligure, ma
padre Cesare ritorna in Bangladesh, come racconta
lui stesso in una intervista a fratel Massimo
Cattaneo.
Il vescovo mons. Theotonius gli chiede di diventare
parroco di Kalisha, per riportare pace nell’ovile e
nei prossimi quattro anni il lavoro non gli manca.
In ottobre p. Pesce è in Italia: a Novi Ligure riceve
il Premio “La Torre d’Oro” dal Municipio e dal
centro studi “In Novitate”, come cittadino che più
si è distinto nel corso dell’anno. Ritorna subito in
Bangladesh, prima di Natale, perché deve preparare la festa per l’ordinazione del primo prete della
parrocchia di Kalisha.
Il 1° gennaio viene inaugurato il santuario mariano
di Rajarampur vicino a Dinajpur e p. Pesce ne
diventa il primo rettore.
In febbraio padre Cesare ritorna in Italia e muore il
13 luglio dello stesso anno a Rancio di Lecco, nella
casa di riposo del Pime. È sepolto a Novi Ligure.
INTRODUZIONE
Giunto al termine di questa biografia, la rileggo e dico a me
stesso: ma Cesare era meglio di come tu lo descrivi! È vero quel
che padre Nazareno Fabretti scrive nella prefazione al suo libro
Strade della Vita (che riporto nell’ultimo capitolo): “I missionari
sono quasi sempre di più e meglio dei libri che li celebrano”. Gli
do pienamente ragione. D’altra parte, quello che Fabretti non
sapeva, e io invece l’ho sperimentato tante volte, è questo: in
genere i missionari scrivono poco, le loro lettere non sono conservate e quando muoiono, il loro ricordo si perde in fretta in
quelle giovani Chiese, formate appunto da giovani. Infatti dopo
15-20 anni è già cambiata una generazione e quella successiva non
ricorda più; i confratelli, sempre travolti dalle emergenze, sono
anch’essi poco propensi a conservare ricordi e documenti del passato.
***
Quindi, scrivere le biografie dei missionari, se non si vuol far
opera di agiografia buonista, è una consolazione (perché ci sono
davvero bei personaggi), ma anche una disperazione. Il caso di
padre Ferdinando Sozzi, missionario in Bangladesh e parroco a
Mariampur di padre Pesce, è esemplare. Quando è morto a 75
anni (1977), tutti dicevano che era un santo; qualche anno prima
era stato in vacanza in Italia e l’avevamo intervistato e ascoltato a
lungo: sapeva raccontare così bene le sue avventure di missione,
che noi giovani non ci stancavamo mai di sentirlo; dava a tutti
grandi esempi di preghiera, mortificazione, amore al suo popolo
bengalese.
Quando morì mi sono proposto di scriverne la biografia, ma
dopo alcuni mesi di ricerche e di contatti per farmi mandare sue
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lettere o testimonianze di chi l’aveva conosciuto in Bengala, ho
dovuto desistere. Il materiale trovato nell’Archivio generale del
Pime a Roma, presso i parenti e fra i confratelli in Bangladesh era
scarsissimo. L’unica vera sintesi della sua vita era il “servizio speciale” con la sua lunga intervista, pubblicato su «Mondo e Missione» dopo molte difficoltà (lui non voleva fosse stampato) e poi
ristampato tre volte in estratto 1, perché era piaciuto moltissimo:
è stato uno dei più bei testi in «Mondo e Missione» (e, prima del
1968, in «Le Missioni Cattoliche») nei miei 35 anni di direttore
della rivista. Non c’era altro materiale da aggiungere per una biografia!
Cesare Pesce scriveva molte lettere, quasi tutte andate disperse, eccetto quelle conservate dal Centro missionario diocesano di
Tortona. Per fortuna, altrimenti questo volume non avrei potuto
scriverlo. E mi rimprovero perché delle lunghe conversazioni che
ho avuto con Cesare quando era tornato in Italia nel 1969-1970
come segretario di “Mani Tese” (anch’io ero in quel movimento
come animatore), non mi è rimasto nulla, non ho scritto nulla.
Era un momento difficile nella sua vita: dopo venti e più anni di
Bengala era stato chiamato dai superiori a dare qualche anno per
un servizio all’animazione missionaria in Italia. Era venuto volentieri, all’inizio si era impegnato, ma in “Mani Tese” e nel “Sessantotto” italiano non si trovava affatto (si leggano i motivi al capitolo III). Ecco perché discuteva con me e con altri missionari, si
confidava, esprimeva i suoi sentimenti e la sua sensibilità di missionario in modo a volte commovente, perché si sentiva radicalmente contro-corrente rispetto alla linea dei gruppi giovanili (e
non giovanili) di “Mani Tese” in quegli anni: lui aveva esperienza molto concreta dei popoli poveri, gli altri erano ammalati di
schematismo ideologico, che Cesare non poteva soffrire.
Si discuteva volentieri con lui. Eppure non ho scritto né conservato nulla di quei mesi. Ma trent’anni fa, chi andava a pensare che il Centro missionario di Tortona mi avrebbe chiesto di scrivere la biografia di “Pesciolino”?
1
GHEDDO P., BORDIGNON S., I miei 44 anni di Bengala, “Mondo e Missione”, ottobre 1974, pp. 501-522.
14
***
Credo però che quanto c’è in questo libro è più che sufficiente per tramandare il ricordo di un missionario di non comune
umanità e anche santità. Oltre alle lettere e alle interviste, che ho
ampiamente usato, padre Pesce ha lasciato anche tre volumi (Le
strade della Vita, Bangladesh Jindabad! e Pack up and go) nei quali ricorda la sua esperienza di immersione nella terra bengalese,
“la sua capacità di dialogo con tutti, il suo farsi amico e fratello
del prossimo superando ogni discriminazione, relativizzando
situazioni in modo a volte scanzonato, con grande cuore e carità,
strappando a noi sorrisi e lacrime, suscitando un’ondata di
immensa simpatia”. Così il grande amico mons. Libero Meriggi,
per lunghi anni direttore del Centro missionario diocesano di
Tortona, nella prefazione del secondo volume citato.
Leggendo questi racconti, mi sono sentito crescere dentro la
commozione per la sua bontà e disponibilità verso tutti. Nulla in
lui di straordinario. Ricorda situazioni comuni ai missionari, interessante è come le viveva: più da bengalese che da italiano, da
“prete scugnizzo” come lo definiva un amico prete tortonese, da
“uomo nato e maleducato a Novi Ligure”, come scriveva lui stesso. Insomma, una personalità originale e complessa, a volte fuori
dalle righe, spregiudicato o scanzonato, ma sempre fedele
all’ideale cristiano e missionario a cui ha dato la vita e soprattutto sereno e pieno di gioia.
Ho pubblicato alcuni di questi testi al termine del presente
volume, altri li lascio alla curiosità di chi vorrebbe saperne di più:
presentano bene l’ambiente e la gente fra cui padre Pesce viveva
e lavorava. Egli racconta le sue avventure col tono ottimistico del
vero missionario, che avendo consacrato la vita a Gesù Cristo:
non è mai scoraggiato, prende tutto in senso positivo, trovando i
lati buoni anche nelle situazioni più difficili.
Quando ha già superato la “terza età” ed è sistemato bene
nell’antica missione di Saidpur, il vescovo lo manda a Pathorgata
dove parroco e fedeli non vanno d’accordo, sono nati contrasti e
fastidi per la diocesi (“il vescovo era in un ginepraio”, scrive
Cesare). Il parroco dà le dimissioni e Pesce deve andare a tenta15
re di sistemare le cose. Sa cosa lo aspetta: oltre alle difficoltà fisiche, gente poco malleabile e rivoltata contro la Chiesa. Entra nel
villaggio cristiano in bicicletta. Tempo di piogge, strade che sono
fiumi di fango in mezzo ai campi di riso. “Ogni cento metri mi
fermavo a togliere il fango tra il parafango e la ruota” scrive, ma
giunge finalmente a destinazione: “Che malinconia! Dalla splendida chiesetta di Saidpur, forse la più bella chiesa del Bangladesh,
ad uno stanzone fatto di fango e lamiere; poi nella canonica
costruita di fango e pezzi di mattone non intonacati, nemmeno
imbiancati di calce. Oscurità, tetraggine”.
"Così, aggiunge, lasciati i piccoli comforts che può offrire la
città, trovo fango e campi di riso, strade impossibili e capanne di
paglia e bambù”. Però è in foresta dove ci sono “alberi e uccelli
e fiori, fiori... Orrido e bello. Immensamente bello, Dio mi ha scaraventato qui a cogliere i fiori, non le spine. Lo so già che per
impossessarmi dei fiori dovrò pur lottare con le spine. Forse sarà
necessaria qualche goccia di sangue. Naturale. Ma ne vale la pena:
inebriarmi del profumo di questi fiori, anche se punzecchiato da
qualche spina maligna della jungla”. Conclude: “Non so neppure io da dove incominciare. Che avverrà? I miei amici musulmani rispondono in arabo: “Wallaha a’am” (Solo Dio lo sa). Io dico
in italiano: “Qualche santo provvederà”. E va a dormire tranquillo. Questa l’immagine e la sintesi più significativa di Cesare Pesce.
Altrove scrive: “Sono sempre stato contento di essere un
seguace di Teilhard de Chardin, definito da Paolo VI ‘un uomo
indispensabile del nostro tempo’. E cerco di autoconvincermi che
ogni avvenimento che mi riguarda è sempre il migliore per me e
per gli altri”.
***
Interessante, nella vita di padre Pesce, il senso di ammirazione che ha per indù e musulmani. Certo non si addentra a parlare
dei problemi che oggi crea il mondo islamico per l’Occidente cristiano (terrorismo, ecc.), ma semplicemente esprime i suoi sentimenti vivendo per lunghi anni la vita del suo popolo contadino,
che è in grandissima maggioranza islamico. Non è un ingenuo,
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conosce benissimo i limiti e i vizi dei bengalesi, dell’islam e dell’induismo (qua e là li ricorda, li descrive), ma è veramente innamorato del suo popolo, come ogni missionario è o dovrebbe essere. Innamorato perché? Perché vivendo immerso nelle vicende
quotidiane del Bengala viene a contatto con le persone, vede e
comprende la loro umanità, le loro sofferenze, i loro sentimenti
più profondi. Non può “parlare male di loro”, come dice lui stesso quando gli viene chiesto, in una vacanza italiana, di descrivere
la miseria e la fame del popolo! Lui si rifiuta e scrive che gli italiani mangiano troppo e il loro cibo è più pesante e fa meno bene
di quello bengalese…
Un’altra volta, scrive che si è fermato a sentire le storie di
diverse giovani donne (“poveracce”) che si narrano le loro disgrazie, i loro timori mentre sono in attesa della “zakat”, l’elemosina
che si distribuisce ai poveri al termine del mese di Ramadan.
Quelle donne, accoccolate per terra, “si raccontano storie piene
di dolori: mariti morti in giovane età, mariti senza cuore scappati chissà dove con altre donne, figli e figlie perduti perché emigrati nelle città più grandi in cerca di lavoro, padri in prigione.
Un’antologia di racconti buttati giù al vivo, in un dialetto dolce e
ondulato con tutte le sfumature, le espressioni dialettali della
regione, resi più impressionanti dai gesti stanchi delle mani, dagli
sprazzi di luce dei loro occhi neri bellissimi. È meraviglioso, in
mezzo a tutto quel dolore, il fortissimo sentimento religioso di
rassegnazione, di sottomissione alla volontà di Allah, il misericordioso, il sostenitore degli afflitti”.
Caro padre Cesare, ecco la grandezza della tua umanità. Ti
commuovi se incontri una persona sofferente, anche se non l’hai
mai vista prima. Il Bengala è proprio la tua patria, quello bengalese il tuo popolo. La tua vita era davvero orientata a trasmettere
a quel popolo la convinzione che tutto dipende da Dio, che il
segreto di una vita serena è vivere intensamente questa dipendenza dall’Onnipotente e Misericordioso Padre di tutti gli uomini.
Uno degli elementi più caratteristici di Cesare Pesce è la sua
religiosità non pietistica, non trionfalistica. Sa benissimo ed è più
che convinto che i bengalesi e i tribali (oraon, santal, munda,
mahali, ecc.) hanno bisogno di Gesù Cristo: altrimenti non sareb17
be andato in Bengala né vi avrebbe lavorato per 54 anni! Ma ha
quasi pudore a dirlo, a proclamarlo. Credo che questo derivi dal
suo grande rispetto per la persona umana e dal privilegiare il dialogo nell’annunzio di Cristo ai non cristiani. La proposta evangelica voleva che fosse una vera “proposta” (cioè che lascia libertà
di scelta), senza nessunissimo elemento che sapesse di “imposizione” o di “sopraffazione”. L’importante, per lui, era essere amico di tutti e dialogare con tutti, specie con i più lontani, come gli
indù di casta e i musulmani; e naturalmente dimostrare loro, con
la vita, come pensa e agisce un cristiano.
Ci sono in proposito diversi episodi molto significativi, qua e
là nella sua biografia. Credo che questo sia uno dei suoi insegnamenti più profetici e attuali. La missione ad gentes, infatti, tramontato il tempo del trionfalismo, vediamo che sta orientandosi
sempre più in questo senso.
***
Questo libro dovrebbe essere letto (e fatto leggere) soprattutto dai giovani. È un libro di avventure non romanzesche ma reali che dovrebbe suscitare il desiderio di percorrere le strade del
mondo, avvicinare i popoli altri, spendere la vita nel gettare ponti di comprensione e di aiuto verso i continenti e l’umanità più
lontana. Viviamo nel tempo della globalizzazione e la sfida è l’integrazione tra i popoli e le culture, il dialogo fra le religioni, la
testimonianza e l’annunzio di Cristo di cui tutti gli uomini e tutte le culture hanno bisogno. Questi i grandi ideali da trasmettere
ai giovani d’oggi. Non in un modo teorico, astratto, ma appunto
presentando biografie di missionari come questa, capaci di far
sognare e di dare un orientamento altruistico all’esistenza.
Ci chiediamo sempre cosa dobbiamo fare per i popoli altri,
diversi, poveri, in via di sviluppo o sottosviluppati. E si parla quasi sempre e solo di soldi, soldi, soldi: finanziamenti, debito estero, commerci, prezzi delle materie prime, trasferimento di tecnologie, ecc. Tutto giusto e necessario. Ma se non c’è incontro fraterno, dialogo e scambio fra i popoli, se non ci sono più (o diminuiscono di numero) giovani capaci di dare la vita (o parte della
18
vita) per gli altri, tutto il resto vale poco, conta poco. L’ha detto
Gesù: “Nessuno ha un amore più grande di questo, dare la vita
per i propri amici” (Gv 15, 13).
Non riesco proprio a capire come mai, quando si parla di aiuti ai popoli poveri anche in giornali e libri e congressi fatti da cattolici, i missionari non sono mai (o quasi mai) ricordati, almeno
come promotori di sviluppo. Giovanni Paolo II nell’enciclica
“Redemptoris missio” scrive (n. 58): “Lo sviluppo di un popolo
non deriva primariamente né dal denaro, né dagli aiuti materiali,
né dalle strutture tecniche, bensì dalla formazione delle coscienze, dalla maturazione delle mentalità e dei costumi. È l’uomo il
protagonista dello sviluppo, non il denaro o la tecnica. La Chiesa educa le coscienze rivelando ai popoli quel Dio che cercano ma
non conoscono, la grandezza dell’uomo creato ad immagine di
Dio e da Lui amato, l’eguaglianza di tutti gli uomini come figli di
Dio, il dominio sulla natura creata e posta al servizio dell’uomo,
il dovere di impegnarsi per lo sviluppo di tutto l’uomo e di tutti
gli uomini….”.
Il Papa aggiunge: “La Chiesa ha sempre saputo suscitare, nelle popolazioni che ha evangelizzato, la spinta verso il progresso
ed oggi i missionari più che in passato sono riconosciuti come
promotori di sviluppo da governi ed esperti internazionali, i quali restano ammirati del fatto che si ottengano notevoli risultati con
scarsi mezzi…”.
Ebbene, anche in campo cattolico tutto questo è spesso
dimenticato nel dibattito, oggi attualissimo, sul “che fare?” per
un’autentica solidarietà con i popoli poveri! I missionari testimoniano con la loro vita (e padre Cesare Pesce lo dimostra in questa biografia) che la chiave dello sviluppo di un popolo è l’educazione, la formazione, l’introduzione in culture che stentano ad
adeguarsi al mondo moderno di quei princìpi che sono alla base
della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo dell’ONU
(1948) e di tutto il progresso moderno: valore assoluto della persona umana, eguaglianza di tutti gli uomini, democrazia, giustizia
sociale, superamento di ogni divisione di casta e razzismo, diritti
dell’uomo e della donna, sentimento del perdono e del gratuito,
la dignità di ogni lavoro umano anche materiale, ecc.
19
Valori che, è quasi superfluo ripeterlo, vengono dalla Parola
di Dio, dal Vangelo e dal modello divino-umano di Gesù Cristo
(non si trovano in nessun’altra filosofia, cultura o religione dell’umanità); e sono alla radice del “progresso”, dello “sviluppo”
dell’uomo e dell’umanità. Anche se è vero che noi, popoli cristiani, non siamo affatto un esempio concreto di questi valori evangelici! Ma questo è responsabilità e colpa nostra, non del Vangelo. Se noi fossimo cristiani migliori, l’abisso fra Nord e Sud del
mondo non esisterebbe o sarebbe in via di rapida soluzione…
Ecco perché la “missione alle genti” della Chiesa, a cui Cesare Pesce ha consacrato la propria vita, è oggi più che mai attuale;
e perché questa sua biografia si propone come testo da leggere e
dibattere per approfondire la conoscenza dei popoli diversi,
attraverso un modello di approccio evangelico, di cui oggi tutti
noi, ma specialmente i giovani, abbiamo bisogno.
Per concludere, ringrazio la diocesi e il centro missionario
diocesano di Tortona che mi hanno chiesto questa biografia di un
confratello del Pime; il vescovo di Tortona per la cordiale prefazione; e ringrazio tutti coloro che mi hanno inviato lettere di
Cesare, testimonianze su di lui, fotografie e correzioni al testo che
ho mandato a tanti per questo scopo. Auguriamoci che la conoscenza di questo grande missionario possa fare del bene: anche
nella nostra Chiesa italiana, con duemila anni di cristianesimo alle
spalle, lo spirito missionario è, specialmente, oggi più che mai
indispensabile.
Milano, giugno 2004
PIERO GHEDDO
20
1.
DA NOVI LIGURE AL BENGALA
Tortona è una delle diocesi più estese del Piemonte, che sconfina in Lombardia e in Liguria; ha una grande tradizione missionaria e un Centro missionario diocesano fra i più dinamici. Nel
1988, il vescovo di Tortona, mons. Luigi Bongianino scriveva 1:
Il cuore missionario tortonese ha fatto pervenire il suo sostegno a
innumerevoli terre di missione. E l’apporto più vitale è stata l’opera dei suoi membri, fattisi missionari e missionarie, al fianco di
sacerdoti diocesani e di laici impegnati. È stato soprattutto nel
periodo postconciliare che l’azione missionaria ha avuto un’impennata, favorita dalle richieste di Vescovi di missione.
La vocazione da libri e riviste missionari
Il Pime è riconoscente alla diocesi di Tortona, che ha dato sei
padri missionari al nostro Istituto. Tre hanno lavorato in Bangladesh: Cesare Pesce (1919-2002), Luigi Carrea (1928-1993) e
Mario Alvigini (1930-1991); uno in India e Stati Uniti, Giulio
Cancelli (1920-1985); due sono ancora viventi, Mario Scacheri in
Brasile del sud (1922-) e Pietro Belcredi, prima in Guinea-Bissau
e oggi in Amazzonia brasiliana (1937). Superfluo aggiungere che
dalla diocesi di Tortona la Chiesa missionaria e il Pime si attendono anche oggi altri missionari e missionarie. La missione alle
1
Nella prefazione al libro Tortona Chiesa missionaria pubblicato nel Natale 1988 in omaggio a mons. Libero Meriggi, “autentico innamorato delle missioni e dei missionari”, per lunghi anni direttore del Centro missionario diocesano.
21
genti infatti è cambiata molto dopo il Concilio Vaticano II 2, ma
al Pime (e agli Istituti missionari) continuano a giungere continue
richieste di personale da parte di vescovi locali dei territori di
missione.
Cesare Pesce nasce il 26 settembre 1919 a Novi Ligure (Alessandria), sull’Appennino ligure-piemontese dove “soffiano i venti salmastri del Mediterraneo”, come scrive lui stesso in una lettera dal Bangladesh, quando soffocava nel caldo torrido dell’estate bengalese, prima delle piogge monsoniche. Suo padre Michelangelo era sacrestano della Collegiata di Novi Ligure e vi rimase
per quarant’anni fino alla morte nel 1955. La madre, Ernestina
Montessoro, muore un anno dopo la nascita di Cesare, ultimo
figlio preceduto dal fratello Natale (1906-1957) e dalla sorella
Maria (1912-2000).
La mamma era religiosissima, ma ha lasciato scarse tracce nella vita di Cesare, che viene educato fino all’età di tre anni dalla
“santa zia” paterna, Carlottina Massa, “donna semplice e grande
che portava nell’animo tutte le virtù della sua gente fraschettana 3,
sublimate da una fede eroica”: così la presentava il canonico prof.
Raffaele Massa, in un articolo scritto sul mensile «La Lacrimosa»
nel 1942, per l’ordinazione sacerdotale di padre Pesce 4.
Accanto a lei, nel contatto dell’animo suo mite e religioso, nei mistici silenzi della vecchia Pieve, Cesare maturò la vocazione sacerdotale, che poi si perfezionerà in vocazione missionaria nell’atmosfera di
pietà della Collegiata e nei seminari diocesani.
2 Nel 2003 ho pubblicato il volume La missione continua - Cinquant’anni a
servizio della Chiesa e del terzo mondo (San Paolo 2003, pp. 265) per ricordare
i miei cinquant’anni di sacerdozio missionario: descrivo come ho visto cambiare la missione e perchè i missionari sono sempre e ancor più necessari, anche se
impegnati in ambienti e lavori spesso diversi da quelli del passato.
3 Anche il nipote, futuro padre Cesare, era “figlio della terra novese, più
propriamente, figlio della laboriosa, fedele e religiosa Fraschetta, la Vandea di
Novi”.
4 Testimonianza ripubblicata nell’opuscolo Premio Torre d’Oro 1998 - Novi
Ligure a padre Cesare Pesce, missionario del Pontificio Istituto Missioni Estere
(1948-1998), pp. 3-4.
22
Un altro testimone della fanciullezza di padre Pesce, prof.
mons. Franco Remotti, direttore dell’Istituto magistrale “Pietrine”, così scriveva nel 1942:
Don Cesare, ti conobbi nella tua precoce orfananza e ti seguii nel
tuo passaggio nelle scuole elementari. Eri un fanciullo pio, ordinato, studioso, un po’ solitario e sognante. Sembrava che sfiorassi
quelle aule, che sorvolassi quegli anni, tanto ti era facile l’apprendere. Entrato in ginnasio nel seminario di Stazzano, divenisti più sereno e la tua intelligenza vivace, specie nel liceo a Tortona, si affermò
nelle varie discipline, ma più particolarmente nelle composizioni italiane ricche di vera poesia”.
Ecco due caratteristiche che molti ricordano di padre Cesare:
un uomo poetico e “sognante”. Anche per questo, oltre che per
la fede e l’amore a Cristo naturalmente, è rimasto fedele alla vocazione missionaria vivendo 52 anni in Bangladesh: non è facile,
nemmeno oggi, essere missionari nel mondo dei poveri, se non si
sa prendere la vita con poesia e purezza di cuore.
Anche il canonico G. Balduzzi, della Collegiata, ha conosciuto da giovane padre Cesare e l’ha mandato in seminario nel 1930,
quando aveva undici anni. Così lo ricordava nel 1942:
Al termine del liceo il suo spirito è ancora irrequieto. Mentre legge
libri e riviste missionarie, e ascolta i missionari reduci quando parlano della loro vita meravigliosa passata in terre lontane, si appassiona
per la sorte della moltitudine di infedeli, dei reietti della società. Il
suo cuore si infiamma, l’orizzonte par si dilati ai suoi sguardi: è quella la sua vita. All’insaputa di tutti si mette in relazione col Superiore
generale delle Missioni Estere, l’arcivescovo Lorenzo M. Balconi;
chiede, insiste, vince ogni difficoltà, è ammesso nel Pime di Milano.
Interessante notare che in Cesare Pesce la vocazione missionaria nasce leggendo riviste e libri missionari, e ascoltando i missionari reduci quando raccontano “la loro vita meravigliosa passata in terre lontane”. Questa l’esperienza comune di tutti noi, a
cui il buon Dio ha concesso il grande dono della chiamata alle
“missioni estere”. Difficile capire perché oggi non pochi libri e
23
riviste missionari, e a volte gli stessi reduci dalle missioni, invece
di raccontare la loro “vita meravigliosa in terre lontane” trasfigurata dalla fede e dalla poesia, hanno preso orientamenti politicizzati e secondo le mode ideologiche correnti, che non scaldano il
cuore e non suscitano passione per l’annunzio di Cristo a quei
popoli infelici, che ancora non lo conoscono.
“Tutta la mia vita per Gesù”
Poco conosciamo della giovinezza di padre Cesare, come studente e seminarista. Un testimone privilegiato di quegli anni è don
Benedetto Padrini, sacerdote diocesano di Tortona nato a Novi
Ligure nel 1920 e ordinato nel settembre 1942, oggi parroco a
Borghetto Barbera (AL). Nell’ottobre 2003, intervistato da Riccarda Carrer del Centro missionario diocesano di Tortona, ha detto:
Ho conosciuto da ragazzo Cesare Pesce, eravamo dello stesso paese. Cesare aveva un anno più di me ma il canonico Balduzzi, della
Collegiata, ci ha mandati assieme a Stazzano, nel seminario minore
di Tortona, e abbiamo fatto la vestizione da seminaristi il 4 ottobre
1930, davanti all’altare della Madonna Lacrimosa nella Collegiata di
Novi Ligure. Siamo rimasti assieme cinque anni nel seminario minore. La disciplina era dura, ma avevamo possibilità di fare passeggiate tra i boschi vicini al seminario, si giocava e si stava allegri. Cesare aveva una bella voce e faceva parte del coro. Cantava volentieri,
lo chiamavamo “Pesciolino”, aveva un carattere allegro. Dopo il
ginnasio siamo passati al liceo nel seminario maggiore a Tortona. A
quell’epoca eravamo tutti balilla e ci sentivamo orgogliosi della
nostra patria, inneggiavamo ai caduti della guerra d’Africa: i racconti delle vittorie in Africa ci entusiasmavano.
In seminario avevamo il circolo missionario e io ne ero il presidente, con una piccola bibliotechina missionaria, di cui curavo e distribuivo i libri. Cesare lesse vari libri missionari tra i quali “I miei quarant’anni di missione” del card. Guglielmo Massaia e rimase colpito dai suoi racconti; ma parlava pure della “tigre del Bengala” perché aveva letto racconti di missionari del Pime che lavoravano in
India. Un giorno Cesare disse a noi compagni che voleva diventare
24
missionario ed entrare nel Pime di Milano. I seminaristi non ci credevano e, mentre eravamo a passeggio, uno gli dice: “Se davvero
vuoi fare il missionario, mangia un maggiolino vivo e intero”. Detto fatto, ricordo bene che Cesare mise in bocca un maggiolino, lo
masticò e lo mandò giù nello stomaco. Noi compagni siamo rimasti
ammirati della sua determinazione, non si fermava nemmeno davanti a una prova così difficile per un adolescente!
Nel 1937, dopo il liceo Cesare Pesce entra nel Pime per la teologia e don Padrini commenta: “La prima impressione che ebbe
cambiando di seminario, fu di trovarsi in un mondo libero” e lo
comunicava ai compagni rimasti a Tortona. “Una cosa che non
accettava, aggiunge don Padrini, era il bigottismo. Però aveva un
sentimento religioso profondo”. Nel Pime compie un “anno di
formazione” (sostitutivo del “noviziato” per i religiosi), prima di
entrare in teologia. La differenza fra il seminario diocesano e i
seminari del Pime l’abbiamo sperimentata in molti. Io vengo dal
seminario minore di Moncrivello (archidiocesi di Vercelli), di cui
ho un grande ricordo: ottimi superiori, un padre spirituale morto in concetto di santità (don Secondo Tagliabue, poi vescovo di
Anglona e Tursi, oggi Tursi-Lagonegro, in Basilicata), forte educazione alla pietà e ai sacrifici richiesti a chi sceglie la via della
consacrazione totale a Dio, ma anche un certo “perbenismo” e
formalismo che da ragazzo, a ripensarci oggi, non mi pesavano
affatto, perché quella era l’atmosfera, la cultura generale. La differenza l’ho colta entrando in prima liceo nel Pime nel settembre
1945. Provai la stessa reazione che don Padrini riferisce a Cesare
Pesce: “La prima impressione che ebbe cambiando di seminario,
fu di trovarsi in un mondo libero”.
Come precisare meglio questa differenza, interessante per
capire dove e come nasce il missionario? Nel seminario diocesano si mirava a formare il sacerdote adatto per la Chiesa italiana di
quel tempo: in un ambiente di “civiltà cristiana”, con un popolo
battezzato al 98%, una pratica religiosa e un codice morale fissati una volta per sempre, una liturgia solenne ma quasi imbalsamata, l’attività pastorale del prete di parrocchia stabilita nei minimi
particolari e con tendenza al formalismo, due millenni di santa
tradizione da trasmettere ai giovani.
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La formazione del missionario, almeno 60-70 anni fa era molto
diversa (oggi poi la “globalizzazione” cambia di nuovo tutto!): ti
ficcavano in testa che tu eri l’esploratore di nuovi spazi antropologici e culturali, il fondatore di nuove comunità cristiane in ambienti totalmente “pagani”; che dovevi abituarti a vivere da solo, a bastare a te stesso; che la tua fede e la tua pietà dovevano essere autentiche, personalizzate, altrimenti andavi incontro al fallimento.
Il nostro eroe e “mito” era padre Clemente Vismara (prossimo
beato) che, giunto in Birmania a 26 anni (nel 1923), il vescovo di
Kengtung lo porta a cavallo a 120 chilometri dalla sede episcopale, sta con lui tre mesi aiutandolo a costruirsi una capanna di paglia e fango, gli lascia poche rupie e lo abbandona dandogli la sua
benedizione e dicendogli che deve darsi da fare. Clemente scriveva in una lettera: “Se voglio incontrare un altro cristiano nel raggio di cento chilometri, debbo guardarmi allo specchio”.
Interessante la lettera che Cesare Pesce scrive al Superiore
generale del Pime, mons. Lorenzo M. Balconi, per chiedere l’ammissione al Pime5:
Il sottoscritto, alunno del Seminario vescovile maggiore di Tortona... domanda di essere ammesso nel PIME, per dedicarsi totalmente alla salvezza delle anime in terra straniera. “Tutta la mia vita per
Gesù e per la salvezza delle anime!”. Questo è stato il mio sogno da
più di quattro anni ed ora, col permesso del mio direttore spirituale, sta per diventare dolce realtà. Come esulterà il mio cuore se leggerà d’essere stato accettato a far parte della famiglia dei valorosi
eroi di Cristo Redentore!
Questa la richiesta ufficiale di ammissione nell’Istituto missionario. Ma Cesare manda a Balconi un’altra lettera con i documenti necessari per essere accettato e si scusa perché non è riuscito
ad avere il permesso del vescovo 6: “Sono stato già tre volte a Tor-
5
In data 13 settembre 1937. Documento conservato nell’Archivio generale del Pime di Roma, come tutti quelli citati qui di seguito riguardanti la vita di
padre Pesce da giovane seminarista e sacerdote.
6 Il permesso del vescovo Cesare lo manda il 19 settembre seguente.
26
tona per parlare con Sua Ecc.za, ma mai lo potei trovare. Adesso
gli ho scritto ma non ho ancora ricevuto risposta. Scriverò ora a
mons. vicario generale...”. Nella stessa lettera Cesare aggiunge:
Il consenso della mia famiglia è unanime: anzi i miei familiari sono
assai contenti di avere un figlio dedicatosi totalmente alla salvezza
delle anime. Mio padre, le assicuro, è contentissimo. Spero di venire domenica a Milano con mio fratello.
Il 18 aprile 1948 a Voghera
Cesare Pesce è ordinato sacerdote dal card. beato Ildefonso
Schuster nel Duomo di Milano, il 26 marzo 1942. Erano gli anni
della II guerra mondiale, partire per le missioni era impossibile,
anzi il superiore generale del Pime non aveva più notizie dalla
maggioranza dei suoi missionari. L’Istituto aveva in quel tempo
15-20 nuovi sacerdoti all’anno, che non potevano rimanere nei
seminari e case del Pime. Mons. Balconi li mandava come viceparroci in parrocchie delle loro diocesi, a servizio del rispettivo
vescovo diocesano secondo la tradizione del Pime7.
Per un anno scolastico (1942-1943) padre Pesce è prefetto
degli alunni nel seminario del Pime a Genova-Nervi e l’anno
seguente è destinato ad Alzate Brianza (Como), in zona di resistenza partigiana abbastanza vicina al confine svizzero. Qui si
impegna con i giovani nell’oratorio e nella pastorale parrocchia-
7
Il P.I.M.E. di Milano è nato nel 1926 dal precedente “Seminario lombardo per le missioni estere” fondato nel 1850 a Saronno (Milano) da mons. Angelo Ramazzotti (vescovo di Pavia e patriarca di Venezia) e fatto proprio da tutti
i vescovi della Lombardia, per inviare in missione sacerdoti e laici diocesani senza che diventassero religiosi. I missionari che tornavano in patria per qualsiasi
motivo (salute, età) andavano nelle proprie diocesi nelle quali erano rimasti
incardinati. Nel 1926 Pio XI crea il Pime, unendo al Seminario missionario di
Milano quello di Roma, fondato nel 1871 da mons. Pietro Avanzini per soddisfare il desiderio del beato Pio IX. La mentalità dell’Istituto è rimasta quella di
prima: essere a servizio della propria diocesi e di quelle che la Santa Sede manda a fondare fra i popoli non cristiani.
27
le, ma partecipa anche alla rete di aiuto ad ebrei e perseguitati
politici (che venivano fatti fuggire in Svizzera); poi, nell’immediato dopoguerra, contribuisce a salvare diversi militanti della
Repubblica Sociale, uomini e donne, in pericolo di vita. Purtroppo non rimangono in archivio notizie precise di questa sua attività clandestina, che egli però ricordava a volte con una certa fierezza ma senza lasciarne una descrizione circostanziata 8. In un
volumetto di ricordi così si descrive rapidamente in un’opera
meritoria di carità 9:
L’ultimo anno di guerra, sulle colline della Brianza, strano partigiano senza fede politica che, invece di ammazzare le stupide repubblichine, le faceva scappare a casa loro a fare la calza: firmato
“Comitato di Liberazione”.
Nell’estate 1945 mons. Balconi destina padre Pesce alla parrocchia di San Rocco in Voghera (provincia di Pavia ma diocesi
di Tortona), che stava nascendo in quel tempo. Il parroco di San
Rocco (dal 1963 al 2000), mons. Manlio Achilli, lo ricorda come
un sacerdote dal carattere sempre allegro, che non si arrendeva mai
di fronte alla difficoltà. In uno dei suoi ritorni in patria venne organizzata una cena in suo onore. Padre Cesare, raccontando la sua vita
in Bangladesh, disse che doveva costruire il tetto della nuova scuola. Tra i commensali si cercò di conoscere la somma necessaria. Calcolando i costi in Italia, la cifra si aggirava sui 200 o 300 milioni di
lire, ma Cesare spiegò che in Bangladesh con sette od otto milioni
di lire si poteva fare il tetto. Ebbene, in quella sera stessa venne raccolta questa cifra, tanta era la stima e l’affetto che i suoi amici di
Voghera avevano per lui.
Ernesto Pesce, figlio di Natale, fratello di Cesare, mi dice 10:
8 Cesare scriveva bene, era geniale nei suoi scritti ma non sistematico. Andava avanti per cenni sommari, trascurava le date, saltava da un tema all’altro, ecc.
Non rileggeva i suoi scritti o forse era proprio questo il suo modo di esprimersi.
9 Strade della vita, Cooperativa Editoriale Oltrepò, Voghera 1989, p. 12.
10 Intervista telefonica del 3 settembre 2003.
28
A Voghera lo zio era vice-parroco. C’era un parroco anziano, che
non era portato a curare i ragazzi, ma lasciava fare a padre Cesare,
il quale ha subito radunati i giovani attorno a sé ed erano davvero
tanti. Io andavo a trovarlo da Novi Ligure in bicicletta. Lui ha fatto dal niente l’oratorio, la sala del cinema e altre iniziative. I ragazzi di quel tempo sono ancor oggi amici suoi, gli mandavano soldi,
ecc.
Uno di questi “Amici di padre Cesare” è il noto attore vogherese, Beppe Buzzi. Ricorda con affetto il giovane missionario e
vice-parroco a Voghera, che ha lasciato un segno profondo nella
sua vita.
“Giocava al pallone con noi ragazzi, con le veste arrotolata attorno
alla vita. Una volta, arriva una signora che lo chiama perché vuole
parlargli o forse confessarsi. Cesare, srotola la veste, si pulisce la
fronte e la mani col fazzoletto e si ritira con la signora per parlarle di
Dio. Era un uomo generoso, dava tutto per l’oratorio. Una notte si
ferma con me fino alla quattro di mattino per dipingere un fondale
del teatro e dato che le canne dell’acqua erano gelate e i rubinetti
non davano acqua, prendiamo della neve e la fondiamo per diluire i
colori e finire il lavoro. Era un prete che si faceva voler bene”.
Il giornalista Antonio Airò scrive 11: padre Cesare “è stato nell’immediato dopoguerra viceparroco a San Rocco di Voghera e sono
molti i vogheresi – oggi tra i quaranta e i cinquant’anni (allora ragazzi, giovani e signorine dell’oratorio) – che ricordano questo sacerdote dalla barba sale e pepe, sempre allegro e pronto allo scherzo,
alla battuta piena di humour. E don Cesare ricorda con commozione e nostalgia Voghera”.
Infatti padre Cesare ha sempre avuto nostalgia dei pochi anni
trascorsi a Voghera, “con il solito massacrante e gradito lavoro
dell’oratorio e dell’Azione Cattolica, che mi faceva quasi dimenticare l’eventualità della partenza per le missioni”. Infatti scrive 12:
11
12
Il Giornale di Voghera, 8 ottobre 1981.
Strade della Vita, Cooperativa Editoriale Oltrepò, Voghera 1989, p. 11.
29
Mi trovavo davvero bene a Voghera! È una bella cittadina con tanta brava gente. S. Rocco, poi, era un angolo privilegiato. In canonica il vecchio parroco, un eccezionale gran brav’uomo, intelligente e
istruito, quanto semplice e umile; la sua cugina, padrona di casa,
una santa non troppo bisbetica. In oratorio, un nugolo di ragazzi
meravigliosi che, più che al catechismo, si arrangiavano per strappare, nelle finali, le coppe ai “pulcini” della Vogherese e, sui palchi
cittadini, gli applausi della folla. Negli “slums” (baraccopoli) dell’Ilva, giovanotti e ragazze si prodigavano ad alleviare la miseria di
quella povera gente venuta da chissà dove. E poi, il 18 aprile del
1948, con tutto il lavoro e il sonno regalati a De Gasperi. Giornate
bellissime al Sanrocchino.
Anche qui, come in altri suoi scritti, Cesare lascia un po’ con
l’amaro in bocca. Vorremmo saperne di più della sua partecipazione alle lotte strapaesane che hanno preparato il 18 aprile 1948:
ma lui se la cava con una semplice battuta. Quando ho visitato
padre Pesce a Rajarampur, nel settembre 2001, nel santuario
mariano (“St. Mary Shrine Village”) dove ha trascorso i suoi ultimi anni bengalesi, a pranzo ci siamo raccontate le vicende della
nostra vita passata. Io sono nato dieci anni dopo di lui (nel 1929),
ma avevamo ambedue un forte ricordo di quella primavera 1948
- lui già prete, io ancora seminarista - quando la Chiesa italiana si
impegnò fortemente a fianco della Democrazia cristiana, per evitare il pericolo di scivolare democraticamente dietro la “Cortina
di Ferro”! Cesare raccontava che a San Rocco di Voghera, in parrocchia ma soprattutto nell’oratorio maschile, erano mesi febbrili di lavoro diurno (per gli impegni pastorali) e notturno, a servizio della DC!
L’Azione Cattolica cittadina, di cui Cesare era l’assistente parrocchiale, condusse un’azione sistematica porta a porta, famiglia
per famiglia, e poi con l’affissione di manifesti e manifestini,
occupando tutti gli spazi liberi sui muri. Ma il problema principale, diceva Cesare, era di impedire che i nostri giovani e uomini
venissero a contatto fisico con quelli della parte opposta, specie
di notte quando potevano esplodere scazzottature feroci, da evitare ad ogni costo. Ricordo che diceva:
30
Siamo giunti ad un accordo sulla parola col comitato elettorale del
Fronte popolare, sulla base di questi due punti: proibito strappare
i manifesti della parte opposta per attaccarci i propri; e stare alla larga da un gruppo avverso già in attività in una strada o piazza. A
Voghera non è successo nulla di grave, come in altre cittadine o paesi, ma il mio compito non era facile: da un lato dovevo animare i
nostri e dare motivazioni anche religiose al loro impegno, dall’altro
tenerli calmi quando c’erano, o pareva ci fossero, provocazioni o
violazioni degli accordi.
Nel mitico Bengala delle foreste e delle tigri
Il 1948 è l’anno della partenza di padre Pesce per il Bengala, a
cui Cesare era stato destinato nel 1944 da mons. Lorenzo M. Balconi. Prima di partire ha avuto una piccola crisi di rigetto della vocazione missionaria “alle genti”. I sei anni trascorsi come sacerdote diocesano in due parrocchie l’hanno passionalmente coinvolto
nei problemi del popolo italiano, gli hanno fatto vedere il bisogno
enorme di sacerdoti con spirito missionario qui in Italia:
Nell’attesa, troppo lunga attesa, il Bengala, tanto desiderato qualche
tempo prima, s’andava ammantando di nuvolaglie così fitte da non
farsi più scorgere. Il Bengala, con le sue tigri, con i suoi milioni di
indù e musulmani mezzo-morti di fame? Andare laggiù ad arrostire
al sole, a battere i denti con la malaria in corpo? E chi me lo fa fare?
Vada a farsi friggere il Bengala con tutti i suoi bengalesi 13.
Cesare passa giorni e notti nel dubbio: andare in Bengala o
rimanere in Italia, a Voghera? “Brutte ore, brutti giorni, vissuti
come in un’eclisse di sole”. Ma ecco, all’improvviso, uno spiraglio
di luce. Una domenica, nel cortile dell’oratorio, una ragazza gli si
avvicina timida 14, si guarda attorno perché nessuno senta e arros13
Strade della vita, Cooperativa Editoriale Oltrepò, Voghera 1989, pp. 11-
12.
14 La ragazza si chiamava Elisa Croci, poi Missionaria dell’Immacolata col
nome religioso di suor Ancilla, partita fra le prime per il Bangladesh nel 1954 e
ancor oggi al lavoro in quella giovane Chiesa.
31
sendo gli confida: “Don Cesare, ho una cosa da dirle. Io vorrei
andare missionaria. Lei cosa ne dice?”. Un fulmine folgora il missionario incerto: ma come? Una ragazzina del popolo vuol farsi
missionaria e tu che già lo sei vuoi tirarti indietro? La lotta per la
fedeltà alla chiamata di Dio è finita: è Dio stesso che ha messo
sulla sua strada quella brava ragazza, che senza saperlo ha fatto
ritornare in sé il missionario pieno di dubbi e di tentazioni.
Poco dopo riceve dal Pime di Milano la cartolina precetto: “Si
partirà da Genova ai primi di ottobre. Preparati e trovati pronto”. Ogni distacco ha il sapore della morte, “Nessuno s’è mai
sognato di cantare in versi allegri la partenza”. Ma Cesare ormai
non ha più dubbi, ha superato la prova, è tornato il prete allegro
e coraggioso che è sempre stato.
Il 10 ottobre 1948 parte con altri missionari da Genova sulla
motonave “Taurinia”: alcuni vanno in India, altri in Bengala. Una
sosta a Napoli, poi a Pompei e infine i missionari salutano l’ultimo
lembo d’Italia che scompare, con la prospettiva di non tornare più
indietro, com’era normale a quei tempi. Prime fermata a Port Said
in Egitto, poi a Porto Sudan e infine a Massaua in Eritrea, antica
colonia italiana ora sotto amministrazione inglese. Scendono e sui
muri trovano scritte che dicono: “W Italia!”. Un nero
si avvicina e con un largo sorriso, mettendo in mostra i suoi bellissimi denti bianchi, dice: “Tu italiano? Bello! Italiani stare qui? Bello! Italiani dire ‘porco’, dare calci nel culo, ma dare sempre pane!
Inglesi non dire ‘porco’, non dare calci, ma non dare mai pane...”.
Lui, da uomo pratico, tra i due preferiva i primi.
Il 4 novembre la Taurinia attracca a Bombay, “la porta dell’India”. I missionari destinati alle missioni del sud India (stato di
Andhra Pradesh) sono arrivati. Invece, padre Cesare e i suoi quattro compagni 15 che vanno in Bengala (allora Pakistan orientale)
15 Padre Angelo Maggioni (1817-1972), ucciso ad Andarkota (Bangladesh)
il 14 agosto 1972; p. Luigi Oggioni (1916-1955) morto a Milano dopo la breve
missione in Bangladesh il 26 marzo 1955; padre Luigi Pinos (morto a Raishahi
il 20 giugno 2001) e padre Luigi Scuccato, quest’ultimo ancora al lavoro a Beneedwar in Bangladesh.
32
sono respinti dalle autorità indiane di frontiera: hanno solo il
visto d’ingresso in Pakistan, lo stato islamico nato dalla partizione dell’India al momento dell’indipendenza (15 agosto 1947),
quindi nemico dell’India. I cinque missionari hanno due alternative: o tornano in Italia o vanno a Karachi in Pakistan. Ecco un
intoppo a cui, in Italia, nessuno aveva pensato. Due giorni di consegna sulla Taurinia che getta l’ancora al largo, piantonati da poliziotti indiani. Poi si muove il vescovo ausiliare (che poi sarà il primo cardinale indiano arcivescovo di Bombay), mons. Valeriano
Gracias, e il Console d’Italia: riescono a ottenere un permesso di
andare in treno verso il Bengala pakistano: Bombay – Nagpur –
Calcutta. Un viaggio da incubo per i giovani missionari che escono dall’Italia per la prima volta e non avevano mai visto gli aspetti affascinanti ma anche le miserie estreme dell’India: fame, folle
di mendicanti e di lebbrosi, gente che dorme sui marciapiedi, nelle stazioni... e poi,
vacche sacre che passeggiano indisturbate per le vie, donne che
impastano la bovina nei crocicchi, uomini che, accovacciati, orinano indisturbati ai lati delle vie, migliaia di corvi che gracchiano
assordanti sui tetti delle case...
A Calcutta sono ospitati fraternamente dai “Christian Brothers”, missionari irlandesi. E poi, in treno, in barca e a piedi,
all’inizio di dicembre arrivano a Dinajpur. Finalmente in missione, nel mitico Bengala di Khammamuri e Tremal-Naik, che Cesare aveva solo immaginato leggendo i libri avventurosi di Salgari
(il quale, però, non c’era mai stato)!
La vita missionaria nella quale si immerge padre Cesare
Pesce, quando il 14 novembre 1948 arriva con i suoi compagni a
Dinajpur, era radicalmente diversa da quella attuale. Oggi un giovane missionario del Pime che giunge dall’Italia in Bangladesh ha
davanti a sé un anno o due di tempo per adattarsi al clima, al cibo
e ai costumi locali; in un apposito “Centro studi” apprende la lingua bengalese (definita “l’italiano dell’Asia” per la sua musicalità), le religioni e i costumi locali; inoltre, ha la possibilità di visitare tutte le stazioni missionarie disperse nel vasto territorio del33
la diocesi di Dinajpur e di altre, dove lavora il Pime 16, per rendersi conto delle varie situazioni e parlare con i confratelli. Non
solo, ma oggi il missionario del Pime va in Bangladesh dopo almeno un anno di studio e di pratica dell’inglese nella sede dell’istituto a Detroit e in una parrocchia degli Stati Uniti (dopo averlo
già studiato per almeno quattro anni in Italia).
Un furto definito “opera di carità"
Gli anni trenta e quaranta del secolo scorso (quindi il 1948
quando padre Pesce va in missione) sono visti come l’Antico
Testamento del mondo missionario. Cesare, come i suoi compagni di quel tempo, non sapeva quasi nulla di inglese, veniva direttamente dall’Italia (il primo viaggio che faceva all’estero) e ignorava del tutto il bengalese. Eppure, meno di un mese dopo che è
a Dinajpur il vescovo lo destina a Mal Bazar, una missione nella
vicina India, che dipendeva ancora dalla diocesi di Dinajpur in
Pakistan orientale! È vero che là c’era un anziano padre del Pime,
ma destinare un giovane missionario oltre confine in un paese
come l’India (indù), nemica dichiarata del Pakistan (islamico), era
un azzardo non da poco, una sfida alla Provvidenza che però protegge specialmente i giovani missionari non ancora ambientati e
quindi facili a commettere errori madornali. Questa era la formazione ardua e ruvida che veniva data nelle missioni ai novellini,
buttati là in situazioni difficili, per vedere come se la cavavano: si
spiega quindi perché, come ho già detto, agli alunni dei seminari
missionari si ficcava bene in testa che dovevano imparare a vivere da soli e bastare a se stessi, sia da un punto di vista spirituale
(una pietà non formale ma autentica, profonda), sia in campo
materiale (arrangiarsi in ogni situazione).
16 La diocesi di Dinajpur (fondata nel 1927) ha dato origine alle diocesi di
Jalpaiguri (nel 1952) e di Dumka (nel 1962) in India; e alle diocesi di Khulna
(nel 1956) e di Rajshahi (nel 1990) in Bangladesh. Eppure oggi è ancora estesa
17.500 chilometri quadrati (due volte la Basilicata, più di tre volte la Liguria),
mentre l’archidiocesi di Milano, forse la più estesa in Italia, conta 4.243 kmq.
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Occorre notare l’assurdità della situazione di padre Pesce,
vista con gli occhi e la mentalità di oggi. Viene mandato in India
mentre doveva lavorare in Pakistan; va con un vecchio e santo
missionario col quale avrebbe dovuto imparare l’inglese, l’hindi e
l’oraon, oltre che adattarsi al clima, cibo, costumi… Ma questa
era, a quei tempi, l’accoglienza riservata ai giovani missionari.
Pesce racconta la piccola avventura di una suora di Maria
Bambina, sua compagna di missione, quando era giunta dall’Italia sapendo solo poche parole di inglese: “bella come tutte le
ragazze italiane”, scrive. Giunge a Bombay in nave e deve proseguire in treno, con le sue sorelle, verso Calcutta. Viaggio interminabile e le tre giovani suore dopo un po’ hanno appetito. Il treno si ferma in una stazione e lei guarda fuori per acquistare del
cibo. Vede un giovanotto che tira un carretto sopra il quale ci
sono, tra l’altro, dei pezzi di formaggio (così almeno pensava lei,
invece era sapone da bucato!). “Grazie, Gesù, pensa, qui si trova
anche il formaggio!”. Consulta il suo piccolo vocabolario italiano-inglese e poi dice: “Please, give me a kiss!”. Naturalmente
voleva dire “cheese” (cioè formaggio): sapeva che il doppio “ee”
si pronunzia “i”, ma ignorava che il “ch” in inglese si pronunzia
“c” e non “k”! Il giovanotto sente che quella bella ragazza bianca vuole un “kiss” (cioè, un bacio), non ci pensa due volte e subito l’accontenta: balza sul treno, l’abbraccia e le stampa due bei
bacioni sulle bianche e rosse guance paffute, senza che lei abbia
il tempo di rendersi conto di cosa sta succedendo.
Il giovanotto ride contento, mentre la suorina grida in italiano fra l’ilarità dei presenti: “Farabutto, vigliacco! Che razza di
paese è mai questo? Il paese dei mascalzoni?”. Il giovanotto capisce di averla fatta grossa e se ne va in fretta, mentre la suora, tutta mortificata, si rannicchia sul suo sedile e una donna seduta vicino a lei le spiega, più a gesti che a parole, che “kiss” vuol dire
“bacio”, mentre cheese (pronunzia “ciis””) vuol dire formaggio...
Queste le avventure dell’”inculturazione” che i missionari sperimentavano a metà del secolo scorso.
Padre Cesare resiste in India tre mesi, poi viene espulso senza danni. Ma di questo diremo in seguito. Interessa invece, per
capire il personaggio, conoscere come ha passato il mese di
35
dicembre 1948 a Dinajpur, appena arrivato in Pakistan e prima di
andare in India. Uno si immagina che il giovane “Pesciolino”,
ignorante delle lingue e di tutto il resto, se ne stia tranquillo e
obbediente, guardando a cosa fanno gli anziani e senza prendere
nessuna iniziativa personale. Macché, neanche per sogno! Cesare
si guarda attorno, vede la povertà di mezzi che ha la missione e si
accorge che, a poca distanza dalla sede del vescovo, c’è il palazzotto abbandonato di un “raja” indiano (ricco proprietario terriero) che nell’estate precedente era fuggito dal Pakistan orientale
verso l’India, temendo le rappresaglie dei musulmani contro gli
indù 17. L’antica residenza era ridotta ad uno stato deplorevole in
pochi mesi, dopo la stagione delle piogge: le erbe selvatiche, i
semi dei pioppi e del cotone selvatico trovano la loro strada in
invisibili fessure, germogliano, affondano le radici tra mattone e
mattone e rapidamente, aggrovigliandosi come serpi, salgono sul
tetto trasformandolo in un giardino pensile. Una pacchia per gli
sciacalli e le termiti.
Padre Cesare e i suoi giovani compagni di viaggio vedono
che, dopo le distruzioni delle lotte nella divisione con l’India, tutte le missioni sono in piena attività per riparare o ricostruire scuole, cappelle, dispensari medici, residenze per preti e suore e l’orfanotrofio della missione a Dinajpur. La difficoltà principale,
oltre che la cronica scarsezza di denaro, è trovare il ferro e il
cemento. Padre Cesare visita con un altro missionario il palazzotto del raja indiano: entrano e vedono che una parte dello stesso
sta crollando e una grossa putrella di ferro spunta dalle macerie;
altro ferro che sostiene muri e scale è libero, se rimane sul posto
arrugginisce inutilmente.
Ecco l’impresa. I cinque missionari entrano nel palazzo con
picconi e badili e rendono trasportabili la putrella e altri utili rottami e tondini di ferro. Sollevano un gran polverone, ma nessuno
dice niente. I contadini che lavorano nei campi vicini guardano
17 È noto che la divisione fra India e Pakistan nell’estate 1948 ha causato
dagli otto ai dodici milioni di morti ammazzati. Si fermavano i treni carichi di
profughi, da una parte e dall’altra del confine, e tutti venivano passati per le
armi: ma è solo un esempio.
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stupiti e un po’ timorosi: “Forse gli spiriti degli antenati del raja
sono venuti a distruggere il loro palazzo, per non lasciarlo in
mano ai musulmani?”. Il problema poi è di trasportare quel prezioso materiale nella missione. Bisogna agire di notte, ma non è
facile in una città di frontiera con l’India, percorsa continuamente da poliziotti. I giovani missionari ne parlano a tavola per consultarsi. Il vicario generale si oppone: “Questo è un furto bell’e
buono” e cita moralisti autorevoli ma che, in quella situazione,
appaiono superati. I giovani rispondono: “Usare i beni superflui
e abbandonati a beneficio dei poveri è un’opera di carità”. Ma il
vicario continua: “Se la polizia vi prende sul fatto, sarete condannati e la fama della missione resterà infangata per sempre”.
Il vecchio vescovo assiste divertito al dibattito e taglia la testa
al toro citando un antico proverbio: “Il mondo è bello perché è
vario. Fate come vi detta la vostra coscienza”. In pratica è una
sorta di benedizione per l’impresa. Che viene messa in atto la notte stessa. Tutto va bene fino all’ultimo, quando si è finito di legare e bisogna tirare per qualche centinaio di metri il tesoro più prezioso, la lunga e pesante putrella. Mentre stanno per iniziare
l’operazione, i cinque “ladri per amore” sentono dei passi che si
avvicinano. I poliziotti! Li vedono in lontananza, sono due e con
le scarpe, fatto strano nel Bengala di quel tempo. I tre missionari più vicini ai campi fanno a tempo a saltare il muretto di cinta
e si disperdono arrivando in missione più tardi. Cesare e un altro
sono in trappola: rimangono fermi “come stoccafissi fino all’arrivo dei due rompiscatole”.
All’ultimo momento, ecco l’idea luminosa. Seminascosti dietro i
cespugli che costeggiano la strada, caliamo le braghe e, vergognosi,
restiamo accovacciati in quella posizione così poco decorosa, ma
indiana al cento per cento! Nessuno oserà mai disturbare un cittadino in tale delicata circostanza. Là vicino a noi spunta la testa della putrella con la grossa corda attorcigliata: sembra un serpente colpito a morte. I due poliziotti arrivano, si fermano e scrutano nell’oscurità, parlottano fra di loro, si guardano alle spalle un po’ perplessi e, più in fretta di come sono venuti, proseguono decisi il loro
cammino. Che cosa hanno pensato e si sono detti lo sa solo Allah,
ma prima che sorga il sole tutto è sistemato, con la grossa putrella
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nascosta in un fossato dell’orfanotrofio in attesa di essere sistemata
per sostenere la nuova casa dei bambini abbandonati.
Con un parroco così, bisogna rigare dritto
A mezzanotte del 31 dicembre 1948 padre Cesare Pesce sta
andando in treno dal Pakistan orientale all’India. Pensa ai suoi
amici di Novi Ligure e di Voghera: in questa notte magica, organizzano cenoni, mangiano il panettone, stappano bottiglie di spumante, fanno un po’ di baldoria per salutare l’anno nuovo 1949;
altri sono in chiesa a pregare, anch’essi in un’atmosfera di gioia.
Cesare invece è su un vecchio treno sferragliante, “un lurido treno che puzza orrendamente di tabacco, di orina, di sudore”. Cosa
fa? Prega? Sì, ma vorrebbe festeggiare l’anno nuovo e non sa
come fare: bere qualcosa? ha solo un po’ di té che sa di erbe marce. Parlare con qualcuno per condividere la ricorrenza? Non sa
le lingue e poi, guardando quelli che gli sono vicini, pensa: “Poveretti, forse non sanno neppure che un altro anno se n’è andato”.
Certamente “mi prenderebbero per uno svitato che gira il mondo. Per carità – conclude – meglio far silenzio e tenermi i miei
pensieri e sentimenti ben nascosti”.
Il mattino seguente, quando giunge alla stazione di Mal Bazar,
nessuno lo attende. In qualche modo riesce ad arrivare alla missione cattolica, ma il parroco è assente. Però c’è il cuoco factotum che
gli dà qualcosa da mettere sotto i denti e poi gli fa visitare il centro
della missione, comprese la nuova scuola e la nuova chiesa ancora
in costruzione, “costruite in cemento economicamente armato”; e
la vecchia chiesa di bambù e paglia, col tetto di lamiera. Alla sera
arriva il parroco, padre Giuseppe Milozzi 18. Lo vede e gli dice
tutto d’un fiato, senza dargli tempo di interloquire:
18 Per capire che tipo era padre Milozzi (1895-1983), ricordo che quando
nel 1964 sono andato a trovarlo nella sua missione di Damanpur nel nord Bengala indiano (diocesi di Jalpaiguri), avevo avvisato per tempo che visitavo le missioni del Pime in India col permesso dei superiori e come giornalista e direttore delle riviste dell’Istituto (ero andato in India con Paolo VI). Alla stazione del
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Lei dunque sarebbe il Pesce, vero? Ieri ricevetti la lettera del vescovo. Da che parte viene dell’Italia? Dalla Sicilia, vero? (Pesce aveva
capelli, barba e occhi nerissimi, n.d.r.). Non importa, io sono marchigiano. Ma anche i siciliani sono brava gente, e intelligente, se
sono riusciti a creare la mafia... Bene, bene, ma mi dica: ha fatto la
doccia, ha mangiato qualcosa? È a casa sua. Qui, se si lavora, si
mangia pure...
Il “Pesciolino” capisce subito che, con un parroco così, bisogna rigare dritto e rendersi utile. Rimboccate le maniche, lavora
con i muratori per gettare le fondamenta della nuova chiesa.
Milozzi
è l’architetto, l’ingegnere, il capomastro, il datore di lavoro, tutta
l’anima di questa faccenda e io l’aiuto come mezza cazzuola. Mi
pesa un poco, dico la verità. Ma con questo meraviglioso tipaccio di
prete operaio lo sgobbare diventa un piacere.
Al mattino celebra la Messa alle cinque e mezzo e poi serve
Milozzi mentre celebra la sua Eucarestia (allora non c’era ancora
la concelebrazione). Alle sette in punto si incomincia a lavorare e
si va avanti tutta la giornata. Nei ritagli di tempo padre Cesare
impara un po’ di inglese e un po’ di hindi (la lingua nazionale dell’India, che poi nel Pakistan bengalese non servirà più). A pranzo e a cena “è uno spasso sentirlo parlare delle sue avventure”,
ma intanto lo studio delle lingue langue per mancanza di tempo.
Ma per Milozzi quei giorni passati sfaticando come muratore
debbono servire al giovane missionario come un esercizio linguistico. Per cui, venti giorni dopo che è arrivato, un sabato sera il
parroco gli dice: “Domani è domenica, sarà meglio che lei incotreno nessuno mi aspetta. Con un “risciò” vado alla missione e sulla porta d’entrata trovo questo biglietto scritto in italiano: “Il padre Giuseppe Milozzi è
andato a visitare i villaggi e tornerà a Damanpur quando il missionario-turistagiornalista se ne sarà andato. Padre Giuseppe Milozzi”. Naturalmente è scritto
per nessun altro che per me, unico italiano nel giro di non so quante decine di
chilometri. Per fortuna un catechista mi apre la porta della missione e le suore
mi danno da mangiare!
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minci ad ascoltare le confessioni della gente”. Cesare risponde
che non sa assolutamente le lingue e l’altro ribatte:
Come, non le ha ancora imparate, dopo un mese di studio? Io, la
prima domenica del mese faccio la predica in kuruk (oraon), la
seconda domenica in sadri, la terza e la quarta in hindi. Se vedo che
c’è un buon numero di santal, aggiungo un pensierino anche in santal. Imparare una lingua è la cosa più banale di questo mondo, è
come scrivere un libro. Si tratta solo di volontà. Ogni sera, prima di
coricarmi, quando nessuno viene a rompere le scatole, io leggo, studio, scrivo. Così ho prodotto un catechismo in kuruk e due libretti
in hindi, ora sto scrivendone un altro sulla famiglia cristiana. Ripeto, si tratta soltanto di volontà.
Pesce lo guarda un po’ confuso e scrive: “Dice tutto lui... Il
bello è che non soltanto dice, ma anche fa”. Nei tre mesi che
rimane in India, padre Cesare ha anche il tempo di visitare i missionari del Pime nel nord Bengala indiano (diocesi di Jalpaiguri).
Nella missione di Nagrakata, fondata dai missionari del Pime
all’inizio del 1900, riesce a fare una visita in Bhutan, il misterioso
regno indipendente dall’India, sulle pendici della catena dell’Himalaia, tra foreste secolari. Trova un popolo ancora immerso nella vita naturale e visita alcuni villaggi oraon cristiani:
Credo che siano i soli cristiani del paese. Vivono attorniati da una
pace infinita, forse la pace che cercano gli europei, assillati dalla
continua ricerca e bramosia di agi effimeri. Qui c’è l’amore puro
della Natura, della grande Madre, la Terra, sempre madre anche
quando castiga con siccità o alluvioni... Il tramonto scende veloce
sull’Himalaia, creando una splendida sera d’Oriente.
Poi visita la foresta di Chalsa in India, proprio nel territorio
della missione di Nagrakata: un parco naturale in cui sono conservate molte specie vegetali e animali già scomparse in altre parti dell’India 19.
19 Ho visitato anch’io questa parte dell’India (nel 1964), in compagnia di
padre Tarcisio Manfredotti, passando una notte di luna piena in un “bungalow”
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Uno spettacolo inimmaginabile, scrive padre Pesce. Alberi di tutte
le forme e dimensioni, le cui cime lussureggianti di foglie formano
un’incantevole enorme pittura policroma, che ti ricorda la scena
della creazione. Scimmiette che giocano sulla strada, al rumore del
camion scappano e, nascoste dietro i cespugli, ci osservano con i
loro occhietti pensosi. Uccelli dalle piume bellissime volano via,
quasi timorosi di essere contaminati dalla vista dell’uomo.
Ad una svolta, ecco cinque casette di legno su palafitte altissime. Il
maestro mi spiega che quelle sono le abitazioni dei tagliatori di alberi e dei piccoli impiegati forestali. Per difendersi dalle tigri e dagli
elefanti costruiscono così le loro case. Per entrare ed uscire si servono di una scala di legno, che gettano dall’alto e ritirano immediatamente dopo l’uso. Immerse così in quest’aria balsamica, sono certamente le abitazioni più salubri del mondo. Qui ci vorrebbe Celentano, a cantare le sue prigioni di cemento…
nel parco naturale di Gorumara (presso Chalsha) per vedere gli animali selvatici uscire dalla foresta e abbeverarsi nel fiume.
41
2.
LA PRIMA MISSIONE A RUHEA
Una delle caratteristiche della vita missionaria di padre Pesce
è questa: in 54 anni di Bengala, con sei brevi ritorni in patria, il
Vescovo lo cambia di posto una decina o dozzina di volte, compresa la missione di Malda in India per i primi tre mesi. E questo, come vedremo, non per un motivo che sarebbe facile immaginare: non si adattava bene o non era gradito in nessun posto.
Ma proprio per il motivo opposto. Cesare era talmente sereno,
con un bel carattere e capace di adattarsi ovunque, che tutti
l’avrebbero voluto, ma i Vescovi di Dinajpur (ne ha avuti cinque)
lo usavano come un “jolly” per le situazioni difficili. È un tratto
molto caratteristico della sua personalità. Fra i missionari non è
facile trovare esempi di questo genere. Ci sono missionari certamente bravi e spirituali, che però, quando sono in un posto, guai
a toccarli: si attaccano facilmente a tutto e a tutti, diventano inamovibili. Pesce assolutamente no, era sempre disponibile e obbediente; soprattutto sapeva portare la pace dove c’erano divisioni
e lotte intestine. Aveva una bella personalità, era un personaggio
nella missione del Pime in Bengala, ma anche molto umile e senza ambizioni personali.
“Ma come, non sai ancora il santal?”
Nell’aprile 1949 padre Pesce è rispedito in Pakistan orientale
dalle autorità indiane: l’India non ammette, dopo l’indipendenza,
altri stranieri sul suo territorio. Deve abbandonare lo studio dell’indi (in Pakistan non serve) e comincia a studiare il bengalese e
il santal. Prima a Dinajpur e due mesi dopo a Daulighat (Mariam43
pur), dove il vescovo lo manda a “imparare il santal col padre
Luigi Martinelli”. Il quale, due mesi dopo, viene trasferito da
Mariampur e il suo posto è preso da padre Ferdinando Sozzi che,
come vedremo, non vuole fare il parroco e dice a Pesce che lui
non si assume responsabilità economiche: non firmerà alcun
documento amministrativo. Insomma, nei primi sei mesi di Bengala, il povero “Pesciolino” è sballottato da un posto all’altro, da
un incarico all’altro, dallo studio di una lingua all’altra, senza
sapere ancora l’inglese! Per fortuna aveva un carattere felice e
molta fede. Infatti scrive:
Sono sempre stato lettore e seguace di Teilhard de Chardin, definito da Paolo VI “un uomo indispensabile”; e cerco di autoconvincermi che ogni avvenimento che mi riguarda è sempre il meglio per me
e per gli altri.
Interessante (per noi che leggiamo) il viaggio da Dinajpur a
Daulighat che Pesce compie in treno e in bicicletta. La distanza
è di circa 90 chilometri, ma lui parte il venerdì mattino e arriva a
destinazione la domenica a mezzogiorno! Come mai? Cesare e la
sua bici non possono viaggiare sullo stesso treno: lui sale sul treno passeggeri, la sua bicicletta sul treno merci. Arrivato alla stazione di Parbatipur, rimane una notte in attesa del treno per
Chorkai, da cui deve proseguite pedalando. Dorme nella sala
d’aspetto della stazione ferroviaria e il mattino di sabato prosegue
in treno, ma arriva a Chorkai ben prima della bicicletta. Rimane
una lunga giornata in attesa nella misera stazione ferroviaria, una
sola stanza d’aspetto sovraffollata di povera gente con tutti i suoi
bagagli. Commenta:
Attendere, parola d’ordine da queste parti. Passano ore e ore d’attesa. E tutta questa gente, accoccolata sui talloni, non fa una piega.
Abituati da infanti ad attendere il latte della mamma; da bambini ad
attendere che il papà torni dal lavoro, a sera inoltrata, col fagottino
del riso; da adulti ad attendere che tempi migliori si affaccino
all’orizzonte. Tutta la loro vita è un’attesa!
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Al sabato verso sera, quando il treno merci gli porta la sua
bicicletta, Pesce pedala fin quando incomincia a far buio, in un
mare di fango. Poi si ferma in un villaggio cristiano, perchè non
ne può più ed è pericoloso proseguire. Sonno, stanchezza, fame,
la voglia di andare subito a letto: ma deve preparare la predica
per il giorno dopo che è domenica, col poco santal imparato in
due mesi: un’impresa di vero eroismo. Domenica, celebra la Messa e legge il suo discorsino alla gente, poi si aspetta che qualcuno
gli faccia le congratulazioni. Per carità! Il capo villaggio gli dice:
“Ma come, non sai ancora il santal?”. Vorrebbe mandarli tutti
sulla forca, ma si limita a sorridere pensando: “La prossima volta
andrà meglio”. Poi inforca la bicicletta, carica in qualche modo
tutte le sue proprietà e bagagli legandoli da ogni parte, e
mi butto in quella lunga striscia di melma che si onora di essere
chiamata strada. La stagione delle piogge è iniziata e le strade perdono quel minimo di praticabilità che avevano in primavera. La mia
“Bianchi” si fa onore nella corsa campestre di una trentina di chilometri: dopo quattro ore taglio il traguardo. Ero il solo concorrente.
Arriva a Daulighat (Mariampur) a mezzogiorno, si lava e si
presenta a tavola con una fame da lupo, ma ecco un’altra delusione. Pranzo domenicale: riso bollito con peperoncino piccante e
cavoli anch’essi bolliti. Nient’altro. “Andiamo bene, pensa Cesare, se continua così rischio di morire di fame”. Il parroco, tanto
per cambiare, non c’è, ma arriva nel pomeriggio e lo porta a visitare un villaggio cristiano santal, in bicicletta, seguiti dal grosso
cane della missione, che viene dal Kashmir. Martinelli e Pesce si
seggono sotto un albero a parlare col capo villaggio. Intanto il
cane gironzola attorno e, adocchiata una capra, le salta addosso e
la azzanna alla gola uccidendola. Pianti della padrona di casa,
occhiate imploranti del capo villaggio.
“Quanto costa questa capra?” chiede Martinelli. “Dieci, dodici
rupie pakistane” dice il capo. “Va bene, eccotene quattordici”. Il
pianto della donna cessa all’istante e tutti sono lieti di aver preso
parte ad una piccola avventura, grossa variante alla monotonia di
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serate sempre uguali, piatte e sciatte. Tre ragazzotti portano la capra
alla cucina della missione.
Padre Cesare è il più contento di tutti. Finisce i tre giorni di
viaggio, da Dinajpur a Daulighat (Mariampur), addentando un
cosciotto di capra e bevendo addirittura un buon vino da Messa,
che il parroco tira fuori per festeggiarlo. “Evviva il cane! pensa
Cesare. Mi ha vendicato del riso bollito bianco e dei cavoli di
mezzogiorno”.
A Mariampur per imparare il santal
La chiesa di Mariampur, in stile dorico, è l’unica chiesa del
Bengala: sembra un tempio greco antico ed è anche l’unica con
un campanile. Meraviglioso! Pesce è entusiasta della chiesa, di
padre Martinelli, dei cristiani e della gente del posto. Aveva questa grande qualità: era sempre contento di tutto. Destinato a
Mariampur, ha avuto la fortuna di vivere con due missionari che
la tradizione del Pime in Bengala considera ancor oggi due santi:
padre Luigi Martinelli (1901-1968) e padre Ferdinando Sozzi
(1904-1977). Commovente la descrizione che Pesce ha fatto di
Martinelli:
Mi invitò a visitare il suo dispensario dicendomi: “Ricordati che Gesù
era sempre impegnato a curare i malati che lo seguivano con amore
e gratitudine”. Si firmava sempre facendo seguire alla sua firma le
due lettere M.O. (ufficiale medico). E quando qualche anno dopo si
ebbe nel vicino villaggio di Shitolgram un’epidemia di vaiolo tra i
Malos, Padre Martinelli convertì immediatamente la sua scuola in
lazzaretto per curare i malati. In alcuni casi fu visto addirittura, spinto dal suo zelo e dalla sua carità, trasportare sulle proprie spalle i malati più gravi e i moribondi dal villaggio al lazzaretto per tentare di
salvare dal contagio chi restava. Seguendo l’esempio dei santi, era
sempre pronto ad offrire la propria vita per aiutare il prossimo. Dopo
una tremenda calamità, un dottore musulmano del luogo gli disse: “Il
fatto che tu sia ancora vivo e non contagiato da questa orribile malattia è una prova sicura della presenza di Dio in te”.
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Padre Martinelli era un uomo che sapeva disseminare amore, tanto
in un mendicante come in un re! Un uomo che trascurava tutto,
anche la propria vita, per il bene delle sue pecorelle, a partire dal
campo spirituale ma non dimenticando mai i problemi legati alla
povertà e alle discriminazioni ormai endemiche.
Nell’estate 1949 il vescovo di Dinajpur, mons. G.B. Anselmo,
nomina padre Sozzi parroco a Mariampur, in sostituzione di
padre Martinelli. Il nuovo parroco, padre Ferdinando Sozzi
(1904-1977), anche lui un sant’uomo, era un tipo del tutto diverso. La sua unica vocazione, lo diceva lui stesso, era di fare l’eremita, il contemplativo. L’ho conosciuto anch’io e abbiamo pubblicato nel 1973, quando ero direttore di «Mondo e Missione»,
una sua lunga intervista che ebbe un successo strepitoso, ristampata più volte in un “estratto” della rivista per circa 30.000
copie 1. Padre Sozzi era un uomo di Dio, poetico, carismatico. Il
racconto della sua vita affascina ancor oggi. Padre Pesce scrive:
Molto spesso, nei suoi giri nei villaggi cristiani e non, annunziava la
Parola di Dio, servendosi anche della sua chitarra e componendo
dei piccoli canti popolari in lingua santal... Il suo pensiero andava
sempre alla piccola capanna, senza alcun conforto, nel piccolo villaggio santal di Maldo. Soltanto in quel posto era in grado di trovare pace con la preghiera e le lunghe ore di meditazione.
Sozzi non voleva assolutamente fare il parroco e avere la
responsabilità delle strutture della parrocchia; si chiedeva: a chi
devo obbedire, al vescovo, rappresentante di Dio, o alla mia
coscienza, voce di Dio? Passano i giorni e le settimane, con lettere e visite lampo nel romitaggio di padre Sozzi: niente da fare. Ma
un bel giorno padre Ferdinando compare a Mariampur e dice a
1 GHEDDO P. e BORDIGNON S., I miei 44 anni in Bengala – Intervista a padre
Ferdinando Sozzi, in «Mondo e missione», 1973, pp. 501-528. Dopo la morte di
Sozzi (11 gennaio 1977) mi ero proposto di scriverne la biografia, ma ho trovato solo una decina di sue lettere e quasi nessuna testimonianza su di lui nell’Archivio generale del Pime; ho telefonato ai parenti a Saronno e ai confratelli in
Bangladesh, senza ottenere risposte significative.
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padre Cesare: “Va bene, faccio il parroco ma a due condizioni.
Primo, non metterò nessuna firma su un documento importante
della parrocchia. Secondo, non mi occuperò dell’amministrazione economica della parrocchia, che è compito tuo”. Bel tipo di
missionario, no? A Cesare non resta che obbedire, come ha sempre fatto.
A Mariampur – scrive padre Cesare – con questo sant’uomo, che
ogni notte alle tre esatte si recava in chiesa per prepararsi alla Messa, io ero costretto a seguire il suo esempio e imparare, nell’amministrazione della parrocchia, che il denaro della Chiesa è denaro dei
poveri, altrimenti diventa “escremento del diavolo"! A fianco di
padre Sozzi, che parlava santal meglio degli stessi santal, fui in grado di apprendere velocemente la loro lingua, anche se per mia negligenza in maniera approssimativa. E lui, uomo sempre allegro e in
grado di far sembrare commedia anche una tragedia, imparai come
comportarmi con questi fratelli tanto differenti da me per carattere,
mentalità, cultura.
Cesare racconta un episodio significativo del modo di comportarsi di padre Sozzi. Il primo prete santal ordinato sacerdote
durante la guerra, padre Lambert Kisku, lavora bene per qualche
tempo in diocesi; poi si innamora di una ragazza santal e convive
con la stessa, obbligando il vescovo a dimetterlo dall’incarico che
aveva in una parrocchia. Ma cade sotto la legge tribale, molto
severa con chi convive ma non si è sposato secondo la loro tradizione. Mentre i capi stanno discutendo su quale punizione infliggere al povero Kisku, certamente grave, il vescovo mons. Obert
(chiamato “il vescovo baba”, cioè “vescovo nonno") manda a
Pesce una lettera di raccomandazione ai capi santal e una grossa
somma di denaro, pregandolo di usarla per liberare il confratello.
Padre Sozzi dice a Pesce: “Fai quel che vuoi, ma io conosco
molto bene Lambert e Dio lo conosce meglio di me”. Lo saluta e
se ne va alla sua capanna, isolata nella foresta, il suo romitaggio:
va a pregare e a digiunare tre giorni per Lambert. Cesare agisce
con rapidità e quattro giorni dopo viene a visitarlo in missione il
fratello di padre Kisku, il quale dice: “Tutto è finito bene, è sta48
to deciso che Lambert potrà tornare libero a casa”. Sozzi è presente e dice: “Sto dormendo in piedi, vado subito a dormire”.
Cesare capisce tutto. Le lettere e il denaro del vescovo avevano
fatto qualcosa, ma molto più avevano ottenuto un risultato le tre
notti che Sozzi aveva passato in preghiera! La storia poi ha avuto un esito felice: dopo qualche tempo, Lambert è tornato al
sacerdozio ed ha ripreso il ministero e l’insegnamento.
“Ciatro Chai”: Vogliamo nuovi studenti
Anche a padre Cesare succede quello che, almeno in passato,
era il destino dei giovani missionari: fare da “turabuchi” nella
missione. Il vescovo li spostava spesso, anche per far loro conoscere le varie situazioni del popolo e della Chiesa. Dopo circa due
anni di lavoro a Mariampur, il vescovo Obert sposta padre Cesare a Dinajpur e lo mette a capo della scuola superiore “St. Philips
Junior’s High School” e di un ostello per giovani che vengono in
città per studiare (“St. Philip’s Hostel”).
Lavoro importante quanto poco gradito, scrive Cesare. Immaginarsi se io, col mio caratteraccio, potevo restare col vecchio prevosto
della Cattedrale che a pranzo mi chiedeva: “Come puoi permettere
che i tuoi ragazzi, all’uscita della chiesa, guardino le ragazze del collegio diretto dalle suore?”. Io rispondevo: “Beh, vede, i nostri ragazzi sono normali: cioè, mi spiego, non sono omosessuali”. Grossa
meraviglia del buon vecchio. Quando lui era giovane prete queste
parole erano tabù.
Un’altra volta successe il finimondo. Un giovanotto della classe VIII
ebbe l’infelice idea di impostare una sua letterina rosa in chiesa,
proprio sotto la stuoia su cui si inginocchiava una bella ragazzetta 2.
La stupidotta non s’accorse di nulla e la lettera rimase là, incustodita, finché venne scoperta dalla suora sacrista. Apriti cielo! La casa
di Dio, meglio, la casa del prevosto era profanata da una lettera
rosa! E il criminale era un ragazzo del collegio, di cui io ero l’inde2 In chiesa non c’erano banchi come in Italia, ci si inginocchiava per terra,
con una piccola stuoia sotto le ginocchia.
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gno direttore... Vergogna! Peggio che se quella lettera l’avessi scritta io!
Padre Pesce intanto lavorava bene con i giovani, che definisce “splendidi, generalmente anche meglio dei ragazzi del mio
oratorio italiano”; e ricorda con orgoglio che “alcuni di questi
ragazzi del convitto St. Philip sono diventati membri importanti della comunità cattolica del nostro tempo”. Ricorda pure di
aver battezzato diversi dei suoi giovani studenti, dopo un lungo
catecumenato, diventati poi catechisti e insegnanti. Ma Cesare
vorrebbe innovare parecchio nei metodi dell’educazione giovanile data in diocesi. Però, in un posto di responsabilità diocesana si sente troppo sotto controllo, per un tipo libertario come
lui! Le sue proposte sono a volte sospette di “modernismo” e sa
che se esterna il suo pensiero ha poi finito di star bene e di lavorare.
Nel 1952 viene in Bengala il Nunzio apostolico in Pakistan,
che era anche arcivescovo di Karachi. È molto contento del lavoro che fanno i missionari del Pime, ammira il lavoro degli anziani e loda l’entusiasmo dei giovani, ma rimprovera loro di non avere ancora una scuola superiore a Dinajpur; e dà loro questo orientamento:
Partite immediatamente con la classe IX della scuola superiore. Tutto il resto, cioè riconoscimenti, approvazione governativa e aiuti del
governo verranno come conseguenza. Ma non aspettate di essere in
regola per iniziare, adesso è il momento favorevole.
Padre Cesare è entusiasta della proposta e manda subito in
giro nei villaggi santal un piccolo opuscolo stampato dalla missione: “Ciatro Chai” (Vogliamo nuovi studenti), in cui illustra l’inizio della scuola superiore e le condizioni richieste per accedervi.
Ma non aveva nemmeno avvisato il vescovo, l’anziano, paterno
ma prudente mons. Giuseppe Obert. Il suo vicario generale, il
ruvido padre Francesco Ghezzi, imparte al giovane missionario
una solenne ramanzina e una lunga lezione sulla virtù dell’obbedienza, anche se Pesce pensa di aver obbedito al Nunzio che ave50
va detto: “Incominciate subito, non aspettate il permesso dell’autorità”. Il Nunzio intendeva l’autorità governativa, sempre lenta
nel dare i permessi. Ma Cesare, che conosceva bene anche l’autorità ecclesiastica, interpreta il suggerimento nel senso secondo lui
più opportuno. Naturalmente, di fronte a Ghezzi si dichiara pentito, però la scuola superiore inizia e continua bene e lui ne è contentissimo. Così anche Dinajpur ha la sua scuola per la formazione delle élites cristiane.
Passano pochi mesi ed ecco nel dicembre 1951 ancora scatta
la tradizione del “turabuchi”. Veramente, questa volta è Pesce
stesso che chiede al vescovo di poter andare in una missione fra
il popolo. Gli dice che le scuole a Dinajpur sono importantissime, ma per questo ci vuole un tipo più in gamba di lui, che non
ci si trova. Il vescovo gli dice: “Fa’ il tuo fagotto e va’ a Ruhea”,
all’estremo nord-ovest del Bangladesh. Una missione che merita
qualche parola di ambientazione storica, anche perché Ruhea
(con la vicina Thakurgaon) è la prima missione in cui padre Pesce
si ferma per diversi anni.
“Avevo una casetta piccolina a Ruhea...”
Quando Cesare giunge in Bengala nel 1948, i missionari del
Pime già vi lavoravano da poco meno di un secolo. Giungono nel
1855: partendo da Calcutta dove già c’era un vescovo, salgono
verso il nord e si fermano a Krishnagar dove fondano la prima
diocesi del Bengala centrale (poi passata ai salesiani), da cui, in
un secolo e mezzo, sono nate altre cinque diocesi: Dumka e Jalpaiguri in India; Dinajpur, Khulna e Rajshahi in Bangladesh.
Nel 1870 viene costituita la prefettura apostolica del Bengala
centrale, con sede a Krishnagar, affidata ai missionari del Pime, la
cui meta principale era di “passare il Gange”. Si erano infatti convinti che a sud della “Madre di tutti i fiumi”, tra musulmani e
indù di forte fede e tradizione religiosa, era molto difficile annunziare Gesù Cristo e ottenere conversioni. Nel nord, invece, fra gli
aborigeni “animisti” abitatori delle foreste (santal, oraon, munda,
pahari, risi, ecc.) era più facile fondare la Chiesa.
51
La storia del Pime in Bengala è un’avventura affascinante e
commovente 3. Al tempo della colonizzazione inglese il Bengala
era chiamato “la tomba degli uomini bianchi”. Numerosi missionari italiani del Pime (e le suore di Maria Bambina che li avevano seguiti) morivano dopo pochi anni di missione, cioè sotto i
trent’anni di età (nel 1800 la media di vita dei missionari in Bengala era sui 35-36 anni!). Il passaggio del Gange avviene nel 1901
da parte di padre Francesco Rocca e di alcuni altri che lo seguono e fondano le prime missioni fra i santal del Bengala, fruttuose
fin dall’inizio.
Uno dei pionieri della missione oltre il Gange fu padre Pietro Costa (1885-1977) che giunse fino a Ruhea; seguito da padre
Giuseppe Macchi (1868-1947) e da padre Luigi Bellini (19121996). Ma la missione di Ruhea fu chiusa con lo scoppio della II
guerra mondiale, quando i missionari italiani del Pime più giovani vennero rinchiusi in campo di concentramento, lasciando il
vescovo di Dinajpur, mons. Giovanni Battista Anselmo, quasi
solo con alcuni sacerdoti locali. Le poche centinaia di cristiani di
Ruhea, da poco convertiti, vennero lasciati senza assistenza religiosa per più d’un decennio: le evangeliche pecorelle senza
pastore.
Il 1° gennaio 1952 arriva alla stazione ferroviaria di Ruhea
padre Cesare Pesce, incaricato di riaprire come residente la missione. Un impiegato della ferrovia lo accompagna a piedi alla casa
parrocchiale, aiutandolo a portare i suoi bagagli. Vi trova il sacerdote locale padre Job Elampacherry, che da alcuni mesi era andato a riaprire la missione, chiusa da più di dieci anni. Gli fa visitare la casetta.
Faccio subito l’inventario. Una casetta in muratura, quattro stanzette, piccole ma asciutte: una di esse funziona da cappella, un’altra da
stanza da letto, la terza da cucina e sala da pranzo e l’ultima da ufficio parrocchiale. A cinquanta metri dalla casa c’è un casottino per i
3 GHEDDO P., PIME 1850-2000, 150 anni di missione, Emi, Bologna 2000,
p. 1.229. Il capitolo Passare il Gange in Bengala (Bangladesh) (pp. 385-462)
descrive la storia del Pime in Bengala e Assam.
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servizi. Meglio di un Papa! In vita mia non ho mai avuto tanta roba
così. Non ci sono chiesa, né stalla, né granaio. Più di così si muore.
Libero di fare e di non fare. Non ci sono fabbricerie né comitati parrocchiali. Che bellezza! Monarchia assoluta. Faccio una visita al
gruppetto di famiglie cristiane al di là della strada: sono cinque
capanne poverissime, che fanno capo alla casetta più decente del
catechista. In tutto 28 persone, compresi i lattanti.
Poi si siedono per il pranzo: in suo onore padre Job ha fatto
preparare un pollo arrosto che Cesare mangia con gusto e appetito. È felicissimo di essere in una missione tutta sua e ne ringrazia il Signore nella cappellina. Anche padre Job è felice che lui sia
arrivato, perchè così può tornare a Dinajpur, dove insegna alla
scuola superiore di San Filippo.
Dopo pranzo, Job presenta a Cesare il registro col resoconto
finanziario aggiornato al 31 dicembre 1951: nessun debito e nessun credito. “Il vescovo mi dà 30 rupie al mese – dice. – Ecco le
27,5 di gennaio: quel che manca l’ho usato per comperare il pollo che abbiamo mangiato”. Poi gli presenta il cuoco, John Das, la
cui moglie li invita a bere il tè nella sua capanna, lì vicino. Padre
Job parte e finalmente Cesare si ritrova solo in casa mentre scende il sole. È pieno di gioia e commenta:
Mi viene in mente una canzonetta che andava di moda a quei tempi: “Avevo una casetta piccolina in Canadà”... pardon, a Ruhea, nell’Est Pakistan! Bellissimo e commovente canticchiare mentre scende la sera nella pianura bengalese, con la meravigliosa visione dei
monti dell’Himalaia baciati dal sole.
Il mattino seguente, Cesare si alza che è ancora notte e va a
pregare nella quarta stanza, la cappella: è felice di essere finalmente in missione, da solo, in un posto quasi nuovo che sembra
fatto apposta per lui. Celebrata la Messa, è l’alba e il cuoco lo
invita a salire sulla terrazza della casa: incantevole visione! Si vede
“la seconda montagna della terra” dopo l’Everest, il Kanchenjunga, sfavillante di luce nelle sue nevi eterne, mentre la pianura bengalese è ancora nell’ombra. Uno spettacolo che lascia Cesare
“senza respiro”. E nota che la neve, da lontano, sembra rosea,
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“un buon auspicio per la missione di Ruhea!” 4. Ecco l’ottimista
che non si scoraggia mai ed è sempre contento...
La prima domenica vengono alla Messa 17 cristiani, ma il
catechista Mahonto, “un bell’uomo, istruito, intelligente, ottimista”, gli presenta la situazione della missione; i battezzati sono circa 500, sparsi in una trentina di villaggi (vicino alla residenza del
padre solo poche famiglie cattoliche) su un territorio “vasto come
le province di Alessandria e di Cuneo messe assieme”. Dovrebbero essere di più se alcuni gruppi, durante i lunghi anni di isolamento e della guerra, non si fossero allontanati. Sono rimasti gli
“hari”, bengalesi di una disprezzata casta indù, fattisi cristiani
una ventina d’anni prima. ll piano del catechista è semplice: entro
tre mesi visitare col missionario tutta la missione, fermandosi una
giornata o due nei villaggi cattolici e facendo puntate in quelli che
si sono allontanati dalla Chiesa.
Mi descrive l’importanza di quella visita: da dieci anni e più, sono
il primo prete che va a trovare i cristiani nei loro villaggi. La mia
responsabilità è grande. Quella sera, andando a letto dopo le preghiere, mi viene in mente il mio vecchio e santo parroco in Brianza,
il quale mi raccontava che la prima notte insonne della sua vita era
coincisa con la data della sua designazione a parroco: “Ero così preoccupato delle mie responsabilità, che non ho chiuso occhio”. Ma
le teste e le sensibilità sono diverse. Io ho dormito bene tutta la notte.
L’incontro con “i pazzi di Dio”
Pesce inizia la sua missione a Ruhea con entusiasmo e un
grande spirito di sacrificio. Continuamente in giro, un villaggio
dopo l’altro sempre a piedi, mangiando e dormendo dove e come
capita. Per fortuna ha con sé il catechista Mahonto, formidabile.
Conosce tutti, se la cava anche nei dialetti locali, è ben visto e pie4 In realtà il Kanchenjunga è la terza montagna della terra (8.586 metri),
dopo l’Everest (8.846 m.) e il K2 (8.616 m.), tutti nella catena dell’Himalaia.
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no di buon senso. Assieme si rendono conto che i vecchi cristiani, rivisitati tanti anni dopo, sono ancora pieni di fervore e disposti a riprendere il cammino cristiano. Padre Cesare si commuove
nel constatare tanta fedeltà! In alcuni villaggi “hari” si dichiarano disposti a costruire una cappella provvisoria in attesa della
cappella di mattoni. Durante la visita dei villaggi, cristiani e non
cristiani, tribali o di basse caste chiedono a Pesce di istituire a
Ruhea un convitto come quello di Dinajpur, per mandarvi i loro
figli. A quel tempo (anni cinquanta del secolo scorso!), i più
poveri non potevano attingere acqua al pozzo del villaggio, non
potevano andare al mercato e meno che mai nelle scuole pubbliche. Padre Cesare tocca con mano che “le famiglie senza istruzione sono condannate alla morte sociale, peggiore anche di quella
fisica”.
Che fare? A Ruhea incomincia a costruire un ostello per ospitare i primi 30-40 bambini. E capisce che bisogna presto edificare
una vera chiesa: la stanzetta destinata a cappella non basta più e diventa anche ridicola. Il 19 agosto 1953 scrive alla Procura del Pime
di Milano: “Sto fabbricando la cappella e sono senza soldi: se non
mi aiuta la Provvidenza è un pasticcio!”. I soldi a poco a poco arrivano, specialmente da Tortona, Novi Ligure e Voghera; il 26 gennaio 1954 scrive ancora a Milano di mandargli un “Aquilotto”, piccola moto italiana in uso a quei tempi, già sperimentata dai missionari del Bengala: “I soldi, aggiunge, vedrò di farli arrivare in un
modo o nell’altro”. Altra lettera il 1° luglio 1955 a padre Sante Nicchiarelli, mitico procuratore delle missioni del Pime a Milano, per
ringraziarlo: “L’Aquilotto è arrivato bene e intatto”. Poi gli chiede
notizia di una “cassetta di medicinali” che il dottor Marcello Candia, a cui l’aveva chiesta, ha mandato per lui attraverso l’ALAM
(Associazione Laici in Aiuto alle Missioni) 5. E scrive di mandargliela subito perché, aggiunge:
5 Si veda: GHEDDO P., Marcello dei Lebbrosi, De Agostini 1995 (V° ediz.),
p. 328.
55
Da un mese nel Bengala pakistano non si trova più un accidente in
fatto di medicine, ma al “black market” (mercato nero) si trova tutto a prezzi impossibili. Spero arrivi presto l’aiuto italiano e la ringrazio in anticipo anche a nome del fratello Massimo, incaricato del
dispensario medico della missione…. Il programma della missione
di cento battesimi l’anno è mantenuto e superato… Per il nuovo
anno missionario incominciato oggi ho una buona massa di catecumeni tra gli hari indù e i santal animisti.
Ruhea è vicinissima al confine con l’India, in un angolo della
pianura bengalese nel Pakistan orientale, a grande maggioranza
islamico; almeno negli anni cinquanta, buona parte della popolazione di Ruhea e dintorni era di religione indù. Cesare, curioso
per natura, voleva entrare in contatto con i fedeli all’induismo,
non solo con tribali e basse caste come all’inizio della missione.
Quando sente che nel villaggio di Barni Mela, proprio ai confini
con l’India, c’è una grande fiera e festa indù, ci va a piedi col suo
catechista Mahonto. Il passaggio della frontiera era a quel tempo
molto facile e la gente veniva a Barni Mela anche da villaggi della vicina India. Una folla notevole di indù, bramini, thakur (santoni), fachiri, incantatori di serpenti, piccoli commercianti e fedeli, tutti seminudi per prendere il bagno sacro nel fiume vicino. In
piccolo, un’immagine di Benares sul Gange (oggi Varanasi), città
santa dell’Induismo.
Alla sera, racconta Cesare, una decina di “thakur” vennero alla casa
“hari” cristiana dove ero ospitato, contenti di conoscere un “thakur” cristiano. Si presentarono come “pagol dol” (letteralmente
“pazzi di Dio"). Dicevano che facevano divertire il popolo in nome
di Dio e, in suo nome, andavano qua e là senza fissa dimora e senza destinazione precisa. In ogni posto trovavano qualcuno che, in
una situazione difficile, aveva bisogno di un buon consiglio. Talvolta mi dissero, entravano nella casa di qualcuno che era distrutto dal
dolore e dalla tristezze c condividevano con lui. E quando in un villaggio trovavano gioia e felicità erano contenti di aggiungere, con la
loro presenza, altra gioia e felicità. Talvolta non erano accettati e
altre volte erano anche cacciati via. Ma non avevano nessun sentimento di rimpianto o di odio, altrimenti non sarebbero stati i “pagol
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dol”. Una lezione di giusta filosofia umana e di teologia francescana!
Naturalmente non mi inserii nel loro registro, ma il mio cuore era
con loro. Mi unii al loro gruppo come un thakur più basso, o meglio
come un estraneo che condivideva quel modo di vivere per onorare Dio. Mesi dopo, quando nei nostri viaggi a volte bagnati di sudore come pulcini, facevamo una sosta, Mahonto mi provocava chiamandomi ancora “pagol Dol” o “pagol thakur”.
Nel 1954 un colpo di fortuna, una benedizione di Dio. Viene
in missione padre Luigi Verpelli di Monza, sacerdote diocesano
di Milano dal 1940, entrato nel Pime e destinato al Bengala 6. Il
vescovo mons. Obert lo manda a Ruhea con padre Pesce “per
imparare l’inglese e il bengalese”. Cesare commenta:
Imparare il bengalese parlato a Ruhea era come mandare uno straniero che avesse voluto imparare l’italiano in un paesino sperduto
della Sicilia, dove non si parlava altro che il dialetto siciliano!
Verpelli è un dono di Dio. Pesce lo affida al catechista
Mahonto, chiamato “il maestro”, perché gli insegni l’inglese e il
bengalese classico. Oltre che imparare le lingue, Verpelli impara
anche ad amare quella povera gente ed a lavorare per il loro progresso spirituale e materiale. Con due preti, la missione si estende: riescono a visitare anche villaggi di “hari” e di “risi” mai visitati prima, ed avere un primo gruppetto di catecumeni santal.
6 Il PIME è nato a Saronno (MI) nel 1850 come “Seminario lombardo per
le missioni estere”, per inviare in missione sacerdoti e laici diocesani senza farne dei religiosi (con i voti); e ha sempre accolto numerosi sacerdoti e chierici
diocesani soprattutto dalla Lombardia e dal Veneto. Fino al 1957 erano in media
3-4 l’anno, poi, dopo l’Enciclica Fidei Donum, questo flusso è diminuito senza
cessare mai del tutto. Anzi, negli ultimi anni, specie dopo le celebrazioni del
150° anniversario di fondazione dell’Istituto, è ripreso con una certa intensità.
Un fatto nuovo degli ultimi tempi sono i sacerdoti diocesani italiani che si uniscono al Pime come “associati” (per qualche anno, con impegno rinnovabile) e
lavorando in missione godendo di tutta l’assistenza dei membri dell’Istituto.
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Purtroppo, dopo circa un anno di permanenza a Ruhea, anche
Verpelli segue la regola generale del “missionario tappabuchi” e
viene mandato a Bonpara per costruire una nuova chiesa, “fatta
non soltanto di cemento e di mattoni, ma anche di spirito e di
fede... E fu un successo!” aggiunge padre Cesare.
Padre Pesce venerato come uno spirito
Ad aiutare padre Pesce viene p. Luigi Carrea, suo condiocesano di Tortona, e nell’estate 1955 egli accoglie fratel Massimo
Teruzzi di cui diremo più avanti in questo capitolo: era lebbroso
(in fase non infettiva però) e si dedica alla cura dei malati. In una
lettera del 21 dicembre 1955 al superiore generale padre Luigi
Risso, Pesce scrive che dall’inizio di novembre ha ottenuto come
aiuto provvisorio tre suore e ha fatto con loro un giro nei villaggi (“moffusil”), durante il quale ha amministrato 70 battesimi, tra
cui molti di adulti.
Il più grave pensiero che mi tormenta è l’educazione della donna:
io ho una maggioranza di cristiani ex-indù e solo le suore possono
educare le loro donne, per me difficilmente avvicinabili. Mi occorre un conventino per le suore, ma mi rimane sempre la mancanza di
mezzi. Noi, i tre Re Magi di Ruhea, tiriamo avanti bene. Il fratel
Massimo fa miracoli con le sue medicine, sempre occupato nella sua
capanna, dispensario e farmacia. Il nuovo padre aiutante, Luigi Carrea, parla il bengalese e mi aiuta davvero. Il numero dei cristiani
aumenta, ma incomincio a sentire la mancanza e l’impreparazione
dei catechisti. Per fortuna ho un sant’uomo come capo dei catechisti e braccio destro della missione.
In una di queste faticose visite ai villaggi, dopo nove giorni di
vita in foresta dormendo, tutto vestito, su una stuoia di bambù
poggiata sulla nuda terra, con spifferi d’aria che soffiano dalle
pareti delle capanne, Cesare si trova sulla via del ritorno a Ruhea.
Pedala e pedala sognando il suo letto, la possibilità di prendere
una doccia e di fare una buona cena, di andare a dormire fra due
lenzuola e senza i pantaloni, in una stanza ben chiusa, quando...
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plafff, uno stecchino di bambù si va a ficcare fra il copertone e il
cerchione della ruota posteriore e, manco a dirlo, lacera la camera d’aria. Cesare si ferma e il fedele Mahonto, che viene dopo di
lui, fa altrettanto. Che fare? È quasi buio, mancano quindici chilometri a Ruhea, impossibile andare avanti.
Mahonto sa che poco distante c’è un villaggio hari: “Sono
poveri, ma buoni e certamente per questa notte ci daranno ospitalità”. Detto fatto, va verso quel villaggio lasciando Pesce solo
con la sua bici rotta. Cesare si siede e si appoggia a un grande
albero, chiude gli occhi e sogna. Quella luna piena lassù in cielo
gli fa venire la malinconia: vede la sorella a Novi Ligure che sta
preparando il minestrone per la cena e si chiede se da Novi vedono la stessa luna e le stesse stelle che sta vedendo lui. Un urlo
improvviso lo scuote. Apre gli occhi e vede gente che fugge.
Ma da dove è sbucata tutta quella gente? Non avevo visto nessuno
al mio arrivo. Un pensiero terribile mi attraversa la mente: la tigre!
Scatto in piedi e mi metto a correre anch’io, senza nemmeno sapere dove. Faccio quattro salti verso il gruppo che fugge e la mia meraviglia rasenta l’incredibile. Tre donne si fermano, si prostrano a terra davanti a me, come i preti ai piedi dell’altare prima di iniziare la
liturgia del Venerdì santo. Io rimango lì impalato come una statua
davanti a loro...
Cesare rivolge alle donne alcune domande, ma quelle rimangono immobili e prostrate a terra davanti a lui. Che sia una sua
allucinazione causata dalla fame? Torna indietro e va di nuovo a
sedersi sotto l’albero. Poco dopo arriva Mahonto con alcuni
uomini del villaggio, che li ospita per la notte. Finalmente il
mistero è svelato. La tigre non c’entrava per niente!
Io mi ero seduto appoggiandomi ad un albero che, manco a dirlo,
era un albero sacro. Alle sue radici, dove avevo messo la bicicletta,
c’era l’altarino per i sacrifici e le offerte. Il tenue luccichio del manubrio cromato della bicicletta dava la vaga idea di due occhi lucenti
nella notte. Volle il caso che proprio quella sera un gruppetto di
donne venissero a portare offerte ed a pregare lo spirito residente
su quell’albero maestoso. I due occhi che le guardavano nell’ombra
59
non erano altro che il manubrio della bici di un poveraccio come
loro, che sognava il minestrone alla genovese e il materasso di gommapiuma!
Il racconto dell’apparizione dello spirito a tre donne fece presto il
giro dei dintorni, reso più colorito e infiorato da dettagli strabilianti. Il mattino seguente, uscendo dalla capanna in cui avevo dormito
su un mucchio di paglia, incontro varie persone già al corrente dell’avvenuto miracolo, che morivano dalla voglia di raccontarmi, per
filo e per segno, la storia. Tentai invano di chiarire la faccenda, dando la versione realistica del fatto. Come parlare al vento! Lo spirito
era realmente apparso, in carne ed ossa, ed aveva gradito l’offerta
delle tre donne fortunate. Non era ammessa alcuna discussione.
Massimo Teruzzi, il missionario lebbroso
Il missionario che ha segnato più profondamente con la sua
presenza la storia della missione di Ruhea è senza dubbio fratel
Massimo Teruzzi: un semplice muratore e poi infermiere, morto
lebbroso il 19 luglio 1963 a 63 anni, 34 dei quali passati in missione: un autentico eroe della carità. Ecco come lo ricorda, con
parole commosse, padre Cesare Pesce 7:
A questa massa di poveracci, di rifiuti della società che continuano
ad affluire al nostro dispensario di Ruhea, debbo annunziare: “Nulla da fare, il dottor Massimo se ne è andato non a Dinajpur a comperare le medicine per voi, come aveva fatto tante volte nel passato; se n’è andato per sempre, non tornerà più, mai più”. Che tristezza! Non lo senti anche tu, amico lettore? I poveri d’ogni razza,
d’ogni lingua e d’ogni fede piangono sconsolatamente il loro benefattore. E sono tanti, tanti, quanti neppure noi riuscivamo ad immaginare!
È sempre stato così, dal giorno in cui Gesù donò la sua vita sulla
croce per gli altri. “L’umile sarà esaltato, la sua memoria passerà in
benedizione”. Fratel Massimo Teruzzi, con la sua umiltà, col suo
7 Riporto quasi integralmente l’articolo pubblicato da p. Pesce in occasione della sua morte, in «Le Missioni Cattoliche» 1963, pp. 392-393.
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disprezzo di tutto ciò che sa di egoismo, con la sua dedizione alla
carità, ha scritto una pagina autenticamente gloriosa nella storia dei
missionari del Pime.
Era nato a Lesmo (Milano), il 14 ottobre 1902, da Carlo e Maria
Pozzi. Era forse suo desiderio fare qualcosa di più delle elementari,
ma in casa per tirare avanti bisognava lavorare. E lui, dopo il servizio militare, s’impiegò come muratore. Al mattino una visita in chiesa, spesso la Comunione, e via col piombino, la cazzuola, un panino e il giornale. Lavorava sodo, ma pensava che era meglio costruire la casa al Signore che ai ricchi. Piantò tutti in asso e dopo aver
ricevuto l’abito di Fratello del Pime a Milano, nel 1929 s’imbarcò
con un altro missionario per il Bengala, allora ritenuto “la tomba
degli europei”.
Giunto in missione, dapprima credette che il suo antico mestiere
fosse il più utile alla missione e si mise di buona lena a costruire
chiesette in serie, tetto di lamiera su muri di fango. Ben presto però
s’accorse della miseria enorme imperante nel paese. Troppi gli
ammalati inesorabilmente condannati a morte per la mancanza di
medicine o per l’impossibilità di comperarle. Abbandonò definitivamente gli strumenti del carpentiere e si mise a studiare sui libri
popolari di medicina e a praticare in dispensari improvvisati con
bambù e paglia. Si sentiva male alla vista di tanta povera gente e non
si dava riposo finché non avesse visitato tutti. Non c’era orario per
lui: gli ammalati poveri erano i suoi padroni e potevano presentarsi
anche di notte.
Poi fecero capolino timidamente i lebbrosi e nel suo singolare cuore, un misto di S. Camillo e San Francesco, immediatamente presero il posto principale, divennero nel giro di pochi mesi i suoi beniamini. Non so se ebbe il tempo di leggere la biografia di P. Damiano, ma è un fatto che lo imitò fino al sacrificio di se stesso per i lebbrosi.
Un giorno era stanco, forse. Nel lebbrosario di Dhanjuri (Dinajpur)
non c’era ancora l’attrezzatura moderna di oggi. Come al solito,
puliva col bisturi le piaghe dei lebbrosi all’ingresso della capanna.
Un momento di stanchezza, un attimo di disattenzione e il bisturi
impregnato di pus e di sangue del malato, colpì il braccio del chirurgo. Più nulla da fare, il bacillo di Hansen, come un nemico vendicatore non perdonò, invase immediatamente il suo sangue. È facile essere poeti a questo punto. Per amore di Gesù, per amore dei
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fratelli più disprezzati del mondo, dei relitti della società, l’ostia
offerta sull’altare del sacrificio... Belle parole in verità, ma la realtà
è brutta, tremendamente brutta.
Un uomo nel pieno vigore delle sue forze, consapevole d’essere lebbroso, ha poca voglia di fare il poeta e abbandonarsi a sogni di gloria. È qui che rifulge maggiormente la grandezza dell’uomo di Dio.
Massimo non si scompose. Semplice ed umile, come se si trattasse
di una bazzecola, di un avvenimento che doveva ineluttabilmente
accadere, preparò la sua valigetta e andò a picchiare alla porta del
lebbrosario di Calcutta. Lui, direttore e medico di un lebbrosario,
diventato un lebbroso, un numero in un lebbrosario.
Il fisico era forte allora e, seguendo con scrupolo le cure moderne,
in pochi anni la lebbra era ridotta al negativo. Disse grazie al Signore e alle suore, rifece la sua valigia e ritornò dai suoi ammalati con
una esperienza medica di più, fatta sul suo corpo. L’anima s’era affinata nella comprensione della sofferenza e lui, il malato, il lebbroso
di Cristo si donò senza riserve al servizio del popolo sofferente.
Davvero ormai lo si poteva chiamare un eroe della carità.
Dopo 24 anni ininterrotti di lavoro ebbe una brevissima parentesi
di vacanza in Italia. Qualcuno, vedendo quella lunga barba bianca,
quegli occhi stanchi, quelle spalle ormai curve, lo consigliava di
restare. “No – rispose fermo in un modo che non ammetteva replica – il mio posto è là, tra i miei poveri”. E ripartì per una missione
più povera della precedente, Ruhea, all’estremo nord del Pakistan
Orientale. Dapprima in una capanna di paglia, poi in una casetta
angusta e soffocante, seppe intessere la sua corona di gloria più bella, raggiungendo l’apogeo dell’amore cristiano. E come seppe amare fu amato. Oh, come fu amato! Io penso, e non temo di sbagliare, che l’uomo più amato di Ruhea e dintorni fu proprio il “Brother” (fratello).
La sua fama di bontà e abilità medica era giunta lontano. Da Tetulia, da Dinajpur, venivano i malati poveri, i lebbrosi, i disperati della scienza medica: il “Brother” era diventato l’ultima loro speranza.
E lui, burbero benefico, a tentare e ritentare con successo, con
insuccesso. Con quegli occhiali più vecchi di lui sul naso, a rincuorare con barzellette nel dialetto del paese che aveva appreso alla
perfezione. Una figura indimenticabile.
E così, come è vissuto se ne è andato. Non ne poteva più, ormai trascinava le gambe stanche, sembrava un vecchio di cent’anni, ma al
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confratello che amabilmente lo redarguiva e lo invitava al riposo,
rispondeva sempre: “Riposerò dopo...”. L’ultimo giorno di lavoro
tra gli ammalati del suo dispensario “Don Orione” di Ruhea fu il
giovedì, 11 luglio 1963. Respirava troppo a fatica. “Basta – disse. –
Stavolta è proprio finita”. Sabato mattino fece chiamare i suoi poveri, vuotò le tasche e l’armadio di quei pochi spiccioli che rimanevano e in silenzio, senza importunare alcuno, andò a Dinajpur
all’ospedale cattolico. Pochi giorni di degenza, sempre allegro e sorridente fino alla notte del giovedì 18 luglio. “Non ce la faccio più”
disse, e col nome di Maria sulle labbra spirò all’alba del venerdì,
dopo aver ricevuto i sacramenti.
Ed ora hanno ragione, oh se hanno ragione, gli sciancati, i lebbrosi, i poveri di ogni genere, le vedove, di piangere mentre tornano più
volte alla missione e si aggirano in ogni angolo del dispensario quasi a cercarlo, non sapendo capacitarsi di tanta perdita. Il pianto è un
balsamo, ma il balsamo non riempie il vuoto del cuore. Nessuno al
mondo lo potrà mai sostituire. La morte dell’uomo della carità
lascia lo sconforto più sincero. Fratel Massimo ha lasciato l’esempio
di una vita interamente spesa nell’amore del prossimo nel nome di
Gesù. Il bengalese, ignaro del senso di pura carità e gratuità, ha avuto una scossa da questo esempio: forse non diventerà cristiano, ma
sarà più buono perché ha costatato che soltanto il Cristianesimo
può produrre uomini così.
Padre Pesce non lo dice, ma i missionari del Bangladesh ricordano (almeno i più anziani), che proprio lui ha compiuto forse il
gesto più bello ed eroico della sua vita missionaria, accogliendo
fratel Massimo a Ruhea nel 1956, quando tutti sapevano che era
lebbroso; correndo così coscientemente il pericolo di prendere lui
stesso, inavvertitamente, la terribile malattia, in anni in cui la lebbra era quasi incurabile. E faceva paura a tutti. Suor Franca Nava,
che era giunta in Bangladesh nel 1953 e lavorava nel lebbrosario
di Dhanjuri come infermiera, ricorda:
Fratel Massimo, quando è uscito dal lebbrosario di Dhanjuri è
andato a Ruhea. Padre Pesce l’ha accolto mentre altri lo rifiutavano, per non creare problemi alla loro missione: avere in casa un lebbroso, a quei tempi, era un fatto terrificante per tutti. Quando sono
arrivata io a Dhanjuri, tutti dicevano: Massimo s’è infettato perché
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lo voleva. Nel senso che viveva del tutto con i lebbrosi, mangiava
con loro, dormiva con loro, fumava con loro. Per me, che in quegli
anni ero nel lebbrosario, uno dei gesti più eroici che ha fatto padre
Pesce è stato proprio di accogliere Massimo come un fratello e di
vivere con lui senza problemi.
La figura di fratel Massimo merita ancora di essere illuminata con alcuni passaggi di quanto ha scritto padre Mauro Mezzadonna nel necrologio pubblicato su «Missionari del Pime» (settembre 1963, p. 2).
Fratel Massimo era un autodidatta, ma pur non avendo alcun diploma di medico o infermiere, tutti lo chiamavano “dottore”, tanto che
molti medici andavano da lui a chiedere pareri e consigli… Massimo non ha mai fatto un giorno di riposo, dedicando anche la domenica alla cura dei lebbrosi. È stato un apostolo degli ammalati e
anche dei poveri. Adorava i poveri, li aveva sempre con sé. Gente
di ogni razza, buoni e cattivi, dopo la sua morte continuano a venire a Ruhea da tutte le parti perché hanno sentito che il vecchio nonno è morto… Sembra a loro impossibile che il dottore tanto buono
– che spesso, oltre le medicine, dava loro anche qualche spicciolo
per nutrirsi – li abbia lasciati per sempre.
Soccorreva i poveri col poco che aveva: di molto grande aveva solo
il cuore. Quando nel 1962 fu pubblicato un articolo che parlava di
lui, giunsero delle offerte che gli furono trasmesse. Ebbene, quasi
non si riusciva a convincerlo che ci fossero anche dei buoni che pensavano a lui! Da notare che quando era andato in missione, non aveva mai avuto un benefattore proprio. Le uniche offerte erano quelle dei suoi fratelli. Eppure trovava modo di dare egualmente: dando del suo, di ciò che era a lui destinato dai superiori. Quando nel
1954 celebrò il suo 25° di missione, p. Luigi Verpelli che allora era
con lui dovette comperargli un paio di scarpe e di calze, perché ne
era privo; e quando era a Ruhea, il padre Alvigini lo convinse ad
accettare una sua veste bianca, dato che quella che aveva era ormai
ridotta a condizioni pietose. Massimo non aveva neppure un letto,
ma dormiva su un intreccio di nodose canne di bambù; per coperte e lenzuola usava addirittura dei sacchi vecchi. Il padre Alvigini li
sostituì con qualcosa di più decente; identica operazione per la zanzariera – residuo dell’esercito americano nell’ultima guerra – che
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egli si sforzava di tappare con dei grandi cerotti. Per scrivania aveva una cassa da imballaggio.
A dargli una maglietta o un uovo in più da mangiare, nel 99% dei
casi trovava subito il modo di disfarsene. A riprenderlo di questo
zelo eccessivo, diceva che ormai era troppo vecchio per cambiare e
il risultato era che faceva la carità il più nascostamente possibile.
Qualche volta anche fratel Massimo, tra malanni e strettezze, era di
humour nero, ma appena si presentava la prospettiva di ricevere
dall’Italia qualche cassetta di medicinali, si metteva a cantare ed a
scherzare come un bambino. Le medicine erano la sua passione, ma
non sono valse a salvarlo da quella che egli diceva fosse un semplice raffreddore e che invece si rivelò una polmonite; e neppure gli
giovò il trasporto all’ospedale di Dinajpur, ove andò allegro e scherzando con tutti. Ma pochi giorni dopo, il 18 luglio scorso, senza
troppo soffrire e senza dar fastidio a nessuno, se ne è andato al Cielo, a ritrovare tanti ex-poveri ed ex-ammalati diventati ricchi per
opera sua.
Mario Alvigini, il missionario delle pompe
Com’era la vita di padre Cesare nella missione di Ruhea?
Sempre in movimento per visitare i villaggi, anche quelli più lontani e difficili da raggiungere. Nella tradizione pastorale e missionaria del Pime in Bengala, il “moffusil” (visita ai villaggi) è sempre stato il sistema migliore di annunziare Cristo e aiutare i poveri, anche dove il Vangelo di Cristo non è conosciuto. Ma che fatiche!
In Italia è difficile immaginare cosa vuol dire partire da casa e
star via una settimana o 10-15 giorni e vivere più o meno come le
persone del luogo in Bengala. Nella pianura bengalese quasi senza strade (a quel tempo), fra risaie, foreste, fiumi maestosi e villaggetti, un popolo cordiale ma all’estremo limite della miseria: cibo
scarso e molto povero, dormire per terra su una stuoia di bambù,
in capanne soffocanti e piene di animaletti, lontani da ogni comodità della vita moderna, col sole che batte a picco, difficoltà di trovare un bicchiere d’acqua pulita, ecc. E poi, piogge torrenziali,
inondazioni, piccole guerre tra villaggi ed etnie diverse, malattie
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epidemiche senza strutture sanitarie adeguate per combatterle
(malaria, colera, lebbra, febbre gialla, dissenteria, ecc.).
Padre Pesce è giovane ed entusiasta della sua missione. Non
si risparmia: Dio gli dà la forza e la gioia di praticare questa missione itinerante col suo Mahonto, catechista e maestro di vita
bengalese.
Talvolta eravamo distrutti dal caldo e dalla fatica, ma era sempre un
sollievo e una profonda gioia considerare che in un piccolo angolo
di questo mondo per la prima volta arrivava la verità di Cristo e un
nuovo battezzato si sarebbe svegliato nel suo nome. In ogni villaggio cristiano vi era una persona che aveva la responsabilità di curare il decoro della cappella e guidare il servizio domenicale. Io ciclostilavo parecchie copie di semplici omelie che venivano lette nei villaggi. Ero ben consapevole che non tutte queste persone riuscivano a capire il senso di quanto era scritto, e meno che mai capire
quanto riguardava la fede; alcune avevano anche difficoltà a leggere. Ma mi andavo ripetendo che almeno l’uno per cento sarebbe
rimasto. Molto del mio tempo e di quello di Mahonto era speso per
insegnare ai bambini e agli adulti analfabeti (in maggioranza donne) le preghiere e il catechismo di base. Mandammo nei villaggi
una schiera di catechisti a svolgere questo lavoro, indispensabile
ma troppo lungo.
Nel suo scritto, Pesce ringrazia gli amici dall’Italia che lo aiutano con le loro preghiere e offerte; li definisce suoi “angeli” e
dice: “Senza di loro non potrei fare nulla”. La crescita della missione di Ruhea è stata graduale ma costante. I frutti spirituali non
tardano a venire. Nel 1955 le conversioni sono in aumento, i villaggi con cappelle di paglia e fango una cinquantina. Nel 1956
Pesce decide di costruire una chiesa decorosa a Ruhea, in mattoni e cemento, materiale non facile da reperire. Il missionario
novese si improvvisa artigiano e costruttore: incomincia a fare
una fornace per cuocere i mattoni e le tegole, poi tira su i muri
ed infine provvede all’intonaco. Nel 1957 benedice e inaugura
l’ospedaletto intitolato al suo caro Don Orione.
La vita missionaria di padre Cesare ha questa caratteristica:
tutte le imprese che progetta gli sembrano all’inizio quasi impos66
sibili; poi, a poco a poco, con molte fatiche, vede che si stanno
realizzando, naturalmente con l’aiuto di Dio e dei molti amici che
ha lasciato in Italia. La costruzione della bella chiesa di Ruhea, ad
esempio, è continuata dal padre Mario Alvigini, che viene a
Ruhea nel 1958 e terminata nel 1960. Alvigini viene anche lui dalla diocesi di Tortona, anzi è nato proprio a Tortona nel 1930
(morirà a Lecco, dopo un’operazione al cuore, il 15 novembre
1991), Anche padre Mario è un grosso personaggio che andrebbe riscoperto con uno studio delle sue lettere e delle testimonianze su di lui: ha lasciato un forte e positivo ricordo sia nel Pime
che nella diocesi di Dinajpur. Lo incontreremo ancora più avanti. Così lo ricorda padre Pesce 8:
Con uno zelante catechista da poco convertito, Dhorjio Das, padre
Mario andava in giro in bicicletta nei villaggi della zona, alla ricerca dei parenti dei cristiani che ancora non avevano seguito il loro
esempio e non erano ancora entrati nella Chiesa di Cristo. Fin dalla sua giovinezza, Mario era sempre stato attratto dai malati e nelle
sue visite ai villaggi era pronto non soltanto ad un lavoro spirituale,
ma anche a visitare e curare i malati. Io ero entusiasta nel vedere che
la missione di Ruhea, iniziata dai pionieri, Macchi, Costa, Bibini,
Bellini... ora stava continuando bene al di là di ogni speranza…
Erano gli anni della mietitura di battesimi in quel di Ruhea: due-trecento all’anno. Me lo rivedo vivo, reale... Come il buon contadino
che ritorna a casa curvo sotto il peso dei covoni di riso, con la fronte madida di sudore splendente di gioia agli ultimi raggi del sole del
tramonto, così padre Mario Alvigini al ritorno, stanco, dopo una
lunga settimana passata nei villaggi degli Hari. Prima di sedersi a
cena eccolo riempire di nomi un paginone del registro dei battesimi. Una partita a scacchi e giù, una lunga dormitona, finalmente su
un letto, dopo tante notti passate sulla nuda terra o, se la fortuna gli
aveva sorriso, su un avaro mucchietto di paglia.
Un giorno, il catechista che lo accompagnava nelle sue escursioni
missionarie viene a lamentarsi con me: “Io non ce la faccio più con
lui. L’ultima volta a Tulsipara mi ha fatto digiunare con lui un’intera giornata: solo acqua e anche quella cattiva. Mi assicurava che col
8
Citato da varie fonti fra le quale il volume Bangladesh Jindabad!.
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nostro digiuno di penitenza avremmo ottenuta la grazia del ritorno
di una famiglia che aveva apostatato dalla fede”.
“Magnifico! E dopo il vostro digiuno sono ritornati?”.
“Sì, dopo due giorni li abbiamo incontrati nella cappella di Kistopur”.
Capito che razza d’un santo? Troppo all’antica? Digiuni, preghiere,
prediche e giaculatorie soltanto? Sbagli di grosso se la pensi così.
Nei villaggi lui osservava le donne a fare la spola, cariche di grosse
anfore, tra la casa e il “pukur” (laghetto) vicino, nel quale vedeva
anche bufali e buoi godersi beati il fresco dell’acqua, mentre i pastorelli spensierati giocavano in gare di nuoto. Poi, ahimè, dolori di
pancia tremendi, diarrea e vomito, amebe e vermi a non finire.
“Qui ci vuole una pompa per questa gente altro che pillole. Il
“pukur” lasciamolo ai buoi!”, grida il Mario. Detto, fatto. Scrive in
Italia ai suoi benefattori, va in città, compra le canne ed eccoti l’acqua pura, ridente, salubre sgorgare dal sottosuolo! Decine di pompe in decine di villaggi. Insieme con la grazia soprannaturale dell’acqua battesimale, la grazia naturalissima dell’acqua potabile. Evviva
il Mario, il missionario delle pompe!
E così la parrocchia, innaffiata da quelle acque limpide, s’ingrandisce sempre di più. In una decina d’anni la popolazione della parrocchia s’era quintuplicata. Una quarantina di villaggi cristiani da visitare mentre altri non cristiani chiedevano la nostra visita. Pressante
quindi la necessità di aprire un nuovo centro per servire con maggior facilità ed efficienza tutta la gente della zona.
Il lavoro tra gli Hari non è facile. Sono indù di bassa casta, poveri
in canna. Harijan, come li chiamava la buonanima di Gandhi, cioè
“figli di Dio”, perché solo Dio si cura di loro. Di costumi piuttosto
facili. Seguendo l’antico costume indù, fanno matrimoni precoci,
causa poi di eventuali interminabili liti tra i vari suoceri e capivillaggio. Amano intensamente i loro bambini. Il bambino, per gli hari, è
il re della famiglia: a lui tutto è concesso. Capita così che al ragazzino coccolato, viziato dai genitori, non piace andare a scuola: con
il loro stupido consenso rimarrà analfabeta, non si potrà mai rendere conto della sua dignità umana, rimarrà un harijan per tutta la vita.
P. Mario ha capito la situazione critica: senza educazione si farà un
buco nell’acqua, forza dunque all’educazione quell’esercito di
monelli! Ne arruola un centinaio e te li spedisce al nostro ostello del
centro Diocesano di Dinajpur. Non possono pagare la retta? Ci pen-
68
sa lui. Nel termine di una quindicina di anni molti di quei mocciosetti indisciplinati diventano persone istruite, educate, abili a svolgere impieghi dignitosi, redditizi.
P. Mario è pieno di gioia. La nostra eredità (ottomila nuovi cristiani nelle due parrocchie di Ruhea e Thakurgaon) è sicura ormai in
nuove buone mani. I preti locali, gli ex mocciosetti, ex discoletti se
ne occuperanno... Lui è stanco ormai: il suo cuore non regge più al
lavoro intenso del Bangladesh. Qualche anno in Italia, a Busto Arsizio, a pregare per i suoi bengalesi e poi, in punta di piedi, se ne va
a consultare la pagina “Pakistan-Bangladesh” del registro di San
Pietro, meglio ad ispezionarla, dato che lui era ragioniere. Mica
male! Ottomila battesimi uguale a “otto più” in condotta. Con l’aggiunta dello “straordinario” si arriva a “dieci”. Più il “premio” per
zona pericolosa “musulmana” e siamo al “dieci maxima cum laude”. Bravo Mario! Bravissimo.
69
3.
IL PRIMO RITORNO IN ITALIA
A metà degli anni cinquanta inizia per i missionari del Pime
(anzi per tutti i missionari) la rivoluzione del ritorno in patria
dopo dieci anni di lavoro in missione, poco dopo portati a otto,
poi a cinque e oggi a tre. Una rivoluzione indispensabile perché
la Chiesa e la missione stavano radicalmente cambiando:
l’“aggiornamento” del missionario diventava un imperativo per
tutti. Prima, il missionario partiva per non tornare mai più in
patria. La tradizione nel Pime era forte e coltivata con cura dai
vecchi missionari (ancor oggi ne abbiamo alcuni che da più di
mezzo secolo non sono tornati in Italia), come segno di fedeltà
alla vocazione missionaria. Nel 2003 ho scritto la biografia di
padre Alfredo Cremonesi, missionario di Crema in Birmania
morto martire nel 1953 a 51 anni, di cui è stata iniziata la causa
di canonizzazione. Figura affascinante, avventurosa, poetica. Cremonesi ha scritto molte e interessanti lettere su questo tema: partire per non più tornare, non voltarsi indietro, fare il sacrificio
estremo di non veder più i genitori e la patria, come lui ha fatto
nonostante le forti pressioni ricevute dalla famiglia. Scriveva che
sarebbe tornato solo se glie lo comandavano il vescovo e i superiori dell’Istituto, nonostante le necessità dei suoi cari 1. Padre
Cesare Pesce fa parte della generazione successiva a quella di
padre Cremonesi. In Italia c’è tornato più volte.
1 GHEDDO P., Alfredo Cremonesi, un martire per il nostro tempo (19021953), Emi, Bologna 2003, pp. 235.
71
Sfuma il sogno di convertire i Khotryio
L’avventura apostolicamente più interessante, che padre
Pesce ha vissuto a Ruhea e di cui ci ha lasciato il ricordo, è l’inizio del movimento di conversione dei Khotryio, una delle tante
caste e sottocaste del mondo religioso e sociale dell’induismo. Il
Bengala indiano, dove incomincia l’avventura, era a quei tempi
politicamente dominato dal Partito comunista bengalese, al potere nella capitale dello stato del Bengala indiano, Calcutta. L’influsso politico ma anche culturale del comunismo si estendeva
anche al di là dei confini del Pakistan orientale, cioè nel Bengala
pakistano a grande maggioranza islamico (futuro Bangladesh).
Tutto comincia quando la propaganda del Partito convince i
membri delle caste più basse che ogni uomo è comunque un
uomo, sia un bramino che uno spazzino. Quindi bisogna coraggiosamente violare le regole che governano il sistema delle caste:
la separazione assoluta (“apartheid”) fra i membri delle varie
caste, secondo la quale i membri delle basse caste (o i fuoricasta)
non possono impunemente toccare quelli delle altre caste o, peggio ancora, mangiare con loro.
Un “thakur” (santone) dei Khotryio, per mostrare pubblicamente la sua ribellione contro il sistema delle caste, in un affollatissimo mercato nel villaggio di Bhamradaha, prende una focaccia dal banchetto di un paria e se la mangia. Il povero “Thakur”
è immediatamente ostracizzato, non solo dai membri delle alte
caste, ma anche da quelli delle caste inferiori. Ma questo gesto fa
riflettere molti. Avanza tra i poveri una mentalità nuova, rivoluzionaria rispetto al sistema delle caste e favorevole al Partito
comunista che ha innescato questo processo di coscientizzazione.
Gli anziani e le donne obiettano che le pratiche religiose tradizionali non si possono abolire; gli attivisti comunisti rispondono:
“L’Italia è il paese che ha il maggior numero di comunisti, eppure è anche il miglior paese cristiano al mondo”.
Così, senza che padre Cesare sapesse nulla, i Khotryio decidono di entrare nel Partito comunista e di farsi cristiani e organizzano a Ruhea una grande assemblea a cui invitano il missionario e il suo catechista Mahonto a spiegare chiaramente la religio72
ne cristiana e la posizione della Chiesa riguardo alle caste e alla
società indiana. Mahonto fa un discorso che padre Cesare definisce “brillante”: insiste sulla predilezione di Gesù per i poveri, per
i fuori casta, in una società in cui comandano i ricchi e i potenti,
suscitando impressione positiva nella gente.
Dopo alcune settimane, il missionario e il suo catechista sono
invitati a celebrare i servizi cristiani in tre cappelle che i Khotryio
avevano costruito nei loro villaggi. Poi, nel tempo natalizio, essi
invitano i Khotryio alle cerimonie in un villaggio cristiano: rimangono stupiti per la solennità e la gioiosità di quei riti e di avere la
possibilità di pregare con i cristiani, recitando preghiere così belle. Intanto il “thakur” (santone) da cui è nato il movimento, incomincia a prendere parte alle riunioni mensili dei catechisti che si
tengono a Ruhea ed esprime il desiderio non solo di essere battezzato, ma di diventare catechista presso i Khotryio e gli indù di
bassa casta. Padre Pesce è felice e lo manda da padre Ferdinando Sozzi che in 15 giorni lo restituisce dopo averlo tenuto con sé
e istruito nella fede e nella preghiera cristiana.
Tutto troppo bello e splendido per essere vero! – commenta padre
Cesare. – Io avevo paura di tanta euforia e nell’anticamera del mio
cervello girava un detto latino che mi tornava spesso alla mente: “In
cauda venenum!” (il veleno sta nella coda!). Purtroppo ho dovuto
imparare che spesso sensazioni di questo tipo portano a qualcosa di
spiacevole.
Infatti, un bel mattino dopo la Messa, Mahonto gli dice:
Notizie brutte dai Khotryio. La settimana scorsa è morto il piccolo figlio del “thakur” e nel villaggio si mormora che questa è la
vendetta degli dei contro chi ha abiurato la fede indù. Il thakur
non solo ha dovuto sopportare la sofferenza per la morte del figlio,
ma anche gli insulti della sua gente. Rimangono con noi solo il vecchio carpentiere e sua moglie. Inoltre ieri sera un gruppo di quelli che hanno costruito le cappelle sono venuti a dirmi che non possono entrare nella Chiesa perché i proprietari delle terre su cui
hanno costruito le loro povere capanne, minacciano di buttarli sulla strada.
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Il catechista vorrebbe denunziare i proprietari di terre al tribunale pakistano, ma padre Cesare non è d’accordo. Non è bene
creare altre inimicizie alla missione. Se si va in tribunale, la questione diventa lunga e finirà per esasperare i rapporti con il mondo non cristiano. Dice a Mahonto: “I Khotryio hanno aspettato
tanto per incontrare Cristo, aspetteranno ancora. Aspettiamo
anche noi” 2.
“Dopo tredici anni, per adesso può bastare”
È il 1960. Il sogno di convertire i Khotryio sfuma in un attimo per un motivo assurdo. È una pesante sconfitta che pesa sull’animo di padre Pesce: ne esce umiliato e prostrato sia fisicamente che psicologicamente. Aveva pregato e nutrito grandi disegni
su questa bassa casta indù che voleva entrare nella Chiesa: poteva essere l’inizio di un cammino nuovo nell’apostolato in Bengala. Non più solo tribali che vivono (vivevano) nelle foreste, separati dalla società bengalese, ma anche indiani, indù. Invece, nulla. La morte del bambino del thakur, il capofila di quelli che volevano diventare cristiani, è interpretata secondo la mentalità pagana: gli dei indù si sono vendicati. E Cesare vede crollare tutto il
castello di sogni e speranze che aveva costruito nella sua testa, nel
suo cuore e che sicuramente aveva comunicato ai confratelli, al
vescovo. Un fatto quasi assurdo, difficile da digerire. Pregando e
riflettendo scrive:
Un contadino non è mai arrabbiato quando semina e io ho semplicemente seminato. Altri raccoglierà. Il maestro Theilard de Chardin
diceva: ‘Ogni cosa avviene per un domani migliore’. E allora, perché lamentarsi?...
Dopo dodici anni ininterrotti di vita con questa realtà tanto diversa
dalla mia e tanto difficile, con le caste differenti, le varie tribù: hari,
2 Chi raccoglierà i frutti di questa semina sarà padre Luigi Pinos, che negli
anni ottanta e novanta entrerà ancora in contatto con i Khotryio e otterrà conversioni.
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santal, oraon, risi, metors, ciascuna con le proprie abitudini, tradizioni, usanze talvolta noiose, divertenti... Una realtà di fratelli sparpagliati in una miriade di piccoli villaggi sperduti e difficili persino
da trovare... Sognavo il panorama delle mie vallate sull’Appennino
ligure, l’aria salmastra proveniente dal Mar Ligure. Un giorno consultai i registri dei battesimi e vidi che dal 1952 avevo amministrato oltre tremila battesimi; nel 1959 (l’anno migliore) circa 300 battesimi. Questa volta dissi a me stesso: per adesso può davvero bastare. Fa’ il tuo fagotto e va’... Era la prima volta che questa frase veniva pronunziata da me in Bengala. Così partii per Novi Ligure, con
già in tasca il biglietto del mio ritorno e nel mio cuore uno splendido sogno.
Quando padre Cesare sbarca dall’aereo a Roma, l’Italia non è
più quella che aveva lasciato dodici anni prima. Era partito nel
1948, con un paese distrutto dalla guerra, ancor molto povero,
radicalmente diviso e attraversato da odi, vendette e violenze.
Dopo dodici anni in Bengala, il missionario di Tortona scrive 3:
Arrivo a Roma e tutto mi stupisce: un altro mondo per me. Parlo
italiano, ma a volte mi intoppo, non mi viene subito la parola... E
che differenza con le mie abitudini e mentalità acquisite in Bengala. Gli amici mi invitano a pranzo e non riesco a far onore alla tavola. Mi invitano a parlare dei miei dodici anni passati laggiù e io,
dopo le prime battute, rimango impappinato, nel dubbio che mi
prendano per uno che le sballa grosse. Mi invitano a fare qualche
conferenza e alla fine gli organizzatori mi rimproverano: “Ma perchè non parli dell’infelicità, della miseria, dei morti di fame, dei
sacrifici che fai laggiù?”. Sacrifici? Come se buttar giù tutti gli antipasti sofisticati e sti piattoni di ogni ben di Dio, pesanti come il
piombo, per poi ingoiare medicine amare come il tossico nel tentativo di combattere il colesterolo, non fossero sacrifici più grossi!
Questa la prima impressione, ma poi Cesare si ambienta nuovamente in Italia, anche se non vuole parlare della miseria dei
3
In Le Strade della vita, Cooperativa Editoriale Oltrepò, Voghera 1989,
p. 65.
75
bengalesi, per non dare un’immagine errata della sua nuova patria
e del suo carissimo popolo. In un’intervista a «Il Popolo di Novi
Ligure» dice4:
Sono tornato volentieri, ma il mio pensiero è sempre là, alla missione... Mi fermo in Italia sei mesi, ma le dico che ho lasciato il cuore
a Ruhea. E se è umana la gioia di ritrovarsi in questa breve parentesi coi parenti e gli amici, sento che la mia vita è laggiù, dove ho
piantato la mia vocazione e dove il sacerdozio assume dimensioni
così sconfinate, che non saprei concepirlo né più bello, né più entusiasmante.
Otto mesi passano in fretta e Pesce si ritrova sul piede di partenza nel dicembre 1960. Notare che è aumentato di 15 chili e che
il portafoglio è pieno dei generosi aiuti di parenti e amici. Adesso gli spiace lasciare la patria, ma parte con entusiasmo perché ha
dei piani per la missione di Ruhea, che spera di mettere in atto
con l’amico padre Mario Alvigini, suo condiocesano di Tortona.
Quando giunge alla missione, in pochi giorni si accorge che padre
Mario
durante la mia assenza, aveva svolto uno splendido lavoro. Pensavo:
lasciamolo continuare col suo entusiasmo e il suo sistema, che ha
dato così eccellenti risultati, io andrò più a sud, come Lot lasciò
Abramo per andare nella valle del Giordano. Oltre tutto, la città di
Thakurgaon si stava sviluppando velocemente e per la Chiesa era
davvero indispensabile essere presente, senza altri indugi.
Il pranzo di Natale fugge nella giungla
La vita di padre Cesare era veramente fondata sulla fede.
Questo viene fuori da un dato di fatto basilare, dimostrato da tanti episodi precisi: era a servizio del Regno di Dio e non del proprio interesse. Ecco perché, quando si rende conto che a Ruhea
4
76
«Il Popolo di Novi Ligure», 3 aprile 1960.
padre Alvigini fa “uno splendido lavoro”, invece di arroccarsi
nella parrocchia che ha fondato e dove ormai si è “sistemato”,
abbandona a poco a poco Ruhea nelle mani del giovane missionario e fissa la sua residenza a Thakurgaon, ricominciando da
capo la fondazione di una nuova missione, con tutte le difficoltà
che questo comporta: acquisto del terreno, costruzione della prima residenza e della cappella, della scuola e della casa per le suore, presa di contatto con i gruppi di cristiani dispersi nel mare
islamico, formazione dei catechisti, visita ai villaggi annunziando
e testimoniando la carità di Cristo...
Ha solo 41 anni, le forze e l’entusiasmo non gli mancano.
Anche la Provvidenza si ricorda di lui: a Novi Ligure gli hanno
regalato una macchina per fare i mattoni e gli “Amici di Don
Cesare Pesce” di Voghera gli mandano addirittura una sufficiente quantità di cemento per la prima costruzione, “che arrivò come
acqua benedetta in un deserto, data la quasi impossibilità di comprare cemento sul posto”. Dio l’aiuta a trovare un buon capomastro “bihari” (musulmani fuggiti dall’India durante il periodo della partizione del territorio fra India e Pakistan nel 1947), che si
prodiga a insegnare il mestiere “agli inesperti operai, che per la
prima volta costruivano in cemento e mattoni e non in paglia e
fango”.
Ogni giorno, all’alba, arrivavo a Thakurgaon in treno o in motocicletta e alla sera tornavo a Ruhea, talvolta con lunghi tratti a piedi,
quando la moto non voleva procedere nel viscido fango. Che incredibili fatiche! Ma alla fine potevo dire: “Grazie, mio Dio! Grazie
ancora di tutto. Ora, per favore fammi dormire in pace in questo
piccolo buco che ho riservato per me nella veranda e tu puoi prenderti la stanza grande che adesso sarà adibita a chiesa, ma in futuro
servirà da ufficio e da stanza da letto”.
Padre Cesare rimane a Thakurgaon fino all’estate 1965. Nel
Natale 1964 sono andato a trovarlo, dopo essere stato da Alvigini a Ruhea. La missione era ancora formata dalla semplice casetta del missionario, con una cappella provvisoria e un bel terreno
sulla strada e verso la campagna, dove stava sorgendo la scuola.
In occasione del Natale 1964 qualche centinaio di cattolici triba77
li (santal e oraon) sono venuti alla missione per celebrare assieme
la grande festa di Gesù e per fare i loro incontri annuali, sia religiosi che civili.
Rimangono nella missione due notti, in pratica circa tre giorni, dormono sotto tettoie di paglia, per terra, su stuoie di bambù.
Nel cortile hanno costruito delle tettoie di bambù e paglia; ovunque festoni di carta colorata, sulla facciata della chiesa una grande stella di Natale illuminata, visibile nella notte anche da lontano. Il momento forte della festa, oltre alla Messa solenne della
vigilia e quella del mattino di Natale, è il pranzo comunitario a
mezzogiorno. Le feste riescono bene quando si può mangiare a
crepapelle. La missione ha preparato quintali di riso e poi verdure, frutta, peperoncino (per la salsa piccante), miele, zucchero e
farina per i dolci. I tribali hanno portato dai loro villaggi in foresta sei cinghiali catturati in trappole, vivi. Sono nel recinto, verranno uccisi il mattino di Natale per il pranzo. Secondo la tradizione dei cacciatori oraon e santal, il cinghiale catturato in foresta con l’inganno non può essere macellato a freddo. Deve poter
fuggire, avere una via di scampo, e poi cacciato e ucciso.
Così il mattino di Natale, dopo la Messa all’alba, un rullo di
tamburi segna l’inizio della caccia. I cinghiali escono uno per uno
dal recinto, si lanciano pancia a terra verso la vicina foresta, ma,
quando il capo-caccia dà il segnale abbassando una bandierina,
cadono trafitti da varie frecce scoccate anche da notevole distanza dai cacciatori, che sono una decina posti in varie parti del terreno, quindi non devono sbagliare. L’ultimo cinghiale, il più grosso, riserva una sorpresa. Appena uscito, invece di fuggire, si pianta sulle quattro zampe fuori del recinto, sta fermo e muggisce
minaccioso. Forse ha capito che se scappa come i cinghialetti che
l’hanno preceduto, è finito. Ma come si fa a tirare su un animale
che non fugge? Sarebbe una vergogna per questo popolo di cacciatori. Cercano di stimolarlo, ma il cinghiale grugnisce di brutto
e manda a gambe levate due giovani che gli si sono avvicinati
troppo, con della paglia incendiata per mettergliela sotto la pancia. Il capo-caccia non sa cosa fare.
La gente ormai ride, la tensione si allenta, i cacciatori abbassano l’arco. Allora il grosso cinghiale, improvvisamente, parte
78
sparato come un razzo, travolge alcuni che erano sulla sua via e
scompare nella vicina foresta. Impossibile mettersi a mangiare in
quelle condizioni di spirito. La fuga del cinghiale è uno scacco
per i tribali che hanno fama di formidabili cacciatori; per di più,
i musulmani, che sono la maggioranza a Thakurgaon, sono venuti numerosi ai bordi del cortile e campo da pallone per vedere la
festa e se raccontano questa incredibile sconfitta dei cristiani, ne
va di mezzo anche l’onore della fede e della Chiesa… I capi organizzano cinque squadre di battitori e dicono: “Non si mangia finché il cinghiale non è abbattuto”.
La caccia in foresta dura fino alle quattro del pomeriggio.
Lunga l’attesa, ma trionfale il momento del ritorno dei cacciatori, che mostrano il grosso cinghiale penzolante da due lunghe e
grosse aste di bambù portate a spalla da otto uomini. La gioia
esplosiva dei tribali non conosce limiti. Un pranzo di Natale da
ricordare per generazioni. Si è continuato a mangiare fino a notte, con canti e danze, al chiarore della luna piena.
Inventa il “Concorso biblico per corrispondenza”
All’inizio del 1965, Cesare incomincia a scavare per le fondamenta della nuova chiesa di Thakurgaon. Ma, come sappiamo, la
situazione di padre Pesce è spesso questa: quando ha fatto i suoi
piani e si crede sistemato, ecco che qualcosa lo sbalza da cavallo
e deve ricominciare da capo. Nell’estate 1965, fra India e Pakistan scoppia uno dei tanti incidenti di frontiera che a volte portano ad un conflitto più o meno vasto e duraturo. La cittadina di
Thakurgaon è vicina al confine dell’India e il governatore della
provincia ordina a tutti gli stranieri (“per la loro sicurezza”) di
lasciare il paese. È un nuovo “Fa’ il tuo fagotto e va’” (“Pack up
and go”) come spesso succede nella vita di padre Cesare.
Il Signore però gli risparmia l’umiliazione di dover tornare
una seconda volta in Italia. Così, andato a Dacca, l’arcivescovo
ottiene il permesso dalle autorità di trattenerlo mandandolo nella missione di Mothbari, vicina alla capitale, per aiutare un
anziano e ammalato missionario americano, “ben felice di trova79
re in me un assistente”, scrive Cesare. Anche a Mothbari si trova coinvolto in una costruzione impegnativa: una nuova grande
scuola.
Ogni giorno mi svegliavo all’alba e andavo in giro, in motocicletta,
nei vari villaggi per le confessioni, le messe, qualche parola veloce,
per poi tornare a dirigere i lavori della scuola... Secondo il mio solito, lavoro specialmente tra i ragazzi e le ragazze della scuola, pensando al bene spirituale e umano di queste 1400 anime. Tutto sommato mi trovo bene, ma il pensiero della mia chiesetta lasciata a
metà, là sulla strada che unisce la cittadina alla stazione ferroviaria
di Thakurgaon, alla scuola nuova non del tutto finita, mi fa stare un
po’ in ansia. Pazienza!
Padre Pesce comunica poi al Superiore generale 5 che i suoi
alunni di Thakurgaon hanno preso tre delle quattro medaglie
d’oro nel concorso catechistico diocesano 1965: così gli scrive il
presidente diocesano dell’Azione Cattolica di Dinajpur. Invece, a
Mothbari, Cesare studia un nuovo sistema di insegnamento del
catechismo. Scrive:
Non ero affatto soddisfatto di me stesso. La mia eccessiva passione
per i mattoni e le costruzioni stava diventando pericolosa per me!
Allora cercai di realizzare qualcosa di esclusivamente religioso, che
potesse attrarre di più gli uomini verso Dio.
Così, leggendo il «Morning News» di Dacca si accorge che il
quotidiano sta facendo un concorso sulla lingua bengalese, proponendo ai lettori vari quiz per dimostrare di conoscere bene la
lingua nazionale. Questo lo ispira per una iniziativa intitolata
“Bible Contest by Correspondence”, Concorso biblico per corrispondenza. Con l’aiuto della catechista suor Vincenza, prepara
uno schema di regole chiare e precise per i partecipanti, con le
norme del concorso, gli esami finali, i premi, ecc. Quando ritorna a Thakurgaon nell’estate 1966, Cesare stampa centinaia di
5
80
Lettera da Mothbari a mons. Aristide Pirovano del 28 dicembre 1965.
volantini e li manda a tutte le parrocchie e organizzazioni diocesane di Dinajpur: riceve in breve più di mille adesioni e iscrizioni, dalle scuole elementari fino alle superiori e agli adulti.
Era per me un’ottima cosa avere il modo di occupare il mio tempo
in modo piacevole e utile, nelle lunghe serate di solitudine: esaminavo e correggevo ogni foglio, dando le relative valutazioni. Ero felice di questa mia iniziativa che, grazie a Dio e anche grazie ai molti
collaboratori, stava dando risultati insperati.
Confortante anche il progresso della missione e della città di
Thakurgaon. Terminata la costruzione della chiesa e dell’edificio
destinato a scuola: “Ero felice nel vedere questi fabbricati, bagnati dal mio sudore, nei luoghi in cui appena qualche anno prima
andavo a cacciare nella giungla qualche cinghiale per il Natale”.
Intanto, “la mia piccola Thakurgaon si trasformava da un brutto
villaggio in una città, con scuole, palazzi, negozi e attrezzature
moderne”.
Segretario di «Mani Tese» a Milano
Ma ancora una volta, come sempre, quando Cesare incomincia ad avvertire che finalmente si sta realizzando nei suoi piani di
sviluppo della missione, ecco che arriva l’imprevisto: “Fa’ il tuo
fagotto e va’!”. Nel 1968 mons. Giuseppe Obert, vescovo di
Dinajpur dà le dimissioni 6 e la Nunziatura avvia l’inchiesta fra i
sacerdoti diocesani per conoscere una terna di nomi fra i quali
scegliere il nuovo vescovo. Padre Cesare Pesce risulta il primo
della terna fra i diocesani: il vescovo poi sarà scelto fuori diocesi,
il bengalese mons. Michael Rozario, oggi arcivescovo di Dacca.
Ma il fatto è significativo della stima di cui godeva padre Cesare
tra il clero diocesano, anche locale, nella sua diocesi.
6 Mons. Obert era nato a Lignod di Ayas in Valle d’Aosta nel 1890, nel 1968
aveva 78 anni. Morì in Italia nel 1972.
81
Il superiore generale del Pime, mons. Aristide Pirovano,
richiama temporaneamente Pesce in Italia per dirigere l’associazione “Mani Tese”, nata nel 1963 al Centro missionario del Pime
a Milano. In quegli anni in Italia furoreggiava la “Campagna contro la fame nel mondo”, lanciata dalla Fao nel 1960 e subito cordialmente appoggiata da Giovanni XXIII. La rivista «Le Missioni Cattoliche», di cui ero direttore (oggi «Mondo e Missione»), si
impegnò fortemente con servizi giornalistici e studi a documentare la tragedia del mondo moderno, di cui solo allora si prendeva coscienza: il mondo spaccato in due fra un Nord sviluppato,
democratico, pacifico, istruito e un Sud affamato e afflitto da
guerre, dittature, analfabetismo, ecc.
Anni appassionanti per noi missionari in Italia: eravamo continuamente invitati a parlare in parrocchie, scuole, associazioni,
centri culturali, comuni, università, radio, televisioni e via dicendo. Così, nella primavera 1963 sono stato, con i padri Amelio
Crotti, Giacomo Girardi e Carlo Torriani, tra i fondatori di “Mani
Tese” (il titolo era quello di una rubrica di aiuti ai missionari della rivista per gli adolescenti «Italia Missionaria»): un’associazione
laicale di sostegno al Pime nella campagna contro la fame, con
mostre, conferenze, visite alle scuole, articoli, ecc. A fondamento
di Mani Tese c’era ogni settimana un incontro spirituale (lettura
della Bibbia e preghiera) e organizzativo, poi il contatto con i missionari reduci e sul campo per avere notizie, fotografie e progetti di sviluppo da finanziare.
All’inizio Mani Tese, il primo organismo nato in Italia per la
campagna contro la fame, venne lanciato da giornali e radio-televisioni ed ebbe una diffusione rapidissima e imprevista in ogni
parte del nostro paese. Nascevano spontaneamente gruppi con
questo nome, che si costituivano in diocesi e parrocchie, ma
anche in scuole, comuni, industrie, banche, ambienti laici; e poi
avvisavano il nostro Centro missionario a Milano e chiedevano di
assisterli, di mandare materiale, visitarli. Tanto che, nel 1966 il
superiore generale del Pime, mons. Aristide Pirovano, chiede agli
altri tre istituti missionari italiani (Comboniani, Saveriani e Consolata) di associarsi al Centro missionario Pime di Milano per
rispondere a queste richieste di assistenza, conferenze, progetti di
82
sviluppo. Mani Tese diventa in pochi anni un’associazione diffusa
ovunque: finanziava progetti di sviluppo (“micro-realizzazioni”),
organizzava campi di lavoro per giovani, congressi e conferenze,
pubblicava libri, riviste e manifesti, visitava scuole e ditte, ecc.
Quando nel maggio 1969 entra in campo padre Pesce, era da
poco scoppiato il “Sessantotto” e Mani Tese stava sfuggendo di
mano agli Istituti missionari, che nel 1976 si ritirano lasciando
liberi i laici di continuare nell’impostazione politicizzata che i
missionari non condividevano: da associazione di preghiera per le
missioni e di aiuto ai popoli poveri attraverso il finanziamento di
micro-progetti proposti dai missionari, stava diventando un movimento politicizzato “sessantottino”, secondo la moda culturale di
quel tempo. Anni dopo padre Pesce dice in un’intervista 7:
La metodologia un po’ troppo “filantropica” di Mani Tese non collimava pienamente con la dimensione più “verticale”, verso Dio,
che è la mia e a cui non volevo rinunziare.
Personalmente, io sono l’unico del Pime e fra i missionari italiani che ha vissuto ininterrottamente in Mani Tese gli anni dal
1963 al 1976 (all’inizio ero direttore delle pubblicazioni e animatore) e li ricordo con un po’ di nostalgia, ma anche come un tempo di sbandamento collettivo: quasi tutte le sere ero invitato in
qualcuno dei circa 80 gruppi che si erano costituiti in Lombardia
a discutere non di fame, di aiuti allo sviluppo e di micro-realizzazioni, ma sui disastri del capitalismo e le felici prospettive del
socialismo (naturalmente il fallimento del comunismo dove
governava era argomento tabù), rivoluzione violenta o non violenta (quasi tutti erano per la prima ipotesi!), Cuba, Che Guevara, Mao Tze Tung e la sua “rivoluzione culturale”, la “guerra antiimperialista” in Vietnam e le “guerriglie di liberazione” in Africa
e America Latina, ecc.
Padre Pesce veniva dalle campagne del Bangladesh e aveva
perso il contatto con la società italiana, ma soprattutto era rima7 Intervista rilasciata a fratel Massimo Cattaneo, Dinajpur, 22 ottobre 2001
(ciclostilato).
83
sto un missionario autentico, non poteva approvare l’impostazione politicizzata e ideologizzata di Mani Tese: era cosciente che
non aiutava i popoli poveri. Ecco due fatti da lui stesso raccontati 8:
Un propagandista di Mani Tese rifiutò un milione dall’industriale
De Agostini, perché ritenuto frutto di sfruttamento. Il presidente di
Mani Tese, ing. Silvio Ghielmi, lo rimproverò: per colpa tua, domani molti bambini del terzo mondo moriranno di fame. Una sera criticavano Madre Teresa e le sue opere di carità. Prima di addormentarmi pensavo: “E quel poveraccio mendicante, nel momento della
sua morte, invece del sorriso amorevole della suora, avrebbe forse
sentito sul suo volto l’alito di un cane rognoso…”.
Padre Pesce non capisce questa logica “sessantottina”, fa difficoltà ad inserirsi nella bolgia di quegli anni; svolge il suo compito con grinta e coraggio, ma non può continuare a lungo. Il
padre Venanzio Milani, comboniano, è stato segretario di “Mani
Tese” dopo padre Pesce e mi dice (intervista del 10 giugno 2004):
Padre Cesare s’è trovato in grave difficoltà perché in quegli anni
post-sessantotto i gruppi giovanili erano una baraonda. Io ero stato
all’inizio di Mani Tese e poi sono entrato come segretario avendo
già un’esperienza di gruppi giovanili di quegli anni. Avevo 31 anni
e Cesare ne aveva 50, però con una bella esperienza di missione fra
i poveri. Era un uomo cordiale, saggio, equilibrato. Infatti il personale della segreteria era contento di lui, soprattutto perché era uno
dei pochi che aveva veramente esperienza di popoli poveri. Però, di
fronte a tutta la rivoluzione di quegli anni, con proteste critiche,
accuse, sostegno alle “guerre di liberazione”, non sapeva più che
pesci pigliare. Inutilmente cercava di raccontare le sue esperienze,
per far vedere che molte idee non erano giuste. Ma inutilmente, a
quel tempo specie i giovani erano ammaliati dalle ideologie rivoluzionarie e spesso perdevano il senso della realtà.
Però padre Pesce ha lasciato in tanti, e anche in me, un bel ricordo
8 In «Infor-Pime», bollettino interno di collegamento fra i missionari del
Pime, n. 36, aprile 1979, p. 14.
84
di saggezza, equilibrio e capacità di decidere: partiva dalla conoscenza della povertà e del terzo mondo, non dalle ideologie. Poi era
un uomo cordiale e spirituale, sarebbe stato un buon segretario di
Mani Tese, se non fosse capitato in momento quasi impossibile. Era
un vero missionario, ma allora i missionari, se non dicevano quello
che volevano quei gruppi scatenati, non erano ascoltati.
Padre Cesare approfitta di quel periodo in Italia per conseguire un diploma di teologia pastorale con specializzazione di
catechetica, presso la Pontificia Università Lateranense a Roma 9.
E nel novembre 1970 ritorna in Bangladesh. Il 16 novembre scrive da Dinajpur a mons. Aristide Pirovano:
Eccomi arrivato finalmente a Dinajpur, da dove a giorni partirò per
la nuova destinazione nella giungla, lontano dal mondo civile o incivile... Che disastro in questo povero paese! Mi è parso più brutto di
quando lo lasciai due anni fa... Sono arrivato con un’amarezza indicibile, ho ancora negli occhi lo spettacolo desolante degli slums
(baraccopoli) di Bombay e Dacca... E mi rammarico di essere stato
tentato di rimanere in Italia, abbandonando questa gente alla sua
triste sorte 10. E d’altra parte sono ancora tentato di essere perplesso sull’utilità, meglio, sul successo del nostro lavoro in un campo
così enorme, sproporzionato alle nostre forze. Siamo una goccia
d’acqua nell’oceano, realmente! Beh, faremo quel che possiamo,
fidandoci della verità del Vangelo. Oggi sto vincendo le emozioni
inevitabili e “tirem innanz”.
La guerra per l’indipendenza del Bengala
Intanto, giorni oscuri si preparano per il Bengala, allora
“Pakistan orientale”: la guerra civile sta covando sotto la brace
9
Diploma conseguito il 19 giugno 1970.
Nel testo al computer Pack up and go padre Cesare scrive: “Sarebbe stato un atto di codardia restare in Italia quando il mio paese di adozione si trovava in enormi difficoltà. E così tornai nel Pakistan orientale, in tempo per poter
dire: ‘Ci sono anch’io’”.
10
85
del nazionalismo bengalese. Il Pakistan, nato nel 1947 per unire
tutti i musulmani dell’India, che diventava indipendente dall’Inghilterra, si divideva in due tronconi separati dall’India stessa:
Pakistan occidentale con la capitale nazionale Rawalpindi (oggi la
città nuova di Islamabad) e Pakistan orientale con la capitale
locale Dacca. Le due parti non si sono mai integrate ed era anche
quasi impossibile integrarle! La classe dirigente, tutta del Pakistan occidentale, impone ai bengalesi la “lingua nazionale”, l’urdu, mentre in Bengala si parla e si scrive il bengalese, nobile lingua di elevata musicalità (la definiscono “l’italiano dell’Asia”)
derivata dal sanscrito, con una letteratura di grande valore.
È solo una delle prepotenze che le popolazioni del Pakistan
occidentale (punjabi, pashtun, sindi, belucistani, ecc.) esercitano
verso i bengalesi; così, mentre il Pakistan occidentale si sviluppa
con industrie e molte opere pubbliche (strade, dighe, ferrovie,
ecc.), la parte orientale del paese rimane povera e quasi abbandonata dal governo. L’opposizione cresce, specialmente dopo che il
generale Yahya Khan, presidente del Pakistan, il 29 marzo 1969
proclama la “legge marziale” per imporre la dittatura militare. La
reazione nel Pakistan orientale è fortissima e alle elezioni politiche generali del 7 dicembre 1970 l’“Awami League”, guidata da
Mujibur Rahman, conquista 167 seggi sui 169 riservati al Bengala; mentre nel Pakistan occidentale il “Partito del Popolo” di Zulfikar Ali Bhutto (opposizione ai militari) ottiene 83 seggi su un
totale di 144. Nelle elezioni provinciali in Bengala la “Awami League” conquista 269 seggi su 279!
Logicamente, secondo la volontà del popolo pakistano, Mujibur Rahman avrebbe dovuto diventare presidente del Pakistan.
Ma spesso le elezioni vanno in un senso e la politica in un altro.
L’assemblea nazionale è tramandata di settimana in settimana,
finché nel marzo 1971 scoppia in Bengala la rivolta contro i militari e la burocrazia governativa del Pakistan occidentale. Le manifestazioni violente, con centinaia di morti, incendiano tutte le città e per la prima volta sventola una nuova bandiera: sullo sfondo
verde, un disco rosso e la carta geografica schematizzata del Bengala. È il segno della volontà dei bengalesi: indipendenza o almeno autonomia totale dal Pakistan occidentale.
86
Probabilmente, un paese come il Pakistan, diviso in due tronconi da 2000 chilometri di India, non aveva alcuna possibilità di
sopravvivere. Ma l’errore madornale lo compie il presidente
Yahya Khan, che dichiara: “Io sono un soldato, non un politico e
come soldato ho il dovere di difendere l’integrità nazionale”; così,
invece di scendere a patti con i bengalesi e trovare un compromesso, scatena una repressione feroce, con carneficine spaventose. Questa storia della guerra civile in Bengala è sconosciuta in
Occidente, come tanti altri massacri del genere che succedono
fuori del nostro mondo. Basti dire che nelle città venivano uccisi
soprattutto studenti, intellettuali, professionisti, cioè le élites bengalesi: “In quei giorni – scriveva un missionario in una lettera del
settembre 1971, riferendosi alla primavera precedente – bastava
essere studenti e intellettuali, o con l’apparenza di intellettuali,
per essere passati per le armi. L’Università di Dacca era diventata un cimitero”.
Il 17 aprile 1971 l’indipendenza del Bengala viene proclamata in India, dove si instaura un governo in esilio: è la nascita del
Bangladesh. Intanto la guerra civile continua feroce. Milioni di
bengalesi, braccati dalle truppe pakistane, si rifugiano in 156
campi profughi in India, dove il primo ministro, Indira Gandhi,
attende il momento opportuno per intervenire contro il Pakistan,
dal 1947 in conflitto con l’India, soprattutto a causa del Kashmir
(ancor oggi diviso in due). Il 6 dicembre 1971, la Gandhi riconosce ufficialmente il Bangladesh e comanda alle truppe indiane di
intervenire per sostenere i patrioti bengalesi (“mukti bahini”). Le
truppe pakistane, lontane dalla loro base del Pakistan occidentale, non possono nulla contro l’esercito indiano. Il 16 dicembre
1971, il generale A.K. Niasi accetta la loro resa quasi incondizionata. Le folle bengalesi deliranti acclamano l’eroe nazionale e
“bongobondhu” (“padre della patria”) Mujibur Rahman, liberato dalla prigione: “Mujib joe, joe! Joe Bangla!”.
Naturalmente, come sempre succede nelle guerre civili particolarmente sanguinose, alle feste per l’indipendenza seguono i tristi giorni delle vendette e dei massacri di ex-militari del Pakistan
occidentale che non hanno fatto a tempo a ritornare nel loro paese (distante 2.000 chilometri!) e dei loro “collaborazionisti”,
87
soprattutto i “bihari”, musulmani indiani fuggiti in Bengala nel
1947-1948 dallo stato indiano di “Bihar”, per non rimanere nell’India indù dove si sentivano discriminati.
La Chiesa cattolica, che nella guerra per l’indipendenza aveva protetto i partigiani bengalesi e la popolazione civile dalle violenze assurde dei militari pakistani, si impegna a fondo per ospitare, nascondere, proteggere i nuovi perdenti e perseguitati! Le
missioni diventano centri di accoglienza di questi poveracci, molti dei quali riescono, grazie anche ai buoni uffici degli organismi
dell’Onu e del governo stesso di Dacca, a uscire indenni dal Bangladesh.
Nel dicembre 1970, appena giunto in Bengala, padre Cesare
è destinato dal vescovo a Mariampur, dove già aveva lavorato nei
primi tempi della sua permanenza in missione. Scrive:
Dopo circa vent’anni passati al nord del Bengala, eccomi di nuovo
a Mariampur. I miglioramenti sono visibili dappertutto. Le vecchie
case dei soldati “bihari” ora hanno i loro giardini ordinati e curati
e non mancano bellissimi alberi; la scuola della missione non è soltanto riparata, ma anche allargata, i laghetti vicini alle abitazioni dei
santal sono pieni di pesci... Attorno alla chiesa dozzine di campi coltivati a riso che aspettano la mietitura.
I miei vecchi conoscenti sono felici di incontrarmi di nuovo, dopo
tanto tempo. Come assistente ho padre Gregorio Schiavi, sempre indaffarato con le sue motopompe, che mai si arrende di fronte a nessuna difficoltà. La sua presenza è una iniezione di fiducia e di sicurezza per eventuali pericoli. Vicino alla chiesa è stato costruito un
nuovo convento per le suore di Maria Bambina. Ricordavo, vent’anni prima, suor Erminia che da sola e in compagnia di un enorme cane
abitava in un tugurio diroccato e dispensava incessantemente parole
di conforto e consigli a tutti, nel suo bengalese mischiato all’italiano
germanizzato del suo dialetto trentino. Dopo vent’anni suor Erminia
non è affatto cambiata, sempre uguale, sempre sorridente, forse un
po’ più magra. Ma con lei adesso vi sono altre tre suore che lavorano
nel dispensario medico dal mattino alla sera, ricevendo centinaia di
persone, ascoltando pazientemente le loro pene e sofferenze fisiche,
rassicurando quella povera gente, timorosa e impaurita dagli eventi
che si stanno profilando all’orizzonte.
88
Testimone allibito di atrocità e massacri
A Mariampur Pesce si trova bene, ma dalla quiete italiana
(per modo di dire, in quei tempi di “contestazione”!) precipita in
un periodo di emergenza grave per i venti di guerra che soffiano
sul Bengala; e nel posto meno raccomandabile, cioè a poca
distanza dalla frontiera con l’India. La rivolta dei bengalesi contro i soldati del Pakistan occidentale è ormai generale, la repressione militare durissima, la gente scappa in India, specie i tribali
aborigeni e gli indù: finiscono negli affollati campi profughi che
gli organismi internazionali hanno preparato. Persino il catechista più importante della missione di Mariampur chiede a padre
Cesare di ricevere, lui e la sua famiglia, la Comunione come Viatico per poi scappare in India.
Nella guerra civile dei bengalesi contro le truppe pakistane,
diversi missionari del Pime hanno avuto avventure drammatiche,
rischiando la vita e alcuni fuggendo in India, anche per assistere
i profughi bengalesi nei campi di accoglienza. Padre Gregorio
Schiavi è brutalmente preso e minacciato di morte dai militari,
per aver protestato contro l’uccisione di civili; padre Adolfo
L’Imperio pure lui arrestato per diverse ore e minacciato di morte. A Ruhea (diocesi di Dinajpur), il 24 aprile 1971 viene ucciso
dai militari pakistani il sacerdote santal, don Luca Marandi, mentre il padre Mario Alvigini, che ha preso il posto di padre Pesce
a Thakurgaon, così racconta la sua storia 11:
Fino al 14 aprile (1971) sono stato testimone allibito di atrocità e
stermini inesorabili: i fratelli contro i fratelli, senza alcuna pietà! Poi
venne il peggio. Il giorno 15 aprile, verso mezzogiorno, essendomi
recato in città in bicicletta, trovo tutto vuoto in un silenzio di tomba. Improvvisamente vedo la morte di fronte. Stanno entrando in
città reparti dell’esercito per occuparla, sparando all’impazzata con
un volume di fuoco impressionante e assurdo, poiché nessuno
oppone resistenza. Salto giù dalla bici e mi nascondo dietro un albe-
11 GHEDDO P., Testimonianze di missionari dal Bangladesh in «Mondo e
Missione», aprile 1972, pp. 228-260.
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ro, poi vedo che è inutile nascondersi perché le pallottole fischiano
da tutte le parti. Salto i reticolati della caserma-prigione saccheggiata nei giorni precedenti e vedo diverse persone fuggire impazzite
verso il fiume. D’un balzo mi getto anch’io in acqua in una pioggia
di proiettili che falciano diversi disgraziati in fuga con me. Appena
in acqua prendo a nuotare con la forza della disperazione. Un ragazzetto accanto a me, sebbene nuoti sott’acqua, viene colpito e l’acqua si arrossa del suo sangue.
Arrivo all’altra sponda e mi butto a terra completamente esposto
alla sparatoria di quei pazzi di soldati, che fanno il tiro a segno sui
fuggitivi. Sento le grida dei colpiti a morte e i fischi delle pallottole. Per più di mezz’ora rimango fermo come un sasso col cuore in
gola, aspettando da un attimo all’altro di essere colpito anch’io. Noi
preti diciamo: quando stai per morire, raccomandati l’anima a Dio.
Storie, io pensavo solo (guarda che pazzo): se mi uccidono, pazienza; ma se mi colpiscono e non muoio dovrò passare lunghe ore qui
sulla sponda, nessuno mi verrà in aiuto, morirò dissanguato col sole
che mi picchia addosso… Però ogni tanto pensavo anche al buon
Dio e gli dicevo: “Se mi aiuti a non morire, giuro che scappo in
India”. Adesso, a ripensarci, mi metto a ridere, ma in quei momenti il terrore mi penetrava lentamente nel cervello e nell’immobilità
assoluta pensavo: “Mario, stai calmo e non muoverti, se ti muovi ti
prendono di mira e sei spacciato!”. Avevo già passato altri momenti terribili, come quella volta che un leopardo mi saltò addosso dalla boscaglia e mi ferì con una unghiata, mentre lo facevo fuori con
una fucilata: ma questa volta era peggio!
La cosa durò a lungo. Dopo mezz’ora non sparavano più perché
avevano fatto fuori tutti quelli che si muovevano. Vedo sull’altra
sponda i soldati avvicinarsi al fiume e bere le sue acque, poi vanno
verso la città, incendiando diverse casette. Tutto questo mentre continuavo a rimanere immobile ed osservavo con gli occhi socchiusi:
per fortuna tra me e loro c’era il fiume, ma morivo dal caldo, dai
crampi e dal sudore che mi inondava il volto e tutto il corpo. Finalmente, i militari pakistani montano sui loro camions e se ne vanno.
Aspetto ancora un po’ e poi mi alzo e vedo che altri disgraziati come
me si levano: anche loro hanno avuto salva la vita rimanendo perfettamente immobili, alcuni anche feriti.
Alvigini, tornato alla missione, prende i suoi documenti e
poche cose e scappa in India, dove potrà lavorare nei campi pro90
fughi allestiti dagli organismi internazionali, ritrovandovi parecchi dei suoi cristiani anche di Ruhea. Quando quasi un anno
dopo ritorna a Thakurgaon e viene a sapere che poche ore dopo
la sua fuga, i militari erano tornati e avevano saccheggiato la missione.: “Se mi trovavano sul posto, scrive, chissà che brutta fine
avrei fatto!”.
“Gesù è con noi, perché essere preoccupati?”
Cesare Pesce ha lasciato pochi ricordi del come ha vissuto la
guerra civile in Bengala. Padre Angelo Rusconi, a quel tempo
missionario in Bengala, ha scritto alla mamma una lunghissima
lettera (gennaio 1972), in cui dice che padre Pesce “ha passato
brutti momenti sotto l’accusa di essere a capo della resistenza
locale, lui che aveva già fatto il partigiano in Italia ed era pratico
di queste cose!” 12. Padre Adolfo L’Imperio scrive: “Padre Pesce
è stato salvato all’ultimo momento dall’intervento di militari”.
Cos’era successo? Lo stesso padre L’Imperio racconta (intervistato nell’aprile 2004 a Milano):
Quando io ero a Dhanjuri e lui a Mariampur (due missioni vicine e
confinanti, n.d.r.), nel 1970-1971, era il tempo della repressione pakistana nei confronti del nazionalismo bengalese e specialmente ai
confini con l’India i militari sorvegliavano la frontiera. Molta gente,
di notte, scappava dal Pakistan orientale in India, c’era confusione e
repressione, le missioni si erano mobilitate per aiutare la gente che
scappava. C’erano i “bihari”, fedeli al Pakistan, che volevano assaltare la missione di Mariampur perché cercavano i profughi. Noi invece, a Dhanjuri, ospitavamo i profughi che arrivavano alla spicciolata
di giorno, gli davamo da mangiare e di notte scappavano nella vicina
India. Ma i militari del vicino accampamento di Fulbari facevano
finta di non vedere e dicevano sempre: “Tutto è regolare”.
Un giorno, mi arriva una jeep militare a Dhanjuri e il maggiore vuol
visitare il lebbrosario e la missione. Lo porto in giro e poiché c’era
12
GHEDDO P., Testimonianze di missionari del Bangladesh, «Le Missioni
Cattoliche», aprile 1972, pp. 228-260 (testo citato a p. 241)
91
molta gente che con la missione non c’entrava per niente, sono stato sincero e gli ho detto che di notte scappavano in India. Lui mi
dice: “Non si preoccupi, tutto è regolare”. In quel momento arriva
un catechista da Mariampur e mi porta una lettera di padre Pesce
che diceva di essere assediato dai militari pakistani e che era pronto a morire per la Chiesa e il popolo bengalese. Diceva: “Ormai siamo agli sgoccioli, prima o poi assaltano la missione. Ma io ho preparato le mie difese e se vengono non mi arrendo, mi difendo. Pregate per me e il mio popolo”.
Allora io faccio vedere questa lettera al maggiore e gliela traduco
dicendogli: “Vede? Lei dice che è tutto regolare, ma nella missione
qui vicina succede questo e sono i militari pakistani che disturbano
il padre e il popolo”. Il maggiore prende con sé il catechista sulla
jeep e vanno a Mariampur. La jeep aveva un cannoncino davanti e
padre Pesce, quando vede il cannoncino, si prepara a dare fuoco
alle difese che aveva preparato.
– Quali difese?
– Aveva fatto scavare attorno alla missione un profondo e largo fossato che aveva riempito di nafta ed era pronto a dargli fuoco. Poi
c’erano i santal con le loro frecce micidiali. In seguito, Cesare mi raccontava di essere sicuro che avrebbero davvero respinto i militari.
Non è che dicesse: mi arrendo alla violenza. No, aveva organizzato la
difesa. Fatto sta che, vedendo la jeep col cannoncino, allerta i suoi
uomini e si prepara a difendersi; ma il catechista va avanti a mani alzate e grida: “Padre, sono amici, sono amici!”. Così riceve il maggiore nella missione, gli fa visitare tutto, profughi compresi, e gli dice
chiaramente che i militari dell’accampamento vicino disturbano il lavoro caritativo della missione. Il maggiore chiama il comandante e i
suoi aiutanti del campo vicino e dice loro: “Se i vostri militari fanno
del male al padre e alle persone ospitate nella missione, voi siete responsabili e vi accuserò di fronte alla corte marziale”. Padre Pesce
non ha più avuto fastidi. Era il tempo fra marzo e giugno del 1971,
quando i bengalesi si erano rivoltati contro i militari pakistani e bihari; soprattutto questi ultimi erano i più feroci oppressori dei bengalesi. La guerra civile è scoppiata il 25 marzo 1971 e terminata, grazie all’intervento dell’India, il 16 dicembre 1971.
Perché padre Pesce non è fuggito in India come altri missionari del Pime che vivevano vicino al confine, che hanno seguito
92
il loro gregge nei campi profughi indiani? Cesare racconta che
quando il suo catechista è fuggito in India (vedi sopra), gli giunge, da un confratello che lavora nei campi profughi in India (probabilmente lo stesso padre Alvigini già ricordato), una lettera
accorata in cui gli dice di fuggire anche lui con le suore in India:
restando in Bengala sono in grave pericolo, tanto più che in quei
giorni varie voci avevano avvisato che era possibile un prossimo
attacco alla missione di Mariampur da parte delle truppe pakistane. Cesare scrive:
Avevo paura, una incontrollabile paura. Convocai una riunione
segreta e per sicurezza ci riunimmo nel convento delle suore per
discutere come comportarci in quella difficilissima situazione.
Quando arrivammo al punto cruciale della situazione, e cioè se
abbandonare la missione, suor Erminia, la donna più semplice che
io abbia mai incontrato, scese dalle scale e sorridendo ci disse: “No,
fratelli, non andate via, per favore. Niente mai avverrà qui, poiché
Gesù è con noi. Perché essere preoccupati?”. E il suo volto, ormai
con molte rughe ma ancora bello, si illuminò tutto nel buio della
notte. Così restammo e non avvenne niente.
Superata l’emergenza della guerra civile, la missione di
Mariampur riprende a marciare a pieno regime. Cesare scrive che
la missione tenta di far entrare nelle cooperative agricole e nelle
“credit unions” anche i musulmani e gli indù, ma le difficoltà che
si incontrano, “per i loro pregiudizi e ignoranza”, sono notevoli.
Comunque, gli alunni della scuola della missione sono duplicati
in pochi anni, da 300 a 600 e sono “obbligati a fare scuola sotto
le piante” 13. In un’altra lettera Pesce butta giù uno spaccato di
vita missionaria quotidiana, quasi eroica se vogliamo, ma per lui
era la normalità. Scrive 14:
13 Lettera del 2 ottobre 1972 a mons. Libero Meriggi, direttore del Centro
missionario diocesano e Vicario generale della diocesi di Tortona (morto il 15
marzo 1996). Le lettere a mons. Meriggi e al Centro missionario diocesano di
Tortona, conservate in trascrizione al computer nell’Archivio generale del Pime
(più di cento dal 1965 al 1999), costituiscono il materiale archivistico più importante che abbiamo trovato per questa biografia.
14 Lettera a mons. Meriggi il 13 dicembre 1972.
93
Sono le cinque del mattino e attendo che si rischiari per fare una
motociclettata a Belewa, un villaggio cristiano a una quindicina di
chilometri, per preparare quella buona gente al Natale. Questo
mese è così: ogni mattina la messa in un villaggio e alla sera qui al
centro. Il tempo passa veloce e lieto. Mi rimarranno purtroppo una
decina di villaggi da visitare: ho sbagliato i calcoli e per Natale non
tutti potranno confessarsi e comunicarsi. Sarà per dopo Natale.
Sono ancora solo, essendo l’altro prete in Italia per le sue vacanze.
Così mi rimane un monte di cose da fare e da pensare. Adesso
abbiamo iniziato una quindicina di cooperative agricole e ti dico io
che non rimane neppure il tempo di fare il bagno prima del pranzo
(se si può chiamare pranzo un piatto di riso bollito da solo). Domani mattino, se mi sveglio alle 4,30 come oggi, scriverò alla tua segretaria missionaria sulle nostre cooperative. Ciao e grazie di tutto a
nome mio e di tutta questa gente che ormai ti conosce di nome se
non di persona.
Per completare il quadro, vale la pena di leggere quanto Cesare scriveva alla segretaria dell’Ufficio missionario diocesano
(Camilla Brambilla). Dopo averle chiesto di interessare i lettori
del settimanale diocesano di Tortona per aiutare le sue cooperative agricole, aggiunge 15:
Io non ho proprio più il tempo materiale e poi non sono più capace di scrivere articoli. Da quindici giorni mi alzo alle cinque, vado
in moto a dir Messa in qualche villaggio cristiano, magari a 30-40
km. da qui (con quelle strade! n.d.r.). Ritorno, pranzo e lavoro in
ufficio fino alle sei di sera, celebro la seconda Messa con i cristiani
di questo villaggio e i duecento ragazzi del “boarding” (ostello per
studenti), ceno in fretta perché alla sera c’è sempre qualche adunanza della S. Vincenzo o del Corr (Caritas bengalese) o delle cooperative o qualche altro accidente che mi manda a dormire oltre le
dieci. Ora debbo smettere perché mi accorgo che sono le 6 e debbo correre a Cheargaon dove mi aspettano per la Messa e le confessioni.
15
94
Lettera del 16 aprile 1974 da Dinajpur.
“I morti di fame non s’incontrano più per le strade”
Non so quanti missionari hanno fatto l’esperienza di padre
Cesare Pesce: credo pochi, pochissimi. Lui era un prete disposto a tutto, malleabile, flessibile, aperto, generoso, sorridente
nonostante tutto. Addentrandomi nell’esame delle sue lettere e
della sua vita di missione, mi accorgo che il vescovo e i superiori del Pime lo usavano come un “jolly”: sapevano che col suo
carattere cordiale, disponibile e molto concreto, ovunque andava faceva bene e lo mandano dove c’è bisogno di iniziare un
lavoro o risolvere qualche problema o rimpiazzare altri che hanno realizzato poco oppure hanno combinato qualche pasticcio.
Fatto sta che anche la seconda volta che va a Mariampur (Daulighat), vi rimane poco più di tre anni (dicembre 1970 – marzo
1974), durante i quali crea le cooperative agricole e (come dice
in una lettera del 27 giugno 1973) fonda un’azienda agricola e
decine di scuolette nei villaggi che ne erano privi. Gli amici di
Novi Ligure gli avevano regalato pompe per l’acqua e quelli di
Voghera un trattore. Il parroco di Novi Ligure, don Franco
Zanolli, ricorda:
In una lettera che mons. Brenta aveva scritto a padre Cesare, gli aveva messo alcuni semi di pomodoro e qualche mese dopo Pesce gli
scriveva: “Qui i pomodori vengono grossi come zucche”; e raccontava che nella sua fattoria si facevano tre e anche quattro raccolti di
riso l’anno. La lettera venne letta nelle Messe qui alla Collegiata.
Quando era in vacanza a Novi, padre Cesare parlava nelle scuole e
meravigliava gli alunni quando affermava che nella scuola della sua
missione i bambini ci andavano molto volentieri, ma poi aggiungeva: “Almeno sono sicuri di mangiare per quel giorno una scodella
di riso con un po’ di pomodoro o altro condimento”.
Mentre era a Mariampur, il 24 giugno 1972 scrive a mons.
Meriggi una delle poche lettere in cui traspare un certo sconforto, lui che era sempre così ottimista e pieno di speranza:
95
Grazie della tua lettera e dell’aiuto generoso per questo povero paese disgraziato fino alle midolla delle ossa. Io davvero alle volte mi
domando quale diavoleria sia venuta a ficcarsi in questa terra. Dopo
tutte le traversie del ciclone e della guerra civile, siamo venuti ora
alla siccità che ha impedito la semina del primo riso: si prospetta la
fame, mi correggo, siamo già alla fame. Il C.O.R.R. (“Christian
Organisation Relief and Rehabilitation”, la Caritas del Bangladesh)
fa un lavoro immenso per tappare qualche falla, ma ci vuole altro
con 70 milioni di poveracci. Noi non ce la facciamo più: morti dal
lavoro per questo relief, i nervi cedono dopo un anno di guerra fra
l’esercito pakistano e i partigiani bengalesi (Mukti-Bahini) e un
secondo anno di lotta contro la fame, le malattie, la mancanza di
lavoro di un popolo intero.
I superiori e il Vescovo ora provvedono a darci un mese di vacanza. Molti ne approfittano perché hanno davvero bisogno per la salute fisica e psichica. Sto pensando anch’io a questa possibilità, ma
sono qui da solo e lasciare tutto questo ufficio e la parrocchia per
un mese è un problema… Ad ogni modo per ora tiro avanti più con
la fede e la forza morale che con la forza e la volontà fisica.
Nel marzo 1973 il vescovo chiama padre Pesce a Dinajpur per
metterlo a capo del “Centro catechistico diocesano” da poco fondato (ma continua il suo impegno a Mariampur fino al marzo
1974). Infatti a Mariampur Cesare si era già distinto per la capacità di fare “il catechista dei catechisti” come lui stesso scrive.
Avrebbe potuto dire: “Ma insomma, basta, lasciatemi un po’ tranquillo in questa missione che ho rimesso in piedi!”. Invece no:
tace, obbedisce e va sereno dove lo mandano, come al solito, pieno di entusiasmo. Qui non si tratta solo di bel carattere, c’è qualcosa d’altro, che è la santità di vita, la forza di Dio che era in lui.
Al massimo si confida con mons. Meriggi, direttore dell’Ufficio
missionario diocesano di Tortona 16:
Con dolore e sacrificio immaginabile ho lasciato il mio distretto missionario e sono venuto qui col misero bagaglio di cognizioni apprese qualche anno fa all’Università Lateranense, per tentare qualcosa
16
96
Lettera del 16 aprile 1974 da Dinajpur.
nella formazione dei nostri catechisti e formarne dei nuovi. È un
lavoro massacrante di preparazione, ma bisogna che qualcuno si
prenda questa briga. Speriamo che qualcosa riesca a fare, con l’aiuto del Signore. Mi è spiaciuto molto, molto davvero lasciare quella
mia buona gente di Mariampur, a cui mi ero affezionato come e più
della mia famiglia. Ormai è fatta e ho cominciato a lavorare nel mio
nuovo campo. Certamente non avrò le soddisfazioni che può avere
un pastore nella sua parrocchia, ma sono convinto che quest’opera
deve avere la priorità sul lavoro stesso della parrocchia. E così sono
qui a chiederti una preghiera per aiutarmi a compiere il mio dovere.
Il corso residenziale per catechisti organizzato da padre Cesare a Dinajpur, centro della diocesi, durava due anni, con lezioni e
vita comunitaria come in un seminario. I suoi primi diplomati
sono 28 (14 uomini e 14 donne, di cui 5 suore), “che dovrebbero diventare i leaders del prossimo futuro, una specie di diaconi
anche sposati senza l’ordine”; poi ci sono i corsi brevi di uno o
due giorni ai catechisti delle singole missioni, che Cesare tiene
ovunque venga richiesto. L’anno 1974, giudicando dalle sue lettere, è stato uno dei peggiori, per le turbolenze politiche e soprattutto per una grave carestia, che egli a dicembre così ricorda 17:
Qui in Bangladesh la va un po’ meglio: i morti di fame non si incontrano più per le strade. Il riso ormai matura nei campi e per un po’
di tempo, almeno, i tristi giorni delle morti per fame non sorgeranno più. Poi sui giornali leggo di grossi aiuti elargiti dalle Nazioni
Unite e da vari paesi: tutto fa sperare in un anno nuovo, migliore
del passato.
Nel 1975 gli viene affidato anche l’impegno domenicale nella
parrocchia di Saidpur (una quarantina di chilometri da Dinajpur), dove si trasferisce nel maggio 1977, mantenendo ancora
l’incarico di direttore del Centro catechistico diocesano.
Padre Pesce era amicissimo di mons. Aristide Pirovano, a
quel tempo superiore generale del Pime. Erano cresciuti assieme
nel seminario teologico del Pime e diventati sacerdoti a poca
17
Lettera a mons. Meriggi, 3 dicembre 1974.
97
distanza l’uno dall’altro: Pirovano il 21 dicembre 1941 e Pesce il
29 marzo 1942. Il missionario di Novi Ligure scrive al vescovo (4
dicembre 1974) per gli auguri di Natale, ma anche, e forse soprattutto, per presentargli, “da buon amico”, un lamento che lui stesso e altri fanno al “raja del Pime”: “raja” è il principe, il capo, il
padrone. Cesare scrive che il vescovo di Dinajpur è tornato da
Roma e lui gli ha chiesto come ha trovato mons. Pirovano. “È un
po’ invecchiato – risponde – e non ha idea di venire in Bangladesh”. Cesare aggiunge: “Che tu abbia poca voglia di venire in
Bangladesh non è necessario un Einstein per intuirlo”.
La lettera va spiegata perché è interessante per inquadrare lo
spirito di padre Pesce. Mons. Pirovano era stato in Bangladesh
qualche anno prima (1969) e diversi membri dell’Istituto l’avevano accolto freddamente e anche in modo sgarbato. Erano gli anni
del “sessantotto” e un certo spirito di fronda e di contestazione
dell’autorità si era diffuso nelle missioni, attraverso i missionari
giovani che vi venivano inviati, ma anche per la stampa internazionale e cattolica che diffondeva lo “spirito del sessantotto”. In
Bangladesh poi esistevano motivi più precisi per questo atteggiamento: i missionari vivevano un’agonia continua: guerra di liberazione, violenze e vendette dopo la liberazione; inondazioni e
carestie, povertà estrema della loro gente; epidemie di colera e
altre malattie... Come spesso succede nelle missioni più provate,
i missionari avevano l’impressione che il Bangladesh fosse trascurato dai superiori del Pime e dall’Istituto stesso. Così quando
Pirovano va in visita ai missionari del Bangladesh (con molto
sacrificio perché non stava bene) un suo missionario gli dice:
“Perché è venuto a trovarci? Lei qui è superfluo”; e poi in vari
modi gli fanno pesare la sua presenza. In seguito manda il suo
vicario generale e alcuni consiglieri, ma lui non ci va più.
Il 19 febbraio 1975 Pirovano risponde a Pesce e gli ricorda i
momenti belli del loro seminario. Il “caro Pesciolino” aveva, da
“buon giovincello”, la passione del pallone e al lunedì, con altri
compagni, comperavano «La Gazzetta dello Sport» per leggerla
di nascosto, “giornale proibito agli occhi del buon e innocente
padre Caminada” (il rettore del tempo). Pirovano aggiunge che
le sue “grane” sono ben altre che quelle! I seminaristi “almeno
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leggessero e studiassero solo la «Gazzetta dello Sport»: sarei sicuro, sicurissimo di avere dei missionari in gamba”. Invece in quegli anni c’era la contestazione sistematica alla Chiesa, al Papa e ai
vescovi, ecc. Tanto che Pirovano era stato da poco costretto a
chiudere il seminario teologico del Pime, per riaprirlo l’anno
seguente con nuovi superiori, professori e circa metà degli ottanta alunni di prima. Tutto questo per capire la situazione del vescovo superiore generale. Il quale scrive a Cesare:
Non è che non abbia voglia di vedere e visitare il Bangladesh. La
verità è che non ci sono più venuto e non penso di venire perché è
stato scritto dalla... comunità che la mia è stata una visita inutile; e
questo in un documento ufficiale esprimente la volontà della comunità. Deo gratias, mi sono detto; una bella grana di meno. Grazie al
Cielo non mi sono mai rifiutato di affrontare le grane, quando queste mi cercano e mi piovono addosso; ma il senno della vecchiaia (e,
confessiamolo, un po’ di “puntiglio” nei vostri riguardi) mi ha insegnato a non rincorrerle e a non cercarle. Si sta meglio tutti: voi e io.
D’altra parte, in coscienza sono tranquillo perché non si può dire,
nonostante il “puntiglio”, che la Direzione generale abbia tralasciato di curare e provvedere il Bangladesh: uomini e mezzi non sono
mancati e siete la missione più aiutata; visite di membri della Direzione generale pure non sono mancate. Quindi, in pace voi e in pace
io. Del resto sono sicuro che anche voi, pian piano, troverete la via
giusta non solo per aiutare questa povera gente morta di fame, ma
specialmente per farne... discepoli del Signore: punto centrale della
missione.
Naturalmente questa è la visione del problema che ne aveva
mons. Pirovano. La verità è forse più complessa, ma ho citato
l’episodio per dare un’idea molto concreta delle tensioni che vivevano i missionari del Bengala in quelle tragiche situazioni e di altri
“incidenti” simili che capitavano in quegli anni post-sessantottini
anche in altre missioni affidate al Pime (Filippine, Guinea-Bissau,
Amazzonia, Brasile del sud). Pirovano conclude la sua lettera
incoraggiando l’amico “Pesciolino”:
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Auguri per il tuo lavoro al Centro catechistico: per me lo considero
il lavoro più importante di tutta la diocesi: centro catechistico e
seminario sono le due colonne della Chiesa. Coraggio: tu sei ancora giovane (relativamente) e non ti manca l’intelligenza, l’esperienza missionaria e la scienza. Coraggio, Pesciolino, e resisti: è il più bel
lavoro e il più importante che ti possa capitare.
100
4.
PARROCO A PATHORGATA
La vita del missionario, specialmente di uno come padre
Pesce, sempre allegro perché prendeva tutto dalle mani di Dio, è
quanto mai varia e ogni giorno nuova. Nei suoi 45 anni di Bengala, Cesare ha cambiato una dozzina di posti e di compiti, sempre mettendo in ciascuno di essi tutta la sua passione e agendo
come se fosse il più importante e quello definitivo della sua vita.
Ancora negli ultimi tempi, quando aveva più di ottant’anni, ci siamo visti nel santuario di Rajarampur (nel settembre 2001, era là
dal gennaio 2000) e ho passato con lui una giornata a sentirlo illustrare i suoi progetti non solo per il piccolo e nuovo Santuario di
Maria, ma di contatti con musulmani e indù, di iniziative nuove
da intraprendere, di un libro che stava scrivendo sulla sua vita
missionaria. Ricordo che gli ho detto: “Tu non andrai mai in pensione”. Infatti, nel gennaio 2002 ha dovuto tornare in Italia ed è
morto a Rancio di Lecco il 13 luglio dello stesso anno. Libero da
ogni attaccamento, disponibile a tutto! Che bella vita! Che bel
missionario!
Espulso dal Bangladesh per una bottiglia di cognac?
Nel 1975 padre Pesce riceve dal Vescovo l’incarico di assistere i fedeli della parrocchia di Saidpur, mentre è ancora direttore
del Centro catechistico diocesano. Saidpur, importante centro
ferroviario e cittadina moderna, è la più antica parrocchia della
diocesi di Dinajpur, fondata dai missionari del Pime all’inizio del
secolo XIX; ma anche quella con il minor numero di cristiani,
quindi adatta a padre Cesare che dirigeva anche il Centro catechistico diocesano a Dinajpur. Due impegni faticosi, anche per i
continui viaggi dalla sede episcopale alla parrocchia, circa 60 chi101
lometri, con le strade bengalesi di quel tempo! Ma Cesare non
aveva ancora 60 anni, era appassionato del suo lavoro e si impegnava ad organizzare la pastorale a Saidpur, mentre nel centro
della diocesi dirige il movimento catechistico con sempre nuove
iniziative a livello popolare, soprattutto producendo sussidi in
bengalese per le scuole di catechismo. Nell’autunno 1976 si concede una breve vacanza in Italia e due mesi dopo, il 14 gennaio
1977, è di ritorno a Dinajpur (lettera a mons. Meriggi del 25 gennaio 1977). In un’altra lettera a mons. Meriggi (del 3 dicembre
1977) così descrive i suoi due incarichi:
Io continuo a dirigere il centro catechistico e giro le parrocchie della diocesi per i corsi di istruzione e preparazione pastorale ai catechisti e leaders dei villaggi. Nello stesso tempo reggo questa vecchia
parrocchietta di Saidpur. Sto a casa poco tempo, ma questo sparuto gruppo di cristiani ha un prete, dopo tanti anni che non aveva
nessuno, almeno alla domenica e alle feste religiose. Sto tentando in
qualche villaggio indù di far conoscere che Gesù è nato anche per
loro, speriamo bene! E poi sto scrivendo qualche libretto religioso
in bengalese, per aiutare i catechisti e i catecumeni. Così la mia giornata passa veloce e, spero, non inutilmente.
A Saidpur Pesce visita i villaggi in compagnia di due suore del
Centro diocesano e scrive che “senza suore permanenti il lavoro
missionario è sempre a metà: bambini e donne sono più curati
dalle suore che dal missionario, senza contare poi la scuola elementare e il dispensario medico”. Infatti a Saidpur avvia subito la
costruzione di una casa per le suore e ringrazia mons. Meriggi che
gli ha mandato “una grossa somma, proprio necessaria” anche
per costruire la nuova scuola.
I suoi amici della diocesi di Tortona non lo abbandonano. Gli
mandano continuamente soldi, materiale da costruzione, attrezzature per le sue opere e naturalmente molti pacchi e pacchetti.
La signora Rita Mora (che Cesare ricordava con affetto come “la
bionda”), racconta un episodio degli anni settanta:
A quel tempo nelle missioni si spediva di tutto, si può immaginare
l’impegno del gruppo San Paolo nei riguardi di padre Cesare Pesce.
102
Era anche un modo per fargli sentire la nostra amicizia, in particolare nell’avvicinarsi delle grandi feste come Natale. Fu in una occasione simile che suggerii di occultare una bottiglia di cognac tra gli
indumenti e le varie cose. Già gustavamo la sua gradita sorpresa.
Ahimè, come ci sbagliavamo!!
Da un suo ritorno in patria (perché di scrivere queste cose non se
ne parlava) in occasione della malattia della sorella che desiderava
vederlo, ci raccontò quali furono i grattacapi che ebbe all’ufficio
postale per sdoganare quel famoso pacco contenente la bottiglia di
cognac. Il personale dell’ufficio, che ficcava il naso nei pacchi altrui
specie se non musulmani, scoprì la bottiglia e padre Cesare dovette
faticare parecchio per non urtare i funzionari ultrazelanti, assicurando che lo usava come medicinale, e asserendo che, se credevano, lo
potevano buttare a mare.
Alla fine riuscì a sdoganare il pacco, compresa la bottiglia di cognac.
Se la vide parecchio brutta, perché esisteva il reale pericolo di espulsione dal paese. Il ricordo è vivo dentro me, perché mentre lui ci
rimproverava e ci raccomandava di non fare più una simile “gentilezza”, guardava proprio me, eppure su quella bottiglia non c’era
mica il mio nome. Avevamo però capito che padre Cesare conosceva perfettamente il suo popolo bengalese, ma anche noi di Novi
Ligure. Mi viene spontaneo dire a padre Cesare: “Che bella vita è
stata la tua!”.
“Ma i soldi arriveranno lo stesso”
Nel luglio 1979 padre Pesce è trasferito da Saidpur a Pathorgata, dove rimane fino al 1995. Aveva 60 anni, che in Bangladesh
valgono più che in Italia, in quel clima e in quella povertà. In una
lettera dei primi giorni della sua permanenza a Pathorgata, dove
il vescovo l’ha mandato per sistemare i contrasti nati nella parrocchia, scrive all’amico mons. Libero Meriggi di Tortona (24 luglio
1979):
In Italia la gente della mia età (aveva sessant’anni, n.d.r.) è forzata
ad andarsene in pensione. Prende la canna da pesca e se ne va in
riva al fiume in attesa dell’ultimo tramonto. Qui fortunatamente le
cose sono un po’ differenti. Vedi l’intestazione della lettera? Cam-
103
bio di indirizzo, vero? Già, il vescovo mi ha mandato a fare il parroco di Pathorgata, dove il parroco e un gruppo di cristiani non
andavano più d’accordo. A rompere la pace erano sorte questioni
sulla scuola e sulla cooperativa agricola. Il parroco pensò bene di
dimettersi e di andarsene. Il Vescovo, che, oltre al resto, è nuovo, si
trovò in un ginepraio. Che fare? Pensò che un vecchio lupo del Bangladesh – 31 anni di missione ormai – potrebbe essere ancora utile
a sciogliere la matassa. Ed eccomi qui.
Due settimane fa feci il mio ingresso trionfale (!?)… in bicicletta, dalla stazioncina ferroviaria di Panchbibi su una strada fangosa e viscida. Ogni tanto mi fermavo a togliere il fango che si incastrava fra il
parafango e la ruota posteriore. Era la preparazione alla mia prima
messa nella nuova parrocchia. Finalmente arrivo in chiesa. Che
malinconia! Dalla splendida chiesetta di Saidpur, forse la più bella
del Bangladesh, ad uno stanzone fatto di fango e lamiere… poi nella
canonica costruita con fango e mattoni non imbiancati di calce.
Per rendere l’avvenimento più solenne, all’aperto, tre o quattro
ragazze si mettono a danzare. Ce la mettono tutta, poverine, per sollevare il mio spirito. Io sorrido, applaudo, continuo a ripetere: “Bello! Magnifico! Artistico!”, ma rivedo nella mia fantasia le splendide ragazze musulmane della città lasciata, istruite nella loro piccola
accademia di arte e musica. Che differenza! Nel ritmo, nelle movenze, nella grazia, nella bellezza …beh, ma forse il cuore è lo stesso, il
fine è lo stesso: versare un po’ di gioia nel mio vecchio cuore, prepararlo e scuoterlo al nuovo amore verso questa mia nuova famiglia.
Uno studente legge un address (indirizzo) di benvenuto e d’augurio. “Bellissimo! Grazie!”, dico io e penso alla dolcezza della lingua
bengalese massacrata dalla pronuncia di un aborigeno… eppure la
sostanza è la stessa. Ciò che vuole esprimere lo studente della campagna di Pathorgata non è diverso da ciò che esprime il raffinato e
il sofisticato studente cittadino di Saidpur. “Sta allegro don Cesare”,
mi dico: “Ti vogliono già bene al tuo arrivo. Su, su, guarda il sole e
le ombre rimarranno alle tue spalle!”. Così, a Pathorgata ormai, in
un angolo della campagna del Bangladesh, lasciati i piccoli conforti che può offrire la città. Fango e campi di riso, strade impossibili
e capanne di fango e paglia, ma alberi uccelli e fiori, fiori: orrido e
bello. Immensamente bello. Dio mi ha mandato qui a cogliere i fiori, non le spine. Ma so già che per impossessarmi dei fiori dovrò lottare con le spine; forse è necessaria qualche goccia di sangue. Beh,
104
è legge di natura. Ma ne vale la pena: inebriarmi del profumo di
questi fiori, anche se punzecchiato da qualche maligna spina della
giungla.
Ho un po’ di paura, è logico. Non so neppure da dove incominciare. Che avverrà? I miei amici musulmani mi rispondono in arabo :
“Wallaha a’am” (solo Iddio lo sa) ed io aggiungo in italiano: “Qualche santo provvederà”. Ricordati di me che sto tentando di cogliere fiori fra le spine.
Infatti, gli amici di Tortona, Novi Ligure e Voghera non lo
dimenticano e gli mandano aiuti consistenti. Ma spedire i pacchi
ai missionari è spesso un’avventura. Una volta Cesare riceve un
pacco da Tortona, ringrazia e scrive che quanto gli hanno spedito è graditissimo… però un’altra volta scrive: “State attenti: la
farina di polenta, lo zucchero e il caffè macinato sono usciti dai
cartocci e s’è creato un bel miscuglio. E adesso, che faccio?”. Ma
i problemi del missionario erano ben altri. Ad esempio, a Pathorgata trova una chiesa che è un capannone di fango con tetto di
lamiera. Bisogna costruirne una nuova, anche perché lì vicino
“c’è una moschea nuova fiammante a fianco della tomba di un
santone musulmano, meta quotidiana di pellegrinaggi. Naturalmente i pellegrini vengono a curiosare da noi e io mi trovo sempre pieno di vergogna nel mostrare il capannone-chiesa…”. Però
le suore sono una priorità assoluta. Cesare incomincia a costruire
la loro casetta, ma quando al sabato sera i muratori vengono a
chiedere la giusta ricompensa, lui si avvicina alla “cassaforte”
(che, scrive, bisognerebbe chiamare “cassadebole”) e per fortuna,
chissà come, ci trova il necessario. Aggiunge (lettera del 7 febbraio 1980):
Quand’ero ragazzo, c’era un uomo che dal balcone di Palazzo Venezia a Roma gridava: “Chi si ferma è perduto!”. Lui non si è fermato e si è perduto. Spero che la stessa disgraziata vicenda non si ripeta per me. Quello là, volere o no, aveva una bella dose di temerarietà, io invece ho sempre una paura maledetta di fallire, se dall’alto
non scende un raggio di sole o almeno un pallido chiarore di luna
piena.
105
Gli amici italiani non lo lasciavano solo e lui scriveva: “Ti
devo ripetere che ho ricevuto tutto: e pacchi e roba e soldi e preghiere e amore. E ti devo ripetere il mio grazie e le manifestazioni di gratitudine e di gioia da parte dei miei ragazzi e delle suore”. Però poi gli amici vogliono che egli scriva articoli sul settimanale diocesano di Tortona e su quello di Novi Ligure. Cesare,
come abbiamo visto, sapeva scrivere bene, era geniale ed efficace. Ma spesso rispondeva scusandosi di non aver mandato articoli: non aveva tempo, le sue mani da contadino erano ormai inadatte a maneggiare la penna e via dicendo. Una volta finalmente
scrive il suo articolo: come mai? perché? (Lettera del 4 ottobre
1980).
Oggi finalmente scriverò, sebbene malamente perchè ho un dente
che mi fa vedere le stelle. Non ho dormito tutta la notte e qui non
c’è un accidente di medicina per calmare il dolore. Beh, passerà.
Forse, scrivendo e pensando ad altro, si sente meno.
A volte Pesce manda lettere e anche foto, ma tutto va perso.
Allora si arrabbia, ma il massimo grado delle sue imprecazioni è
“Orco cane!”. Oppure i pacchi e il materiale che gli amici mandano non arrivano: allora Cesare diventa una belva e impreca contro
il personale delle poste o le dogane del Bangladesh. Nota che, data
la difficile situazione politica del paese (colpi di stato e legge marziale), i controlli sono diventati asfissianti e le dogane costano il
doppio dell’anno precedente. Non riceve quasi più il settimanale
diocesano, nemmeno i numeri sui quali c’è un suo articolo: “Cosa
vuoi farci? Qualche volta al post-office hanno bisogno della bella
carta estera e ringraziano Allah quando essa cade facile preda nelle
loro mani”. Così come quando i pacchi che contengono “food”,
cibo, spariscono senza lasciare traccia e il povero “Pesciolino”
legge costernato l’elenco di quel che c’era dentro: scatolette di
carne e sugo di pomodoro ad esempio, per insaporire ogni tanto il
riso bollito e non finire sempre nella solita salsa “curry”, cioè piccante. Come nel Natale 1983, quando gli mandano il necessario
per una “spaghettata” che doveva essere memorabile nella sua vita
in Bangladesh. E invece deve accontentarsi del “solito curry”.
106
Ma queste sono piccole pene, a confronto di quelle che succedono nel periodo in cui si celebrano i matrimoni (dal Natale
alla Quaresima), quando il missionario deve stare attento a non
trasgredire non solo le leggi della Chiesa, ma anche quelle della
tradizione tribale (non scritta) dei suoi oraon e santal, che sono
“un rompicapo terribile”. Lui, dopo trent’anni di Bengala, ci fa
spesso “la figura dello stupidotto” ed esclama: “Il periodo dei
matrimoni è finito, grazie al Padreterno e ad Adamo che li hanno inventati”. Ma padre Cesare è un appassionato del ministero
sacerdotale, pur con tutti i fastidi che procura. Il 2 agosto 1981,
dopo una rapida visita in Italia, scrive:
Eccomi arrivato a casa. Stamattina ho celebrato la Messa domenicale e la chiesa era piena. I bambini naturalmente erano i più numerosi e i più adatti a farmi scappare la nostalgia di Novi e dell’Italia.
Logico, oggi abbiamo pregato per i miei parenti, amici, benefattori,
per tutta l’Italia e quelli che ci sono dentro, buoni e cattivi, sani e
malati, felici e infelici. Sono lieto di essere ritornato. Ci saranno i
grattacapi accumulatisi durante la mia assenza, oltre i soliti di ogni
giorno. Lo sai che questa parrocchietta non è poi delle più facili e
ci vuole tutta la diplomazia di un … affezionato al Vaticano come
sono io per cavarmela? Speriamo bene.
Qui ora sono impegnato, un po’ troppo, per i corsi annuali ai matrimoniandi, ai genitori, ai catechisti, ecc. Oltre al resto, ho due suore
che tentano di dare un po’ di istruzione religiosa nei villaggi ed è
logico che debba seguirle un po’, almeno per la Messa nei diversi
luoghi. Il Vescovo poi verrà in visita pastorale alla metà di novembre. Bisogna preparare i bambini alla Cresima: è dal 1975 che non
la si amministra. Per fortuna i 78 ragazzi e ragazze dell’hostel (pensionato scolastico) non danno fastidi. Mi porta via un po’ di calma
il progetto di irrigazione, dato che non piove e i canali sono in uno
stato pietoso. La gente è sottosopra per la faccenda. Porterò la sabbia e aggiusterò, almeno per il grano. Poi ci sarà la grossa porcheria del tetto della scuola da cui, durante la stagione delle piogge,
pioveva a catinelle e abbiamo dovuto far andare gli scolari a sedersi altrove, in posti di fortuna. Mi dico spesso: “Calma!” e tiro avanti. Così, Joy Bangla! (Lettera del 22 ottobre 1981).
107
La vita quotidiana di padre Cesare, come degli altri missionari, era strettamente dipendente dalla preghiera e dall’aiuto di Dio,
ma anche dai soldi, che in genere non bastano mai: costruzioni,
catechisti, aiuti ai poveri, mantenimento di orfani, scuole, dispensari medici e di altri servizi sociali, riparazione delle costruzioni
(che in quel clima caldo umido si sfasciano presto!), ecc. Nelle
sue lettere Pesce non chiede quasi mai direttamente aiuti a parenti ed amici. Ringrazia sempre chi gli manda qualcosa, ma ha una
grande fiducia nella Provvidenza ed è distaccato anche dal denaro. A volte vorrebbe ringraziare ma dall’Italia riceve somme
anche consistenti e non capisce chi glie le manda! Il 22 febbraio
1994 scrive a don Franco Zanolli, parroco della Collegiata di
Novi Ligure:
Grazie della grossa somma che mi hai mandato. Caspita, che colpo!
Ma a chi devo scrivere i ringraziamenti? C’è il nome ma non riesco
a leggerlo e poi non c’è l’indirizzo. Anche mons. Meriggi mi manda
la ricevuta e si ripete la stessa faccenda: nome indecifrabile e mancanza di indirizzo!
Nel 1979 Pesce stampa la prima edizione del volumetto Strade della vita (con la prefazione dell’amico francescano padre
Nazareno Fabretti), paga le spese acquistando un certo numero
di copie, che affida al direttore del Centro missionario diocesano,
mons. Libero Meriggi, perché le venda realizzando qualcosa per
la sua missione (la seconda edizione è del 1989). Nel 1981 gli scrivono da Tortona che hanno ancora in deposito un buon numero
di libri: cosa ne facciamo? Cesare risponde di darli in omaggio e
distribuirne una decina di copie a ciascuna delle zelatrici missionarie, affinché le distribuiscano a chi può essere interessato, gratis. Se poi viene su qualcosa per la missione, tanto meglio, altrimenti va bene lo stesso; e anche se le offerte, invece di andare a
Pathorgata vanno a qualche altra missione non importa.
A me non importa proprio nulla se qualche bigliettone va a qualche
altra missione, anzi, ne sono arcicontentissimo. In generale non
chiedo mai per Pathorgata, come non ho mai chiesto per Thakur-
108
gaon. Eppure là s’è costruito quasi tutto e qui ho il “boarding”
(pensionato per studenti) da riparare, quelli di Jantuli vogliono la
chiesa in muratura, ecc. Ma i soldi verranno lo stesso. Non temere,
ce la faremo, vedrai (Lettera del 3 dicembre 1981).
Questa la vita missionaria: magnifica!
Negli anni ottanta, uno dei più forti ostacoli alle missioni cristiane in Bangladesh viene dai militari al potere, che hanno messo delle “regole tremende” per controllare il lavoro dei missionari e gli aiuti che ricevono dall’estero. “Hanno cominciato col voler
sapere quanti nuovi cristiani vengono registrati, poi quante take
(la moneta bengalese, n.d.r.) e in che modo e perché si spendono, specialmente se quelle take sono state acquistate con cambio
di denaro estero…”. Temono che con i missionari stranieri si
infiltri nel paese qualche teoria rivoluzionaria o che si “comperino le conversioni”. Padre Cesare ammette (lettera del 15 luglio
1983) che, secondo quanto si dice, c’è qualche setta pseudo-protestante americana o coreana che “giunge alla demenza di dare
denaro a questo scopo”. Ma questo non è assolutamente vero per
la Chiesa cattolica e le Chiese protestanti storiche (anglicani, luterani, ecc.), per cui diventa “un abuso inammissibile” penalizzare
tutte le missioni cristiane per qualche “demente” facilmente individuabile e punibile.
Tanto più che proprio le missioni cristiane hanno una massa
notevole di aiuti umanitari e di programmi di sviluppo, di cui
beneficiano tutti i bengalesi, senza eccezione di religione o di
etnia. Come si fa a scoraggiare questo fiume di aiuti gratuiti, con
una caterva di “regole e regolette”, suscitando disgusto e anche
qualche ritiro dal Bangladesh? È vero che le missioni cattoliche e
protestanti dipendono ancora in gran parte dagli aiuti dall’estero,
con tutta “la massa di programmi umanitari” che gestiscono.
“Come principio – scrive Pesce – anch’io sono convinto che idealmente la Chiesa del Bangladesh dovrebbe essere indipendente
e autosufficiente: ma dalla teoria alla pratica ci passa tutta l’acqua
109
del Gange e del Bramaputra”. Nel senso che se la Chiesa pensasse solo alla sua sopravvivenza e non ad aiutare il popolo, questo
sarebbe abbastanza facile: ma se vuol contribuire allo sviluppo
umano, all’educazione, a lenire le miserie più disumane, deve per
forza di cose chiedere l’aiuto dei fratelli cristiani di ogni parte del
mondo.
Padre Pesce si interroga: come fare a scrivere articoli, “manifestando con la stampa idee che non devono essere espresse?
Allora, è meglio seguire la strada del vecchio Cincinnato: prendere l’aratro e andare su e giù per i sentierucoli che dividono i campetti di riso”. E aggiunge:
Da trentacinque anni mi sembra di tirare a riva, in questo oceano di
povertà che è il Bengala, almeno qualche disgraziato naufrago e ti
vengono a immobilizzare le braccia. Ora sembra che le cose prendano una piega migliore, almeno più moderata. Il popolo, in generale, vuole uno stato più laico, eccettuata la solita fascia di fondamentalisti. A domare i bengalesi non sono riusciti né gli inglesi né i
pakistani e neppure le idee medievali e gli ulema del mondo arabo
hanno avuto successo. Io sono ottimista per natura e credo di non
andare errato a pensarla così.
Nella stessa lettera del 15 luglio 1983 (citata), padre Pesce
descrive la visita pastorale del Vescovo alla sua missione, dove ha
benedetto due nuove cappelle in due paesini da tempo cristiani:
“Mi sono costate un sacco di take. Sono contento però di averle
spese in questo paese, tanto più che le cappelle durante la settimana sono trasformate in aule scolastiche per i bambini aborigeni”.
Durante la visita ad un villaggetto santal, la cui popolazione è in
maggioranza “battista”, ho avuto la gioia di assistere ad un bel convegno ecumenico tra cattolici romani e battisti. Il Vescovo stesso
non riusciva a realizzare la situazione, credeva di trovarsi in mezzo
soltanto a cattolici, tanto i fratelli battisti andavano a gara a manifestare la loro gioia di avere un Vescovo in mezzo a loro e a manifestare il loro amore al rappresentante di Gesù indiviso, tra tante divisioni di uomini.
Le scuole sono ancora chiuse in occasione del mese sacro di Rama-
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dan. È finito con la famosa festa dell’Eid celebrata questa settimana. Fra giorni ricominceranno la solita storia: sacchi di riso e di take
per l’educazione di migliaia di ragazzi e ragazze dall’avvenire incerto in una nazione della Mezzaluna (segno e simbolo del mondo islamico, n.d.r.). Adesso sono maledettamente affaccendato con la
piantagione del riso e nelle riparazioni del “boarding”. I vicini non
cristiani (i cristiani qui sul posto, possiedono ben poche terre) sono
sempre sul punto di azzuffarsi per prendere l’acqua dal progetto
d’irrigazione della missione. Eccoti qui la mia missione di raffreddare con parole evangeliche e coraniche gli spiriti bollenti e buttare soldi per tirar su acqua che servirà a sfamare centinaia, forse
migliaia di gente che si chiama “il nostro prossimo”. Altro che comprare cristiani! Quest’anno si preannuncia nero: non piove per nulla e senza acqua qui siamo come i pesci all’asciutto. Allah Rahaman
dega! Altrimenti povero Bangladesh, che Kissinger ha definito “A
bottomless basket” (“Una cesta senza fondo”)!
Padre Cesare ama appassionatamente il popolo bengalese e
ha legato la sua vita di italiano alla nuova patria di adozione. Per
lui è una sofferenza constatare, a volte, che la situazione generale pare vada peggiorando, non migliorando. Buona parte del suo
tempo lo impegna nelle opere sociali e di promozione umana ed
economica. Ad esempio ha varato un “progetto irrigazione” con
una pompa per tirar su l’acqua dal terreno e un canale di distribuzione, che quando tutto va bene funziona. Ma, ad esempio, nel
1984 manca l’elettricità per tre mesi e si rischia di perdere il raccolto del riso. Il 7 luglio 1984 scrive a mons. Meriggi 1.
Per tre mesi siamo rimasti senza corrente elettrica. Puoi immaginare la costernazione di tutta questa gente che si serve del progetto
d’irrigazione della missione. Senz’acqua non c’è alcuna possibilità di
coltivare il riso. Da una settimana, grazie a Dio e ai capi di questo
povero paese, le lampadine stanno accendendosi… E pensare che
mentre noi diventiamo matti per avere l’acqua, in altre parti del pae-
1 Testo pubblicato in occasione del Premio “Torre d’Oro” ricevuto a Novi
Ligure nell’ottobre 1998 (vedi opuscolo pubblicato in quella circostanza); e in
«Missionari del Pime», dicembre 1998, p. 3.
111
se più della metà del Bangladesh è allagato con la perdita del raccolto di questa stagione.
Quel che preoccupa soprattutto padre Cesare è la situazione
generale del paese. I militari, dopo il primo tumultuoso decennio
di nazione indipendente (due presidenti uccisi e vari colpi di stato, scontri di fazioni e partiti, scioperi continui), hanno imposto
la legge marziale e rimandato le elezioni politiche, dato che i partiti d’opposizione avevano promesso di boicottarle. Il 2 novembre 1984 Cesare scrive:
Noi che siamo in campagna abbiamo e commentiamo soltanto le
notizie che vengono dalle città. Cosa vuoi che si interessino di politica questi poveri contadini che lottano soltanto per avere un piatto di riso condito malamente con un po’ di sale e due peperoncini?
Il paese va avanti con gli aiuti che vengono dall’estero. Non siamo
nelle condizioni dell’Etiopia, ma i prezzi sono proibitivi… La vita
politica è uno sfacelo. E di conseguenza l’economia nazionale va a
rotoli, le cose vanno di male in peggio.
Ma Cesare non ha tempo di scoraggiarsi. Deve mantenere,
oltre a tutto il resto, 115 ragazzi e ragazze che ospita nel pensionato della missione per farli studiare. Dalla poca terra che la missione possiede deve ricavare il vitto per tutta la tribù che dipende da lui: preti e suore, insegnanti e catechisti, orfani e studenti,
poveri, vedove e ammalati (che non possono pagare nulla); e poi
ricavare il necessario per pagare lo stipendio agli otto insegnanti
che istruiscono 300 studenti nella scuola della missione e agli altri
che servono nella missione. Cosicché, scrive, quattro buoi e tre
uomini lavorano ogni giorno sui campi tentando di ricavare dalla madre terra, anche variando le colture, il massimo che essa può
dare.
Il Presidente Zia (il capo del governo del Bangladesh, n.d.r.) – scrive in una lettera del settembre 1980 a don Franco Zanolli di Novi
Ligure – grida ai quattro venti che nemmeno un centimetro quadrato di terra del Bengala deve rimanere incolto. Ma anche senza le sue
parole, questo è un problema di vita o di morte. La Chiesa cattoli-
112
ca del Bangladesh è tremendamente preoccupata di questo problema dell’alimentazione ed è logico che i preti, insieme al Paternoster,
insegnino a coltivare riso e grano e passino la maggior parte delle
ore del giorno nei campi o nelle aie a tentare di far capire come funzionano pompe e attrezzi agricoli. Allora, anch’io divento contadino. E ti assicuro che così la vita è bella anche senza la televisione e
il cinema, il dancing e l’automobile. Di sera, dopo aver ascoltato il
giornale radio con le solite terribili notizie di attentati e atti terroristici, mi butto sul letto e mi addormento all’istante al ritmico gracidare delle rane, mandando a quel paese tutti gli stupidi, piccini
egoismi nazionali e personali di chi siede sui cadreghini governativi
del mondo.
Buona notte a me! Domani all’alba mi attende quel campo in riva
al fiume, che mi fa sempre “girar l’anima” con le sue falle. Dovrò
svegliare presto il mio uomo, per tamponarle ancora una volta: tre,
quattro quintali di riso raccolto laggiù vogliono dire il rancio per
dieci giorni dei miei studenti e studentesse all’Hostel! Buona notte
a te e ai tuoi bravi giovani e ragazze di Novi Ligure! Buon riposo e
dolci sogni guadagnati col vostro sacrificio e le vostre offerte, nel
tentativo di tamponare le numerose falle morali, economiche e
sociali di questo povero campo del Bangladesh. Grazie.
Padre Pesce prende tutto con fede e amore a Dio e al prossimo. Quindi è sempre su di giri. Il 3 dicembre 1984, dopo aver
descritto le situazioni di miseria del popolo e il lavoro delle missioni per aiutare la povera gente, scrive:
La vitaccia, intanto, va più o meno come al solito: per Natale la visita ai villaggi per le confessioni e le Messe, su e giù per le fantastiche, impensabili strade (ma chi ha il coraggio di chiamarle strade?)
del Bangladesh. Ritiri ai giovani, a uomini e donne… e poi la mietitura del riso, semina del grano e delle patate. Tutto fa brodo. È la
vita missionaria: magnifica!
Qualche anno dopo conferma (lettera del 28 maggio 1990):
“La vitaccia continua, la più bella del mondo, perché è quella di
un prete: la mia, la tua”.
113
“Mi godo la povertà felice del Bangladesh”
Nella corrispondenza di padre Pesce si trovano lettere che
sono quasi da antologia letteraria, almeno della letteratura missionaria. Questa ad esempio del 1° maggio 1985, all’amico mons.
Libero Meriggi (l’unico che ha conservato tutte le sue lettere!) da
Pathorgata, la parrocchia dove padre Pesce resta dal 1979 al
1995. A Pasqua, per mancanza di tempo, non ha fatto gli auguri
a don Libero e a tutti quelli che, con le loro preghiere e aiuti, permettono alla sua missione di vivere e progredire. Cesare se ne
accorge in ritardo, scrive all’amico e si presenta a lui “come il barbone della Piazza del Duomo (di Tortona), a testa bassa, umile
umile, per dirti che sono contrito e umiliato, e chiedo scusa…”.
Poi aggiunge:
Ma mi viene il dubbio: non è la mancanza di tempo per questi usuali ritardi nello scrivere. Dolorosamente, ahimé, devo ammettere che
divento vecchio e il brio d’un tempo va a farsi benedire. Per scrivere ci vuole concentrazione e io ora ne possiedo poca. Diventato parroco contadino di questa missione che, grazie alle fatiche del mio
predecessore, ha fama di essere all’avanguardia nei nuovi sistemi di
produzione agricola, mi piace un mondo sporcarmi le mani, aspirare l’odore acido del diesel e mobil-oil presso la vecchia pompa che
irriga i campi dei miei compaesani.
Che farci? Se non funziona la pompa della missione qui non c’è
acqua. Caspita, se non c’è acqua non si mangia. Da un anno qui
manca l’elettricità e il motore elettrico che pompava acqua per una
cinquantina di famiglie contadine ora è inattivo. Mi hanno regalato
un vecchio Slanzi che mi fa diventar matto per le sue continue
malattie. A forza di altrettanti continui interventi chirurgici riesce
però, quando sta bene, a far contente una ventina di famiglie.
Meglio che niente, no? E allora giù diesel e su acqua. Giù semi e su
riso. Qualcosa si ottiene, una goccia nell’oceano, per sfamare ‘sti
cento milioni di gente che mangia quando può.
Il manager della missione tempo fa è caduto giù dal secondo piano
della scuola ed è ritornato dopo qualche mese d’ospedale un po’
menomato dal collo in su. Ora fa il pensionato, va a pescare, gironzola e ritorna quando vuole; un piatto di riso, caldo o freddo, qui
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lo trova sempre. Mi ha lasciato però le sue incombenze di far seminare oggi la iuta, domani di piantare il riso e i peperoni, le patate e
via via i prodotti propri di ogni stagione. Tutta roba che andrà a formare le ossa degli orfani e dei ragazzi del boarding. Io ci guazzo
dentro lieto come un pesce del vicino Tulsiganga (non per nulla mi
chiamo “pesce”).
Due settimane fa è stato qui a trovarmi il Vescovo Joakim (di Chittagong), un amico di vecchia data. Dopo una mia predichetta (in
bengalese), a colazione mi fa gli elogi: “Parli bene, ti ho ascoltato
con gusto”. E va bene. Dopo qualche ora capita qui un amico
musulmano, l’ex sindaco del paese. Mentre toglie la chiavetta dalla
motocicletta: “Magnifico!” grida tra gli scoppi del motore morente:
“Questo è il campo di cipolle più bello del paese” e indica il campetto che costeggia la casa. Debbo dirti la verità? Mi ha fatto più
piacere la lode delle cipolle che quella della predica. Cibo dell’anima e cibo della pancia. Tento di dispensarne un po’ dell’uno e un
po’ dell’altro. Ma a sentire le mie prediche purtroppo, eccetto quei
quattro buoni gatti di cristiani, non viene quasi nessuno, anche se il
Vescovo di Chittagong così, per consolarmi, mi dice “bravo!”. Un
seme tra cento milioni per caso germoglia nel deserto cristiano o,
meglio, nella serra opulenta musulmana del Bangladesh. Le cipolle
invece, nascoste sotto terra, escono abbondanti e panciute nelle
mani dei poveri. E chissà che domani quel riso e quelle cipolle, irrorate dal sudore del missionario, non vadano a formare nei cervelli la
materia grigia necessaria a far trovare la via della verità!
E così tra una benedizione agli sposi, una maledizione ai vermi del
riso, un titolaccio da facchino al pistone che rifiuta di muoversi e
una sgridata ai ragazzi della scuola che, invece di studiare vanno a
caccia di uccelli e di pesci, arrivo alla sera contento d’essere ancora
vivo a godermi la povertà felice del Bangladesh. E le lettere di ringraziamento dei benefattori e amici delle missioni? Alla sera. Giusto il tempo di buttarle giù. Ma… non c’è la luce… ci sono le zanzare… c’è quell’articolo interessante sulla tal rivista… Piuttosto c’è
la pigrizia, bestia nera, da combattere. Ricordi il vecchio funereo
gesuitone? “L’ozio è il padre dei vizi. No, reverendi, l’ozio è il vizio
dei padri!”. Ti saluto e grido forte forte a te, a tutti gli amici: Grazie! O alla maniera islamica del mio Paese d’adozione: “Khoda
afez!”. Ma gira e rigira il più bello e il più cordiale è sempre
“CIAO”.
115
Mentre leggo le lettere del nostro missionario, spesso mi viene in mente questo pensiero: che grande cosa la fede! Pensate un
po’: Cesare Pesce di Novi Ligure, a 66 anni è contento come una
Pasqua di vivere nel paese tra i più poveri e miseri del mondo, nel
mare dell’islam e in mille difficoltà, privo delle gioie più normali
per un vecchietto italiano della sua età in pensione: un po’ di televisione, una partita a carte o a bocce, buoni risotti e arrosti, passeggiate e chiacchiere con gli amici, e poi le gioie della famiglia,
tra nipoti e nipotini, gli impegni possibili di volontariato senza
impedire il giusto e meritato riposo, ecc. Cesare invece è super
impegnato tutto il giorno, anche sabato e domenica, e le sue serate sono occupate da incontri, conferenze, visite ai villaggi, lettere
agli amici e benefattori. Eppure è felice della vita che fa, della sua
vocazione missionaria.
Che grande cosa la fede!
Padre Pesce è contento quando riesce a fare qualcosa per la
sua gente. Il 17 giugno 1985 scrive che è felice perché è riuscito
a realizzare, ed è andato bene, un “corso di preghiera” di dieci
giorni (e di vita comunitaria con tanti giochi e istruzione elementare) per i bambini e bambine dalla seconda alla quinta elementare: erano 104! Ma soprattutto è soddisfatto perché il “progetto
sociale” che sta realizzando va avanti bene. Di cosa si tratta? Di
una cooperativa di produzione e di consumo? No! Di una scuola di alfabetizzazione per uomini e donne? No! Di una “banca del
riso” per i più poveri? No! Di una nuova casa di accoglienza e di
cura per poveri e ammalati? Nemmeno per sogno… Pesce si è
messo in testa di costruire (e le autorità civili hanno approvato il
progetto) 400 latrine per la gente nei villaggi che egli visita (duetre per villaggio). Il “cesso” è un segno del progresso che avanza.
Ma Cesare scrive:
Faccio difficoltà a convincere la gente, specie gli aborigeni, che è
meglio avere un cesso vicino a casa. Loro invece preferiscono andare liberi nei campi, contro ogni norma di igiene e di modestia. Finora ne ho costruiti cinquanta, continuerò dopo i mesi della stagione
delle piogge. È un progetto che ha poco successo. Invece per le
pompe per l’acqua tutti sono d’accordo: capiscono bene che l’acqua
116
della pompa è più salubre di quella dello stagno presso casa. I soldi che spendo in questi due progetti non saranno poi spesi in medicine contro la diarrea, il tifo e il colera 2.
Un altro “progetto di sviluppo” realizzato a Pathorgata negli
anni ottanta è questo, che Pesce stesso racconta 3:
Un bel giorno, intento a scovare il guasto nel motore dell’acqua per
l’irrigazione in un villaggio alla periferia di Panchbibi nella provincia di Bogra, vengo chiamato d’urgenza dal Sindaco. Inimmaginabile! L’Ambasciatore della Danimarca in Bangladesh si presenta senza tante premesse e chiede la mia collaborazione, con quella del Sindaco, per un progetto che il suo governo finanzierebbe: un “gonobiddaloy” (in inglese “Popular educational Centre”), dove i giovani
avrebbero appreso nozioni di agraria moderna, meccanica, cucito,
economia domestica, ecc. Il Sindaco era già al corrente della faccenda e aveva già visitato un altro centro simile in altra zona del Bangladesh... Era entusiasta e io più di lui. Il mio vecchio sogno si realizzava: un lavoro fatto assieme, abbattute finalmente tutte le nefaste barriere di casta e religione, in unione di intenti per il bene di
2 Il fatto raccontato da padre Pesce non deve meravigliare. Meno di un
secolo fa, in Italia, nel piccolo paese di Viancino (Vercelli), la famiglia Gheddo
aveva nel 1907 una trattoria. L’hanno venduta per questo motivo: in quell’anno
c’erano i primi aerei e uno di questi è atterrato in un campo vicino a Viancino.
Tutta la gente è corsa a vedere, il pilota aveva bisogno del bagno ed è andato in
paese con tutta la gente che gli andava dietro. Ma a Viancino gli hanno detto
che nessuna delle case aveva un gabinetto, nemmeno l’unica trattoria. Allora il
pilota ha fatto un rapporto al Prefetto di Vercelli, lamentandosi dell’arretratezza di quel paesino. Il Prefetto ha firmato un decreto col quale imponeva a Pietro Gheddo (mio nonno!) di costruire un gabinetto nella trattoria. E il nonno
ha venduto la casa per 8.000 lire! Il gabinetto in casa allora era impensabile, il
nonno non voleva spendere soldi per qualcosa che non serviva a nessuno!
3 L’ho già detto ma è bene ripeterlo. Mi è stato possibile scrivere questa biografia di padre Pesce solo perché il direttore del Centro missionario diocesano
di Tortona, mons. Libero Meriggi, e i suoi collaboratori, specialmente Camilla
Brambilla e Riccarda Carrer, hanno conservato gelosamente tutte le lettere del
missionario, che sono oggi la fonte principale per conoscere la sua vita. Quando non indico il destinatario delle sue lettere, significa che è mons. Libero
Meriggi e il Centro missionario di Tortona.
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questa nostra gente, per renderla “self-supporting” (auto-sufficiente) con il proprio lavoro reso più razionale, meno pesante e più redditizio.
Ed ora eccoci impegnati in questa nuova avventura. È un piacere
lavorare con questo Sindaco, un dotto e pio musulmano del luogo.
Fa il medico, specializzato in ginecologia. Mi è riuscito simpatico alla
prima occasione in cui erano coinvolte la salvezza di uno studente
della mia scuola e la sua arte medica… Come dicevo, è un uomo di
compagnia. La sua sincerità e onestà nel trattare con gente semplice
e poco istruita mi spinge a seguire il suo esempio. D’altra parte, la
sua fermezza con chi tenta di imbrogliare o di fare il furbo mi dà
coraggio e sicurezza nella mia condizione di straniero, quindi ritenuto meno furbo di un bengalese, a cui la cronica necessità aguzza l’ingegno. Insomma, siamo diventati amici, gli voglio bene.
Non abbiamo altre notizie su questa iniziativa di sviluppo. Interessante però notare che l’ambasciatore della Danimarca (e quindi il suo governo) per realizzare un progetto per il popolo da loro
finanziato si rivolgono al missionario cattolico, oltre che all’autorità civile del posto. Fatto strano, non comune nella distribuzione di
aiuti da parte dei governi di paesi ricchi che realizzano progetti in
quelli poveri: l’ambasciatore danese aveva capito, che coinvolgendo il missionario cristiano del posto, è più facile che il progetto
venga realizzato, che il denaro non si perda per altre vie… È una
dimostrazione della verità di quanto dice Giovanni Paolo II nell’enciclica del 1990 Redemptoris Missio (n. 58):
La Chiesa ha sempre saputo suscitare, nelle popolazioni che ha
evangelizzato, la spinta verso il progresso, ed oggi i missionari, più
che in passato, sono riconosciuti anche come promotori di sviluppo
da governi ed esperti internazionali, i quali restano ammirati del fatto che si ottengano notevoli risultati con scarsi mezzi.
Padre Cesare vive “in una girandola di fuochi artificiali”
Il culmine della gioia e della consolazione spirituale padre
Cesare lo raggiunge nei giorni del Natale 1988, quando a Pathor118
gata il Vescovo mons. Theotonius Gomes consacra il primo prete della parrocchia e anche il primo oraon della diocesi di Dinajpur: già un po’ anziano, 36 anni, “contadino di nascita e di carattere, quindi tenace nelle sue idee. Spero faccia bene anche perché
non pretenzioso come qualcuno dei giovani preti locali”. Una
festa preparata con cura da mesi (restauri, nuove strade, tendoni,
canti e danze, cerimonie e cori, allestimento dei vettovagliamenti) che ha riunito i cristiani nella preghiera, ma anche
nell’“immancabile pranzone semi-religioso con un migliaio di
invitati”.
Nel Diario di un curato di campagna, Georges Bernanos inizia
il romanzo con queste parole del suo curato di Ambricourt, parrocchietta sperduta nella Fiandra che è l’immagine del mondo o
meglio della cristianità occidentale:
La mia è una parrocchia come tutte le altre. Si rassomigliano tutte.
Le parrocchie d’oggi, naturalmente… La mia parrocchia è divorata
dalla noia, ecco la parola. Come tante altre parrocchie. La noia le
divora sotto i nostri occhi e noi non possiamo farci nulla. Qualche
giorno forse saremo vinti dal contagio, scopriremo in noi un simile
cancro. Si può vivere molto a lungo con questo cancro in corpo.
Cesbron semplifica ed esagera, ma non sbaglia nel descrivere
l’atmosfera del nostro “Occidente cristiano” con la parola “noia”:
basta pensare a come le prime pagine di giornali e telegiornali
sono occupate dalle spesso futili schermaglie del ceto politico, da
fatti giudiziari gonfiati all’inverosimile, dalle sfilate stucchevoli
(sempre uguali) della moda e via dicendo. Abbiamo tutto, molto
più di quanto sarebbe necessario alla vita, e non sappiamo più
goderne in modo umano. Per “divertirci” inventiamo le discoteche, lo sballo notturno che invecchia anzitempo: ecco la noia, il
cinismo, l’aridità dei rapporti umani. In fondo, l’egoismo e l’aridità dei ricchi.
Tutto il contrario di quel che sperimenta padre Cesare Pesce
nella parrocchietta di Pathorgata, sperduta nella pianura del Bengala, fra il Gange, il Bramaputra e le foreste dei Dooars. Una parrocchia di nuovi cristiani in un mare islamico, fra popoli ancora
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un po’ “primitivi”, cioè ai primi passi verso il progresso e il mondo moderno, ma più autentici, più “umani” di noi. I problemi di
padre Cesare sono molti e l’ultima parola che gli sarebbe venuta
in mente per descrivere il suo popolo e la sua stessa vita, se avesse tenuto un diario come il curato di Ambricourt, era “noia”.
Infatti lui a volte scrive che vive “in una babilonia da Torre di
Babele”, in una “situazione caotica”, in “un pasticcio dell’ira”,
persino “in un casino da non credersi”. Ma in una “situazione di
noia”, no! Ecco come descrive la sua esistenza quotidiana in una
lettera dell’11 novembre 1991:
Sto vivendo in una girandola di fuochi artificiali: scoppi intermittenti, via l’uno arriva l’altro: questo ti racconta i suoi guai in famiglia e
della moglie ammalata; quello ti domanda un consiglio per la figlia,
pronta a sposarsi; ed eccoti i soliti ammalati che domandano il benestare – lettera firmata e timbrata – per entrare nell’ospedale cattolico di Dinajpur, cosicché poi io dovrò pagare i soliti salati bills (conti). Un po’ di respiro? No, neppure un attimo. Sulla porta si delinea
la faccia del “mistri” (muratore capo): bisogna andare d’urgenza a
stabilire le misure per un pilastro nell’erigenda casa delle monache.
E dietro al mistri l’immancabile manager delle terre che ti viene a
domandare quanti kg. di urea e potassio deve dare sul campo dei
cavoli. Così la ruota gira tutto il santo giorno.
Senza contare la fila dei poveri diavoli colpiti dall’inondazione del
nord. Perché lo sai, dopo il ciclone verso il mare, il Bangladesh (il
“servo sofferente” della Bibbia) ha avuto l’inondazione dalle mie
parti: case crollate, campi di riso andati alla malora e, di conseguenza, migliaia di persone colpite dalla diarrea e influenza. Io ho distribuito centinaia di pacchetti di “saline” e “terramicin”. Anche la
missione ha avuto due cappelle col tetto di lamiera completamente
distrutte. Puoi immaginare quanti ammalati avevamo: su 97 ragazzi
e ragazze dell’orfanotrofio-hostel, 45 rimasero a letto per una settimana o una decina di giorni. Grazie a Dio nessuna vittima tra i cristiani, se si eccettua un padre di famiglia annegato nel fiume vicino
nel tentativo di ritornare a casa “prima di notte”.
Ora è ritornato il sereno sia nel cielo che nell’animo. Posso lavorare anche un po’ nello spirituale. Il 3-4-5 di questo mese abbiamo
avuto il raduno della gioventù cattolica, 136 giovanotti e giovanotte. Riuscito abbastanza bene. Gli oratori erano il direttore del cen-
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tro catechistico e una suora molto brava. Dal 7 al 10 novembre ho
organizzato il “Bible Dibosh” (Festa della Bibbia) con 150 ragazzi
e ragazze dei paesi vicini alla missione. Riuscito bene. I partecipanti sono rimasti qui con me giorno e notte e il loro entusiasmo ha colpito persino me, dall’animo ormai incartapecorito! Ed ora sto preparando il corso dei candidati al matrimonio: sarà verso la fine di
questo mese. E così fra lo spirituale e il materiale tentiamo di fare
qualcosa per un domani migliore del passato. Davvero? Mah, speriamo col gesuitico A.M.D.G. (“Ad Maiorem Dei Gloriam”, Per la
maggior gloria di Dio). Ciao, Be cheerful! (sii pieno di gioia).
Nel marzo-maggio 1992, la diocesi di Dinajpur e i missionari
del Pime organizzano feste e celebrazioni in onore di padre Pesce
per il suo cinquantesimo di sacerdozio. Prima l’hanno festeggiato i preti locali ed esteri, con i catechisti: “Una giornata passata
in allegria e fraternità intima senza tanti fronzoli; un bel ‘meeting’, una Messa concelebrata con molto fervore e commozione
date le circostanze, un bel pranzone alla bengalese e chi s’è visto
s’è visto”. Una settimana dopo, festa alla casa del Pime a Dacca,
alla presenza di tutti i quaranta membri dell’Istituto e del Nunzio
apostolico, mons. Piero Biggio. Il 15 maggio 1992 Cesare scrive a
don Libero Meriggi:
Se ne sono dette di tutti i colori sul mio conto, lasciando perdere
naturalmente le magagne. È ovvio, non dare pennellate inutili e dannose ad un quadro d’artista come era stato concepito dall’amico
superiore regionale, padre Gino Goduto. Là tutto all’italiana, da
“Nel nome del Padre” fino all’ultimo pezzetto di torrone “Pernigotti” di Novi Ligure. E anche quella festa è passata. Poi la celebrazione in parrocchia, a Pathorgata, il 3 maggio, preparata dalla gioventù maschile e femminile. Da tutti i buchi sono spuntati i miei cristiani (più di mille) a ringraziare il Signore, o meglio, a perdonare il
Signore d’aver mandato in mezzo a loro un accidente di prete quale sono io. E canti e suoni e danze dalla mattina alla sera. La messa
solenne all’aperto mi ricordava la Collegiata di Novi gremita all’inverosimile di 50 anni fa quando celebrai la prima Messa. Commozione? Eh, sì, un po’. Per fortuna erano presenti quel buontempone del Vicario generale e un altro amico, che sparavano battute per
tenermi nell’umiltà.
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L’ultima festa, per ora, a Dinajpur, al centro della Diocesi. Il Vescovo Theotonius Gomes non si è lasciato vincere dalle mie proteste e
obiezioni, ha voluto fare a tutti i costi una cosa enorme, solenne.
Troppo, davvero troppo. Ha fatto venire una rappresentanza da tutte le parrocchie della Diocesi e da tutte le istituzioni cattoliche. E
giù discorsi, ricordi di fatti che io avevo ormai dimenticato… Quasi mi convincevano ad ammettere che ho fatto qualcosa in questa
mia patria d’adozione… Ho detto “quasi” bada bene: non ne sono
per nulla convinto. Statistiche? Beh, quattro – cinquemila battesimi… Se c’era un altro al mio posto ne avrebbe amministrato sei o
settemila. Centinaia, migliaia di chilometri sulle strade (strade per
modo di dire) del Bengala a dare la Messa magari a quattro famiglie
che sanno a stento il Pater Noster, a dire loro soltanto di non aver
paura che ci sono io: se ci sono io, c’è Dio in mezzo a loro.
Fatica, pericoli? La gioia che provi dopo una fatica superata, dopo
un pericolo da cui sei uscito vittorioso è già ricompensa umanamente valida. Quel sorriso affiorato sul volto di quella ragazzina disperata, perché tradita, ti fa dire: “Valeva la pena di fare 50 km per dirle una parola, e ottenere per me questa gioia del successo”. E quando dopo tanta strada torni a casa a mani vuote, vergognosamente
fallito?…Te possino… Alle feste mia sorella era solita fare dolci a
forma di cuore o di fiore: tra i tanti alcuni venivano fuori sformati,
schiacciati. Erano quelli i più gustosi. Il fallimento ti sollecita a fare
meglio domani, ad evitare gli errori stupidamente commessi.
E così nella gioia del lungo andare di 50 anni di sacerdozio vanno in
frantumi le fide due biciclette e le malfidate cinque motociclette. La
sesta è buona. Agli amici musulmani che non tollerano il celibato, dico
sempre indicando la moto: “This is my wife (questa è mia moglie). È
una giapponesina”. E la questione del celibato dei preti cattolici finisce con una risata. Altrimenti Dio ti salvi dalle loro argomentazioni coraniche e bibliche vetero-testamentarie. Tutto sommato, pensando al
mio passato mi convinco sempre più che tutto fu predisposto da Dio
a farmi cercare, e molte volte ottenere, la gioia di vivere la mia vita missionaria senza patemi d’animo, terra terra, senza misticismi. Come il
contadino bengalese che suda e fatica attendendo la gioia di mietere
il riso sorgente di gioia e di vita dei suoi bambini, così arrivi alla fine
con il dubbio di aver accumulato ben pochi meriti per l’al di là. Ripeto, la ricompensa per il poco bene mal fatto mi è ormai stata elargita
con la gioia provata giornalmente nel mio lavoro.
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Non mi rimane che dire grazie a Dio, grazie a chi amo e a chi mi
ama. Quel “chi” sei tu. Ciao, tuo don Cesare. (La prossima settimana ancora mi festeggiano a Thakurgaon e poi basta, basta per amor
di Dio. Ne ho piene le scatole di tutte queste feste).
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5.
IL TRAMONTO NEL SANTUARIO DI MARIA
Quando nel 1983 sono andato a trovare padre Clemente
Vismara in Birmania, a 86 anni era ancora parroco di Mong Ping
e a me che lo intervistavo sulle sue avventure, che avevo spesso
letto e anche pubblicato sulle riviste del Pime, diceva: “Lascia
perdere le storie del passato, queste cose le ho scritte tante volte.
Parliamo invece del mio futuro, del futuro di questa missione di
Mong Ping…”. Mi sono accorto che, pur avendo superato gli 86
anni, non era mai invecchiato! Tutto bianco, ma con l’animo di
un giovane che guarda al futuro. Ecco, leggendo le lettere di
padre Pesce mi è venuto in mente Vismara, che diceva: “Diventi
vecchio quando ti accorgi che non sei più utile a nessuno”. Così
anche il “Pesciolino” di Novi Ligure: leggendo le sue lettere, mi
accorgo che anche lui non è mai invecchiato. È morto a 83 anni
con lo stesso spirito di quando ne aveva trenta o quaranta: guardando al futuro pieno di speranza, programmando nuove imprese apostoliche. Infatti, quando è costretto a tornare stabilmente
in Italia nel gennaio 2002 perché non ce la fa più a stare in Bengala, muore sei mesi dopo, felice e contento di andare incontro al
Padre e ai suoi bengalesi che lo aspettano anche in Paradiso.
Missione di pace tra due feudi oraon a Kalisha
Naturalmente non si può dire: ecco questo è il missionario.
No, ciascuno ha la sua vita, il suo percorso segnato da Dio, i suoi
doni e carismi, le sue avventure. Non esiste un modello unico di
missionario, anche se Cristo è il modello di tutti. Ma possiamo
dire che il nostro “Pesciolino” è invecchiato bene. Quando si
accorge che fisicamente sta diventando anziano, non pensa di
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mettersi a riposo o di fare chissà cosa per ritardare la decadenza
della vecchiaia. Canta le lodi di Dio e va avanti come prima. Ecco
cosa scrive agli amici il 9 dicembre 1992 (morirà dieci anni dopo):
Carissimo, dura lex sed lex et senectus ipsa morbus (la legge è dura,
ma è la legge: la stessa vecchiaia è una malattia). Te possino (era una
delle sue imprecazioni preferite, n.d.r.), sono giunto a questa triste
conclusione ineluttabile nella mia vita. Una piccola conseguenza di
questa situazione è proprio la pigrizia nello scrivere. Era il mio hobby, il mio relax: buttar giù quattro righe e compiacermi della maggiore o minore riuscita. Ora, preso tutto il giorno da mille cosette,
la costruzione del convento delle monache, la sequela di “training”
(addestramento) per ogni categoria di persone, la scuola, il boarding, la fila dei poveri di pecunia e di spirito… e alla sera, guardo
la penna addormentata sul tavolo e tiro un sospiro pieno di malinconia. Adagio adagio si chiude il sipario. Per fortuna torna il vecchio Isaia a gridare: “Sali su un alto monte, tu che rechi liete notizie in Sion…”. Penso: io sono sceso in una terra piana, bassissima,
ma in qualche modo, più male che bene, ho recato liete notizie e sta
arrivando il Natale 1992! E ciò con il tuo aiuto. Auguri di un bellissimo Natale e di uno splendido Anno Nuovo.
Due le novità dell’inizio anni novanta. Anzitutto, padre Pesce
si mette a scrivere in inglese la storia generale della Chiesa cattolica, che voleva poi far tradurre in bengalese. Lui parla di “sommario della storia” e dice che fa questo lavoro perché non c’è
ancora un libro in bengalese sulla storia della Chiesa. Si è documentato, ha raccolto sette-otto autori i cui testi gli riempiono il
tavolo e, appena ha un po’ di tempo, si mette a lavorare con
gusto. Scrive a macchina su fogli di quaderno (metà di A4) e giunge fino a pag. 398, fino a Napoleone compreso.
Il testo originale è conservato nell’Archivio generale del Pime
a Roma. I fogli sciolti sono stati mandati dal Bangladesh dopo la
morte di p. Pesce. L’archivista padre Angelo Bubani, con un
paziente lavoro, li ha ordinati e numerati, ha fatto l’indice e li ha
raccolti in un volume. Credo sia il lavoro letterario più importante di padre Cesare. L’opera è incompleta, ma scorrendola sono
rimasto colpito dalla sua capacità narrativa. Non è facile scrivere
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la storia della Chiesa, dagli inizi ad oggi, in uno stile adatto ai giovani cristiani del Bangladesh, in una cultura radicalmente diversa
da quella europea. Da una rapida lettura, mi pare che Cesare c’è
riuscito. Di ogni periodo mette in risalto i fatti principali, personalizzando le vicende con la presentazione dei vari Papi e santi,
dando spazio anche ai personaggi degli eresiarchi e alle loro idee,
per mostrare come la Chiesa, attraverso duemila anni di storia
tormentata, è stata guidata dallo Spirito Santo a mantenersi fedele al Vangelo e al modello di Cristo.
Nel 1992 padre Pesce ha problemi di ischemia cardiaca che
lo obbligano a ritornare in Italia per un po’ di riposo; e nel gennaio 1993 cade malamente: si riempie di escoriazioni e tumefazioni, cammina con difficoltà e deve stare un po’ fermo. Il superiore regionale del Pime gli manda in aiuto, a Pathorgata, padre Giulio Berutti. Cesare è contentissimo e ci fa subito su la battuta:
Lui si chiama Giulio e io Cesare. Somma: Giulio Cesare. Te possino… Andremo alla conquista della Gallia e Britannia ancora pagane. Ho già qui due bei villaggi quasi pronti per entrare nel grande
Ovile, con la “O” maiuscola. Sarà per Pasqua, spero… E le tre scuole elementari con 500-600 alunni, di cui 105 interni. E le cooperative e casse di risparmio. E poi trainings e meetings di continuo
seguendo la moda dei tempi. E via via… Così, con tutte queste belle storie a cui pensare e badare, eccomi diventato vecchio, vecchissimo, da ammazzare… “Forza che ce la fai” mi dicono i nuovi missionari che stanno studiando il bengalese e il santal. “Pedalate,
pedalate – rispondo loro – qui ce n’è per tutti giovani e vecchi. Evviva il Bangladesh!” (lettera a mons. Meriggi del 15 febbraio 1993).
Nell’aprile 1995 padre Pesce è ricoverato nella clinica Gulsan
di Dhaka per essere operato di ernia inguinale. Da tempo gli dava
fastidio e rimandava sempre l’intervento, fin che diventa indispensabile. Quando esce dalla clinica vorrebbe tornare alla sua
parrocchia di Pathorgata, ma scrive (5 maggio 1995):
Ho ricevuto l’ordine di riposare. Il capo mi consiglia di venire in
Italia per qualche mese, il Vescovo idem… “Sei calato di dieci chili e in Bangladesh chi te li ridà?”. E va bene, seguiamo i consigli di
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“color che sanno”. Mi spiace lasciare la mia famiglia di qui, puoi
immaginarlo. Ma con la speranza di non sbagliare verrò. Spero solo
per qualche mese in modo da rimettermi.
In altra lettera scrive: “Il Vescovo e i capi del Pime mi consigliano, meglio, mi forzano di venire per qualche mese in Italia a
rimettermi un po’. Ho accettato a malincuore, pensando alla buona occasione di vedere la mia vecchia sorella”.
A maggio 1995 ritorna in Italia per convalescenza e riposo.
Mentre nell’estate 1995 è a Novi Ligure in vacanza, riceve nuovamente l’offerta di assumere una parrocchia nella sua diocesi di
Tortona, sull’Appennino Ligure. Questa volta il missionario si
interroga seriamente su quale strada scegliere, forse perché capisce che, a 76 anni in un paese caldo umido come il Bangladesh,
non può resistere molto e potrebbe anche diventare di peso ai
confratelli e alla missione. Il consiglio di un vecchio amico lo conforta nel tornare in missione, come racconta lui stesso nell’intervista a fratel Massimo Cattaneo (del 22 ottobre 2001 a Rajarampur). Il suo grande amico don Franco Zanolli, parroco della Collegiata di Novi Ligure, scrive:
Dopo le cure avute a Dhaka, arrivò a Novi stanco e sfiduciato, pensieroso nel dubbio di non poter più ripartire. La cucina della sorella Maria, il conforto degli amici, l’aria buona della città natìa ben
presto lo restituiscono alla piena salute e alla ilarità del suo carattere esuberante. Dopo una visita di controllo a Milano, che lo diagnostica guarito, esultava: “Guarito! Guarito!” diceva e riparte per il
Bangladesh.
Ma ecco che, appena arrivato a Dinajpur poco prima del
Natale 1995, il Vescovo mons. Theotonius conferma la bontà di
questa sua libera scelta: gli chiede di diventare parroco di Kalisha, ancora per lo stesso motivo per cui 15 anni prima l’aveva
mandato a Pathorgata: per riportare pace nell’ovile di questa nuova parrocchia, “tra i soliti capricciosi feudi oraon (aborigeni)”. Il
giovane padre Luca Galimberti, missionario in Bangladesh dal
1992, mi racconta (il 3 giugno 2004 a Roma):
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Ero per caso a Dinajpur (dalla sua missione di Boldipukur, n.d.r.) e
un pomeriggio il vescovo mi chiede di portare padre Pesce a Kalisha, che è poco distante da Boldipukur. Vado da Pesce: quando
vuole andarci? “Domani”, mi risponde. Gli chiedo quando il vescovo gli ha detto di andare a Kalisha, dato che da poco è tornato dall’Italia. “Ieri sera, mi dice, ma sono già pronto”. Il giorno dopo siamo partiti in jeep. Lui aveva due borsette a mano con tutto quel che
gli occorreva. Gli ho detto che sarei andato a trovarlo un mese
dopo, se aveva bisogno di qualcosa. “No, rispose, grazie, non ho
bisogno di nient’altro”. Ricordo che rimasi ammirato da questa
disponibilità ad accettare, sui due piedi, una nuova destinazione che
sapeva non facile.
In una lettera al nipote Ernesto del 22 dicembre 1995, così
padre Cesare descrive il suo compito a Kalisha, dov’è arrivato da
pochi giorni:
Una missione di pace tra due partiti formatisi in questa parrocchia
una decina di anni fa tra gente della stessa tribù. Una lite tra feudi,
come capita anche in Sardegna. Lite in cui è stato coinvolto, qualche mese fa, anche il missionario fondatore della missione cattolica,
assalito e derubato non si sa da chi (probabilmente qualche musulmano assoldato da cristiani per la perfida azione). Il posto è ancora
degno del secolo scorso sia per le scarse comunicazioni che per lo
stile di vita degli abitanti. Porto un esempio capitatomi ieri: mando
un uomo al post-office più vicino (due buoni chilometri) a spedire
un libretto nelle Filippine. Il direttore dell’ufficio postale risponde
che non sa dove sia quella nazione e quindi quanto si debba pagare in francobolli e del resto non ha i francobolli per spedire una
roba simile… Mando a comperare un mezza dozzina di tazzine per
il tè o il caffè e il bottegaio dice al mio uomo che non ha le tazzine:
“Dì al tuo padrone di usare il bicchiere”. E così si tira avanti… La
cosa più fastidiosa è la mancanza di una strada decente: si può usare solo la jeep, che io non ho. Penso che dovrò farmi aiutare un po’
dal Vescovo e decidermi a comprarla…
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Obak, in bengalese significa “senza parola”
Tornando dall’Italia per il Natale 1995, padre Pesce pensava
di non essere più utile alla missione; invece il Vescovo (mons.
Moses Costa) e il superiore regionale del Pime in Bangladesh
(allora padre Mariano Ponzinibbi di Lodi) sono di parere contrario. Infatti, nei quattro anni seguenti, fino al 1° gennaio 2000 (a
81 anni compiuti) il Pesciolino svolge un ottimo lavoro a Kalisha,
sistemando una situazione difficile. Sapeva trattare con la gente,
non potevano non volergli bene: con lui i motivi di dissenso e di
contrasto non duravano a lungo. Questo era certo frutto di un bel
carattere, ma anche di soda virtù e di grande umiltà (che permette di essere realisti in tutte le situazioni) e, in fondo, di fede autentica. Cesare ha sempre lavorato per il Regno di Dio, mai per se
stesso! Nel volumetto “Pack up and go!” pubblicato in inglese
nel 2000 a Dinajpur (Unique Press), ricordando i primi tempi
della sua missione a Ruhea, la povertà, le faticacce e le molte conversioni di quegli anni, scrive:
Talvolta eravamo distrutti dal caldo e dalla fatica, ma era sempre un
sollievo e una profonda gioia considerare che in un piccolo e sconosciuto angolo di questo mondo, per la prima volta era arrivata la
verità di Cristo e un nuovo battezzato si sarebbe svegliato nel Suo
Nome.
Il 14 febbraio 1999 scrive a mons. Francesco Giorgi, segretario del vescovo di Tortona e direttore del Centro missionario diocesano, dicendogli che tre anni prima era stato mandato dal
Vescovo a Kalisha “per tentare di riportare la pace fra i capricciosi feudi oraon”; e a Natale del 1999 comunica gioioso: “Ebbi la
gioia di partecipare al grande cenone (“puruti choi”, cena d’affetto) con 800 commensali, esclusi i bambini”. La pace è tornata,
padre Cesare è al massimo della felicità.
A Kalisha padre Pesce lavora come parroco con tutte le
incombenze pastorali e di promozione umana a cui era abituato,
dando particolare risalto alla formazione cristiana delle famiglie e
dei giovani: catechismo, preparazione ai Sacramenti, predicazio130
ni speciali, direzione spirituale, visite ai malati. Non un percorso
di “routine” pastorale come spesso succede in Italia: in Bengala
la “routine” è continuamente interrotta dagli imprevisti.
Ad esempio, in una lettera a Camilla Brambilla del Centro
missionario diocesano (14 novembre 1998) Cesare scrive che hanno avuto una pioggia torrenziale continua per tre giorni: una nuova alluvione, in attesa della prossima… o del periodo di siccità;
lui riceve gli aiuti della Caritas di Tortona e della Caritas locale
del Bangladesh, poi distribuisce il “relief “ (parola inglese che
significa “aiuto per le emergenze”), che anche gli analfabeti conoscono e pronunziano bene! E scrive:
Per sette-otto giorni, dal mattino alla sera, la sfilata ininterrotta degli
alluvionati: quelli delle case distrutte o danneggiate… quelli che
hanno perduto il raccolto dei campi… quelli che chiedono per comperare le sementi per l’orto… quelli che non vogliono passare per
scemi perdendo l’occasione buona per arraffare a ufo qualcosina…
Tutti mi dicono “GRAZIE!”. Certo, quel grazie non è per me. Da
buon postino lo giro, per posta superaerea, a chi se lo merita.
Padre Cesare ha potuto realizzare tante opere in Bengala perché riceveva molti aiuti. Ma bisogna dire che era un missionario
molto preciso nella sua corrispondenza. Ringraziava sempre chi
gli mandava un’offerta, anche con lettere lunghe e gustose. Questa ad esempio, scritta da Pathorgata il 5 luglio 1988 al prof. Egidio Mascherini di Novi Ligure, che aveva mandato al missionario
il ricavato dalla vendita di un suo libro:
Obak! In bengalese significa “senza parola”. Ecco, ricevendo la sua
generosa offerta io sono rimasto senza parola. Volevo mandarle
subito i miei ringraziamenti e invece sono rimasto senza parola fino
ad oggi. Adesso lei mi dirà: “Va n’sla furca!”, pur sapendo che io
non ci vado. Invece le racconto come e dove è finito il malloppo di
cui ancora la ringrazio.
Il primo venerdì di ogni mese si radunano i membri del Consiglio
parrocchiale e qualche capo dei villaggi cristiani. Lo scorso venerdì
c’era da decidere alcune cose sulla scuola e sull’istruzione religiosa
dei ragazzi residenti nei villaggi periferici della missione… Il suo
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aiuto ci ha permesso di approvare dei lavori urgenti di riparazioni
nella nostra scuola. Poi, al secondo punto dell’agenda, bisognava
discutere se realizzare in parrocchia la settimana di istruzione religiosa dei ragazzi e ragazze cattolici che vivono lontani dalla missione. Facce lunghe e preoccupate, sospiri. Uno dice: “Quest’anno,
questa settimana non possiamo farla. L’alluvione ha rovinato il raccolto di molte famiglie, che non potranno più portare il riso per i
loro ragazzi…”. Il progetto rischiava di essere bocciato.
Allora io dico: “Fidatevi della Provvidenza! Calcolate le spese che
dobbiamo sostenere per questa indispensabile iniziativa”. Vengono
fuori delle grosse cifre. Allora dico: “Non preoccupatevi, un amico
professore della mia città ha mandato quanto basta anche per questo”. I volti si illuminano, tutti sorridono e applaudono. La suorina
bengalese membro del Consiglio parrocchiale, che non aveva ancora parlato, si alza e dice: “Sapete cosa dobbiamo fare? Diciamo grazie a Dio e recitiamo insieme un’Ave Maria per quel brav’uomo italiano. Che Dio lo benedica tanto, tanto!”. E senza aspettare risposta intona: “Pronam Maria proshadpurna…”.
Così, caro professore, questa piccola storia di Pathorgata, sconosciuto villaggio in un angolino del Bangladesh, le sia segno del
nostro ringraziamento.
Nei quattro anni che è stato a Kalisha (1995-1999) padre
Pesce ha scritto meno lettere del solito. Lui stesso lo dice al vescovo di Tortona mons. Luigi Bongianino 1, ringraziandolo per tutto quello che ha fatto per la diocesi e per i missionari diocesani
all’estero; e lo ripete a don Franco Zanolli (lettera del 25 giugno
1999):
Divento vecchio davvero. Me ne accorgo perché, mentre il mio hobby era lo scribacchiare, ora non amo più prendere la penna in mano.
E allora, ai vecchi si perdona ogni errore, ogni mancanza.
1 Sacerdote diocesano di Vercelli e mio professore al seminario minore di
Moncrivello nella prima metà degli anni quaranta, prima che io entrassi nel
Pime.
132
Il fatto che si sente diventare vecchio è quasi un ritornello nelle sue lettere degli ultimi anni. Al prof. Carlo Mandessaro scrive
da Kalisha (16 maggio 1997):
Grazie per la gioia procuratami dalla vostra letterina. Dico la verità, l’aspettavo sul serio. E grazie per il colpetto sulla spalla per rincuorare il vecchietto che non vuole cedere, che non vuole ammettere, con umiltà, di essere ormai sul punto di mettersi nell’angolo polveroso dei rottami. La salute fisica è abbastanza buona. Qualche
giorno, magari dopo qualche corsa in più, mi sento stanco, ma la
stanchezza passa come una nuvola che ti gira sul capo.
Non ho più fatto visite mediche, dato che per andare a Dhaka, fra
andare e venire e starci, mi ci vuole una settimana e l’aeroporto più
vicino è a 150 km. Impossibile andare in corriera o in treno, essendo il “ferry” (trasporto su barca per attraversare lo sconfinato fiume Bramaputra, n.d.r.) in condizioni pietose. Fare un viaggetto con
la mia piccola ‘jeep’ indiana sarebbe bello, ma il mio autista teme il
traffico matto, inimmaginabile della capitale; e poi ci sarebbe sempre quel benedetto fiume da passare (in seguito è stato inaugurato
il ponte sul Bramaputra, che dimezza i tempi del percorso fra
Dakha e la regione di Dinajpur, n.d.r.)…
D’altra parte è meglio stare lontani dai camici bianchi, che ti trovano anche le malattie e i mali che non hai... Qui ormai c’è da fare, da
lavorare, dopo che un po’ di pace e tranquillità è rientrata fra le
famiglie della parrocchia: vedo che necessitano iniziative, associazioni, programmi impegnativi. E io non me la sento più, come pochi
anni fa, di stare in ballo giornate intere e serate lunghe, a parlare,
proporre, discutere, decidere e poi prendere parte attiva ai lavori.
Dio me la mandi buona!
500-600 pellegrini alla domenica nel Santuario mariano
Negli ultimi anni di vita, padre Cesare è ritornato due volte
in Italia, nel 1998 e 1999. Per quest’ultimo ritorno, l’11 luglio
1999 scriveva a don Zanolli: “Dato che sono vecchio, vecchissimo, il Vescovo mi dà una nuova vacanzina in Italia”. Veniva
soprattutto per trovare la sorella Maria a cui era molto affeziona-
133
to (nata nel 1912 e morta nel 2000), Era profondamente attaccato alla sua famiglia a Novi Ligure. La signora Marilena Leone in
Pesce, moglie di Ernesto nipote di padre Cesare (figlio di suo fratello Natale), intervistata il 1° giugno 2004, ricorda:
Lo zio Cesare era un uomo cordiale, vivace, originale. Quando arrivava, portava sempre allegria. Era ottimista e allegro, con le sue battute un po’ in italiano, un po’ in dialetto. Aveva sempre da raccontare qualcosa di interessante, quegli episodi che ha messo nei suoi
libri. E poi sapeva dare coraggio, speranza. Per noi era uno zio simpatico e gradito.
Quando mia figlia Emanuela si è sposata nel 1989, aveva avvisato
per tempo padre Cesare e lui è tornato per celebrare il matrimonio;
mentre era in Italia, ha battezzato anche il nipotino Nicolò, figlio di
mio figlio Fulvio. Quando veniva in Italia era sempre con noi. Abitava dalla sorella Maria, ma ci visitava spesso. C’è stata una estate in
cui padre Cesare ci ha invogliati ad andare in giro con lui: mio marito, zia Maria, zio Cesare e io, con l’auto di mio marito. Andavamo
a fare delle gite e delle merende qui attorno, in luoghi che aveva
conosciuto bene da giovane, santuari, chiese e altri posti. È rimasto
molto affezionato alla famiglia.
Noi scrivevamo poco, ma anche lui scriveva poco. Ci passavamo
quelle poche lettere che scriveva. Mio marito andava sempre ad
accompagnarlo in auto a Milano. Dormiva là al Pime, lo portava
all’aeroporto e poi tornava a casa. Quando è venuto nel 1960, ed era
la prima volta che tornava, l’abbiamo accompagnato al porto di
Genova perché è ripartito per nave. Un ricordo commovente perché lui partiva felice e noi capivamo che aveva una grande missione
da compiere.
Il marito di Marilena, Ernesto (figlio di Natale, fratello maggiore di padre Cesare), intervistato a Milano il 15 giugno 2004,
aggiunge:
Lo zio Cesare mi manca molto. Era una presenza importante nella
nostra famiglia. Quando tornava in Italia era una festa, raccontava
le sue avventure e si stava ad ascoltarlo volentieri per delle ore, non
solo noi parenti, ma anche gli amici e altri. Era un sostegno per la
famiglia e per tutti. Ricordo quando è tornato la prima volta dal
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Bengala nel 1960, è stato in Italia diversi mesi con parecchie visite
e permanenze in famiglia. All’ultimo giorno, prima di ripartire per
nave da Genova verso il Bengala, era a Novi Ligure e la sera abbiamo fatto una cena con parecchi amici: ha incominciato a raccontare e siamo andati avanti fino alle cinque del mattino! Cosa facciamo? Ci siamo lavati la faccia, abbiamo fatto colazione e l’abbiamo
portato a Genova per prendere la nave!
Di serate e nottate come questa ne ricordo diverse. Con lui le ore
passavano e non ce ne accorgevamo. Un altro ricordo che ho di lui
è quando era viceparroco a San Rocco di Voghera, negli anni dal
1945 al 1948. Io andavo spesso a trovarlo in bicicletta da Novi Ligure a Voghera (Ernesto è nato nel 1933, n.d.r.). In parrocchia non
c’erano ragazzi: c’era già il cortile e i locali, ma i ragazzi non venivano, l’oratorio praticamente non esisteva. Padre Cesare ne ha portati a centinaia, ha fondato l’oratorio, ha fatto il cinema e tante altre
iniziative. L’oratorio di San Rocco era famoso e i ragazzi della città
venivano tutti. Lui attirava i bambini, i giovanotti e gli uomini.
Nell’ottobre 1998 a Novi Ligure padre Cesare riceve “La
Torre d’Oro”, premio annuale del Comune e del Centro studi
“In Novitate” (nato nel 1985), ad un cittadino che si è distinto
nel corso dell’anno. Prima un concerto d’organo nella Collegiata
eseguito dal maestro Giancarlo Parodi in onore del festeggiato;
poi la consegna del premio in Municipio alla presenza delle autorità e di un folto pubblico. Quel prestigioso e pubblico riconoscimento della sua città natale riempie di gioia il cuore di padre
Cesare. Ne era orgoglioso e quando ritorna in Bangladesh, dicono i confratelli, mostrava a tutti il suo premio, raccontando come
erano giunti a quell’assegnazione che lui non si sognava nemmeno.
Nell’estate 1999 è ancora brevemente in Italia e, quando a
novembre ritorna a Dinajpur, padre Carlo Calanchi ricorda che
di nuovo parlava di una piccola parrocchia che gli avevano offerto di assumere sull’Appennino ligure. Ma lui preferisce ritornare
in Bengala. Scrive Calanchi (lettera a Gheddo del 9 maggio 2004):
La ragione – aveva detto testualmente – era che il posto che gli
avrebbero dato in Italia comportava così poco lavoro, che lui… non
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se la sentiva di assumerlo. Mi pare si trattasse di una parrocchietta
di montagna. Lui, il Pesce!
Giunto in Bengala, Cesare scrive a don Franco Zanolli (lettera del 25 novembre 1999):
Come avevo subodorato, ieri il Vescovo (Mons. Moses Costa) mi ha
chiesto la disponibilità di lavorare in quel famoso santuario mariano di cui ti parlavo. La costruzione è già a buon punto: verrà fuori
bellissimo, degno del 2000! Ora vedrò di accordarmi per l’eventuale necessaria costruzione di una piccola casa per il cappellano.
Il Santuario è stato realizzato in collaborazione da tre padri del
Pime con il bernoccolo delle costruzioni: Faustino Cescato (direttore prima della Caritas diocesana e poi del “St. Vincent Hospital”),
Adolfo L’Imperio (parroco della cattedrale di Dinajpur) e Giovanni
Beretta (direttore della scuola tecnica “Novara Centre” di Suihari).
“Questo – dicono i confratelli maliziosi – è il primo miracolo della
Madonna del Rosario venerata nel Santuario”: una costruzione veramente bella, realizzata da tre missionari che lavorano assieme!
Padre Cesare è contento della sua destinazione. Vi vede
un posto di non eccessiva responsabilità e nello stesso tempo un
lavoro abbastanza utile al prossimo… come auspicata oasi spirituale di pellegrini, in cerca di conforto e di pace in momenti trepidi
della vita e per dire “grazie” in momenti di gioia per favori ricevuti. Qui per ora c’è soltanto la chiesa. Sto pensando di sostituire la
presente mia abitazione che è in sacrestia (con attaccata una cucinetta di tre metri quadrati fatta di bambù e lamiere), con una vera
casetta fatta di cemento e mattoni. Poi, se non servirà a me, servirà
al mio successore (lettera a don Franco Zanolli del 3 febbraio 2000).
In altra lettera a don Zanolli (14 agosto 2000), l’anziano
“Pesciolino” ricorda i canonici del Duomo di Tortona di sessant’anni prima, quando lui era giovane, “patriarchi cariatidi di una
Chiesa indistruttibile”, che salmodiavano in coro dietro l’altare
maggiore. Li ricorda con nostalgia perché si trova anche lui nella
stessa situazione:
136
Te possino, ci sono arrivato anch’io. Non salmodio perché purtroppo non è mai stata la mia attrazione. Non alzo le mani o braccia verso il cielo perché non è mai stata la mia ginnastica spirituale, però
ci sono arrivato a fare la cariatide, anche se un po’ moderna perché
sono in Bangladesh.
Poi ricorda i giovani monaci della Certosa di Pavia che hanno cambiato sistema di evangelizzazione rispetto al passato. Siedono al bar della Certosa e mentre sorseggiano un caffé tengono
banco in una fraterna chiacchierata con gente sconosciuta, venuta ad ammirare l’arte e a bere un bicchierino di elisir eremitico.
Cesare scrive che tenta di imitare quei monaci con i molti visitatori del Santuario.
I pellegrini non mancano: gente di ogni cultura e formazione, di
ogni credo politico e religioso, individui che racchiudono nel loro
cuore una biografia, fatta di gioia e di dolori nascosti, il prodotto di
amori e di odi indicibili. Il passare le ore con questa gente è per me
un’esperienza bellissima: ne ringrazio il Signore! (Lettera a mons.
Francesco Giorgi, 9 febbraio 2000).
Nel settembre 2001 sono stato in visita ai confratelli del Bangladesh e il 12 settembre ero da padre Pesce a Rajarampur, con
fratel Massimo Cattaneo. Pochi mesi dopo, nel febbraio 2002,
Cesare sarebbe tornato in Italia per morirvi il 13 luglio dello stesso anno nella casa del Pime di Rancio (Lecco). Ma nel settembre
2001 era ancora in forma, pieno di progetti per il futuro del Santuario dov’era dal gennaio 2000. Ho scattato parecchie foto, che
dimostrano il suo ottimo stato di salute, meno di un anno prima
della morte.
Mi ha fatto visitare la sua casetta in muratura da poco terminata e la chiesa luminosa, veramente bella. Poi siamo andati in
giro per vedere l’ambiente in cui sorge il Santuario: il grande piazzale davanti alla chiesa, i campi di riso, diversi villaggi e il villaggetto cristiano accanto al Santuario. Tutti quelli che abbiamo
incontrato conoscevano padre Cesare e si fermavano a parlare
con lui. Ricordo che ogni tanto mi diceva: “Questo è musulmano, un buon amico” (per Cesare erano tutti amici). Riporto inte137
gralmente la breve intervista che mi concesse quel giorno, non
ancora pubblicata. Mi sono complimentato con lui per quel posto
così adatto alla sua età e alla sua personalità, cordiale e di facili
contatti con tutti. Mi dice:
– Debbo dire che il venire qui lo considero una grande grazia di
Dio. Non potevo immaginare un compito e un posto migliori di
questo, per la mia età e il mio stato di salute. Il Santuario diocesano non è parrocchia, anche se sono convinto che fra qualche anno
lo diventerà. Ma il suo valore è proprio quello di essere una chiesa
al di fuori della struttura parrocchiale, che ha tanti valori ma anche
tanti limiti per un’affluenza di pellegrini in qualsiasi giorno e
momento.
– Com’è nata l’idea del Santuario?
– Per celebrare il Giubileo del 2000 si voleva lasciare un segno visibile di questi duemila anni di Redenzione. È stato comperato il terreno che era del raja di Dinajpur, il capo indiano che è fuggito in
India nel 1948, dopo la divisione fra India e Pakistan. Abbiamo
dato la terra e costruito le case per 28 famiglie cattoliche che hanno formato il villaggio vicino al Santuario, in modo che questo possa avere una comunità cattolica vicina, per tutti i servizi alla chiesa
e alle cerimonie.
– Sono molti i pellegrini che vengono a pregare la Madonna?
– È poco più di un anno che il Santuario è aperto e la gente incomincia a venire. La domenica abbiamo 500-600 fedeli, alla Messa
quotidiana molti meno. Non vengono solo i cattolici, ma anche i
musulmani e credo che nel futuro aumenteranno perché l’immagine di Maria e la sua devozione sono molto popolari fra i bengalesi.
Penso anche che, come Santuario ben visto dai musulmani, col tempo si potranno promuovere amicizie, incontri, collaborazioni, iniziative di dialogo.
– Tu sei sempre stato amico di tutti e anche dei musulmani, quindi
sei facilitato in questo.
– Non c’è dubbio, il mio carattere in questo senso mi aiuta, non ho
mai fatto differenza di religione, ho sempre accolto e fatto amicizia
con tutti. Anche qui a Rajarampur, appena arrivato, le prime famiglie che ho avvicinato e di cui sono diventato amico erano musulmane perché quelle cattoliche stavano appena arrivando. Sono convinto che dal Santuario mariano è forse più facile che da una par-
138
rocchia (bisognerà poi vedere se è vero, perché è solo un’ipotesi)
portare avanti il dialogo inter-religioso di cui tanto si parla anche in
Bangladesh, ma che è difficile realizzare. Ci sono troppi pregiudizi
da ambedue le parti e pochi tentativi concreti. A livello popolare c’è
il cosiddetto “dialogo della vita”: l’80-90% delle nostre opere educative, caritative, di promozione umana e di sviluppo economico
sono a vantaggio dei musulmani; ma a livello di dialogo religioso e
di élites religiose non si va oltre gli incontri formali.
Quindi tu sei impegnato tutti i giorni nel Santuario o hai anche altri
impegni?
Il vescovo mi ha chiesto di scrivere i ricordi della mia vita missionaria in Bengala e sono contento di questo impegno. Poi sto scrivendo la storia della Chiesa in inglese, da tradurre in bengalese. Un
libro non impegnativo ma popolare perché non c’è nulla del genere nella lingua bengalese. A me è sempre piaciuto scrivere, anche se
con l’età mi sono un po’ impigrito. Infine, sono disponibile ad aiutare dove c’è bisogno di un prete, per confessioni o altro.
“Tento di portare la pace e di dare gioia”
Nel 2000 p. Pesce ha passato 52 anni in Bengala! Il 22 ottobre firma a Rajarampur la “Premessa” di Pack up and go!, con i
ricordi della sua vita missionaria. “L’ho scritto in inglese perché
i preti locali possano leggerlo”, dice in una lettera. Il titolo, “Fa’
il tuo fagotto e va’!”, ricorda la frase che mons. G.B. Anselmo,
Vescovo di Dinajpur, disse nel 1948 al giovane padre Pesce,
meno di un mese dopo il suo arrivo dall’Italia, per mandarlo oltre
frontiera, in India, nella sua prima missione: Malda. Dopo quel
primo Pack up and go! ne sono seguiti molti altri e padre Cesare
ricorda i suoi “vagabondaggi” fra una missione e l’altra della
vasta diocesi di Dinajpur, nel 1948 estesa più o meno come Piemonte e Lombardia uniti. Ma racconta solo fino al 1972. Il resto
lo rimanda ad un testo seguente, che non farà a tempo a preparare.
Nel 2001 pensa ancora di tornare in Italia per un’operazione
di cataratta che i medici locali gli hanno consigliato, ma poi finisce per restare nel suo Santuario mariano, lavorando fino all’ulti139
mo ai progetti che aveva in corso. Ha ancora trascorso bene il
Natale del 2001, ma nel gennaio 2002 preoccupa i confratelli che
vedono una sua rapida decadenza. Il padre e dottore in medicina
Francesco Rapacioli, che lo seguiva da vicino, il 18 gennaio 2002
manda questa Email al vicario generale del Pime, p. Luigi Bonalumi, per annunziargli che il 20 gennaio padre Pesce arriva a
Roma, accompagnato da un confratello:
Dal punto di vista medico ha il cuore un po’ scompensato (stanco) e
questo gli ha provocato edema ai piedi e una tosse fastidiosa, peggiorata dal freddo. Abbiamo tentato di ricoverarlo in una clinica a Dhaka
per rimetterlo un po’ in sesto, ma, nella migliore tradizione del Pime,
si è rifiutato di rimanere. Il cardiologo comunque gli ha prescritto la
terapia che sta assumendo dallo scorso venerdì (12 gennaio). Quello
che ci ha fatto decidere per un pronto rientro in Italia è il fatto che
padre Cesare non sa più gestirsi autonomamente. Probabilmente da
qualche giorno o addirittura da qualche settimana mangiava in modo
saltuario, non si vestiva adeguatamente e non prendeva le medicine
regolarmente… Questa sua incapacità di gestirsi deve essere tenuta a
mente. Sarebbe impensabile un suo rientro senza un accompagnatore…. Mi hanno detto che il volo col quale padre Cesare arriva a Roma
è della Biman (la compagnia aerea del Bangladesh), direttamente da
Dhaka alle 10 del mattino del 20 gennaio.
Così padre Cesare Pesce, “il lupo del Bengala”, come lui stesso a volte si definiva, sbarca a Roma dove lo attende un’autoambulanza, che lo trasporta alla casa di cura e di riposo del Pime per
i suoi missionari anziani a Rancio di Lecco. Il 23 gennaio è sottoposto alle prime visite e gli vengono riscontrati vari malanni cardio-circolatori (“evidente arteriosclerosi”, cuore ingrossato), con
“modesto” versamento pleurico e artrosi. Amorevolmente curato
dalle infermiere Missionarie dell’Immacolata nella casa del Pime
e nella “Casa di Cura Lecco”, nei mesi seguenti si riprende e partecipa ai festeggiamenti organizzati per il suo 60° di sacerdozio
(29 marzo 2002). In quella circostanza, il Superiore generale del
Pime, padre Giovanni Battista Zanchi anche lui missionario in
Bangladesh, gli scrive una sentita lettera di ringraziamento e di
augurio in cui si legge:
140
La sua opera non è finita. Le forze non sono più quelle di un tempo e anche gli impegni hanno cambiato modalità. Ma lei sta testimoniando la fedeltà gioiosa, contro ogni avversità, ai più giovani e
a quelli in formazione; sta dando e può dare sempre più l’aiuto della preghiera e dell’invocazione che sale dalla sua vita, anche quando entra nella debolezza e nella malattia.
Padre Cesare Pesce, come s’è detto, è morto il 13 luglio 2002
a Lecco ed è sepolto nel Cimitero di Novi Ligure (Alessandria).
Uno degli ultimi articoli che ha scritto è stata una auto-intervista,
in cui finge che un giornalista sia venuto a trovarlo e scriva l’articolo, poi pubblicato da «Missionari del Pime» come suo necrologio (ottobre 2002, pag. 3). Cesare immagina che un visitatore gli
chieda di parlare di sé e poi porti il discorso sul suo testamento
spirituale. Scrive:
Il parroco, un lupo del Bengala, è un uomo anziano, per non dire
vecchio, ma ancora in gamba, lucido di mente, sempre pronto alla
battuta. È contento che io sia venuto, inaspettato, a trovarlo. Dopo
il caffè, il discorso si avvia su un eventuale “testamento spirituale”.
Dice:
“Testamento spirituale? Bella idea. Ne ho letto qualcuno ma vorrei
fare una premessa: cos’è poi questa spiritualità non l’ho mai capito… Allora, invece di usare questo nome pomposo, che sa di legalismo, chiamiamola invece ‘intervista in vista del traguardo’. Nel
corso della mia lunga vita mi sono proposto di non dare troppo
fastidio al prossimo. A chi l’ho dato non posso che chiedere scusa.
Mi sono proposto di regalare la gioia e una briciola di pace a chi ne
avesse bisogno. L’eventuale successo di dare anche una sola ora di
gioia a chi soffriva, mi ha sempre dato l’impressione che quella gioia ricadesse moltiplicata su me stesso.
“Questo mio hobby, mi scusi per i soliti ricordi di un tempo che fu,
è iniziato in una via di Genova, ad un passaggio munito di semaforo. Quegli aggeggi a luce verde, rossa e gialla allora erano ancora
quasi sconosciuti. Eravamo una quarantina di persone in attesa di
attraversare la strada. Nel gruppo una bimbetta un po’ in ansia,
incerta di quanto e come passare. Ad un tratto alzò lo sguardo, ci
passò in rivista uno ad uno squadrandoci con cura, prese la mia
mano sorridendomi dolcemente. Strinsi quella manina orgoglioso
141
come un campione stringe la medaglia d’oro del suo successo. Che
gioia immensa! Gongolante, attraversai con lei la strada. Io fra tutti il prescelto, io a cui fu data la fiducia di proteggere una vita. Il
mio sorriso aveva vinto!
“E così, da egoista quale sono, cerco la gioia, la felicità, tentando
con tutte le mie forze di portare la pace e di dare un attimo di gioia all’uomo che incontro sulla mia strada. Lui cerca la felicità, come
me, come lei, come tutti i mortali. Camminando insieme, mano nella mano, la ricerca diventa più facile, il raggiungere la meta possibile”.
L’ultimo saluto: “Grazie, padre Cesare!”
Due i discorsi funebri per padre Pesce, conservati nell’Archivio generale del Pime a Roma. Il primo l’ha pronunziato a Lecco
padre Gianantonio Baio, superiore regionale dell’Istituto a Milano e già missionario in Bangladesh, che dice fra l’altro:
Padre Cesare era un uomo schietto, che non nascondeva fifa, malinconia, rimpianti. Non è stato un eroe, né un santo e neppure un
martire. Niente retorica e mai contare frottole ai poveri… in nome
di Dio. Un uomo con i piedi per terra, tanta fede e buon senso, con
una “perfetta letizia” che non l’abbandonò mai. Prete scugnizzo,
come lo chiamava un suo amico prevosto di Voghera, più bengalese che italiano. Uomo di dialogo di vita con tutti, anche se la preferenza è per i poveri, gli emarginati della società. Si è messo in cammino con una varietà di amici d’ogni religione, razza, tribù. Li ascoltava con stima, li osservava con vero interesse e gioia, senza imporre nulla e senza imporsi. I suoi amici erano:
– il bramino indù, “ambedue pellegrini sulla stessa strada, alla ricerca del Vero”;
– l’harijan, il fuoricasta analfabeta, umile: “costui sarà il mio uomo,
con lui viaggerò tanto”;
– il tribale, aborigeno libero e intelligente, senza complessi: “la sua
strada sarà pure la mia”;
– il musulmano bengalese, tollerante: “mi unisco anche a lui nel mio
viaggio”.
142
52 anni in cammino con loro, uno di loro, promuovendo la fratellanza universale nella concretezza e semplicità, con la vita, mosso da
una convinzione profonda: Dio è Padre di tutti. Una convivenza
pacifica ad ogni costo, sdrammatizzando situazioni difficili, magari
in modo scanzonato.
Don Franco Zanolli, parroco della parrocchia di padre Cesare, la insigne Chiesa Collegiata e Santuario di N.S. Lacrimosa a
Novi Ligure, ha dato una bella testimonianza del suo grande amico novese durante le esequie presiedute dal Vescovo di Tortona,
mons. Martino Canessa, presenti alcuni missionari del Pime (dal
Bangladesh) e una trentina di sacerdoti diocesani:
Da quando era partito da Novi, 55 anni fa, i parenti, gli amici, la
comunità di fede, la città di Novi Ligure vivevano la gioia di un suo
ritorno. Padre Cesare era diventato un segno proprio perché missionario, richiamo di generosità nell’attuare la vocazione, punto di
riferimento nel compiere la carità. La città è stata generosa con lui,
perché sapeva il bene che in Bangladesh andava compiendo. Per
questo padre Cesare ha potuto scolpire, sull’ultima struttura innalzata vicino al Santuario dedicato alla Madonna a Rajarampur, la
scritta: “Padre Cesare con l’aiuto dei novesi”.
Carattere schietto e volitivo, sempre pronto a fare perché il suo cuore era per dare; dare agli altri quanto aveva ricevuto: la fede e con
questa l’impegno qualificante della vita condivisa nei bisogni e nelle varie necessità, per la gioia del rispetto di tutto e di tutti. Con la
sua parola: semplice, chiara e convincente, educava; con i suoi scritti lascia la testimonianza dell’apostolo che non si risparmia.
Padre Cesare è tornato fra noi. Non solo come memoria in una lapide, ma come reliquia da venerare perché il suo ricordo sproni ad
essere ed operare nell’edificare il Regno di Dio. La Chiesa novese e
tutta la città è orgogliosa del suo missionario, per questo la Società
Storica lo ha annoverato tra i “Cittadini Illustri”, conferendogli
l’ambito Premio “La Torre d’Oro”…
È tornato padre Cesare, e noi preghiamo per lui con il suffragio della liturgia funebre; preghiamo per lui, come chiedeva nel concludere le sue lettere, per quella devozione che aveva nel cuore alla
Madonna Lacrimosa.
Grazie, padre Cesare! Lo esprime la Chiesa con la presenza di tan-
143
ti confratelli e del Vescovo; lo esprime la città con la presenza del
Signor Sindaco e delle Autorità. Grazie, padre Cesare! Per la vocazione attuata, per la missione realizzata, per la vita donata. Resti la
sua memoria in benedizione per la Chiesa e la Città di Novi Ligure.
La domenica 30 marzo 2003, poco meno di un anno dopo la
sua morte, padre Gianantonio Baio, superiore regionale del Pime
a Milano e già compagno di Pesce in Bengala, ha portato a Novi
Ligure il vescovo di Dinajpur mons. Moses Costa, nella cui diocesi aveva vissuto e operato il missionario novese. Dopo aver pregato e benedetto la sua tomba nel cimitero di Novi, il vescovo
bengalese ha celebrato la S. Messa delle ore 11. Nell’omelia ricordava padre Cesare come uomo di grande fede e di tante buone
qualità e capacità umane nel costruire il Regno: per questo ha
lasciato la sua impronta nell’animo dei cristiani e dei non cristiani e in tante opere e costruzioni non solo di chiese, ma anche di
scuole, dispensari, case per i missionari e le suore. Mons. Moses
ha evidenziato l’opera svolta dal missionario nell’attività catechistica, fino a coprire l’incarico di direttore del Centro catechistico
diocesano ed ha voluto esprimere riconoscenza per quanto ha fatto padre Pesce per il popolo e la Chiesa del Bangladesh e per gli
aiuti che la città di Novi e la diocesi di Tortona hanno dato al missionario e alle sue opere, in assistenza spirituale e materiale, con
tanta squisita carità. Il vescovo bengalese ha concluso dicendo
che il ricordo di padre Pesce è ancora vivo sia in Bengala che in
Italia e ha espresso l’augurio che il rapporto di fraternità fra le
comunità ecclesiali del Bangladesh e della diocesi di Tortona, specie della sua città natale di Novi Ligure, continui anche dopo la
sua scomparsa per produrre altri frutti di bene e di Vangelo.
Un tramonto dietro l’Himalaya. Il mio
Ecco uno degli ultimi scritti di padre Cesare, pubblicato dopo
la sua morte a Novi Ligure in un ricordino che lo commemora
per i suoi concittadini, con in prima pagina la foto di lui appog144
giato al bastone che usava nelle ultime settimane di vita. L’ha
scritto negli ultimi mesi dell’anno 2001, mentre era in Bangladesh, nel Santuario di Rajarampur: è un saluto alla vita poetico e
di efficace forza evocativa, com’era nelle sue corde espressive. È
intitolato: Un tramonto dietro l’Himalaya. Il mio.
E così, tra un’avventura e l’altra, una più bella dell’altra, sono arrivato all’ultima, a quella di ieri. È pomeriggio inoltrato. L’ho già visto
centinaia di volte, da quando sono qui in Bangladesh: il sole che
cade, che va a nascondersi dietro la catena dell’Himalaya. Uno spettacolo quotidiano, ordinario, ma sempre splendido e meraviglioso.
Ma ieri c’era qualcosa di particolare. Eccomi a Rajarampur, ritto sull’altura della scalinata di questo nuovissimo Santuario mariano.
Concepito, nato e cresciuto indisturbato in mezzo a centinaia e centinaia di mezzelune, dipinte o scolpite sulle decine di moschee del
vicinato. Il Santuario è cresciuto al ritmo dei salmi e delle invocazioni del muezzin, al ritmo delle cantilene mattutine, di ninna nanne esotiche al Babbo Sole presso i vetusti tempietti indù, di cui è
disseminata la terra di qui.
Sto meditando vicino a questo monumento cristiano, eretto a ricordo dell’avvenimento storico più grande, più importante per l’umanità intera: il Giubileo di Cristo nell’anno 2000. Un tesoro impensato in mezzo a capanne di aborigeni, tra gente di scarsa cultura, tra
persone quasi emarginate dalla società, gente per cui Gesù è nato
più di duemila anni fa. Splendida opera di architettura, che appunto perché splendida attira, nel buio di questo mondo, l’uomo alla
ricerca di un’ora di pace e di felicità.
Vedo che i gruppetti di pellegrini e di curiosi stanno disperdendosi. “Oh, sì!”, esclamo a voce alta, ora che sono rimasto solo, libero
da tutta quella gente sconosciuta, qui venuta a dare sfogo ai propri
sentimenti di dolore, rabbia, odio, amore…
Che gioia! Solo con me stesso, anch’io lasciato un pochino in
pace… Libero anch’io di vuotare il sacco delle mie emozioni! Poco
prima, una studentessa universitaria della Facoltà di Agraria della
città vicina, con un sorriso angelico, mi ha offerto una rosa, grossa
come una dalia, farfugliando: “I miei due nonni sono morti. Gradiscila, prego, ora il mio nonno sei tu…”.
Tramonto. Il mio. Ottant’anni…passati. All’interno della chiesa vi è
quella lucetta della lampada rossa presso il Tabernacolo: niente se
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paragonata all’enorme massa di fuoco e luce laggiù, lontano, che
scende lentamente fino a scomparire dietro l’Himalaya… Mi lascia
nell’animo una dolce, inesprimibile mestizia, mista ad una soffusa,
mistica, delicata gioia.
Volgo lo sguardo verso l’abside del tempio, debolmente illuminata
dalle ultime luci del tramonto. Oh, prodigio!… Maria sorride, sorride a me… davvero sorride a me? Meravigliosa avventura!
Padre Angelo Rusconi, suo confratello in Bangladesh, ricorda
i suoi ultimi mesi di vita a Rancio di Lecco nel 2002 2:
Il lunedì di Pasqua 2002 sono andato a trovarlo nella casa di riposo del Pime a Lecco. Si era ripreso e stava davvero bene. Mi prende in disparte e mi dice: “Dimmi tu con sincerità che cosa debbo
fare: posso ritornare al mio Santuario di Rajarampur oppure debbo
restare qui a fare compagnia ai confratelli anziani e più ammalati di
me? Io vorrei tentare di tornare in Bengala, ma capisco che altri
deve decidere per me”.
Caro e dolcissimo padre Cesare: sapeva prendere tutte le cose in
senso positivo e aveva la battuta pronta in ogni circostanza. Pochi
giorni prima che morisse siamo andati a trovarlo in due del Bangladesh, padre Mariano Ponzinibbi e io. Dopo la Messa si è sentito
male e l’hanno messo a letto. Quando si è ripreso e ci ha visti assieme, dice: “Siete venuti a darmi l’estrema unzione? – e sottolineava
con la voce l’aggettivo “estrema” – Oppekka Koro! Aspettate ancora!”.
– Che uomo era?
– Anzitutto era un entusiasta della vocazione missionaria, un estroverso che tentava tutti i metodi per annunziare Gesù Cristo. Vivere
e lavorare con lui non era facile perché imprevedibile. Era un grande sentimentale, un lavoratore accanito. Si buttava in tutte le vie che
vedeva. Era amico di indù e musulmani, si dedicava specialmente ai
più poveri e marginali. Si era fatto nominare re degli Harijans, cioè
primo responsabile del villaggio di una tribù di fuori casta concentrati a Ruhea, cioè di poveracci veramente miserabili, per tentare di
tirarli su.
2
146
Intervistato a Milano il 18 aprile 2004.
– Com’era con voi confratelli?
– Amava la nostra compagnia e anche scherzare e fare battute: dovevi essere pronto alle sue frecciate che però erano amabili, non offendevano nessuno. Pur essendo un tipo abbastanza individualista,
sapeva collaborare con altri e dava la carica a tutti col suo entusiasmo e ottimismo. Era entusiasta della vocazione missionaria, ma
anche della vita in sé, gli piaceva vivere e far vivere.
– Sembra a volte, leggendo le sue lettere, che abbia quasi pudore a
parlare della fede e della vocazione missionaria. È indubbiamente
un uomo di fede ed un entusiasta della vocazione missionaria, ma
questo risulta più dalla vita che ha fatto che dalle parole che ha scritto.
– Non so, non ho letto le sue lettere. Io non ho avuto questa impressione. Se dovessi dare un giudizio sul suo modo di essere e di esercitare la missione, direi che la sua preoccupazione maggiore era di
contattare tutti, dialogare con tutti, voler bene a tutti, essere amico
di tutti; e sapeva anche essere libero nell’annunziare la fede, nella
liturgia, ma profondamente credente e missionario. Era scanzonato,
originale, gli piaceva anche scherzare e fare battute, ma la sua fede
non era dubbia. Importante ricordare che padre Cesare le ha inventate e tentate tutte per annunziare e proclamare Gesù Cristo e la
Chiesa e ha speso tutta la sua vita per questo scopo. Solo che poi,
incontrando i singoli, li accettava nella loro umanità concreta, era
molto rispettoso del cammino che facevano e della libera scelta di
cui erano gratificati da Dio. Per fare anch’io una battuta, direi che
non era un “ciellino”, ma piuttosto un “focolarino”.
Il parroco di Novi Ligure, don Franco Zanolli, è il prete che
l’ha conosciuto meglio, perché gli è stato vicino con lettere e aiuti quando era in Bengala, e poi, soprattutto, quando tornava in
Italia come parroco della sua parrocchia a Novi: era il suo amico
e confidente. Ha dato di lui questa testimonianza (in una lettera
a p. Gheddo dell’aprile 2004):
Cesare ebbe in alcune circostanze la tentazione di rimanere in Italia, per le contrarietà della situazione locale in Bengala e per le calamità naturali come le alluvioni, che in pochi giorni annientano il
lavoro di tanti anni. Memore del monito del Signore: “Chi pone
mano all’aratro e poi si volge indietro non entrerà nel Regno dei cie-
147
li”, mai cedette a simili tentazioni e detestava l’idea di dover finire
la sua vita in una casa di riposo, rifiutando l’invito dei superiori a
mettersi in pensione. Da molte sue lettere traspariva l’amore alla
Chiesa, all’uomo, al paese in cui viveva. Amava scrivere, come opera strettamente legata all’annunzio, coltivando e conservando amicizie serene. Alcune di queste lettere, raccolte in CD-Audio ne trasmettono lo spirito. Quando don Paolo Padrini, giovane sacerdote
novese, espresse il desiderio di realizzare il CD-Audio con alcune
sue lettere significative, ebbe tutto il mio incoraggiamento: si intitola “Harijan – La carezza di Dio – Lettere di padre Cesare Pesce lette da Arnoldo Foà”.
Padre Cesare si presentava in modo dimesso ed umile, ma sempre
con tanta proprietà, senza nulla di ricercato. Ispirava fiducia e favoriva il dialogo con tutti. Quando in alcune circostanze solenni preparavo paramenti liturgici festivi di cui la Collegiata di Novi Ligure
è fiera, subito diceva: “Ma questi paramenti sono per i monsignori!”. La puntualità era la sua caratteristica. Si presentava per tempo
alla celebrazione, a cui faceva precedere una preghiera di preparazione e poi restava a lungo a pregare per il ringraziamento.
Quando nel gennaio 2002 giunse la notizia che padre Cesare era a
Lecco nella casa di riposo dei missionari del Pime, siamo andati a
trovarlo e ci siamo trovati di fronte ad un uomo debilitato nelle sue
funzioni fisiche e psichiche. Appena si accorse della nostra presenza (ero con due amici, uno dei quali il nipote Ernesto), ebbe un
momento di rianimazione e volle che la suora che lo accudiva prendesse da un cassetto un plico di cartelle da consegnare a noi per la
pubblicazione: era una storia della Chiesa universale in inglese,
scritta per i bengalesi. Tornati una seconda volta a visitarlo, si era
ripreso e parlava correntemente: diceva che l’opera era ancora
incompleta, ma pensava di poterla terminare. Ora questo testo è
nell’Archivio del Pime a Roma (vedi all’inizio di questo capitolo,
n.d.r.).
Conversare con padre Cesare era piacevole perché arricchiva il suo
dire con ilarità e facezie, non s’imponeva mai agli altri e restava
volentieri in ascolto. Il nostro dialogare fu sempre rispettoso e sincero, animato dall’ansia pastorale per il bene degli altri e quando a
volte si perdeva in umane considerazioni, velava il tutto con cristiana comprensione e carità…. Padre Cesare fu sempre riconoscente
per l’aiuto dato da anime buone per le sue attività missionarie. Ci
148
proponiamo di continuare con quello stesso spirito. La memoria
della vita e della missione di padre Cesare Pesce ci ricorda che la
sua meravigliosa impresa non solo è possibile, ma è anche un dovere per la nostra salvezza.
149
6.
SEMPRE ALLEGRO E GRADITO A TUTTI
Al termine della biografia di p. Pesce, mi rimane un dubbio.
Cesare ha avuto una vita molto dedicata al prossimo e sacrificata, ma non ha vissuto avventure drammatiche come altri missionari di cui ho scritto la biografia. Forse il momento più avventuroso è stato durante la “guerra di liberazione” del Bangladesh dal
Pakistan occidentale, quando era a Mariampur. Ma di quei mesi
non ha scritto nulla, mentre ad esempio l’amico e condiocesano
padre Mario Alvigini ha scritto alcune pagine da brivido (vedi al
capitolo III).
Il dubbio che mi rimane è questo. Non vorrei che l’amico lettore chiudesse questa biografia pensando: beh, tutto sommato, Cesare Pesce ha fatto il parroco laggiù in Bangladesh con una vita più
o meno uguale a quella dei nostri preti in Italia. Sarebbe una conclusione che non corrisponde a verità. Il vero sacrificio di padre
Pesce (come di tutti gli altri missionari che vivono lunghi anni lontani dalla patria) è stato di vivere e lavorare, con fedeltà e costanza per 54 anni, nel difficile ambiente del Bangladesh, circondato
dalla povertà e dalla miseria, adattandosi al clima quasi sempre
caldo umido soffocante, al cibo, ai costumi, ad una società islamica; dovendo esprimersi in bengalese, in santal, in oraon e qualche
volta anche in inglese. La difficoltà maggiore che incontra il missionario è di ambientarsi in un paese completamente diverso dal
nostro. Ci vogliono anni di rinunzie, di sacrifici, di continue tensioni, prima di sentirsi a casa propria! Durante una vacanza in Italia nel 1980, in una intervista padre Cesare diceva: “Dopo trentadue anni passati in Bengala non so neppure io se sono bengalese o
europeo. Sul mio passaporto è scritto: ‘Nazionalità italiana’, ma
sotto la mia pelle si legge ‘bengalese’”. È la testimonianza più convincente della sua fedeltà alla vocazione missionaria.
151
Il Bengala era la “La tomba dell’uomo bianco”
Ecco una gustosa descrizione del travaglio quotidiano vissuto
da un missionario in Bangladesh, fatta dallo stesso “Pesciolino”
in una lettera del 13 novembre 1983 a don Giuseppe Bruniera,
parroco del Sacro Cuore di Novi Ligure:
Quindici giorni fa, durante la pioggia torrenziale, è caduto un palo
della luce presso la vicina moschea e i fili, a contatto con la terra
bagnata, hanno causato un corto circuito nel trasformatore della
linea principale, riducendolo ad un rogo. Ora siamo al buio, con la
paura di ladruncoli affamati, con la prospettiva di non avere la corrente per tutto il resto di questo millennio. L’ingegnere dell’Electric
Department del nostro distretto assicura che non si trova un altro
trasformatore neppure pagandolo a peso d’oro. I mulini della zona
sono fermi. I contadini pensano ai prossimi mesi in cui avranno
bisogno di acqua per seminare il grano e il motore elettrico del progetto d’irrigazione della missione sarà inattivo. Qui ora è una processione di gente che viene a pregarmi di far muovere i capi. Come
se io fossi l’onnipotente, che dicendo “fiat lux”, crea la luce. Mah!
Lunedì della scorsa settimana mi chiamarono d’urgenza a visitare
una ragazza madre che, dopo aver dato alla luce un bambino morto, stava pure lei male da morire. Il paese dove abita dista dalla missione una ventina di chilometri. Domandai al giovanotto che venne
a chiamarmi com’era la strada. “Bella” rispose. Allora, via in motocicletta. Dopo due miglia, pozzanghere enormi, profonde, carreggiate pericolose. Che fare? ormai sono in moto e decido di tentare
l’impossibile. Dico: Vai!… cado nel fango e il tubo di scappamento
mi disegna un virgolone bluastro sulla caviglia del piede destro.
Rialzo la moto, ma essa fa le bizze. La pulisco nelle sue parti vitali,
l’accarezzo, la sgrido. Niente da fare, non capisce. Si ostina a non
ripartire, l’asinaccia. Con l’aiuto del solito stuolo di ragazzi, che
incontri sempre e dappertutto in Bangladesh, la spingo nella prima
casa che trovo per la strada e proseguo zoppicando. Coi pantaloni
e la camicia mimetizzati dal fango sembro un disertore dell’esercito
di Arafat. Una grossa consolazione al mio arrivo: la ragazza risponde a monosillabi alle mie benedizioni e parole incoraggiamento. Se
la caverà, poveretta. E se la caverà anche la mia “Honda”, sotto le
cure d’un meccanico maniscalco del paese. La scottatura alla cavi-
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glia sta ormai asciugandosi regolarmente. In conclusione tutto va
bene!
Due settimane fa s’è messo a piovere a dirotto e per sei giorni non
volle saperne di smettere. Un po’ fuori tempo tutta quell’acqua. I
campi bellissimi, coperti dalle piantine di riso in fiore, il giorno prima della pioggia presentavano uno spettacolo meraviglioso. I contadini, incuranti della rugiada che inzuppava i loro “longhi” 1, al
mattino facevano la loro passeggiata tra i campi sorridendo al pensiero di un prossimo raccolto abbondante. Ora, dopo la pioggia, le
lunghe file di spighe neonate, malmenate e sconvolte dall’acqua,
danno l’impressione di una processione di frati incappucciati, con
le mani nascoste nelle maniche incamminati verso il coro al canto
lugubre del miserere. Nelle terre più basse, peggio: nei campi inondati le piante del riso stanno annegando. Addio sogni di un raccolto eccezionale, sogni di autarchia o autosufficienza quotidianamente e stucchevolmente gridati dagli amministratori del regime militare.
Tra inondazioni e siccità che si alternano nel corso dell’anno c’è
poco da stare allegri in un paese così piccolo e così densamente
popolato. Rimane sempre e sola la speranza ultima degli dei pagani, del buon Dio per i cristiani e la rassegnazione per i musulmani.
E allora, la situazione politica si fa di giorno in giorno sempre più
delicata. Qui vige la legge marziale del 24 marzo 1982, ma i cinquanta e più partiti registrati alzano la testa, gridano, protestano,
promuovono scioperi e manifestazioni. Ogni tanto ci scappa il solito morto e il solito fuocherello divampa in qualche sede di partito
o di club affiliato. Prima della fine dell’anno ci saranno le elezioni
amministrative, poi l’anno venturo le elezioni generali, in cui l’attuale Capo militare farà il solito giochetto e diventerà presidente democratico. E allora tutto andrà bene come è andato fino ad oggi.
Al tempo della prima colonizzazione inglese il Bengala veniva definito “la tomba degli uomini bianchi” e infatti nel secolo
XIX la media di vita dei missionari del Pime in Bengala (vi lavoriamo dal 1855) era di appena 34 anni, ma quanti missionari
1 Il “longhi” è il vestito dell’uomo, una lunga striscia di stoffa che si gira
attorno alla vita e alle gambe. Le donne vestono il “sari”.
153
morivano a 26-27-28 anni, dopo due-tre anni di Bengala! Altri
erano urgentemente rimpatriati per salvare la loro vita. Anche le
suore di Maria Bambina, andate in Bengala con i missionari del
Pime nel 1860, pagarono un prezzo pesantissimo. Nel 1886 la
superiora provinciale ritira le suore dalla missione di Jessore, a
causa del clima “micidiale per eccellenza”: negli ultimi vent’anni
erano morte a Jessore 14 giovani suore italiane!
Oggi il Bangladesh è molto migliorato, ma le condizioni di
vita, viste con occhi italiani, sono ancora povere e soprattutto
difficili per la mancanza di spazi e la presenza continua di troppa gente. Non bisogna mai dimenticare che il Bangladesh, in un
territorio che è poco meno della metà di quello italiano, ospita
circa 130 milioni di bengalesi: si ha l’impressione di soffocare,
manca la possibilità di stare soli, manca la libertà di muoversi
senza essere sempre accompagnati e seguiti da nugoli di bambini: simpatici se presi uno per uno, ma quando sono tutti assieme… Questa la cornice, l’ambiente in cui viveva padre Cesare
Pesce, che ha lasciato di sé un ricordo molto bello in tutti i confratelli: proprio perché si era ambientato bene fino al punto di
considerare il Bangladesh, non a parole ma in modo autentico e
cordiale, sua nuova patria. Senza far pesare a nessuno il vivere in
situazioni difficili, ma anzi mantenendo uno spirito gioioso e cordiale con tutti.
Padre Angelo Canton, in Bengala dal 1951 (tre anni dopo l’arrivo di Pesce), mi dice:
Padre Pesce era sempre allegro, pieno di brio, di battute. Portava
allegria dovunque andava. Per questo era gradito a tutti. Sapeva
tirar su anche chi era depresso. In comunità era quello che aveva la
parola giusta al momento giusto. E questo non solo per un bel carattere, ma perché era un uomo che viveva di fede, sentiva fortemente
l’amore di Dio e la Provvidenza. Un altro aspetto importante del
suo modo di essere è questo: era un uomo libero, non inscatolato o
ingabbiato in nulla. Sapeva andare contro-corrente, se necessario.
Ad esempio, amava una liturgia creativa, secondo le circostanze
sapeva inventare gesti e parole nuove che attiravano la gente. Era un
poeta e un creativo.
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Perché Pesce era “sempre allegro”? Lo dice lui stesso in una
lettera a mons. Francesco Giorgi (15 agosto 2000), ringraziando
il Signore di finire la sua vita, a 80 anni compiuti, nel nuovo Santuario di Maria, circondato da “tutta questa magnifica gente che
mi sta attorno. A volte mi rompono l’anima, ma nello stesso tempo mi rendono felice di vivere, nella gioia di avere qualcuno vicino a convincermi che non sono venuto al mondo inutilmente”.
Chiedo a padre Adolfo L’Imperio che mi spieghi cosa vuol dire
la “liturgia creativa” che celebrava padre Pesce (intervistato a
Milano nell’aprile 2004):
“Anche i ladri a Pasqua fanno festa”
– Voleva che la liturgia fosse espressione di vita e che le cerimonie
fossero fatte bene. Però era creativo, cioè libero, andava, veniva,
dirigeva i chierichetti e i fedeli... Adattava le cose secondo il
momento, sempre nello spirito della cerimonia che si stava compiendo e con il buon senso che aveva innato. Non celebrava la Messa come una stanca abitudine: la viveva, sapeva farla vivere anche
con interventi originali ma autentici, che aveva il dono di saper
comunicare. Questo era il suo modo di essere: era un tipo geniale,
aveva sempre la battuta pronta al momento giusto. Quand’era parroco a Pathorgata, in una Pasqua sono andato ad aiutarlo e alla sera
della vigilia abbiamo fatto la funzione solenne in chiesa, con molta
commozione. Alla fine la gente esce di chiesa e nella notte incomincia a cantare e danzare, com’era solita fare. Dopo un po’ arrivano i
due guardiani di notte della missione e dicono a padre Cesare: “I
ladri hanno rubato quattro sacchi di riso”.
Io rimango un po’ stupito, ma padre Cesare ferma le danze e i canti e al microfono dice a tutti: “Questa notte di Pasqua i ladri hanno
rubato nel deposito della missione quattro sacchi di riso. Alleluja!
Alleluja! Anche i ladri fanno festa e mangiano”. Poi ha continuato
a cantare con la gente.
– Che rapporti aveva con i musulmani e gli indù?
– Nel Santuario di Rajarampur, in cui era al termine della vita, andavano a pregare anche musulmani e indù, portavano fiori, accendevano lumini alla Madonna... Nella zona ci sono una moschea e un
155
tempio indù, ma la gente veniva a pregare anche nel Santuario della Madonna del Rosario di padre Cesare. Lui parlava con tutti, era
amico di tutti, aveva un bel modo di trattare con la gente, si faceva
voler bene. Poco prima che tornasse in Italia, dopo l’11 settembre
2001, c’era tensione in Bangladesh contro i cristiani, gli occidentali.
Sono andati da lui un gruppo di giovani estremisti musulmani e con
aria minacciosa gli hanno detto: “Padre, noi facciamo saltare la tua
chiesa”. Lui risponde calmo: “Va bene, e noi la ricostruiremo più
grande”. Quella calma e cordialità ha sorpreso quei giovani. Non si
sono più visti. Minacce di quel genere ne abbiamo ricevute tante, ma
noi diamo poco peso ad esse: siamo nelle mani di Dio. In Bangladesh girano molti predicatori dell’estremismo islamico, girano molte armi che vengono dall’India, nel vicino Bengala indiano ci sono
ancora i comunisti che commerciano in armi, fanno attentati, ecc.
– Cosa ricordi di lui come uomo?
– Era un poeta, un uomo di fede e un carattere felice; aveva la capacità di dialogare con tutti, non aveva barriere, era spontaneo e naturale. Sapeva affrontare qualsiasi situazione con la calma e la sicurezza che gli venivano dalla fede, dal bel carattere, dalla notevole intelligenza con cui giudicava le vicende della vita. Era un uomo con cui
era piacevole stare assieme, discutere, perché lasciava parlare gli
altri, ascoltava e poi esprimeva il suo parere in modo semplice, cordiale, chiaro.
“Mamma, non senti che il tuo bambino ha fame?”
Suor Anna Giudici è una Missionaria dell’Immacolata in Bengala dal 1955, ha avuto innumerevoli volte l’occasione di visitare
i villaggi in varie missioni e anche con padre Pesce, visite chiamate “moffusil”: erano sempre due-tre suore con il missionario e il
catechista. Stavano in giro un mese con il carro tirato dai buoi.
Oltre agli oggetti del ministero sacerdotale e alle medicine, portavano con sé pochissimo: un cambio di biancheria, qualche pentola e piatto, posate e bicchieri, un po’ di riso con peperoncini
piccanti e un po’ di lenticchie; qualcos’altro da mangiare lo trovavano nei mercati di villaggio. Per dormire, una coperta ciascuno, un lenzuolo e la zanzariera.
156
Oggi il Bengala è molto cambiato, non è più quello di cinquant’anni fa: con le strade e le auto è difficile persino per i giovani missionari immaginare la vita che i loro predecessori conducevano mezzo secolo addietro. Padre Pesce e le suore stavano in
giro un mese fra campi di riso e villaggi con capanne di fango e
paglia, strade fangose o polverose, un cibo povero e sempre uguale, l’acqua da far bollire per poterla bere, i serpenti e la malaria
in agguato (oltre a topi, scarafaggi, ecc.), il caldo umido e soffocante: questa l’immagine molto concreta dell’eroismo richiesto ai
missionari che hanno fondato la Chiesa in Bengala (e in India) e
della vita di padre Cesare Pesce. L’eroismo di resistere per anni e
anni, mantenendo un’allegria di fondo che “Pesciolino” ha conservato fino alla morte. Ecco il racconto di suor Anna Giudici,
intervistata da suor Franca Nava (nel febbraio 2004):
Padre Pesce era un uomo vivace, allegro, un vero missionario con il
solo desiderio di far conoscere Gesù. Nelle visite ai villaggi che a
Ruhea facevamo con lui, ero accompagnata da una suora bengalese
della congregazione diocesana di Dinajpur “Shanti Rani”, che parlava bene santal, oraon, bengalese. Oltre che visitare le famiglie,
dovevamo preparare i catecumeni per il battesimo e i bambini grandicelli per la prima Comunione. A volte i battezzati erano molti e la
famiglia preparava il nome da dare secondo la loro tradizione; ma
padre Cesare, battezzando, aggiungeva un nome cristiano che io gli
suggerivo uno alla volta. La scelta dei nomi era un problema perché
la gente si fidava del nome che sceglieva il padre, per cui bisognava
avere una lista sufficiente per evitare di dare nomi simili a bambini
e bambine battezzati nello stesso tempo e luogo. Ogni nome andava segnato nel registro dei battesimi e la famiglia poi lo imparava a
poco a poco.
Una volta, mentre era in corso la cerimonia dei battesimi che erano
tanti, mi è venuta in mente suor Ancilla che era anche lei in Bangladesh: padre Pesce l’aveva mandata dalle Missionarie dell’Immacolata quando era viceparroco ad Alzate Brianza (Como) durante gli
anni di guerra e la considerava sua figlia spirituale. Il suo nome di
battesimo era Elisa. Allora io, suggerendo il nome della bambina
che stava per essere battezzata dico: “Elisa”. Padre Pesce incomincia con la formula del battesimo: “Elisa, io ti battezzo…” Poi si fer-
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ma prima di versare l’acqua, guarda bene e dice: “Ma questo è un
maschietto! Eliseo, io ti battezzo…”. Ridiamo di gusto tutti e due
mentre la gente ci guarda sbalordita e padre Cesare mi dice: “Accià,
dimmi il nome giusto!” (“Accià” equivale a “perbacco” in bengalese).
Si visitavano parecchi villaggi, in media uno ogni due giorni: visita
delle famiglie, regolarizzazione dei matrimoni, catechismo per bambini, donne e uomini, cura dei malati, distribuzione di medicine;
soprattutto si pregava assieme alla gente mattino e sera. Per i bambini la catechesi avveniva durante il giorno, per gli adulti la sera,
quando tornavano dal lavoro dei campi. Dormivamo nello stesso
villaggio: il padre nella cappella (se c’era), noi suore all’altro estremo del villaggio, nella capanna di una famiglia di buona reputazione, oppure anche da sole. Fuori della nostra capanna c’erano sempre due uomini tutta la notte a proteggerci da eventuali male intenzionati, ma non abbiamo mai avuto problemi. Invece ricordo che
qualche volta, svegliandoci di notte e guardando fuori, vedevamo i
nostri due uomini che parlavano con uno o più musulmani, venuti
a vedere dove dormivano le suore e ad assicurarsi che con noi non
c’erano uomini. Per loro la verginità di donne giovani consacrate a
Dio era un fatto incomprensibile e impossibile.
Allora vi era molta giungla e spesso la tigre si faceva sentire nelle
vicinanze, per rubare qualche vitello. Una sera, mentre noi suore
eravamo ancora alzate e chiacchieravamo, sentiamo che le pareti
della nostra capanna di bambù si scuotono e ondeggiano come se
qualcuno o qualcosa strisciassero contro. Spegnamo la fiammella
della lampada a petrolio e ci fermiamo in silenzio per un po’ di
minuti. Sentiamo un respiro profondo proprio vicino a noi, che ci
riempie di spavento. Poi più nulla. Quella notte abbiamo dormito
male e al mattino la gente ci dice che era passata la tigre e si era fermata proprio vicino alla nostra capanna. Ma padre Pesce ci tranquillizza: “Non abbiate paura, nessun missionario o suora missionaria sono mai stati mangiati da una tigre…”. Era sempre ottimista e
pieno di speranza perché confidava nella Provvidenza di Dio.
Padre Cesare non viveva di rendita, amava trasmettere la Parola di
Dio con metodi moderni che sapeva rinnovare. Il suo corso di insegnamento della Bibbia con domande e risposte che inviava ogni
mese a più di mille iscritti, con premiazione finale, ebbe molto successo. Nella predicazione era un piacere ascoltarlo perché, parten-
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do dal brano di Vangelo che si era letto, coinvolgeva gli ascoltatori
con esempi e problemi che tutti sentivano perché si riferivano alla
vita quotidiana; e inventava sempre qualcosa che rompeva il discorso e attirava l’attenzione. Una volta, mentre predicava durante la
Messa in una di queste visite ai villaggi, un bambino piangeva e
disturbava. Padre Cesare dice: “Mamma, non senti che il tuo bambino ha fame? Dagli il seno!”. Tutti si sono messi a ridere.
“Sapeva ascoltare, lasciava parlare gli altri”
Una qualità indispensabile nel missionario, specie nei tempi
moderni quando i popoli prendono coscienza dei loro diritti e
della loro identità anche religiosa, è l’umiltà, la capacità di ascoltare e di collaborare con Vescovi e clero locale in posizione subalterna. In passato, quando si trattava di fondare la Chiesa in regioni del tutto nuove, al missionario era richiesto di essere un capo.
Oggi deve saper obbedire e lasciare spazio ad altri, parlare solo
quando necessario e saper ascoltare. Suor Clotilde Brambilla,
altra Missionaria dell’Immacolata (intervistata da suor Franca
Nava nel febbraio 2004), è stata con padre Pesce a Kalisha, negli
ultimi anni della sua vita (1995-1999) ed ha per lui una grande
ammirazione.
Posso dire che era arrivato a Kalisha in un momento molto difficile della missione. Anzi, il vescovo aveva mandato lui perché il suo
carisma di saper portare la pace dove c’erano divisioni e lotte era
proverbiale. A Kalisha vi erano pasticci fra i cristiani stessi, divisi in
clan e fazioni: una storia che il parroco precedente non era riuscito
a smontare. Quando arrivò padre Pesce, non passarono molti mesi
e Kalisha aveva un volto nuovo: la pace era tornata, le tensioni
scomparse, si riusciva a collaborare con tutti. Ma per sapere chi era
veramente padre Pesce bisognerebbe interrogare i musulmani. Non
conosco molti altri missionari del Bangladesh, ma credo che padre
Cesare fosse fra i più capaci di stabilire buoni rapporti e dialogare
con i seguaci di Maometto.
Lui si interessava dei loro problemi e sapeva ascoltare. Quando era
con i musulmani parlava poco, lasciava che parlassero loro. I suoi
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colloqui con tutti, seduto su una stuoia o semplicemente per terra,
si protraevano a volte fino a notte inoltrata. Sempre calmo, lasciava
che si sfogassero, gridassero pure (e se la conversazione prendeva
una certa piega questo era normale), ma il suo contegno sereno aveva presto il sopravvento. Con noi suore, e naturalmente anche con
i laici cristiani, era sempre gentile e riconoscente per quello che si
faceva per il Regno di Dio.
Quando celebrò il 50° della sua venuta in Bengala come missionario (1998), andò in Italia e nella sua città di Novi Ligure venne premiato con la “Torre d’Oro”; poi tornò in Bangladesh e ci furono
festeggiamenti in varie parti della diocesi di Dinajpur, con partecipazione anche di musulmani e hindù. A tutti mostrava con orgoglio
la sua “Torre d’Oro” e noi dicevamo che lui era come una torre della Chiesa bengalese. Non mancarono nemmeno i pranzi solenni e
fra gli invitati non pochi erano suoi amici di altre fedi religiose.
Una delle sue caratteristiche come parroco era che seguiva i cristiani e gli alunni delle nostre scuole personalmente, era davvero un
padre della fede e anche degli aiuti materiali dov’era necessario. Fra
i suoi alunni e alunne sono nate parecchie vocazioni sacerdotali e
religiose. Significativa quella di don Giuseppe Mardi, un santal che
lui chiamava suo figlio: non solo sacerdote, ma laureato in legge. Un
santal capite? Un fatto straordinario.
A padre Pesce piacevano le cose fatte bene, godeva dei bei paramenti che egli teneva con cura per le feste solenni; era un bravo
liturgista, per le domeniche e le feste preparava un foglietto ciclostilato con le letture, le preghiere, i canti e anche dei disegnini, per
far sì che la Messa fosse seguita con attenzione e ben capita. Aveva
pure attenzione per le scuole, dove andava lui stesso a controllare
come si tenevano le lezioni e i compiti. Ma i suoi prediletti erano i
vecchi e gli ammalati. Quanta cura, quante visite nelle loro povere
capanne, quante rupie spese per i medicinali: in Bangladesh non c’è
assistenza sanitaria gratuita; se non si è attenti alle persone, ci sono
quelle che muoiono anche per mancanza di una medicina, di un
intervento chirurgico. Nessuno poi andava in Paradiso senza i
Sacramenti. Anche se la loro capanna era molto lontana ed eravamo nella stagione dei monsoni (cioè delle piogge a catinelle), padre
Cesare affrontava ogni fatica per andarli a trovare e portar loro il
Viatico e l’Olio degli Infermi. A volte si vedeva che era proprio stanco, ma ci andava lo stesso.
160
Insomma, in padre Pesce io ho conosciuto un uomo di grande fede.
L’amore al prossimo e lo spirito di sacrificio per lui non erano solo
parole, ma fatti quotidiani molto concreti.
Padre Gianantonio Baio, per vent’anni missionario in Bangladesh e oggi superiore regionale del Pime a Milano, così lo ricorda:
Quando penso a padre Pesce mi viene in mente una sua espressione caratteristica, che ripeteva spesso in varie circostanze: “Magnifico!”. Non si perdeva in lamenti, sapeva vedere gli aspetti positivi di
tutte le situazioni, si entusiasmava delle cose buone che trovava. Lo
ricordo come un confratello lucido nei giudizi, ma anche sempre
sereno e allegro: il suo “Magnifico!” si applica anche a lui.
Padre Giulio Berutti, che è stato con Pesce per alcuni anni,
mi scrive (10 maggio 2004):
Padre Cesare aveva una grande dote: non l’ho mai sentito parlare
male di un confratello. Piuttosto faceva silenzio.
Ancora padre Baio, presentando padre Cesare alla città di
Novi Ligure il 4 ottobre 1998, in occasione dell’assegnazione del
“Premio Torre d’Oro 1998”, diceva:
Don Cesare è tra voi per pochi giorni, ha già fissato la data del ritorno in Bangladesh, anzi l’ha anticipata di una settimana. Di andare in
pensione non vuol neppure sentirne parlare, anche se ha 79 anni suonati. Prete scugnizzo, come lo definisce un suo amico prevosto di Voghera, più bengalese che italiano. È vero! Ben 50 anni sulle strade del
Bengala sono un vanto, un merito, un dono… e tanta gioia. Padre Cesare è un testimone della missione alle genti. Resta concittadino vostro, certo, ma ancor più figlio di quel popolo di adozione che tanto
ama e da cui si sente amato. Senza esitazione si è inculturato, immerso in quella terra e fra quel popolo, vivendo quotidianamente rapporti personali di vera amicizia come il grande Tagore, anima poetica e
mistica, Premio Nobel per la letteratura e simbolo delle virtù del popolo bengalese, esprime in una preghiera: “Fa’, o Signore, che nell’insieme di molti non perda l’attenzione al singolo”.
161
Don Cesare è disponibile al dialogo con tutti, senza esclusioni,
anche se la sua preferenza è per i poveri, gli emarginati della società. In cammino con una varietà di amici che ascolta, stima, osserva
con interesse e gioia, senza imporre nulla né tentare di imporsi. Ben
cinquant’anni in cammino con loro, uno di loro, promuovendo la
fratellanza universale nella concretezza e semplicità della vita, mosso da una profonda convinzione: Dio è Padre di tutti. Di Lui ha parlato con la vita, coi fatti prima che con le parole. Una convivenza
pacifica ad ogni costo, sdrammatizzando situazioni difficili, magari
in modo scanzonato.
Amava molto il popolo bengalese
Ho già raccontato di quando nel 1960, dopo dodici anni di
Bengala, padre Pesce ritorna la prima volta in Italia e trova la sua
patria così cambiata che gli pare di non trovarsi più a casa sua. Tra
l’altro, in quel 1960 era iniziata la prima “Campagna contro la fame
nel mondo” lanciata dalla Fao e ad un missionario reduce si chiedeva di parlare della fame nel mondo. Cesare scriveva 2:
Mi invitano a parlare dei miei dodici anni passati laggiù e io, dopo
le prime battute, rimango impappinato, nel dubbio che mi prendano per uno che le sballa grosse. Mi invitano a fare qualche conferenza e alla fine gli organizzatori mi rimproverano: “Ma perchè non
parli dell’infelicità, della miseria, dei morti di fame, dei sacrifici che
fai laggiù?”. Sacrifici? Come se buttar giù tutti gli antipasti sofisticati e ‘sti piattoni di ogni ben di Dio, pesanti come il piombo, per
poi ingoiare medicine amare come il tossico nel tentativo di combattere il colesterolo, non fossero sacrifici più grossi!
Non voleva parlare della “miseria”, dei “morti di fame” e
dell’”infelicità” del suo popolo che tanto amava: gli pareva di tradirlo! Infatti dice in una intervista 3:
2
3
162
Le strade della vita, Cooperativa Editoriale Oltrepò, Voghera 1989, p. 65.
In «Il Popolo di Novi», senza data.
Sono tornato volentieri, ma il mio pensiero è sempre là, alla missione... Mi fermo in Italia sei mesi, ma le dico che ho lasciato il cuore
a Ruhea. E se è umana la gioia di ritrovarsi in questa breve parentesi coi parenti e gli amici, sento che la mia vita è laggiù, dove ho
piantato la mia vocazione e dove il sacerdozio assume dimensioni
così sconfinate, che non saprei concepirlo né più bello, né più entusiasmante.
Cesare era innamorato dei bengalesi, lo diceva spesso chiacchierando con gli amici. Vedeva anche i loro limiti e difetti, la miseria e
gli aspetti negativi di società non cristiane. Ma, ottimista com’era,
dei bengalesi aveva un’alta immagine. Ecco cosa dice di loro 4:
Eccoti il popolo bengalese: una massa enorme di poeti, di appassionati della musica. Le passioni esplodono violente dal cuore, incontenibili e indomabili. L’intelligenza vivida e brillante non riesce a
incanalarle in un programma severo e matematico. Eccoti di conseguenza il famoso 21 febbraio con i suoi morti sulle strade, veri sacrifici umani in onore della lingua bengalese (si riferisce alle rivolte
contro il Pakistan nel 1952, n.d.r.); eccoti la guerra civile contro il
Pakistan orientale (del 1970-1971, n.d.r.)...
La passione guida questo popolo meraviglioso, dignitoso nella sua
povertà, orgoglioso nei suoi milioni di bambini, che guizzano come
pesciolini nella fitta rete di fiumi, torrenti e pantani. La morte forse non tarda a venire. Che importa? La gioia di vivere è di oggi. Il
domani è in mano ad Allah, che guida i destini dei popoli e del singolo. Il futuro è dei giovani. E il bengalese, inconsapevolmente veggente come un poeta, attende fiducioso e sicuro, pur in mezzo ai
suoi limiti regalatigli dalla sua natura passionale, l’alba di un domani migliore... Noi europei invecchiamo e Roma si addormenta sui
suoi colli dorati. A me piange il cuore quando penso, come italiano,
all’ineluttabile corso di questa meravigliosa e gloriosa storia europea
che va verso la foce. E d’altra parte mi consolo, come bengalizzato,
di essere un sassolino portato dalla corrente verso il domani radioso di questo popolo.
4 Intervista di don Meriggi a padre Pesce, in «Il Popolo di Novi», senza
data (probabilmente del 1981).
163
Padre Cesare, oltre che innamorato dei bengalesi, era anche
un uomo con i piedi per terra, furbo e capace di dire la parola
giusta al tempo giusto. Riusciva a sistemare situazioni conflittuali e a non essere nemico di nessuno perché era cordiale e sincero
nello stesso tempo. Padre Livio Prete, missionario in Bangladesh,
mi ha raccontato questo fatto. In una certa missione si erano creati contrasti fra due gruppi di cristiani nei quali era coinvolto
anche il parroco. Uno dei motivi di contrasto era la presenza di
una donna nella casa parrocchiale (cuoca e donna di casa), capace e onesta ma autoritaria, gradita agli uni e non agli altri per vari
motivi, soprattutto di appartenenza etnica. Naturalmente, come
sempre capita, quando nascono inimicizie per un motivo e non
vengono sistemate, vanno avanti caricandosi sempre di nuovi
motivi di contrasto.
Pesce è mandato dal vescovo a sistemare la situazione. Nominato parroco, qualche giorno prima di fare l’entrata in parrocchia
manda ad avvisare la cuoca di preparagli una bella cena per
festeggiare la solennità con gli amici. La donna si impegna, gli
prepara un cenone coi fiocchi. Padre Cesare mangia di gusto e
ringrazia la cuoca. Il mattino dopo chiama la signora e le dice:
“Ieri sera ho mangiato bene e la ringrazio, lei cucina veramente
bene. Però questa notte non ho dormito, quel tipo di cibo mi ha
fatto male. Io ho bisogno di un’altra cucina. Abbia pazienza, con
le sue capacità troverà altri posti di lavoro”. E dandole anche più
della giusta ricompensa, la licenzia.
La donna protesta e grida, la sua famiglia interviene, la sua
etnia minaccia. Ma Cesare, sempre cordiale e sorridente, mostra
meraviglia per queste reazioni: è lui che deve mangiare e quindi
se prende una cuoca diversa questo non deve meravigliare nessuno. Però aveva dato un segno preciso e forte a tutta la parrocchia
e in breve tempo le cose si sistemano. Padre Livio mi racconta
che Cesare amava, quando aveva tempo, andare nei mercatini di
villaggio a fare la spesa. I negozianti, vedendo un bianco e ritenendolo uno sprovveduto, alzavano il prezzo. Cesare, quando se
ne accorgeva, lo faceva notare, ma poi diceva: “Ti pago come tu
mi hai chiesto perché voglio essere tuo amico, però non è un
prezzo giusto”. Invece, se a volte capitava che gli indicavano il
164
prezzo giusto, allora diceva: “Come, così poco? Mi pare che questo costi di più” e pagava il doppio. Erano piccole genialità per
farsi degli amici e far parlare bene di sé fra i musulmani.
Padre Luca Galimberti, che ha conosciuto padre Pesce quando era a Kalisha (vicino alla sua missione di Boldipukur), mi racconta (a Roma, 3 giugno 2004):
È rimasta famosa una sua finta lite con un conduttore di “rikshow”
a Dacca. Aveva preso il carretto tirato a mano e quando giunge a
destinazione si mette a discutere col povero bengalese che faceva
quel lavoro. Padre Cesare finge di scaldarsi e l’altro lo segue: alzano la voce, ma non parlavano del prezzo della corsa, sebbene di
come si guida il “rikshow” nelle vie superaffollate di Dacca. Fatto
sta che, come sempre succede in Bangladesh quando due discutono, si forma un folto gruppo di ascoltatori (e in questo caso di conduttori di “rikshow”) che vogliono vedere come va a finire. Quando ne ha avuti attorno a sé un buon numero, padre Cesare dice al
poveraccio: “Insomma, non mi hai ancora detto quanto ti debbo
dare per la corsa”. L’altro risponde: “Trenta take!”. Cesare chiede:
“Ma tu sei sposato? Quanti figli hai?”. “Cinque figli”, risponde il
conduttore. “Allora chiedi troppo poco. Come fai a vivere? Devi
chiedere di più. Ti do cento take!” (circa un Euro). Glie le mette in
mano e tutti applaudono.
Questa sua generosità era famosa fra noi missionari; lo faceva anche
perché era riconosciuto come prete cattolico e voleva lasciare nei
musulmani una buona impressione. Alla sera poi diceva: “Quest’oggi, attraverso quei conduttori di “rikshow”, la notizia di un missionario cattolico molto generoso ha fatto il giro di Dacca”. A suo
modo, anche quello era un annunzio del Vangelo.
“Padre Cesare è un uomo solare”
Nei 54 anni di Bengala, padre Pesce ricevette le visite di
parecchi parenti e amici. «Il Popolo di Novi Ligure» ha pubblicato (24 febbraio 1991) la testimonianza di due visitatrici di Novi,
Luciana Bisogni e Barbara Agosti, molto espressiva e significativa:
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Siamo sul treno Roma-Alessandria che ci riporta a casa. Si sono conclusi i giorni trascorsi in Bangladesh “Paese d’acqua”. Vorremmo
rivivere insieme a voi la nostra esperienza, farvi viaggiare tra i nostri
ricordi, ripercorrere un tragitto tortuoso fra rickshow, bus stracolmi, in mezzo a persone che lottano per sopravvivere. Vorremmo riuscire a trasmettervi la simpatia di questo popolo, la spontaneità, il
calore, la gioia dei loro sorrisi, la semplicità nei gesti, la serenità
negli occhi che condizioni climatiche non sempre favorevoli, povertà, malattie, non sono riuscite a cancellare.
Vivendo accanto a questo popolo abbiamo riscoperto valori che in
occidente sembrano sfuggire: la corsa alla competizione per un fine
prettamente economico ci allontana da quel clima di solidarietà e di
festa che si gusta nelle cose più umili. Non esiste, forse, al mondo
luogo più idoneo al carattere di p. Cesare Pesce, che da 12 anni, nella sua missione di Pathorgata, nostra meta, è maestro di risate e
buon umore oltre che artefice di innumerevoli opere missionarie. È
un uomo solare, vuoi per il sole immagazzinato nelle tante ore di
lavoro nei campi, vuoi per le lunghe corse in motocicletta, suo cavallo di battaglia, che malgrado la sua non più tenera età, non si decide ancora a mettere a riposo. Grazie a padre Pesce siamo riuscite a
concretizzare la nostra prima esperienza missionaria. Abbiamo trascorso in Bangladesh il nostro primo mese del nuovo anno.
All’aeroporto di Dacca ci accoglie come se ci conoscesse da sempre.
Siamo ospiti della casa del PIME; una breve sosta in attesa di
riprendere il cammino per Pathorgata: respiriamo il primo impatto
con la realtà orientale. Ci aspetta un lungo viaggio, in auto e traghetto per risalire il Bramaputhra; attraversiamo paesi e villaggi, l’atmosfera si rinnova nella consuetudine di questi luoghi: immense pianure paludose, baracche, bazar, bambini scalzi che giocano, sporcizia,
miseria mentre il muezzin chiama alla preghiera. Nel tardo pomeriggio finalmente arriviamo alla missione; siamo esauste, abbiamo
impiegato complessivamente tre giorni per raggiungere Pathorgata
ed ora che siamo sedute a tavola con padre Cesare abbiamo la sensazione di vivere un sogno. Al mattino ci svegliano i canti delle donne della missione che ci attendono per salutarci e offrirci fiori di
benvenuto. È un momento magico, siamo emozionatissime, nonostante le difficoltà della lingua esprimiamo la nostra gratitudine.
Entriamo insieme in chiesa per partecipare alla messa, celebrata da
padre Cesare in lingua santal. Numerosissimi i fedeli, siamo colpiti
166
da tanta devozione in un paese dalle antiche tradizioni musulmane.
La chiesa è costruita di terra, con panche appena sollevate dal pavimento. I bambini prendono posto davanti all’altare, le donne a
destra e gli uomini a sinistra. Padre Cesare ha ideato e spera di portare a termine il progetto per la costruzione della nuova chiesa,
capace di accogliere i sempre più numerosi cristiani. Al momento è
in costruzione la casa delle suore che padre Cesare spera di terminare per l’imminente Pasqua: in collaborazione con maestri locali,
assicura l’istruzione elementare e media a circa 200 studenti provenienti dai villaggi limitrofi.
Le giornate trascorrono serene, la missione è una grande famiglia.
Tutti partecipano ai lavori dei campi nell’orto, le donne provvedono alla pulitura del riso: si nota un gran fervore per immagazzinare
provviste necessarie nel lungo periodo delle piogge monsoniche. La
missione di padre Cesare non dispone di un dispensario e di un
ospedale che possano rispondere ai bisogni di assistenza degli abitanti dei villaggi. La notizia, presto diffusasi, dell’arrivo di una infermiera fa accorrere mamme con richiesta di cure e farmaci per i loro
bambini. Con l’aiuto del padre cerchiamo di capire quanto ci chiedono e di fornire loro le cure di cui necessitano. Vorremmo poter
disporre all’infinito di quanto abbiamo portato con noi dall’Italia:
in pochi giorni i cassetti con i farmaci, i cerotti, le garze, sono vuoti; sono esaurite le caramelle e i palloncini dalle tasche dei nostri zaini. Ci sentiamo impotenti e proviamo un sentimento di vergogna e
di imbarazzo di fronte a persone che sono come noi ma costrette ad
una vita di rinuncia, di disagio, private dei beni di primaria necessità. Siamo ospiti di un paese nel quale la vita media è di 45 anni,
c’è denutrizione, mortalità infantile elevata, analfabetismo, colera,
lebbra, tubercolosi, tifo.
Siamo ormai in Italia. Il Bangladesh per noi è stato un avvicinarsi
alla spontaneità, alla semplicità, alla ricchezza di chi non ha nulla e
riesce a donarti e trasmetterti gioia e serenità. È stato avvicinarsi al
messaggio di Gesù, alla fratellanza, alla preghiera, a messaggi di
pace e comunione. Ringraziamo il Pime dell’opportunità che ci ha
dato di vivere questa esperienza e confidiamo nella possibilità di
tornare per condividere e collaborare più concretamente all’attività
dei missionari.
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“L’Italia è un paradiso, ma il Bangladesh la mia patria”
Quando ritorna in Italia nell’estate 1989 padre Cesare ha
ormai 41 anni di vita in Bengala. Rimane pochi mesi, visita tanti
amici, raccoglie generosi aiuti per la sua missione di Pathorgata,
ma soprattutto, quando riparte in ottobre, dice a se stesso che
quella è l’ultima visita al paese natale. Avrebbe potuto fermarsi in
Italia: fra i vari inviti ricevuti, anche quello dei superiori del Pime
che gli hanno proposto di fare il direttore del mensile «Missionari del Pime». Ma lui dice che preferisce tornare in Bengala, dove
ha “alcuni lavoretti in sospeso”; sostanzialmente il motivo è un
altro e risulta da tutto quanto egli dice in questa intervista, pubblicata da «Il Popolo di Novi Ligure» nell’estate 1989. Ecco il
testo quasi integrale:
Ben tornato in Italia dopo più di otto anni dall’ultima sua breve visita. Come le sembra l’Italia?
– Bellissima, molto migliorata. Eccettuate le strade della vecchia
Novi, non so più raccapezzarmi nella periferia diventata un angolino del famoso giardino europeo che si chiama Italia. Per chi viene
dal Bangladesh è davvero un pezzo di Paradiso. I preti mi dicono
che il Paradiso sarà più bello, ma qui mica male. Sarà forse l’anticamera del Paradiso.
– Se parla così vuol dire che il Bangladesh è davvero brutto.
– No, per carità. Non mi fraintenda. Il Bangladesh sarà povero, affamato, arretrato, disastrato quanto vuole, ma non mi faccia dire che
è brutto. È ormai la mia patria d’adozione e chi è quello scemo che
parla male della sua patria?
Non si arrabbi, don Cesare, mi parli piuttosto della sua seconda
patria.
– Sembra davvero che tutto congiuri contro quel povero paese.
Disastri su disastri. L’alluvione dell’anno scorso ha sommerso più di
metà del territorio nazionale. E lei sa che il Bangladesh ha circa 120
milioni di abitanti in un territorio vasto meno di metà dell’Italia.
Può immaginare cosa vuol dire perdere quasi interamente il raccolto di un anno, in un paese che basa esclusivamente la sua economia
sull’agricoltura. E poi la devastazione di strade, casa, ponti, silos. Il
brutto è che siamo sempre sotto la minaccia di queste calamità.
168
Durante la stagione delle piogge nel Golfo del Bengala il livello del
mare si alza di 3-4 metri. La corrente dei 53 fiumi che ricevono l’acqua dall’Himalaya e sfociano in quel mare è ributtata indietro,
inquinata dalle acque salate. I fiumi ormai hanno il letto pieno di
sabbia e non riescono più a fluire rapidamente. Oltre che alle inondazioni stagionali si è sempre sotto la minaccia di cicloni e tifoni che
seminano rovine e morte. Per colmo di sventura non ci sono industrie, non c’è un sistema moderno commerciale per arginare questo
mare di miseria. Altro che “Bengala dorato”, cantato dal nostro Premio Nobel Tagore! Purtroppo il Bangladesh è diventato una nazione annegata nella miseria.
– Però leggo sui giornali che la Banca Mondiale, la F.A.O., l’America, l’Europa mandano un sacco di aiuti.
– Sì, è vero. Il bilancio statale del giugno scorso mostra che l’80%
dell’economia del paese è basata sugli aiuti esteri. Nel mio libro scrivevo che quella è la terra dei paradossi. Ed è vero: il denaro c’è ma
non sanno come spenderlo bene. Oltre alla corruzione dilagante
ovunque, manca una struttura manageriale degna di uno stato
moderno. Conseguenza logica: il caos e la povertà. Non parliamo
poi dell’infelice situazione politica , argomento proibito ai preti.
– E gli aiuti privati?
– Questi forse sono meglio utilizzati. Molte organizzazioni straniere
conducono a termine progetti che portano grossi benefici sociali.
Mi spiace parlare di me, ma per farle capire come stanno le cose,
bando all’umiltà pelosa. Per quattro anni sono stato membro del
comitato esecutivo della “Gonobiddaloy”, un progetto finanziato
dal governo della Danimarca per scuole di economia domestica. E
i frutti si stanno raccogliendo. Lavoro con la Caritas Bangladesh e
la World Vision: oltre che aiutare in casi di emergenza, si costruiscono piccoli ponti, argini, strade secondarie, scuolette per gli aborigeni a tutto beneficio dei gruppi di gente più abbandonata. La mia
piccola missione, con gli aiuti di amici italiani (soprattutto del Centro Missionario di Tortona), ha la possibilità di mantenere un boarding (pensionato) con 90 ragazzi orfani o poveri in canna, di condurre una scuola con oltre 500 scolaretti. Senza parlare poi di un
piccolo progetto d’irrigazione che rende possibile ai contadini vicini di ottenere un secondo raccolto annuo.
– Mi parli un po’ della situazione in cui si trova la Chiesa.
– I cristiani, compresi i protestanti, saranno circa mezzo milione. Un
169
vaso di terracotta in mezzo a una caterva di vasi di ferro. E anche
in Bangladesh – stato islamico – spira forte il vento di rinascita della rivoluzione panislamica scatenata da Khomeini. La Chiesa si salva in corner con le sue scuole efficientissime, necessarie come il
pane in una nazione che ha circa l’80% di analfabeti. Si salva anche
per quell’istinto atavico di tolleranza innato nell’animo bengalese.
– Ci sono conversioni?
– Nessuna tra i musulmani e gli hindu di alta casta. Possiamo ancora lavorare, con qualche successo, tra gli aborigeni.
– I cristiani sono fedeli praticanti?
– In generale sì. Nei villaggi che formano il centro-missione ho
l’85% di praticanti (messa festiva, associazioni, ecc.).
– Avete vocazioni religiose? Preti e suore del posto?
– Sì, molti e molte. Anche i Vescovi delle cinque diocesi sono tutti
bengalesi.
– Gli ideali che hanno spinto lei ad una scelta così impegnativa pensa che possano ancora determinare la scelta di un giovane oggi?
– Gli stessi, identici ideali con i loro corollari? Credo di no. Sostanzialmente uguali? Sì. Tento di spiegarmi. Quand’ero giovane si parlava di portare la civiltà cristiana (con le due “c” maiuscole) a popoli “immersi nelle tenebre e nell’ombra di morte”. Le riviste di allora, la «Civiltà Cattolica», «Le Missioni Cattoliche», persino i giornali di tinta fascista glorificavano Roma caput mundi, il faro di civiltà. Non credo davvero che quegli ideali possano albergare nell’animo dei giovani d’oggi. Il fascino antico di Roma cristiana ingiallisce
sui libri di storia. Però sostanzialmente gli stessi ideali possono esistere e far fremere la gioventù moderna. È sempre Lui che chiama
e manda: “Vieni e seguimi”. Gente come Matteo, Andrea, Maria
Maddalena esiste ancor oggi e l’ideale di donarsi senza riserve a Cristo non è svanito.
– Secondo la sua esperienza, come si potrebbe presentare l’ideale
missionario ai giovani oggi preoccupati di star bene e godere la vita?
– Sarà proprio la reazione naturale a questo star troppo bene, a
godersi “la dolce vita” di fronte al dolore, alle sofferenze dei fratelli meno fortunati, a generare ideali nobili nel cuore del giovane. Egli
aspira a qualche cosa di più alto, di più nobile. La difficoltà sta nel
fargli intravedere questo qualcosa, fargli provare la gioia di aiutare
chi ha bisogno del suo aiuto. Gesù è il prototipo del giovane che
offre la sua vita per la salvezza del suo prossimo. L’anno scorso sono
170
venuti quattro giovanottoni italiani a visitare il Bangladesh. Li sistemai nel boarding della scuola. Durante la settimana di permanenza
visitarono i villaggi vicini, si resero conto della miseria e della semplicità di quegli aborigeni. Si commossero. Al saluto di addio uno
di loro, quasi segretamente, mi disse: “Questa gente ha bisogno di
me, l’ho ben capito e Gesù mi chiama. Aspettami. Verrò”.
– Se pensa agli anni in cui è maturata la sua vocazione nella Chiesa
novese, quale religiosità trova oggi nella sua Novi?
– È troppo breve il tempo della mia permanenza a Novi . Ho incontrato un gruppo di signore a S. Nicolò e un altro gruppo misto della parrocchia del Sacro Cuore. Posso dire sinceramente che sono
stato ammirato, entusiasta dello spirito che anima quei gruppi missionari delle retrovie. Se penso agli anni in cui è maturata la mia
vocazione missionaria posso dichiarare di aver ricevuto, a quel tempo, ben poco moralmente e spiritualmente dalla comunità di Novi.
Oggi constato che l’atmosfera è cambiata. Forse la quantità di quelli che vanno a Messa la domenica è diminuita, ma la qualità è
migliorata.
– Quali sono stati i momenti più belli in cui ha sentito maggiormente la gioia di aver fatto una scelta giusta?
– Lasci che ci pensi un attimo perché sono tanti, tanti, troppi. Facciamo così, scelgo a vanvera. Il giorno del battesimo degli abitanti
di Cilarong, in quel di Ruhea nei miei primi anni di missione. La
notte, disteso sulla paglia nella cappella di bambù e paglia, costruita poco prima, non riuscii a chiudere un occhio per la gioia di aver
portato a Cristo una sessantina di poveracci Hari. Un’altra notte
insonne per la gioia: al pomeriggio una mia giovane cristiana, angariata e costretta a sposare un pagano ricco ed influente, che l’avrebbe costretta poi ad adorare i suoi idoli, era venuta ad assicurarmi
che avrebbe coraggiosamente detto “no” davanti ai capi-villaggio
durante la cerimonia pagana del matrimonio. L’ultima grande gioia
la provai l’anno scorso quando un mio giovane parrocchiano fu
ordinato prete. Il mio sostituto è assicurato.
– Dopo la lunga esperienza maturata sulle strade della vita, se
dovesse riprendere il cammino, lo rifarebbe con altrettanto entusiasmo per tutto ciò che là ha realizzato?
– Oh, sì, molto meglio. Bisognerebbe nascere due volte. Furbi i
buddisti che credono nella reincarnazione. Purtroppo non c’è.
– Un’ultima domanda. Dopo 40 anni di missione non pensa ora di
rimanere in Italia?
171
– In confidenza le dico che il mio superiore di Milano mi prega di
dirigere il giornaletto mensile «Missionari del Pime». Penso però di
non esserne capace e poi ho lasciato là alcuni lavoretti in sospeso.
La mia chiesa, per esempio, è uno stanzone con i muri di terra battuta e vorrei sostituirla con una bella chiesetta in muratura, sullo stile della parrocchiale del Sacro Cuore di Novi. Sarebbe la terza chiesa che costruisco: omne trinum est perfectum. Terminato quel lavoretto, penserei proprio di chiudere il capitolo “Strade della mia
vita” con gli amici di don Beniamino e allora assalam aleikum.
172
7.
PADRE PESCE RACCONTA
Quest’ ultimo capitolo della biografia di padre Cesare Pesce
è riservato ad alcuni suoi testi in cui egli stesso racconta la sua
vita missionaria o fatti di cui è stato testimone in Bangladesh,
tratti dai tre suoi volumi: Le strade della vita, Cooperativa
Editoriale Oltrepò, Voghera (Pavia) 1989 (II edizione), pp. 132;
e Bangladesh Jindabad, Gruppo Poligrafico Editoriale, Novi
Ligure (Alessandria) 1995, pp. 122. Nell’ottobre 2000 ha pubblicato Pack up and go (Fai il tuo fagotto e va), Unique Press,
Dinajpur 2000: ancora un testo sulla sua vita missionaria, che si
ferma al 1972.
Lo scopo di questo ultimo capitolo è di presentare al lettore le
pagine più belle del nostro missionario, cioè i racconti meritevoli
di essere letti perché aggiungono qualcosa alla biografia. All’inizio
del capitolo pubblico la prefazione di Strade della Vita del francescano padre Nazareno Fabretti, grande amico di Cesare Pesce; un
estratto della prefazione alla II edizione di Strade della Vita del
prof. Egidio Mascherini; e alcuni estratti delle due recensioni di
Strade della Vita scritte da Antonio Airò, giornalista di
«Avvenire», su «Il Giornale di Voghera». Seguono alcuni racconti originali di padre Cesare Pesce.
“La perfetta letizia” di padre Cesare
Questo, per fortuna, non è un libro. È molto più e meglio di
un libro. Fosse un libro, non mi interesserebbe, probabilmente
non interesserebbe quasi a nessuno. Siamo stati sepolti, letteralmente, sotto piissimi libri che raccontavano - spesso in maniera
intollerabilmente noiosa - l’eroismo reale di tanti generosi ed
173
eccellenti missionari. I missionari sono quasi sempre di più e
meglio dei libri che li celebrano, per quanto dolorosamente sinceri e vissuti. A leggere questi libri, senza conoscere i missionari che
li hanno scritti, si rischia di non avere molta ammirazione nemmeno per i loro autori o protagonisti; e si rischia soprattutto di
immaginare anche la vita del missionario come una routine sbadigliosa anche se sacrosanta, come la nostra vita di casa, d’ufficio, di
fabbrica o di sacrestia.
Questo libro, ripeto, per fortuna non è un libro. Questo libro
è padre Cesare. È solo per caso anche un libro, in realtà è un
uomo e, solo per “purissimo accidente", per dirla col Manzoni, è
un racconto. In realtà è l’avventura imprevedibile, evangelicamente “salgariana" di un diavolo di prete che è riuscito ad inventarsi
la vita con allegria e coraggio ogni giorno da capo, nelle situazioni più difficili, dissennate, comiche e patetiche. Sono “31 anni di
vitaccia” che occupano poche pagine: non c’è tutto ma è il meglio.
È il diario d’un gioco del buon Dio, giocato da un santo ragazzaccio un po’ piemontese un po’ lombardo che è riuscito a viverlo
senza mai diluirlo in tragedia, sempre preferendo, anche per la
nostra delizia, come prova la vivacità di queste pagine, la commedia o addirittura la farsa.
Leggendo questi appunti, “sugo” della “storia” di un trentennio di corse e soste, soste e corse dall’Italia al Bangladesh, dal
Bengala al Pakistan, ho scoperto con irrefrenabile felicità ora cacciando le lacrime del pianto per far posto a quelle del riso, e viceversa, che padre Cesare è un “giullare” di quelli veri, uno di quei
“fra Ginepro” di cui San Francesco diceva che avrebbe voluto
averne una selva.
Non c’è, in questi quadretti di vita missionaria, neanche una
pia maiuscola, nemmeno un baffo di retorica devozionale. Questo
è il Vangelo del “te possino!”, una locuzione romanesca anche
troppo nota, che padre Cesare ha fatto imparare, prima o meglio
di ogni altra frase, alla povera gente alla quale, da più di un trentennio, ha regalato la vita. Un “te possino!" che non comporta
“l’ammazzà”, ma bensí il suo esatto, festoso, burlone ed evangelico contrario; come ad un missionario inguaribilmente giovane si
conviene.
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Padre Cesare (come l’ho conosciuto 30 anni fa, per subito
perderlo in quanto stava proprio allora partendo per l’India) non
è un eroe. Non è un santo. Spero con tutto il cuore che non finisca neanche martire, né per caso né di proposito. Non è, francamente, il tipo, per sua e nostra fortuna. È un uomo pieno di
schiettezza, di fifa, di malinconia, di rimpianti. Gli dà fastidio il
freddo, lo distrugge il caldo, lo fanno impazzire le zanzare.
Ricorda spessissimo, con struggimenti umanissimi anche se
non rimpiange nulla, tutto quello che ha lasciato, coloro che ama
e non vede da anni, e qualche volta fa il conto di quanti mesi o
anni mancano al suo prossimo viaggio per rivederli. È un vero
uomo, insomma; e come un vero uomo i suoi poveri di ogni religione, razza o tribù, lo amano, lo divertono e si divertono con lui,
col fiuto infallibile dei poveri che sanno sempre e subito distinguere un uomo fasullo da un uomo genuino.
C’è in questi appunti tirati via, ma che lasciano sempre il
segno della speranza, una semplice filosofia della vita: quella di un
uomo che ha imparato fin da ragazzo a restare con i piedi per
terra se voleva dar spazio allo Spirito, e che non ha mai rinunziato ad una battuta se doveva preferirla ad un predicozzo. Le prediche, invece, bisognerebbe poterle ascoltare là, in Bangladesh,
dove le fa. Ma per quel che ne traspare da queste pagine, ce n’è
d’avanzo per credere che questo strano missionario riuscirebbe a
convertire anche noi, suoi vecchi, fedeli anche se pigri, distratti
amici.
E c’è, in questo libro, la filosofia di un uomo che si è impegnato a non contare mai pie frottole ai poveri, tanto meno in nome di
Dio, e a non nominarlo mai invano, nemmeno per consolarli
quando mancano tutti i mezzi e gli argomenti per consolarli e la
fame, il dolore, la solitudine sono realtà intollerabili.
Ma c’è anche in questo mazzetto di pagine, soprattutto, la
festa delle cose e il coraggio delle situazioni più imprevedibili.
Una sera, a p. Cesare si fora la gomma della bici; lui manda l’amico John in cerca di aiuti e si appoggia ad un albero: tre donne che
gli si genuflettono davanti e non c’è verso di farle alzare. Solo
dopo si renderà conto che quello è un albero sacro, che il luccichio delle cromature della bici è apparso a quelle donne come
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un’apparizione della divinità, e Cesare, ma sì, è sembrato loro un
dio. Le risate! Ma lui in quel preciso momento, pensa a ben altro:
Quella retata di stelle, lassù, mi fa venire la malinconia.... Non sono
poi tanto lontane dall’Italia. Siamo sotto lo stesso tetto. Loro guarderanno forse le stesse stelle...oh, no, che pretesa! Là sono le tre del
pomeriggio e altro che guardare le stelle. Saranno nelle ferriere e le
donne presso le macchine da cucire. Mia sorella incomincerà a pelare le patate, a tagliuzzare il sedano per preparare il minestrone a suo
marito. Che bontà! Sarà un secolo che non l’ho mangiato... se ne
avessi qui un piatto... ah, l’acquolina in bocca.... Che appetito!
La lezione cristiana, in padre Cesare, viene solo dai fatti, mai
in astratto. Perché questo è “missione", per questo è “comunione", per questo è Vangelo vivo. E bastano queste poche pagine
coraggiosamente, inguaribilmente allegre, piene di fede e di
buon senso, per convincercene, per farci sentire di casa, con lui,
in Bangladesh, nel Bengala, dovunque lui sia passato. È per questo che, dopo più di 30 anni che non lo vedo, ora leggendo,
anch’io mi sento evangelizzato da lui, che trent’anni fa partendo
mi regalò un brivido di rimorso e di invidia. Grazie, Cesare,
testone del buon Dio. “Te possino!"...., caro Cesare, restare sempre intatti, nel cuore e nella missione, questi fermenti di “perfetta Letizia".
Nazareno Fabbretti
(Prefazione alla prima edizione di Strade della Vita, 1980)
“Il Vangelo annunziato con humour”
Scrivo volentieri brevi righe a mo’ di presentazione alla seconda edizione del libro di padre Cesare, mio concittadino e, in
anni… astronomicamente lontani, chierico e giovane sacerdote
amico e compagno di combattutissime partite di calcio. Padre
Cesare, penna affascinante di vero scrittore, ha qui condensato la
sua multiforme esperienza missionaria nel lontano e poverissimo
suo Bangladesh.
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Missionario viene da “mittere”: colui che è mandato a portare la lieta novella, ma anche a sfamare, educare, curare spesso
anche i corpi. A sentir l’Autore, il libro è un po’ il “romanzo”
della sua vita in terre lontane. Multiformi vicende, esperienze e
talune circostanze nelle quali s’è trovato a vivere ed operare
hanno veramente della realtà romanzesca…
Questo libro, mi sforzo di capire, ha la funzione di diffondere la mentalità missionaria in mezzo ai popoli del benessere. Non
si può rimanere indifferenti dinanzi agli infiniti problemi che il
missionario incontra sulla sua strada, con l’intento di realizzare “il
regno di Dio”, un mondo di pace, giustizia ed amore. Chissà che
qualcuno, leggendo queste pagine, ascolti come un’eco la chiamata del Signore a seguire questo strano scanzonato missionario. La
bella pubblicazione si raccomanda da sola: per la bellezza di stile
e per la scioltezza del racconto. Nessuno vi si addormenterà
sopra.
Egidio Mascherini
(Dalla Prefazione alla seconda edizione di Strade della vita, 1989)
Ecco un libro che raccomandiamo e consigliamo caldamente
soprattutto ai giovani. Lo ha scritto un prete (salvo brevi e desiderate vacanze in Italia) missionario nel Pakistan prima, ora nel
Bangladesh. Si chiama don Cesare Pesce: è stato nell’immediato
dopoguerra viceparroco a San Rocco e sono molti i vogheresi –
oggi tra i quaranta e i cinquant’anni (allora ragazzi, giovani e
signorine dell’oratorio) - che ricordano questo sacerdote dalla
barba sale e pepe, sempre allegro e pronto allo scherzo e alla battuta piena di humour.
Le Strade della vita come si intitola questo stupendo volumetto di vita vissuta (edito dalla Emi di Bologna) portano don Cesare
a camminare – il più delle volte proprio a piedi o in bicicletta – per
le strade di una lontana missione. Ma sbaglierebbe chi volesse leggere in queste pagine, rievocative di tanti episodi e di tanti incontri, una agiografica esaltazione del lavoro missionario, o una “sdolcinata” e acritica approvazione di ciò che – con grandi fatiche e
spesso pagando di persona – tanti missionari compiono.
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Non c’è nel libro la storia di alcuna conversione; c’è invece la
pazienza gioiosa e umana di chi sa che c’è un tempo per seminare ed uno per raccogliere e che non sempre chi semina è colui che
raccoglie. E c’è soprattutto il rispetto dell’uomo, hindu o musulmano che sia, ateo o religioso. Don Cesare si è accostato a lui da
uomo, prima ancora che da sacerdote. Più che alla conversione
formale al cristianesimo, in questi tanti anni “di vitaccia” in missione, come dice lui, don Cesare ha guardato all’uomo:
Su una di quelle strade, una strada fangosa del Bengala, io ho incontrato un uomo. Era solo. Mi sono fatto suo compagno di viaggio e
l’ho condotto tra quella folla immensa. Era pellegrino, sfinito dalla
fame. Gli ho insegnato a liberarsi da quello spettro col lavoro onesto, umano, non massacrante. Era angariato dai potenti, dai ricchi.
L’ho aiutato a liberarsi. Era in preda all’odio e gli ho dato l’amore.
Era disperato e io, messaggero di gioia, gli ho donato la gioia di
vivere. Davvero ho fatto così? almeno ho tentato? Se sì, sono
anch’io nel numero dei facitori del regno dei giusti. Se no, ahimè,
ho sbagliato tutto.
Questo è padre Cesare Pesce, un prete entusiasta e capace di
entusiasmare, pieno di iniziative, con una dote rara in campo cattolico, quella dello humour. Il suo è un libro che fa ridere, con
episodi pieni di equivoci e di vicende che ti mettono una sana allegria, ma anche un libro che lascia un segno, che fa piangere. Ma
sono lacrime di felicità perché quello che don Cesare Pesce racconta è vita di tutti i giorni. Nulla di eroico, nulla di esaltante,
nulla di retorico. Don Cesare si rivela “uomo pieno di stanchezza,
di fifa, di malinconia, di rimpianti. Gli dà fastidio il freddo, lo
distrugge il caldo, lo fanno impazzire le zanzare”. Quando un suo
confratello sceglie di andare in una parrocchia dove c’è un lebbrosario, don Cesare Pesce non nasconde la sua gioia:
Splendido! soggiungo con tutto il cuore, perché a Dhanjuri c’è il
lebbrosario e là necessitano gli eroi. Non che disprezzi o abbia
ribrezzo dei lebbrosi, poveretti, prediletti del buon Dio. La faccenda è che io, davanti ad un comune ammalato rimango impappinato
come un autentico scemo. Immaginarsi poi davanti a un viso in lenta decomposizione.
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Potremmo continuare piluccando tra un episodio e un altro,
ma preferiamo sia il lettore a scoprire e gustare in questo volumetto che si legge d’un fiato (ma poi quando si rilegge, si scopre
quanto amore e quanto coraggio ci sia dietro una battuta, un ….
“te possino”… di cui il libro è pieno). Sono – e non pensiamo di
esagerare – pagine di un Vangelo vivo, “carnale” non spiritualista,
pagine “piene di fede e di buon senso”, come le definisce padre
Nazareno Fabretti; è il Vangelo di un cristiano, di un prete che ci
crede veramente e che ritiene si possa annunciare la Parola che
salva senza cipiglio, ma “in perfetta letizia”.
Il Vangelo di don Cesare Pesce non è sminuito da episodietti
o dal rimpianto per il minestrone di sua sorella “Che bontà! Sarà
un secolo che l’ho mangiato… se ne avessi qui un piatto… ah,
l’acquolina in bocca… Che appetito”. Anzi, sono pagine che lo
rendono ancora più vivo e vivace. Bisogna dire grazie a don
Cesare per queste pagine. E grazie anche per quelle righe che
richiamano Voghera. Mi pare di vederlo, nella sua missione
(quante ne ha girate in questi trent’anni) mentre apre davanti ai
ragazzi un atlante e il suo dito scorre lungo lo stivale italiano e
ogni tanto si arresta. Prima Novi Ligure, la sua città natale, poi
Tortona, dove è diventato prete. “E qui c’è scritto Voghera, per
me la più cara città del mondo, dove uno stuolo di giovani, quando parlai loro di voi mi dissero: ‘Va pure in mezzo ai tuoi indiani.
dove Iddio vuole’ – io venni e da quel giorno quei giovani sono
diventati fratelli bianchi di tutti voi”. L’atlante si chiude. Ma il
cuore dei Vogheresi si è chiuso anch’esso?
Grazie don Cesare per questa ventata di Vangelo. Anche tu,
come Cyril il giovane primo sacerdote di Pathorgata, continui a
ripeterti: “E chi me lo fa fare sto mestiere di prete? Io? Dio?
L’uno e l’Altro in combutta”. Che bello! Tieni duro don Cesare!
Antonio Airò
(Recensioni di Le Strade della vita su «Il Giornale di Voghera», 8
ottobre 1981 e 24 agosto 1989)
(Seguono alcuni racconti di padre Cesare Pesce)
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L’ubriacone Moti non beve più
Un bracciante cui piace soprattutto la birra. Ecco Moti di
Thakurpara. Con la moglie non poteva proprio andare d’accordo,
causa quel benedetto liquido che, tra gli aborigeni, si prepara in
ogni casa, sebbene proibito dalle leggi dello stato. Fra i due, scenette gustose per chi parteggiava per Moti, ma disgustose per chi
stava per Magdalen.
Quella mattina era stato battezzato il quarto figlio del capovillaggio e alla sera, come al solito, festa in casa, con abbondanti
libagioni affinché lo Spirito Santo scenda abbondantemente sul
piccolo nuovo membro della Chiesa. Io stavo nella cappellina preparandomi il paglione per dormire, quando sento il Moti, pieno
come un otre, tempestare la porta di casa sua. “Non ti apro” grida
la donna dal di dentro. “Magdalen apri, altrimenti...”. “No, puoi
dormire dove sei, ubriacone impenitente?”. “Altrimenti mi butto
nel pozzo”... “Buttati, che m’importa?”. “Mi dici buttati? Ah,
Magdalen....”.
Nell’oscurità (e chi l’avrebbe studiata così bene?) Moti, afferrato un grosso vaso che serve per dare da bere alle bestie, lo lascia
cadere nel pozzo e fugge, barcollando, nel campo vicino. A quel
tonfo risponde il tuffo di sangue della povera donna. Mezzo vestita, scarmigliata, corre verso il luogo del disastro, gridando come
un’aquila ferita i nomi più dolci e delicati al suo uomo e le invettive più sporche al capo-villaggio.
Tutti noi, accorsi ben presto alle grida, cerchiamo di renderci
utili in qualche modo: chi cerca un bambù, chi una corda, tutti
danno consigli e fanno proposte. La scena diventa così pietosa e
complicata da intenerire persino quel lavativo di Moti. Nel suo
nascondiglio resiste fin che può, poi sbotta e fa la sua apparizione. Piange, ride, mugola, ripetendo: “È una gran donna, è una
gran donna". Tenta persino di abbracciare la sua “gran donna"
che scappa in casa e la commedia finisce.
Quella sera Moti vinse con l’astuzia rimanendo vittima dell’amore. È passato un mese ormai. Tutti affermano che nessuno,
fino ad oggi, è mai riuscito a far bere un goccio di birra al famoso beone di un tempo.
180
Cacciare il “Bosonto” (vaiolo) col baccano
Sera d’Oriente. Il cielo stempera il suo azzurro con striature di
rosso allucinante, mentre i corvi, a migliaia appollaiati sui bambù
che fiancheggiano la strada, gracchiano aspramente, dando un tono
lugubre, una nota ferale, tutt’intorno. Che tristezza! Le zanzare
negli angoli della camera, sugli armadi impolverati, accompagnano
con monotono ronzio la loro orrida danza della malaria.
Guardo fuori, vedo un mango che sta davanti alla finestra:
nulla. Tutto è immobile, neppure una fogliolina si muove per dar
segno di un soffio di vita. Si soffoca davvero, mentre il sudore
brucia la schiena e le braccia. Scrivo un periodo e poi soffio a
lungo, quasi a svuotare i polmoni dell’aria calda e cattiva, stando
attento che le gocce di sudore non macchino questo foglio. Penso,
ma anche il pensare è faticoso. Il sopravvivere è già fatica in quest’afa. Non so cos’abbia nell’animo questa sera. Melanconia?
Al mattino ero rimasto impressionato alla vista di quel poveretto coperto di piaghe, seduto su foglie di banano, abbandonato
da tutti, in quel tugurio presso il pantano, al di là del mio villaggio. Un giovane da qualche mese sposato ad una ragazzina quindicenne che, in preda alla paura, era scappata presso i propri genitori. Lui, colpito dal vaiolo, s’era trascinato là ad aspettare la probabilissima morte. I suoi parenti, in un ultimo atto d’amore, gli
portavano un po’ di riso bollito, condito con latte cagliato. Come
lui, quanti altri in simile misera condizione! Questo corpo umano,
così bello, meraviglioso nei suoi minimi dettagli, ridotto in uno
stato che incute disgusto, ripugnanza... È una ribellione pacata la
mia, soffusa di tristezza, che ha assalito il mio cuore, nella coreografia dei corvi che continuano la loro canzone turpe e le zanzare
la loro danza di morte.
Sulla strada, all’improvviso, un grido umano, quasi bestiale.
Più lontano un altro grido, un altro ancora e il rullo d’un tamburo, il rumore di una latta vuota battuta con forza. E grida, e tam
tam, un finimondo. Corro fuori, sicuro di un disastro. Forse una
grossa rapina, una rivoluzione, un colpo di stato, una tigre braccata... “Cosa succede?” domando al primo uomo che incontro e
che mi pare abbastanza calmo.
181
“Scacciamo via il “Bosonto” (vaiolo). Egli è entrato nel nostro
villaggio per farne una strage. Se non stiamo in guardia, se non
riusciamo a fargli paura con i nostri schiamazzi, in un mesetto ci
liquida tutti. Viene di notte, quel lurido demonio, ad inquinare i
pozzi, buttandovi dentro le uova dei vermi. L’ho visto pure io ...
ora lasciami andare a dare man forte ai lottatori dell’urlo”.
Rimango ai margini della strada, come intontito. Loro sanno
le cose, le hanno vedute coi loro occhi... Contro l’evidenza che
vale il ragionare? Oriente misterioso! A passi lenti scrollando la
testa, più mesto di prima, ritorno nella mia stanza, al mio tavolino. Fuori è un vociare selvaggio, un baccano apocalittico. Vedo
anch’io il Bosonto. Il volto paonazzo, bucherellato da milioni di
pustole, gli occhi dilatati e spauriti. Un cencio fetido addosso. Là,
dietro la siepe di bambù, in prossimità del villaggio... Oriente,
Oriente misterioso!
Un matrimonio al veleno
Bellissimo il matrimonio qui, in Bengala, visto da destra: una
capanna reale, fatta di paglia e bambù, e due cuori veri, fatti di
carne e amore. Brutto affare visto da sinistra. E disgraziato, molto
spesso, colui che si mette di mezzo. Questa volta disgraziato me e
i miei aiutanti che, per necessità, vi abbiamo messo il naso.
Sette-otto anni fa, non so come e perché, Golapi era capitata
alla missione cattolica e da quel tempo mai nessuno s’era fatto
vivo a cercarla, a dirle una parola d’affetto, a portarle un regalino
da due soldi. Non è a dire che non avesse parenti. Non era caduta giù da Marte, né era stata trovata, in un fagottello, presso la
porta di casa del parroco, mio predecessore. V’era un reggimento
di zii che si tenevano nascosti, pronti a piombare sulla preda al
tempo propizio.
Qui da noi, quando una ragazza sta per essere venduta al promesso sposo, tutti i parenti possibili e immaginabili escono fuori
a reclamare mille diritti e pochi doveri. Ed ora che la Golapi,
tenuta e curata come un figlia adottiva in casa del catechista, s’era
fatta una bella ragazzina, con tanto di diploma di quinta elemen182
tare (cosa rara per una contadina bengalese): a Bamongaon i baffoni cominciavano a farsi venire l’acquolina in bocca... qualche
centinaio di rupie in vista, da poter scroccare a ufo....
Il catechista, da uomo di mondo, aveva cercato un buon giovane di un villaggio vicino e me l’aveva portato per le firme del
fidanzamento ufficiale. La ragazza contenta, il giovanotto più che
felice. Tutto a posto fin qui. Ma io, mentre affiggevo alle porte
della chiesa le pubblicazioni per il matrimonio, mi sentivo già
addosso tutta quella brava gente di Bamongaon. Le mie previsioni non erano infondate: stavo zappando nell’orto, quand’ecco, dal
cancelletto, due uomini, con tanto di codino indù, entrano spavaldi e s’avvicinano. “La ragazza è nostra e quel matrimonio non s’ha
da fare”, incominciano senza preamboli. La storia si ripete...
“bravi” e Lucie e don Abbondi si presentano, in un baleno, alla
mente, vivi e veri. La figura barbina di don Abbondio... Eh, no,
cari bagarozzi... “Bene”, rispondo secco, più per darmi coraggio
che per convinzione: “La strada che avete fatto per venire è lunga
precisamente come quella che adesso dovete prendere per ritornare. E alla svelta”.
E continuo il mio lavoro, La zappa s’affonda qualche pollice
più profondamente nel terreno, aiutata dalla stizza che m’è entrata in corpo. I due, che di “bravi” avevano solo i baffi, rimangono
come due statue di stucco ad osservare il su e giù della zappa. Il
catechista più buono di me e miglior conoscitore dei costumi del
paese, saputo del loro arrivo, li invita gentilmente a casa sua, offre
loro la foglia di betel, li ammansisce per bene e infine propone
loro un compromesso che viene accettato: il promesso sposo
avrebbe comperato un capretto e pagato un pranzo da consumare nel paese dei parenti della sposa. Tutti noi, cristiani e pagani,
avremmo accettato l’invito come segno di riconoscimento e di
unione, rinsaldando così i legami di parentela tra le famiglie dei
due sposi.
Come stabilito, una settimana dopo, siamo a Bamongaon,
festeggiati da quella gente. Al pomeriggio, dopo le abituali abluzioni di mani, piedi e bocca, in attesa del famoso pranzo, ci sediamo a gambe incrociate, in una lunga fila, davanti alle foglie di
banano, che sostituiscono elegantemente i piatti. Lo sposo è sedu183
to tra il catechista e un giovane cugino della Golapi. Una donnaccia brutta, con un largo sorriso poco rassicurante sulle labbra,
presenta riso e curry agli invitati. I primi ad essere serviti, naturalmente siamo noi, gli ospiti d’onore, i più rispettabili. A noi, a differenza degli altri, porta il piatto già confezionato.
Un piccolo fremito, un appena percettibile tentennamento
della vecchia, al momento di servire lo sposo? Non so. Il catechista, senza una parola di commento, senza la minima messinscena,
come se fosse una cosa di ordinaria amministrazione, scambia il
piatto colmo, offerto allo sposo, con quello del vicino, il cugino
della Golapi. Centro! La tragedia è scongiurata. Il cugino della
Golapi sta ancora preparando la pallottola di riso condito per
metterla in bocca, quando la donnaccia brutta, gli occhi fuori dall’orbita, ritorna di corsa. Con uno scatto felino ritira quel piatto
incriminato, lasciandoci inebetiti per la sua azione fulminea, piena
di loschi significati. “Assassini!” tuona il catechista, buttando lontano il suo piatto. Con una litania di esclamazioni e di insulti
soverchia le vane spiegazioni e proteste della donna.
I due del codino inseguono lo sposo che, ammutolito e pieno
di paura davanti a tanta perfidia, aveva già preso il sentiero per
ritornarsene a casa anche senza la fidanzata. Tentano di fargli
accettare il denaro speso per il pranzo, di prendersi con sé la
ragazza, purché non creda al tentato avvelenamento. Tutto invano. Mesto, avvilito se ne va. La Golapi intesa la faccenda, in
mezzo a quello scompiglio, corre presso il catechista, piange, si
dispera. S’inginocchia davanti a me, scongiura: “Portami via,
andiamo via di qua”. Mi consulto col catechista e, perentorio,
dichiaro: “Golapi si sposerà la settimana prossima con quel giovane cristiano che voi forse, dico forse, avete tentato di togliere di
mezzo. Non si accennerà nulla di ciò che oggi è qui accaduto né
con la polizia, né col sindaco. Però a scanso di altre eventuali
grane, nessuno di Bamongaon si faccia vedere a Ruhea, il giorno
del matrimonio”.
La moglie del catechista, come una buona mamma, asciuga le
lacrime sul viso della Golapi, la prende per mano e s’avvia verso
casa. La ragazzina sorride felice, gli occhi splendenti, come un
meriggio dopo un terribile temporale di aprile. A colui, che per
184
suo amore ha rischiato la vita, saprà donare felicità, amore e la sua
vita. I due dal codino non sono ancora usciti di scena. Insistono
con me e col catechista perché mangiamo qualcosa: dicono che
sarebbe un’offesa andarcene senza accettare un boccone. Non è
per avvelenarci... Sciocchezze, fantasie... “No, grazie. Stiamo
facendo la cura dimagrante. Sorry (ci spiace)”. Alla larga!
L’ombra della croce che salva
Un bel giovanotto, Pancrazio, e la mogliettina ancor più bella
s’erano fabbricati il loro nido con amore e sacrificio, presto allietato dagli strilli di una nuova ospite-padroncina. Lui, con una
patente di guida in mano, abbastanza rara da questi parti, faceva
il camionista in una organizzazione cristiana in città. Lei doveva
passare spesso le notti e le giornate sola, in casa nel villaggio. Le
forzate, frequenti assenze del marito a poco a poco l’avevano fatta
divenire svogliata, apatica.
E il nibbio spiava da lontano la situazione. A volute larghe e
lente studiava la direzione giusta, finché una sera piombò su quel
nido. Fu lo sfacelo. Inconsueti, preziosi sari, orecchini d’oro, profumi costosi entrarono in quella capanna fatta di paglia e di
bambù. Tutti sapevano. Le comari passavano ore a commentare la
faccenda poco pulita con reciproche strizzatine d’occhi e strani
storcimenti di bocca, contente di avere un argomento piccante di
conversazione. I vecchi scrollavano la testa, mentre i giovani sposi
minacciavano roteando il pugno come se fossero armati di un falcetto: “Se fosse la mia donna ...” mormoravano.
Ma non c’era nulla da fare. L’uccellaccio di rapina era più
potente di tutti i cristiani messi assieme. Con l’andar del tempo,
lei aveva cambiato domicilio. La voce della campana della chiesa
diventò troppo debole alle sue orecchie. Tolse il saluto, sdegnosa,
ai suoi amici d’un tempo. La signora.
Pancrazio, che dapprima difendeva la sua donna, si adirava
con chi s’azzardava a parlar male di lei, rifiutava caparbiamente di
cedere alla realtà, ora non voleva più mettere piede nella nuova
casa, chiusa ai quattro lati da steccati di bambù, come una picco185
la fortezza. Non era più la sua vecchia casa, povera di beni materiali, ma ricca d’amore e di serenità. Sapeva che quell’amore se
n’era andato per sempre. Diventò cupo, misantropo, scontroso
con tutti, un uomo finito, perché derubato della fede nell’uomo.
Un giorno volle il caso che lo incontrassi per la strada, in città.
I soliti convenevoli, i soliti consigli da prete, tentativi vani di ridonargli la pace dell’animo. “Se vuol farmi un favore, le dica di crepare presto con il suo drudo”, fu la risposta conclusiva. Mi sentivo colpevole di non aver saputo non solo lenire un tantino il suo
dolore, ma d’aver forse acuito maggiormente la sua ferita. Non
sapevo più che fare, che dire: “Pancrazio, non so che
dirti...Tieni”, e gli misi in mano una coroncina del Rosario. Era
l’unica cosa che avevo con me. Tentennò il capo, vide nei miei
occhi la copia della sua tristezza, non volle aumentarla. Accettò
gentilmente il piccolo dono, lo cacciò in tasca e si allontanò. Poco
lontano accese una sigaretta, forse per scacciare, col fumo, l’impressione ricevuta.
Quella notte era di servizio. Seduto al volante, alle scosse causate dalle innumerevoli buche della strada, stringeva i denti, come
se avesse in corpo la febbre. “Cosa ho mai fatto di male io? Non
c’è nulla di buono, di bello, di giusto in questo mondo. E quel
prete mi viene a sorridere sul muso. Parole, parole... e Dio... e
Madonne... e Rosari, grugnì. Mise la mano in tasca, cavò fuori
quel Rosario e lo scagliò con rabbia innanzi a sé, nell’apertura del
parabrezza. Uno strappo al volante, una schiacciata all’acceleratore e via, per miglia e miglia, sulla strada deserta, illuminata dai fari
del camion.
Poco dopo, un’ombra enorme, all’improvviso, si para davanti, l’ombra di una croce gigantesca, che balla la stessa danza della
macchina. Rallenta di colpo, mette in seconda, in prima. Più
nulla. Rimette le marce, accelera e l’ombra, obbediente, riprende
la sua danza, selvaggiamente, più scura, paurosa, vicinissima.
Terribile. Gocce di sudore imperlano la fronte del giovane
autista. “Maledizione!”. È la febbre, è un’allucinazione, sospira.
Passa la mano sugli occhi e via, più veloce. E l’ombra è là, nitida,
nera. Allora schiaccia il pedale del freno, mette in folle e il freno
a mano e scende dalla cabina. L’ombra ora tremola, dolcemente
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cullata dal ritmo del motore, adagiata sull’acqua torbida d’un torrente che attraversa la strada. Il ponticello di legno è crollato,
sono rimaste alcune grosse assi, scardinate in più punti, sui pali
inclinati. Ancora alcuni giri delle ruote e poi sarebbe seguito il
tonfo fatale,
Una scena da film: Pancrazio immobile, muto, dinnanzi a
quella rovina, inquadrato nell’ombra enorme di una croce, tremolante sull’acqua. Lentamente ritorna verso il camion. Incredibile!
Impigliata nella vite di sostegno della lente del faro, c’è la corona
del Rosario, con la sua crocetta dondolante. Pancrazio capisce in
un baleno, s’accosta incerto, la disimpiglia quasi con venerazione,
la bacia ripetutamente: “Oh Dio, cosa ho mai fatto io di bene, per
meritarmi di vivere, di sperare, di credere ancora nell’amore degli
uomini?”. Il motore è spento. Silenzio nella notte.
Il primo prete di Pathorgata
Quarant’anni fa venni in Pakistan Orientale, ora Bangladesh.
Ricordo che fra i primi villaggi visitati ci fu Jamtuli, formato da un
centinaio di catecumeni oraon. Ancora fresco di teologia, alla
sera, alla luce tremolante di uno stoppino imbevuto d’olio, mi
metto a dar lezione di catechismo. Immaginarsi quali pretese le
mie... In un “hindi” di prima elementare con gente che parla il
“kuruk” e che sa discorrere soltanto di bufali e buoi, dissertare
nientedimeno sulla Trinità di Dio. Missionario pivellino! Eppure
in mezzo a quei pazienti ascoltatori c’era una giovane mamma
che, dopo alcuni anni, avrebbe dato alla nascente comunità cristiana il primo futuro prete della parrocchia-missione di
Pathorghata. I soliti imprevedibili e meravigliosi disegni di Dio.
Così passarono gli anni e quel bambino “cresceva , si fortificava e la grazia di Dio era sopra di lui!”. Un giorno lo trovarono
semi-annegato nel vicino acquitrino. Nessun segno di vita. Il maestro del villaggio gli traccia un segno di croce sulla fronte e sul
petto e il bambino, aperto gli occhi, sorride alla folla come se
volesse prendere in giro l’universo. Qualche anno dopo, eccolo di
nuovo sott’acqua, freddo e duro come un sasso. I compagni lo
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tirano a riva e il vecchio maestro ripete l’operazione del segno di
croce. Come se nulla fosse avvenuto, Cyril (questo è il nome del
discoletto) si rianima e corre a casa. I due avvenimenti incidono
un’impressione indelebile nel suo animo, un’impressione foriera
di un avvenimento straordinario nella sua vita... “Se Dio mi ha salvato due volte da una morte da cretino, è chiaro che vuole da me
qualcosa di più che non dagli altri…”.
Con la caparbietà ereditaria della razza oraon, contro l’opposizione dei genitori e le difficoltà finanziarie della famiglia riesce,
a lunga intermittenza tra scuola e campi, ad assicurarsi la maturità classica. Ormai ha passato la trentina: a questa età le decisioni
diventano finali ed immutabili. Entra nel Seminario Teologico di
Dhaka e anche là, lui introverso per natura, riesce per lunghi anni,
con fatica e fortezza d’animo, a convivere coi bengalesi, estroversi e chiacchieroni, fino al sospirato traguardo.
Eccolo finalmente, a 37 anni di età, prostrato dinanzi al
Vescovo di Dinajpur nello splendido festoso cortile della missione di Pathorghata. Canti in diverse lingue, 35 preti bengalesi, italiani, americani insieme al Vescovo, impongono le mani sulla sua
testa, invocando lo spirito divino sul suo difficile cammino.
Migliaia di persone ..... la mamma, umile, schiacciata dall’emozione stenta a farsi avanti a ricevere la benedizione di suo figlio, la
prima del suo incipiente ministero. Sorride, piange, non sa trattenersi... stringe forte, forte in un abbraccio d’amore quel suo figliolone disubbidiente, diventato dispensatore dei beni celesti.
Una nota dolorosa: il papà non c’è più. Se ne è andato due
anni fa a ricevere la ricompensa di Dio per avergli donato il suo
figlio migliore.
Caramelle: magica invenzione di amore
Dirette ed animate dalla parrocchia ci sono alcune scuolette
per i bambini aborigeni che, a sei sette anni di età, data la loro lingua diversa dalla lingua nazionale bengalese, non sono pronti ad
entrare nelle scuole comunali, generalmente rette dai musulmani.
La condizione in cui si trovano le sottocaste indù però non è
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migliore della loro. Non a causa della lingua, ma per un insieme
disgraziato di fattori, che obbligano moralmente i bambini a non
andare a scuola e rimanere così, per tutta la vita, analfabeti.
Avevo pensato di invitare gli abitanti di un villaggetto a mandare i loro figli alla scuoletta del vicino villaggio aborigeno cristiano. E così, dopo aver combinato la faccenda col maestro, verso
sera arriviamo, il John ed io, a Kistopur, un villaggio abitato dai
“badia”, lontano una quindicina di Km. dal centro-missione. Un
gruppetto di 9 capanne di paglia mal messe, cortiletti sporchi
oltre ogni dire, un tanfo di carne putrida. Sei o sette ragazzetti,
vestiti di sole, giocano con i ritagli della pelle di bue. Nulla di straordinario. Uno dei soliti villaggi “badia”, gemme poco fulgide del
Bangladesh.
I “badia” formano una delle sottocaste poste agli ultimi scalini del famigerato codice hindù. Da alcuni indologi essi sono accomunati con i “muci” per i mestieri che fanno. Infatti, mentre i
“muci” tentano di fare e riparare scarpe e ciabatte, i “badia” procurano loro le pelli conciate. Secondo la mentalità e i costumi
hindù, il toccare un morto è considerato un atto altamente impuro e il lavorare le pelli, resti di una bestia morta, rende perennemente impuri calzolai e pellai. E non pensano i signori criminali
promulgatori della legge, fondatori e conservatori dei costumi
hindù che, quando essi stanno calzando le scarpe, i loro piedi puzzolenti diventano impuri toccando la pelle di una capra morta;
che, quando siedono sulla sella del cavallo, il loro sedere diventa
“intoccabile”... E poi se lo vanno a lavare, com’è loro costume, nel
fiume vicino, dove hanno gettato il cadavere abbrustolito di un
loro parente.
Ma tant’è, il povero “badia”, per guadagnarsi uno scarso piatto di riso, fa il faticoso, insalubre mestieraccio del pellaio, è
l’emarginato della società, l’impuro, l’intoccabile. E il superbo
bramino, che può permettersi il lusso di farsi allacciare le scarpe,
è il reverendo, il puro, il santo. Beh, lasciamo perdere, altrimenti
mi vien voglia di sbottare... Stavo dunque dicendo che il mio fedele John ed io siamo arrivati in un piccolo regno “badia”, regno di
miseria materiale e morale. Una bruttona si avvicina con una stuoia, e dopo averci invitati a sedervici, se ne va per i fatti suoi, senza
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aggiungere parola. Obbediamo sperando che qualcuno venga
almeno a domandarci cosa diavolo desideriamo. Macché, non se
la danno neppure per inteso.
Da buon bengalese, seduto su quella stuoia, a gambe incrociate, attendo, dando uno sguardo a John, come per implorare aiuto
e ricevendo in risposta un’occhiata di compassione. Io, che non
sopporto d’esser minimamente compatito, mi adiro e smanio.
Attendo. Nessuno, niente. Intanto un prurito, non tanto insolito,
sale dalle gambe alle cosce e dalle cosce alla schiena. Maledetta
stuoia!... Anche il John ora si gratta ed ora è lui che, guardandomi, silenziosamente domanda pietà.
Stanco dell’attesa e vinto il prurito resosi insopportabile,
prendo il coraggio a due mani e m’avvio verso i ragazzi, che smesso di giocare, stanno raggruppati poco lontano osservandoci.
Sorridendo domando loro: “Come ti chiami?”. Non avessi mai
aperto bocca, spariscono come passerotti... Allora traggo dal
tascapane alcune caramelle, ne metto una in bocca e ne offro una
a John declamando ad alta voce: “Erano per quei ragazzi, ma vedo
che scappano. Sarà meglio mangiarle noi”. Parole magiche: dieci,
dodici occhietti s’illuminano, sorridono finalmente. La partita è
vinta. In breve diventiamo amici. I loro papà, visto che tratto bene
i loro bambini, vengono anch’essi e domandano chi sono, da dove
vengo, perché sono venuto. Si discorre del bazar, dell’annata sempre cattiva, della capra morta comprata al mattino, ecc. Comincio
a parlare della necessità di dare una istruzione elementare ai loro
figli, della scuola. Essi dicono sempre di sì, sono così umili, così
abituati ad essere oppressi dai più forti di loro da aver preso il
vezzo di dire sempre: “Sì, è vero”.
Sembra tutto avviato a meraviglia quando dall’Himalaya scendono a precipizio nuvoloni neri, accompagnati da un vento furioso e tuoni e lampi… “La si mette male” dico al buon uomo che
mi sta vicino. “No, saheb, se piove, in breve l’uragano finisce: non
aver paura”. “Speriamo!”. E me la piglio in santa pace, pensando
che ‘sti badia, senza averlo mai sentito nominare, sono degni
seguaci di S. Francesco. Come per incanto, dopo pochi minuti il
vento cessa: e le nuvole lentamente lo seguono.
Il John va a vedere la strada e ritorna scuotendo la testa:
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“Impossibile, è tutto un pantano”. La sera intanto scende veloce,
una brutta sera, senza cena e senza tetto. Mentre distribuisco le
ultime caramelle che, sotto l’acqua, si erano appiccicate al tascapane, una ragazzina, seria, seria, mi sussurra: “Vieni a casa mia
stanotte, noi dormiamo dallo zio”. Il babbo, che ha ascoltato la
proposta, l’asseconda, tutto timoroso di essere indegno di ricevere nella sua casa un personaggio così grande... Un metro e sessantacinque centimetri... Che roba!
Non c’è altro da fare che accettare: il buon uomo corre a
farsi dare una bracciata di paglia nel vicino villaggio musulmano
e vengo sistemato nella capannuccia, tra la più povera, la più
umile, forse la più buona gente del mondo. Disteso sulla paglia, a
pancia vuota, faccio fatica a prendere sonno e nel dormiveglia
vedo le ragazze della “Novi" che confezionano le caramelle magiche. Con quanto amore lavorano! Lavorano e non immaginano
neppure di dare un attimo di gioia anche ai bambini del
Bangladesh. Caramelle della “Novi", magica invenzione d’amore.
Per un caprone quasi perdo una gamba
“Romano coi romani, ebreo con gli ebrei”, diceva San Paolo.
Giusto! Ma all’atto pratico tu rimani sempre il novese dalla testa
dura, in mezzo agli indiani dalla testa di sasso. E la paghi.
Sacrosanto! Non si poteva più continuare con quella fatiscente
capanna di bambù che si pregiava col nome prestigioso di dispensario medico della missione. Fatti i calcoli, conclusi che mi conveniva, invece di comprare i mattoni bruciati nella fornace distante
20 miglia, fare una “bata" (piccola fornace) privata vicina a casa
mia. Comprai un pezzetto di terreno a basso prezzo, feci portare
la sabbia e mi misi all’opera. Dalla confinante India vengono gli
stagionali specializzati nel mestiere… Finalmente il lavoro sembra
terminato, basta appiccare il fuoco. Il capo dei fornaciai indiano
viene a domandarmi il denaro per comperare un caprone. “Un
caprone?” domando. “Sì, un caprone che sarà offerto agli dei. È
il costume. Una necessità, altrimenti i mattoni non cuoceranno
bene”.
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“Se è soltanto per questo motivo, niente da fare. Io non credo
ai tuoi dei e non posso partecipare ai sacrifici loro offerti. Prima
date fuoco alla ‘bata’ e poi vi pagherò un cenone con carne di capra
a volontà. Va bene?”. “No, non va bene. Niente da fare: noi, senza
il sacrificio del caprone, non daremo fuoco alla ‘bata’. Capito?”.
Testa dura la sua, più dura la mia. A sera inoltrata, con un
gruppetto di cristiani, sono ai piedi della “bata”. Una lattina di
petrolio, alcune fascinette di legna minuta secca pronte presso i
forni. I fornaciai indiani se ne stanno seduti, muti, a breve distanza, su una piccola altura che segna i confini della proprietà di due
amici musulmani.
“Venite” grido: “Tutto è pronto”. Nessuno risponde, il capo
si torce le mani. Mi avvicino a loro, ripetendo l’invito. Nulla... La
tensione è al massimo. Un nervo sulla faccia del capo pulsa come
se fosse mosso da un motorino elettrico. Finalmente il più anziano dei lavoratori rompe il silenzio: “E dacci sto caprone e sia finita la commedia”. Il capo incalza: “Te lo dico per l’ultima volta per
il bene tuo e di noi tutti: se non aspergiamo quei forni col sangue
propiziatorio di un capro, tutto andrà certissimamente male. Sei
tu il padrone e tocca a te offrire il sacrificio. Capito?”.
È ormai notte. Ritorno verso il gruppetto dei miei cristiani e
m’accorgo che qualcuno è titubante. Do l’ordine di appiccare il
fuoco e io stesso mi metto vicino ad un forno di una delle uscite.
Alla luce della torcia elettrica scorgiamo un filo di fumo elevarsi
dal tetto della “bata”, segno sicuro di riuscita. Tutto sembra procedere regolarmente quando, dal mio lato, il finimondo pone fine
all’impresa. Una scossa tremenda, un boato spaventoso e la mia
gamba è sepolta sotto le macerie. La “bata” è crollata.
Un uomo messe le mani sotto le mie ascelle, tira con tutte le
sue forze per liberarmi dal cumulo dei mattoni caduti. “Te possino... Non tirare, gli grido, vuoi che lasci la gamba sotto le macerie? Tira via i mattoni piuttosto”. Il buon uomo fa del suo meglio
e la mia gamba è miracolosamente salva, perdo solo la scarpa...
Sano e salvo, faccio subito l’appello dei miei uomini, manca il
John. Chiamo, richiamo, nessuna risposta. Che sia rimasto sotto?
“Oh Dio, io credo in Te, non agli dei fornaciai!". Corriamo a casa
sua che dista tre-quattrocento metri, ed eccolo là, il mamalucco,
seduto sui talloni, imbambolato, scioccato a domandarci: “Siete
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ancora vivi?”. E vergognosetto, umile, umile e soggiunge: “Padre
con la rabbia in corpo per il caprone, ti sei dimenticato di benedire quel coso, vero?”...
Una perdita non indifferente, un mese di lavoro massacrante,
una figura meschina... Il castigo del caprone? Dei fornaciai infatti neppure l’odore. S’erano dileguati nella notte. I miserabili! Con
la storia del caprone, al termine del lavoro non avevano alzato i
quattro contrafforti di sicurezza ai lati dov’erano posti i forni. E
noi, i caproni, non ci eravamo accorti di nulla.
L’uragano: Oh Dio, ci sei?
Stavolta siamo arrivati al superlativo assoluto di ogni aggettivo che possa convenientemente rafforzare la parola “Disastro”.
Ma ci pensi? In poche ore dove c’era la vita s’è insediata la morte;
dove si udivano le grida gioiose dei bambini inneggianti alla vita,
ora silenzio di morte; dove le cime degli alberi e le piantine del
riso ondulanti allo zefiro mormoravano la preghiera di ringraziamento al Signore, ora il fango limaccioso maleodorante velenoso
fa da lugubre coltre a centinaia, migliaia di corpi umani e carcasse di animali. Duecentomila morti, forse di più, disseminati nel
fango; un milione di superstiti, forse più, senza tetto.
Gesù, perché? Purtroppo so la risposta: mistero. Spiegazione:
non posso e non potrò mai sapere. Morte e vita, dolore e gioia:
morte, assenza della vita; dolore, assenza della gioia. Oh, come lo
sa quella sposina che ha visto il marito, colpito alla testa da un
bambù staccatosi dal tetto della capanna, in un attimo portato via
dall’acqua. Lei è viva sì, ma con la morte nel cuore. E che ci fa al
mondo? Una capanna e due cuori... ieri la gioia nel sussurrarsi
quotidiano la canzone bengalese: “Siamo poveri, non possediamo
nulla, ma abbiamo tutto nel nostro amore. Tu sei mio e io sono
tua!”. Ed ora la capanna se n’è andata lontano sulle onde del mare
e tu che eri me non ci sei più. Io che ero te come posso ancora
vivere? Perché, perché non mi hai portato via con te? La disperazione. La bestemmia: migliore la morte della vita.
Oh, come lo sa quell’uomo ieri orgoglioso d’essere il papà di
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due aitanti giovanotti e d’una brillante ragazza studente
all’Università di Chittagong: “I tempi cambieranno, gli stenti nella
povertà proverbiale del Bangladesh svaniranno, se tutti, come me,
saranno capaci di ‘tirar su’ figli intelligenti, intraprendenti”.
Ahimè, tutto è finito: i figli sono morti nell’ultimo tentativo di salvare la mamma. Ora l’uomo è accovacciato ai confini del suo campetto allagato dall’acqua del mare. Il nulla davanti a sé. Spes ultima dea! Se n’è andata anche lei... Un groppo alla gola, una voglia
di piangere, di farlo piangere con me. Mi avvicino... e che gli
dico? Le labbra tremano: non riesco, non riesco a dire una parola. Oh, che razza di un debole, d’un codardo io sono! Nulla. Sono
influenzato dal suo dolore, dalla sua sconfitta, sono anch’io preso
nel vortice di quella sofferenza atroce.
Mi scuoto. Un aereo da bassa altezza getta coi paracaduti sacchi di “cira” (riso cotto, seccato e pestato). Alcuni sacchi cadono
nel fango, sui cadaveri di quelli che non hanno più bisogno di
quegli aiuti. Alcuni superstiti tentano di arrivare sul luogo della
caduta: procedono lentamente su quel putridume, troppo lenti,
troppo tardi... il sacco è stato ormai inghiottito dal fango e dalla
corrente. Poveretti da due giorni non mangiano e non s’azzardano a bere quell’acqua avvelenata. Riusciranno a vincere la fame?
La furia del vento alla velocità di 200 km all’ora li ha sballottati
terribilmente verso la morte. La sola voglia di vivere li ha salvati.
Ma ora, indeboliti dalla fame e dalla sete, riusciranno ancora a
mantenere quella speranza, l’ultima ancora della salvezza?
Oh Dio, ci sei? Sì, io lo so, sei qui nel dolore dei tuoi figli.
Copri col manto del tuo amore questo povero Paese colpito a
morte. Donagli la forza della speranza.
Io lo so, il seme se non marcisce, se non muore non può donare nuova vita. Il Bangladesh, questa mia patria d’adozione, sta
morendo disperato sotto le raffiche micidiali dell’uragano, in un
diluvio senza precedenti storici, ma un raggio di sole illumina già
l’orizzonte. Tutti qui, dal più ricco al più povero, sono mobilitati
al soccorso dei colpiti dalla calamità. Il male ha infuriato fisicamente sull’uomo, ma non riuscirà a sradicare l’innata sete di bene
dall’animo umano. Il seme germoglierà, il Bangladesh risorgerà a
nuova vita. Ci credo. Così sarà. Bangladesh Jindabad!
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Padre Enrico Assietti mi salva dal cobra
Qualche giorno prima tre agricoltori, proprietari di alcuni terreni presso la missione, avevano ricevuto tre raccomandate (una
per ciascuno) con terribili minacce: posare in quel preciso posto,
sotto quel preciso cespuglio, la somma di tot taka in data x, altrimenti il motore pompa di vossignoria sarà distrutto. Khoda afez!
Poveri diavoli, avevano fatto sacrifici enormi per raggranellare qualche decina di migliaia di take e comprarsi quei motori invidiati e bramati da tutti i contadini del luogo e ora debbono passare le notti in bianco, pieni di paura, a guardia del loro tesoro.
Anch’io sono un coltivatore diretto e naturalmente possiedo un
bel Yamaha giapponese, cosicché attendo, come i miei colleghi, la
indesiderata missiva. Thank God, nulla. Tranquillo a dormire
dunque.
Verso l’una (l’ora dei ladri e dei rapinatori) il cane abbaia
disperato, con rabbia. Svegliandomi di soprassalto penso subito
logicamente ad un eventuale pericolo del motore. Prendo la torcia elettrica spenta, il mio bastonaccio fedele, sempre pronto vicino al letto (sono allergico alle armi da fuoco), ed esco nell’oscurità dal cancelletto del rustico. Fatti pochi passi, entro nel canaletto d’irrigazione quasi asciutto e m’avvio in direzione del motore.
Dopo una cinquantina di passi mi assale un insopportabile tanfo
di sterco: “Accidenti! Qui qualcuno ha trovato il posto ideale per
posarla bell’e e fresca nel canale senza essere osservato da occhi
indiscreti". Per non pestarla, tik, accendo la torcia elettrica e...
mamma mia... il sangue mi va in acqua... Che spavento! A non più
di mezzo metro dai miei piedi la testa a sventola di un cobra enorme... Vicinissima.
Con un balzo sono sulla riva, butto via il bastone e quieto
quieto, con la pelle uguale esatta a quella d’un cappone, me ne
ritorno a casa. Mi siedo in veranda, prendo fiato. La testa fra le
mani, mentre le pile della torcia si esauriscono.
“Ma ci pensi?”, mi dico: “Il cobra non perdona. Altro che
motori, altro che ladri e malfattori... Quello là non ti manda le lettere raccomandate... entro due ore ti manda al Creatore e chi s’è
visto s’è visto! E quel benedetto sporcaccione, venuto a scegliere
195
proprio quel posto là... Deus ex machina!”. Allora, un po’ più
tardi, mi getto in ginocchio e in dialetto novese ringrazio, stavolta con tutto il cuore, il Signore per avermela fatta scampare bella.
Chissà perché nei momenti più difficili, più angosciosi, le preghiere ti escono fuori in dialetto? Logico: quando sei a zero ridiventi
bambino, bisognoso di tutto come quand’eri sulle ginocchia della
mamma.
Mi seggo di nuovo e me ne sto calmo al buio. I ricordi affiorano alla mente: decine di serpenti piccoli, grandi, gialli, grigi, di
ogni qualità trovati presso la casa, nei campi, sui sentieri, uccisi o
fatti fuggire durante la mia ormai lunga vita in Bengala, ma una
circostanza come questa, in cui un cobra così orribile, così vicino,
quasi sicuro di uccidermi non si era mai presentata... Eppure sono
salvo.
Ah, ora lo so, ora capisco perché non mi ha morsicato...
Ricordo: molti anni fa, quando mi trovavo in San Rocco di
Voghera, il Direttore del Centro Missionario Diocesano di
Vigevano mi aveva invitato come rappresentante del Pontificio
Istituto Missioni Estere ad una commemorazione del missionario
padre Enrico Assietti di Vigevano (1886-1912), morto in Bengala.
Non avevo mai sentito parlare di lui, e, per non far la figura del
tonto, con qualche piccola ricerca storica al Pime di Milano, venni
a sapere che era morto trentenne dopo solo due anni di missione
a Krishnagar in Bengala per il morso di un serpente. Un uomo stimatissimo e amato da tutti per la sua bontà e la sua generosità. Era
il tempo in cui il Bengala veniva chiamato “la tomba dell’uomo
bianco”.
Assietti era giunto in un villaggio sperduto nella giungla verso
sera. Dopo la misera cena offertagli dai pochi catecumeni del
luogo, stanco, solo, s’era buttato a riposare su una stuoia nella
capanna-cappella. A notte inoltrata un serpentello non più lungo
di un braccio, scattante come una molla, forse in cerca di qualche
topolino, dal tetto di paglia si era lasciato cadere sulla testa del
missionario. Alla sua improvvisa, instintiva mossa, la repentina
risposta del serpente: un’iniezione velenosa all’orecchio. Un
morso da cui, con un facile intervento, ci si può salvare. Ma forse,
là nella giungla, nottetempo, non c’è nessuno che sappia interve196
nire tempestivamente. I fedeli si prodigano per salvarlo, pregano,
vanno in cerca di “sapari”, di “Kubirj”, ma nulla da fare.
Cosciente, rassegnato ormai alla sua morte prossima, Padre
Assietti scrive il suo testamento spirituale: “Io muoio contento nel
Signore. Offro la mia vita affinché in Bengala nessun missionario
venga mai più ucciso dai serpenti". Ora capisco. “Grazie, Signore,
che hai esaudito la preghiera di quel tuo servo fedele. Grazie,
Assietti, della tua meravigliosa preghiera. Grazie di cuore”.
Riparare il “Ponte Vanzetti”
Gli anni passano, ma il lavoro non diminuisce: una fortuna
boia, sfacciata! Guai se non fosse così. Se fossi senza lavoro, io,
pensionato, intristirei ben presto nel mio isolamento, m’incurverei in poco tempo, perché forzato a guardare soltanto a terra, mi
consumerei velocemente come un mozzicone di candela, il cui
stoppino fumigante con scoppietti funerei annuncia la fine vicina.
Dunque, c’era una volta... No. Una volta c’ero io... che al mattino stavo lavorando nella scuola in costruzione presso la missione quando mi vengono a dire che tra i due piloni maestri del
ponte s’era aperto un crack foriero di un possibile prossimo disastro. “Boro danger”, esclama un assessore. Il capo della delegazione, il sindaco Kinam Uddin, ammette a priori, cioè dà per scontato senza alcuna possibile obiezione, che i lavori di riparazione
saranno architettati ed eseguiti da me.
“Un momento, signori. Andrò a vedere cos’è successo e poi ne
parleremo”. E dentro di me mormoro in buon italiano: “Togliti
dai piedi, ragazzino, lasciami lavorare”. Ma la risposta è proprio
quella prevista: lui si toglie dai piedi e noi restiamo a lavorare.
Con il foreman e il manager vado a studiare la situazione. Per me
non è una sorpresa la notizia: c’ero passato qualche giorno prima
e avevo notato all’ovest una piccola incrinatura tra il secondo e il
terzo pilone, ma non mi era sembrata così grave da far pensare ad
un disastro imminente. Il manager, che è giovane e vede meglio di
me, sostiene che il crack è grosso e quando i carri passano il ponte
si muove. “Very dangerous!”, dice sfoggiando un pochino d’in197
glese, molto pericoloso. “Te possino, smettila di bofonchiare. Non
sai che se il ponte non balla cade?”.
Il foreman, più furbo, tace, però non ride. Fissa quel punto,
quella riga nera e la sua pensosità mi mette paura. Immediata
prima decisione: consultare un ingegnere, un bravo ingegnere.
Scrivo due righe, direi un telegramma: “Faustino, grave pericolo.
Necessaria tua presenza. A domani”. E il manager s’incarica di
recapitarlo subito al destinatario con la mia motocicletta: 90 km.
Il buon Faustino (padre Faustino Cescato, n.d.r.) arriva, vede,
scruta, studia, dice che non c’è immediato pericolo, però la situazione non è da prendersi alla leggera e mi consiglia di non dilazionare oltre. Mi dà le sue sapienti infallibili istruzioni sul come svolgere i lavori, sul materiale da impiegare e “buona fortuna”.
Non c’è scampo. E allora: “Contrordine compagni.
Emergenza”. Il lavoro viene trasferito a tre-quatttrocento metri ad
Est, sotto il ponte del fiume Tulsiganga. Il nuovo edificio scolastico appena iniziato può attendere: sarebbe una sciocchezza non
dare la preferenza all’urgenza di salvare un ponte su cui passano
giornalmente migliaia di persone, gli alunni della scuola compresi.
Era vicina la Pasqua, festa in cui i preti devono lavorare in
chiesa un po’ più del solito. Ma mangia ‘sta minestra o salta il
Tulsiganga! Un occhio alla chiesa e un occhio al ponte ammalato.
Deciso: “Forza giovanotti! Forza muratori e mezze cazzuole: giù
sacchi di cemento, giù sbarre di ferro grosse come un braccio, giù
iniezioni nelle natiche di quei mastodontici bestioni sulle cui
groppe s’allunga questa strada sospesa sul fiume per un’ottantina
di metri. Forza amici: ce la faremo a salvare questo gioiello necessario come il pane quotidiano, regalato a questa brava gente da
quel geniaccio di padre Giovanni Battista Vanzetti di Saluzzo.
Sarebbe un delitto non tentare”. Dico ancora alla mia gente:
“Quel calcestruzzo è stato bagnato dal sudore dei vostri padri, ora
ha bisogno di essere rinfrescato dal vostro sudore. Per il bene e il
progresso dei vostri figli, giù il gobbone”.
Il lavoro prosegue alacre, ordinato, in armonia di intenti. La
difficoltà maggiore trovata sul cammino è la mia: non mi ero mai
cimentato in lavori del genere.... “O la va o la spacca”… In nomine Domini (Nel nome del Signore). Amen. Passa la Pasqua in
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rosso, passa la domenica in bianco ed eccoti il “Ponte Vanzetti”,
come tutti lo chiamano, gonfio di vitamine, pronto al servizio. Al
martedì seguente, giorno del grosso bazar di Panchbibi, decine e
decine di carri colmi di riso, di patate, di ogni ben di Dio, passano tra le grida gioiose d’incitamento ai buoi e bufali, mentre centinaia di biciclette fanno gimcana tra le corna. Uno spettacolo
splendido.
Che pacchia! Ce l’abbiamo fatta. Evviva noi! Eh, sì, amici, ci
vuole un capretto innaffiato con una giara di birra nostrana. Una
sola però, mi raccomando. Al grido: Bangladesh jindabad!!
Allah ha l’orologio al polso?
“Cosa ho mai fatto ad accettare?! Fare tutta questa strada,
questa faticaccia per dire due frottole in predica alle monache...
Sempre il solito sempliciotto burbero-benefico, che si lascia
abbindolare da quel sorriso magico, inimitabile dell’indiana...”. E
così farneticando, trattenendomi a mala pena dall’imprecare, con
un rametto raccolto sulla strada libero la ruota e il parafango di
quei grumi di fango che li saldano. Terra rossa, fango da costruzione più tenace del cemento! Uno o due km a 10 all’ora e giù di
nuovo... accidenti alla Suzuki.
Guarda caso, in quel punto della strada è stata costruita una
cascina col proposito di accogliere e ospitare la mia “suzuchina”
in caso di emergenza. La spingo sotto il portico presso una capretta meravigliata e spaventatissima alla vista di un animale così singolare. Sistemata la faccenda con il padrone del garage, mi avvio
a piedi scalzi (impossibile l’uso dei sandali con quel fango) lungo
la ferrovia. Incredibile: ancora una volta fortunatissimo. Arrivato
nell’atrio della stazione, il suono della sbarretta di ferro, picchiata su un pezzo di rotaia, annuncia l’arrivo del treno. Eccolo là che
arranca sbuffando in ritardo di un’ora e un quarto abbondante. Il
mio Angelo custode si è messo d’accordo con l’Angelo di quel
capo-treno. E il capo-stazione ammicca sorridendo. Prendo il
biglietto, salgo. Mica male, un solo buco libero, l’ultimo sulla
panca destra. Faccio per sedermi quando una vecchietta entra,
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smarrita, e tenta per non cadere di agganciarsi alla maniglia della
porta. Mentre il treno inizia lentamente la sua corsa: “Prego” le
dico, rinunciando all’unico posto vuoto: “segga”. E la poveretta,
piena di vergogna e di paura, più che sedersi, s’appoggia su due o
tre centimetri di sporgenza della panca, tira il suo rattrappito sari
sulla testa, sugli occhi, e se ne sta là quieta quieta come un cagnolino obbediente al padrone. Tutto si svolge in silenzio finché un
suono baritonale, come se venisse dalle corde di un contrabbasso,
echeggia: “Keno?”.
Non me n’ero accorto: sulla panca di mezzo un omaccione in
divisa di poliziotto mi fissava storto come un cobra quando tenta
di ammaliare un innocuo, innocente passero. "Keno?", ripete:
“Perché hai fatto sedere quella mendicante che certamente non
ha neppure il biglietto?”.
Intuisco che una scarica elettrica di antipatia reciproca ci sta
colpendo. “E che me la faccio cadere addosso? Non si regge in
piedi: non vede?”. Alla mia risposta sarcastica la risatina generale
dei passeggeri innervosisce il capo distaccamento di Polizia che
prontamente si rifà: “Sui treni del Bangladesh non si può viaggiare senza biglietto, lo sa?”. “O.K. Non s’impressioni: nel caso che
davvero la povera signora non potrà mostrare il suo biglietto al
controllore, pagherò io. Non solo il biglietto, ma anche la multa.
E tutto sarà rimediato”.
Un ometto si alza e mi offre il suo posto a sedere portando la
scusa banalissima di un nascosto male alla chiappa destra e il poliziotto ingoia saliva amara. Il treno sferrazza con pena fino alla fermata di Fulbari dove entrano altri tre passeggeri che, in piedi, si
allineano al gentiluomo dalla chiappa ferita. Mentre il treno prende la sua lenta danza l’omaccione guarda al suo orologio. Passano
5 minuti e di nuovo un attento sguardo all’orologio. Poco dopo,
al terzo scrutinio, scatta, si alza ed intima ai due che gli siedono
accanto di alzarsi in fretta e lasciar liberi i posti.
“È l’ora del namaj”. Si toglie le scarpe, si copre il capo con un
fazzoletto e, secondo il costume orientale s’inginocchia sulla
panca occupando interamente per le sue prostrazioni e giravolte
di capo i tre posti a sedere. “Allah! Allah... Assalam...” lui farfuglia ed io, stretto, stretto nel mio buco, me ne sto zitto, partecipe
200
di malavoglia alle sue implorazioni. Pochi minuti e tutto ritorna
come prima. Ma quell’elettricità, ora passata ad alto voltaggio, circola assassina nei nervi.
“Signor O.C. (Officer in Change), scusi la mia impertinenza,
per pregare non poteva attendere ancora una decina di minuti,
fino alla prossima stazione, senza disturbare tutta la carovana in
viaggio?”. Mi fa due occhi di gufo pieni di meraviglia mista a rabbia: “Come posso io mutare il comando di Allah? Cinque volte al
giorno, al tempo giusto, esatto, Lui ci chiama alla preghiera e noi,
suoi servi, cinque volte dobbiamo obbedire”.
“Benissimo. Ma cinque minuti prima, cinque minuti dopo,
Lui, il Rahaman, ci ascolterà ugualmente tanto più quando, per la
pignoleria di scandire il tempo esatto, dobbiamo scomodare e dar
fastidio al nostro prossimo. Non le pare?”. “No, non mi pare”. I
passeggeri non sanno per chi parteggiare: soltanto due danno
segni chiari di essere dalla mia parte, gli altri sembrano statue di
cartapesta. Convinti o paurosi dell’O.C.? Non mi do per vinto e
rincaro la dose: “D’altra parte Allah non ha orologio. Può immaginare Allah con un orologio al braccio? Però io so con certezza
che Allah predilige chi dà meno fastidio al prossimo”.
Nessuno fiata. L’omaccione scuote la testa. Mi dispiace: sono
andato troppo oltre... i limiti della bestemmia... oltre i confini di
uno stato teocratico-musulmano.
201
INDICE
Prefazione di Mons. Martino Canessa . . . . . . . . . . . . . Pag. 5
Cronologia di padre Cesare Pesce tratta dai suoi testi . . »
7
Introduzione dell’Autore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
13
I – Da Novi Ligure al Bengala . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
21
»
43
»
71
La vocazione da libri e riviste missionari, 21 – “Tutta la mia
vita per Gesù”, 24 – Il 18 aprile 1948 a Voghera, 27 – Nel
mitico Bengala delle foreste e delle tigri, 31 – Un furto definito “opera di carità”, 34 – Con un parroco così, bisogna
rigare dritto, 38
II – La prima missione a Ruhea . . . . . . . . . . . . . . . . .
“Ma come, non sai ancora il santal?”, 43 – A Mariampur per
imparare il santal, 46 – “Ciatro Chai”: Vogliamo nuovi studenti, 49 – “Avevo una casetta piccolina a Ruhea…”, 51 –
L’incontro con “i pazzi di Dio”, 54 – Padre Pesce venerato
come uno spirito, 58 – Massimo Teruzzi, il missionario lebbroso, 60 – Mario Alvigini, il missionario delle pompe, 65
III – Il primo ritorno in Italia . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Sfuma il sogno di convertire i Khotryio, 72 – “Dopo tredici
anni, per adesso può bastare”, 74 – Il pranzo di Natale fugge
nella giungla, 76 – Inventa il “Concorso biblico per corrispondenza”, 79 – Segretario di “Mani Tese” a Milano, 81 – La
guerra per l’indipendenza del Bengala, 85 – Testimone allibito di atrocità e massacri, 89 – “Gesù è con noi, perché essere
preoccupati?”, 91 – “I morti di fame non s’incontrano più per
le strade”, 95
203
IV – Parroco a Pathorgata . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag. 101
Espulso dal Bangladesh per una bottiglia di cognac?, 101 –
“Ma i soldi arriveranno lo stesso”, 103 – Questa la vita missionaria: magnifica!, 109 – “Mi godo la povertà felice del
Bangladesh”, 114 – Padre Cesare vive “in una girandola di
fuochi artificiali”, 118
V – Il tramonto nel Santuario di Maria . . . . . . . . . . .
»
125
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151
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173
Missione di pace tra due feudi oraon a Kalisha, 125 – Obak,
in bengalese significa “senza parola”, 130 – 500-600 pellegrini alla domenica nel Santuario mariano, 133 – “Tento di
portare la pace e di dare gioia”, 139 – L’ultimo saluto:
“Grazie, padre Cesare!”, 142 – Il tramonto dietro
l’Himalaya. Il mio, 144
VI – Sempre allegro e gradito a tutti . . . . . . . . . . . . .
Il Bengala era la “La tomba dell’uomo bianco”, 152 –
“Anche i ladri a Pasqua fanno festa”, 155 – “Mamma, non
senti che il tuo bambino ha fame?”, 156 – “Sapeva ascoltare, lasciava parlare gli altri”, 159 – Amava molto il popolo
bengalese, 162 – “Padre Cesare è un uomo solare”, 165 –
“L’Italia è un paradiso, ma il Bangladesh la mia patria”, 168
VII – Padre Pesce racconta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
“La perfetta letizia” di Padre Cesare, 173 – “Il Vangelo
annunziato con humour”, 176 – L’ubriacone Moti non beve
più, 180 – Cacciare il “Bosonto” (vaiolo) col baccano, 181Un matrimonio al veleno, 182 – L’ombra della croce che
salva, 185 – Il primo prete di Pathorgata, 187 – Caramelle:
magica invenzione di amore, 188 – Per un caprone quasi
perdo una gamba, 191 – L’uragano: Oh Dio, ci sei?, 193 –
Padre Enrico Assietti mi salva dal cobra, 195 – Riparare il
“Ponte Vanzetti”, 197 – Allah ha l’orologio al polso?, 199
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PIERO GHEDDO
PIME 1850-2000
150 anni di missione
Nel 2000 il Pontificio Istituto Missioni Estere ha compiuto 150
anni. È nato nel 1850 dalla volontà di Pio IX e dei vescovi di
Lombardia come “Seminario lombardo delle missioni estere”, per
opera di padre Angelo Ramazzotti degli Oblati di Rho (poi vescovo di Pavia e patriarca di Venezia). Nel 1926 Pio XI, unendolo al
“Pontificio seminario per le missioni estere” di Roma (nato per
volere di Pio IX e per opera di mons. Pietro Avanzini nel 1871), ha
fondato il P.I.M.E.
«Andate in tutto il mondo» ha detto Gesù: il Pime c’è andato davvero ed oggi opera nei cinque continenti a servizio del Vangelo.
Questo volume, seriamente documentato e giornalisticamente
avvincente, percorre una duplice pista di lettura: attenzione scrupolosa ai fatti, senza nulla tacere, ma mettendo anche in evidenza
le scelte coraggiose e a volte temerarie per andare “ai più lontani e
ai più abbandonati”, l’amore appassionato ai popoli che caratterizza il mondo delle missioni.
La storia diventa affascinante se illuminata da una lettura soprannaturale delle vicende umane, non per nascondere gli errori e i peccati commessi, ma per dare risalto anche ai buoni esempi che testimoniano ai posteri la forza dello Spirito presente in chi ci ha preceduto.
pp. 1230 - € 25,82
Richiedere, anche per telefono, via fax o e-mail a:
EDITRICE MISSIONARIA ITALIANA
via di Corticella, 181 – 40128 Bologna
tel. 051/32.60.27 – fax 051/32.75.52
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PIERO GHEDDO
ALFREDO CREMONESI
(1902 - 1953)
Un martire per il nostro tempo
Nel 2003 ricorrono cinquant’anni dal martirio di padre Alfredo
Cremonesi, missionario del P.I.M.E. in Birmania (Myanmar), ucciso il 7 febbraio 1953 nel suo villaggio di Donokù. È stato subito
invocato come “martire”, perché ha dato la vita per il suo gregge.
Era stato invitato a ritirarsi da un posto molto pericoloso: è rimasto con la sua gente pagando con la vita.
“Martire del nostro tempo” perché? Tre motivi:
1) Cremonesi era un missionario santo. Il martirio è stato il dono
di Dio a un uomo che era già tutto suo: preghiera, mortificazioni,
donazione totale al prossimo più povero e abbandonato. I santi non
invecchiano mai.
2) Padre Alfredo era un missionario moderno. Aveva un concetto
avanzato della missione (per quei tempi): ci dice che dobbiamo
sempre guardare avanti, essere aperti alle novità che lo Spirito
suscita nella Chiesa, anche se disturbano la nostra pigrizia.
3) Infine, era un missionario autentico, proiettato verso le tribù non
cristiane per annunziare Cristo. Grande viaggiatore, percorreva
lunghe distanze quasi sempre a piedi, fra guerriglieri e briganti, e
si adattava a vivere come i locali, con grande spirito di sacrificio.
pp. 240 - € 12,00
Richiedere, anche per telefono, via fax o e-mail a:
EDITRICE MISSIONARIA ITALIANA
via di Corticella, 181 – 40128 Bologna
tel. 051/32.60.27 – fax 051/32.75.52
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DOMENICO COLOMBO
(a cura)
UN PASTORE SECONDO IL CUORE DI DIO
Lettere del Servo di Dio mons. Angelo Ramazzotti
(1850 - 1861)
Le lettere di mons. Ramazzotti riempono otto volumi per un totale di 1.600 scritti
e 2.600 pagine. Per la grandissima parte, almeno quelle giunte a noi, coprono il
periodo del suo ministero pastorale, a cui sono strettamente legate. Benché uomo di
cultura, Ramazzotti dedicò tutta la sua vita e le sue energie al bene delle anime. Non
avendo tempo per scrivere libri, la sua corrispondenza fu parte essenziale della missione del Pastore che si prodiga con inesauribile carità verso tutti, specialmente i
poveri. Questa selezione necessariamente limitata, vuole offrire uno spaccato dell’azione pastorale di Ramazzotti a Pavia e Venezia.
pp. 590 - € 20,00
DOMENICO COLOMBO
(a cura)
UN PASTORE SECONDO IL CUORE DI DIO
Testimonianze sul Servo di Dio mons. Angelo Ramazzotti
(1850 - 1861)
Dopo il volume “Un pastore secondo il cuore di Dio”, che contiene le Lettere del
Servo di Dio mons. Angelo Ramazzotti, fondatore del P.I.M.E., esce con lo stesso
titolo questa raccolta di Testimonianze su di lui. Essa abbraccia un ampio arco di
tempo, dalla sua gioventù al 1961, centenario della sua morte. La fama del “santo
Pastore” perdurò anche dopo la sua prematura scomparsa, ma col tempo andò
restringendosi agli ambienti più legati alla sua memoria. Quando nel 1958 le spoglie di mons. Ramazzotti furono portate a Milano per essere tumulate nella chiesa
di San Francesco Saverio nella Casa Madre del P.I.M.E., il patriarca Angelo card.
Roncalli fece risplendere di luce nuova la figura e l’opera del suo predecessore. Fu
l’inizio di una riscoperta, che andò crescendo con le solenni manifestazioni di onore
e di studio celebrate in varie città d’Italia.
Questo volume di testimonianze è un completamento indispensabile di quello delle
lettere.
pp. 416 - € 16,00
Richiedere, anche per telefono, via fax o e-mail a:
EDITRICE MISSIONARIA ITALIANA
via di Corticella, 181 – 40128 Bologna
tel. 051/32.60.27 – fax 051/32.75.52
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