I testi letti e commentati dagli studenti

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I testi letti e commentati dagli studenti
Testi di Eugenio Montale
I intervento
Il Senatore Montale - articolo del Corriere della sera del 14 giugno 1967 di Enrico Emanuelli
Ieri si cominciò a dire che - forse - prima di sera ci sarebbe stata la notizia di Eugenio Montale nominato
senatore. Certe notizie, che fanno piacere, per scaramanzia non si annunciano anzitempo. Decisi ugualmente
di andare a trovare questo senatore che ancora non sapeva di esserlo e così gli telefonai. "Ho bisogno di
parlarti. Posso venire da te?"
«Quando vuoi, anche subito».
Dopo dieci minuti sono nell'ascensore che porta vicino all'appartamento di Eugenio Montale. Perchè dico
che «porta vicino»? Perchè quando la salita nella scatola di legno ha termine, bisogna ancora attraversare un
pianerottolo, superare una rampa di scala, arrivare ad un altro pianerottolo.
La Gina viene ad aprire.
E Montale è là, al sommo di altri quattro gradini, che dalla stanza per metà ingresso e per metà sala da
pranzo,portano - come dicono adesso - al soggiorno. Sorridente e paziente mormora: «Come va?». Contro
luce, perchè alle sue spalle c'è la bassa vetrata che dà sul terrazzo, i suoi capelli bIanchi sembrano più leggeri
e soffici del solito. Lui aspetta là, in alto: e quando supero quell' ultima, interna scaletta sono finalmente
«salito» sino a Montale.
Diciamolo soggiorno: è una stanzetta irregolare, bassa, contro una parete c'è un divanuccio azzurro, di fronte
due poltroncine d'uguale colore e, naturalmente, il tavolino rotondo. Sopra il divano ci sono due muse
metafisiche o inquietanti dipinte da De Chirico. Sulla parete di sinistra ci sono due Morandi e, in mezzo, un
De Pisis.
Dopo la stretta di mano lui si è subito incamminato, col suo passettino insieme esitante e nervoso, ad una
delle due poltroncine, sottintendendo che l'altra è per me. Sul tavolinetto, fra molti altri libri, ma nascosto,
intravedo una copia di Omaggio a Montale, cinquecento pagine di saggi critici e di testimonianze scritte da
ottanta studiosi e amici.
« E' venuto bene» dico indicando il libro. «Festeggiano, festeggiano..i festeggiamenti per i settant'anni
durano a lungo. Hanno cominciato a festeggiarmi persino un mese prima del giusto ». Le ultime parole si
mescolano ad una risatina ironica, che non mi sorprende: Montale fa uso dell'ironia - come agile correttivo
d'un fatto o d'una persona - prima di tutto verso sé stesso. «Sono qua per parlarti di un altro libro» dico.
Si mette seduto meglio sulla poltroncina e il tic che ha alle labbra per un attimo s'accentua. Gli dico che si
tratta d'un romanzo e che a mi spetta il compito di sentir, se desidera recensirlo per il nostro giornale.
"Quattrocento pagine, forse di più. Mi ci vuole tempo, diciamo due settimane per arrivare sino in fondo.
Insomma, dovrei vedere, pensarci sopra".
«II tempo non è un ostacolo. Tutti aspetterebbero anche un mese per avere una tua recensione».
«Sarà vero? Aspettare... perché farlo aspettare? Sono molto affezionato a chi ha scritto questo romanzo e ho
già cominciato a leggerlo. L'inizio è bello. Poi vengono cose un po' confuse ».
Capisco che Montale lo ha già letto dalla prima all'ultima pagina e che cerca, con grande rispetto
dell'amicizia e nello stesso tempo, con grande rigore per la sua coscienza, d'uscirne fuori in qualche modo.
Accende una sigaretta, con quel suo gesto sempre di mite incertezza, come fosse la prima della sua vita e
ancora non sapesse se gli piacerà o no. Mette adagio il fiammifero spento nel portacenere, cercando
d'allontanare d'un attimo la decisione. Dice: «Ma guarda che scherzetti ci fanno certe volte gli amici ».
"Non angosciarti, troveremo un'altra soluzione" dico.
Testi di Eugenio Montale
II intervento
Di colpo è sollevato o forse sono io a pensare che lo sia. Ad ogni modo comincia a parlare frastagliando il
discorso ora su cose semplici, ora su cosa gravi. «La Romania, al vertice di Mosca, l'altro giorno non c'era »,
dice e subito passa a parlare d'un nostro amico, Dragos Vranceanu, che era di passaggio la settimana scorsa.
"Lo hai visto?" mi chiede. "Sì e mi ha anche detto che a Bucarest è uscita una scelta di poesie tue tradotte da
Ilie Constantin".
Non è facile farlo parlare di sé o di cose sue. Anche stavolta, su quell'inizio di una nuova traduzione,
preferisce scappare improvvisando un fantasioso progetto: Si prenda la poesia d'un italiano, la SI faccia
tradurre in francese. Si prenda poi quel che si ottiene e lo si faccia tradurre in inglese. E il testo inglese lo si
faccia tradurre in russo e avanti. dal russo in cinese, dal cinese in giapponese e avanti ancora, magari dal
giapponese in spagnolo e, dallo spagnolo in polacco e finalmente, da quest'ultima traduzione, se ne ricavi un
testo in italiano ».
"Chi sa - dice - che cosa tornerebbe a casa dopo, questa galoppata di traduzioni. Un'altra cosa?" "Sì certo.
un'altra cosa" dico. «Forse migliore di quand'era partita. Tutto può capitare. non si sa mai».
La parete di fronte a me, ha una finestra sempre chiusa, e di là dei vetri una veneziana color rosso mattone
sempre abbassata. Lungo questa parete (sotto, poi a destra e a sinistra della finestra) c'è una scaffalatura
piena di libri. Uno è di traverso, ma è poi un libro? Vedo che è racchiuso in una custodia di legno.
«Che cosa è? » chiedo, allungando un dito. « Prendilo e guarda». Faccio scivolare fuori dalla custodia un
libro e ho tra le mani un unicum meraviglioso: manoscritto, interfogliato con una quarantina di illustrazioni
in bianco e nero, ed a colori.
«Che cosa è?» ripeto. «l ragazzi. .. ». Le spiegazioni diventano inutili: in fondo. nel colophon, leggo che un
alunno delle scuole medie di Seriate ha fatto la scelta delle poesie di Montale, un altro le ha trascritte, in
molti (una ventina) le hanno illustrate,una ragazza ha ideato la copertina e,un'altra l'ha realizzata.
Sfoglio la scrittura dell'amanuense 1967 è filiforme, chiara; alcune tavole sono a colori vivaci (Matisse,
Picasso vengono alla mente), altre sono a tratteggio, a macchie nere che giocano col bianco della carta e tutte
sono protette da un foglio di carta velina.
« Quando te l'hanno portato? ». Montale si alza in piedi. Con quel suo modo di raccontare, a tagli netti, con
passaggi rapidi o con rallentamenti perché un particolare deve incastrarsi in un altro!
particolare, mi dice che un giorno - tre mesi fa - sono venuti tutti gli « artefici » del libro, una ventina di
ragazzi, con il preside della scuola. E si sono messi nel soggiorno riempiendolo con le loro persone, con le
loro parole. Dice: « Mi hanno fatto molte domande, volevano sapere tante cose». « Per esempio? ». « Se eri
qua le avresti sentite. Molte domande, di quelle che spesso i critici non si pongono mai ed é un peccato. Ma
loro... ».
Si interrompe. D'altronde Montale parla volentieri di se soltanto se può vivificare con punte autoironiche il
racconto. Un'altra volta scappa via. Ha preso dal tavolino una cartolina rosa, decifra una parola:
Auslandspostanweisung,
cioè « mandato postale internazionale».
Viene da Monaco, è la rivista Akzente che gli manda i diritti d'autore per una poesia tradotta.
«Guarda qua, sono settemila lire e rotti. Credi che si potranno riscuotere? Ma dove, ma come? Bisognerà
firmare, mostrare i documenti, controfirmare. Una volta, ero a Firenze, dovevo riscuotere un assegno
piccolissimo, un micro-assegno... » Il racconto continua avvolto nel dolce e tranquillo pessimismo
montaliano. A poco a poco m'accorgo che il pessimismo non è tanto racchiuso nel racconto, quanto nel modo
di costruirlo, di offrirlo con certe parole sfumate, di interromperlo con risatine, con uno sbattere di ciglia:
tutte cose che non mi provo a descrivere più a lungo.
Ma esse concorrono a formare il fascino di Montale: certe volte è proprio soltanto la mano, che si agita in un
certo modo, altre volte è soltanto uno sguardo.
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Testi di Eugenio Montale
III intervento
Dal Messaggero dell'11 dicembre 1975. Articolo di Costanzo Costantini
Stoccolma, 10 dicembre
Oggi, poco prima delle 18, Eugenio Montale ha ricevuto il Nobel dalle mani del giovane re Carlo Gustavo di Svezia.
E' il quinto scrittore italiano, in circa settant'anni, investito dell'alto riconoscimento internazionale, dopo Giosuè Carducci, Grazia
Deledda, Luigi Pirandello e Salvatore Quasimodo.(...) Coerente con se stesso e col carattere della sua opera l'ottantenne poeta italiano
ha accusato appena l'emozione che l'eccezionale occasione gli suscitava dentro.
La cerimonia ha avuto inizio alle 16,30, con la marcia del Principe di Danimarca di Jeremiah Clarke, nella sala delle conferenze della
Fiera di Stoccolma, che ha sede a sud della città, in due padiglioni rettangolari d'un arancione abbagliante.
Una immensa sala circolare, rivestita di tappeti azzurro mare e verde erba, splendente di bandiere e di fiori. Tutti i tremila posti
erano occupati. I signori in frac e le signore in lungo.
(...)
Dopo il discorso di benvenuto pronunciato dal prof. Sune Bergstrom ha avuto luogo la sfilata dinanzi al Re dei Nobel '75. Ogni
gruppo è stato salutato da un discorso e da un brano musicale.
(...)
Per Eugenio Montale ha parlato l'ottuagenario poeta Anders Osterling ed è stato eseguito un brano dal « Romeo e Giulietta» di Sergei
Prokofiev.
Pur fissando lo sguardo dinanzi a sé e come inseguendo pensieri segreti il poeta italiano non ha mancato di seguire attentamente
l'allocuzione che il collega svedese ha pronunciato in suo onore.
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Testi di Eugenio Montale
IV intervento
Anders Osterling ha esordito evocando il paesaggio costiero ligure e il musicale mormorio d'onde che confronta il destino del poeta
con l'aspra e bella maestosità del Mediterraneo, per passare subito ad indicare ciò che contrassegna, nel panorama della poesia
moderna, questo cantore scabro, amaro e ribelle.
Ha ricordato che, agli inizi della sua attività, Eugenio Montale si trovò di fronte all'atmosfera di oppressione ideologica imposta dal
fascismo, ma espresse decisamente la sua avversione entrando a far parte di quella élite di liberi scrittori che riuscì ad affermarsi
malgrado ogni difficoltà, sotto lo schermo dell'ermetismo.
Già da allora perseguendo ostinatamente la sua vocazione, egli si assicurò un posto centrale nella poesia italiana, pur in un'epoca
tragica per il suo Paese.
In seguito - ha proseguito Osterling - nei suoi momenti più prestigiosi - Montale pervenne con severa disciplina a un risultato
artistico raffinato a un tempo personale e oggettivo, nel quale ogni parola trova la sua collocazione come il dado di vetro in un
mosaico di colori. Anche nel ritratto di Dora Markus tradusse la realtà che faceva da sfondo al suo poetare in cinque parole: "distilla
veleno una fede feroce". Per la prospettiva carica di destino che evoca e per la struttura che la contraddistingue la sua poesia fa
pensare ad Eliot ed a The waste land, ma i due scrittori hanno seguito strade autonome e parallele.
L'attitudine di Eugenio Montale attraverso il mezzo secolo in cui ha operato, può essere definita come un pessimismo di fondo sulla
linea classica che muove da Leopardi. Ma questo pessimismo assume di rado un tono puramente sentimentale. Esso si esprime come
una coscienza razionale, profondamente stratificata, per la quale il poeta conserva il diritto critico di porre domande e di ribellarsi.
«Eugenio Montale - ha concluso l'oratore - non sarebbe quel poeta nato che è se non credesse nel profondo di se stesso che la poesia,
senza essere un mass medium è anche nel nostro tempo un potere silenzioso e nel silenzio può operare come una delle voci della
coscienza umana, sentita fievolmente certo ma insopprimibile e indispensabile ».
Soltanto alla fine, quando sono esplosi gli applausi, il poeta è parso scuotersi dal suo inalterabile ma umano distacco. Anche in questa
circostanza solenne, destinata a celebrare dinanzi al mondo i valori reali dell'ingegno umano e i fastigi della creazione artistica egli è
rimasto fedele a se stesso, incerto fra "la gratitudine e il furore"
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Testi di Eugenio Montale
V intervento
Discorso di Montale per la consegna del Premio Nobel per la letteratura
II premio Nobel è giunto al suo settantacinquesimo turno, se non sono male informato. E se molti sono gli scienziati e gli scrittori che
hanno meritato questo prestigioso riconoscimento, assai minore è il numero dei superstiti che vivono e lavorano ancora.
Alcuni di essi sono presenti qui e ad essi va il mio saluto e il mio augurio. Secondo opinioni assai diffuse, opera di aruspici non
sempre attendibili, in questo anno o negli anni che possono dirsi imminenti il mondo intero (o almeno quella parte del mondo che
può dirsi civilizzata) conoscerebbe una svolta storica di proporzioni colossali.
Non si tratta ovviamente di una svolta escatologica, della fine dell'uomo stesso, ma dell'avvento di una nuova armonia sociale di cui
esistono presentimenti solo nei vasti domini dell'Utopia. Alla scadenza dell'evento il premio Nobel sarà centenario e solo allora potrà
farsi un completo bilancio di quanto la Fondazione Nobel e il connesso Premio abbiano contribuito al formarsi di un nuovo sistema
di vita comunitaria, sia esso quello del Benessere o del Malessere universale, ma di tale portata da mettere fine, almeno per molti
secoli, alla multisecolare diatriba sul significato della vita.
Intendo riferirmi alla vita dell'uomo e non alla apparizione degli aminoacidi che risale a qualche miliardo d'anni, sostanze che hanno
reso possibili l'apparizione dell'uomo e forse già ne contenevano il progetto.
E in questo caso come è lungo il passo del deus absconditus!
Ma non intendo divagare e mi chiedo se è giustificata la convinzione che lo statuto del premio Nobel sottende; e cioè che le scienze,
non tutte sullo stesso piano, e le opere letterarie abbiano contribuito a diffondere o a difendere nuovi valori in senso ampio
«umanistici».
La risposta è certamente positiva. Sarebbe lungo l'elenco dei nomi di coloro che avendo dato qualcosa all'umanità hanno ottenuto
l'ambito riconoscimento del premio Nobel. Ma infinitamente più lungo e praticamente impossibile a identificarsi la legione, l'esercito
di coloro che lavorano per l'umanità in infiniti modi anche senza rendersene conto e che non aspirano mai ad alcun possibile premio
perché non hanno scritto opere, atti e comunicazioni accademiche e mai hanno pensato di «far gemere i torchi» come dice un diffuso
luogo comune.
Esiste certamente un esercito di anime pure, immacolate, e questo è l'ostacolo (certo insufficiente) al diffondersi di quello spirito
utilitario che in varie gamme si spinge fino alla corruzione, al delitto e ad ogni forma di violenza e di intolleranza.
Gli accademici di Stoccolma hanno detto più volte no all'intolleranza, al fanatismo crudele, e a quello spirito persecutorio che anima
spesso i forti contro i deboli, gli oppressori contro gli oppressi. Ciò riguarda particolarmente la scelta delle opere letterarie, opere che
talvolta possono essere micidiali, ma non mai come quella bomba atomica che è il frutto più maturo dell'eterno albero del male.
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Testi di Eugenio Montale
VI intervento
(...) ora per concludere debbo una risposta alla domanda che ha dato un titolo a questo breve discorso.
Nella attuale civiltà consumistica che vede affacciarsi alla storia nuove nazioni e nuovi linguaggi, nella civiltà dell'uomo robot, quale
può essere la sorte della poesia?
Le risposte potrebbero essere molte. La poesia è l'arte tecnicamente alla portata di tutti: basta un foglio di carta e una matita e il gioco
è fatto.
Solo in un secondo momento sorgono i problemi della stampa e della diffusione.
L'incendio della Biblioteca di Alessandria ha distrutto tre quarti della letteratura greca. Oggi nemmeno un incendio universale
potrebbe far sparire la torrenziale produzione poetica dei nostri giorni. Ma si tratta appunto di produzione, cioè di manufatti soggetti
alle leggi del gusto e della moda.
Che l'orto delle Muse possa essere devastato da grandi tempeste è, più che probabile, certo. Ma mi pare altrettanto certo che molta
carta stampata e molti libri di poesia debbano resistere al tempo.
Diversa è la questione se ci si riferisce alla reviviscenza spirituale di un vecchio testo poetico, il suo rifarsi attuale, il suo dischiudersi
a nuove interpretazioni. E infine resta sempre dubbioso in quali limiti e confini ci si muove parlando di poesia.
Molta poesia d'oggi si esprime in prosa. Molti versi d'oggi sono prosa e cattiva prosa. L'arte narrativa, il romanzo, da Murasaki a
Proust ha prodotto grandi opere di poesia.
E il teatro? Molte storie letterarie non se ne occupano nemmeno, sia pure estrapolando alcuni geni che formano un capitolo a parte.
Inoltre: come si spiega il fatto che l'antica poesia cinese resiste a tutte le traduzioni mentre la poesia europea è incatenata al suo
linguaggio originale? Forse il fenomeno si spiega col fatto che noi crediamo di leggere Po Chü-i e leggiamo invece il meraviglioso
contraffattore Arthur Waley?
Si potrebbero moltiplicare le domande con l'unico risultato che non solo la poesia, ma tutto il mondo dell'espressione artistica o
sedicente tale è entrato in una crisi che è strettamente legata alla condizione umana, al nostro esistere di esseri umani, alla nostra
certezza o illusione di crederci esseri privilegiati, i soli che si credono padroni della loro sorte e depositari di un destino che
nessun'altra creatura vivente può vantare.
Inutile dunque chiedersi quale sarà il destino delle arti.
E' come chiedersi se l'uomo di domani, di un domani magari lontanissimo, potrà risolvere le tragiche contraddizioni in cui si dibatte
fin dal primo giorno della Creazione (e se di un tale giorno, che può essere un'epoca sterminata, possa ancora parlarsi).
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