Le variabili nelle traduzioni: di nuovo after Babel? Prof. Dr. Eduardo

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Le variabili nelle traduzioni: di nuovo after Babel? Prof. Dr. Eduardo
Le variabili nelle traduzioni: di nuovo after Babel?
Prof. Dr. Eduardo Blasco Ferrer
Università di Cagliari - Itália
E-mail: [email protected]
Recebido em: 10/10/2013
Aceito em: 14/12/2013
Riassunto: Nell’ambito d’un orientamento tradizionale della ricerca sulle traduzioni s’è data massima
importanza alla correttezza formale e all’equivalenza semantica fra le lingue di partenza e di arrivo. In
questo modo, è stato implicitamente accettato il presupposto che i due sistemi posti a confronto
esibiscano lo stesso tipo di Architettura (E. Coseriu), vale a dire di variazione distribuzionale all’interno
della norma d’uso. Molta meno importanza è stata data, invece, a discrepanze promosse da una
dissimilarità di registri in grado di provocare esiti differenti di carattere connotativo. In questo
contributo sosteniamo la tesi che, preliminarmente ad ogni tipo di valutazione sull’accettabilità formale
o denotativa dei traducenti, dobbiamo procedere ad un’ispezione rigorosa della corrispondenza
esistente tra il registro selezionato dalla lingua di partenza e quello ritenuto idoneo da parte del
traduttore nella sua lingua di arrivo. Seguendo questa linea di pensiero, abbiamo voluto dimostrare
che diverse traduzioni di opere straniere in italiano hanno mancato l’obiettivo di rendere le
connotazioni che gli autori dei testi originali chiaramente intendevano esprimere a causa di una
erronea valutazione dei livelli di variazione dia-sistemica (livello diamesico: "parlato spontaneo,
comune" ; livello diafasico: "parlato giovanile" ; livello diastratico: "linguaggio della classe popolare non
urbana").
Parole chiave: Traduzione; Variazione; Registri.
Translation variables: again after Babel?
Abstract: Much traditional translation research has focused on formal correctness and semantic
equivalence between source language and target language, taking for granted that the two systems
being compared exhibit the same type of architecture (E. Coseriu) with respect to distributional
variation and norms of usage. Far less attention, however, has been paid to discrepancies in register,
which lead to different results in connotative value. In this paper we argue that prior to any
commitment to matching the formal or denotative acceptability, we must ascertain the overall
correspondence between the selected register of the source language and the end results of the
target language. Following this line of inquiry, we observed that some translations into Italian missed
relevant connotations clearly expressed in the source texts due to failure to adhere to the source text’s
diasystemic variation level (diamesic: 'spoken, colloquial language'; diaphasic: '(youth) slang';
diastratic: 'blue collar language').
Keywords: Translation; Variation; Register.
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1. Transferre: In principio fuit interpres
Tradurre non è soltanto um esercizio intellettivo che richiede un lungo e robusto
tirocinio, ma è, per sua natura intrinseca, un’arte: l’arte di comprendere
corretamente, nella dimensione umana e nei nostri rapporti comunicativi, i pensieri e
le estrinsecazioni altrui e di saperli riprodurre. Guardando all’indietro ci accorgiamo
che
la
disciplina
chiamata
Scienza
della
traduzione
(dal
ted.
Übersetzungswissenschaft, più tardi Traduttologia: SIEVER, 2002) sorge in quanto
necessità di trasmettere correttamente un messaggio verbale, ed ha una storia di
millenni, dai Greci a Cicerone e a Lutero, passando per gli Umanisti e collegandosi
coi pensieri della filosofia esistenziale e del linguaggio, kantiana e poskantiana, fino
all’Ermeneutica di Schleiermacher. Ripercorrendo a ritroso diversi momenti di questo
itinerario, ci rendiamo conto subito che sin dall’inizio transferre e tra(n)slatum, o il più
tardo (Gellio) transducere, recavano in sé tutte le coordinate del segno linguistico: il
capitolo 17 del Concilio di Tours dell’817, infatti, ci aiuta pacificamente a recuperarle
tutte nella
storia
della
trasmissione
del verbo
divino,
ponendo
l’accento
sull’equipollenza formale tra latino, nuove realtà protoromanze e antico alto tedesco:
«Et ut easdem omelias quisque aperte transferre studeat in rusticam romanam
linguam aut thiotiscam, quo facilius cuncti possint intellegere quae dicuntur»
(BRACCINI, 1998, p. 155). E molti secoli prima già San Gerolamo aveva precisato
che ciò che contava in un messaggio trasmesso era il senso, non la veste formale:
«in ecclesiasticis rebus non quaerentur verba, sed sensus» (BRACCINI, 1998, p.
141). Sappiamo bene ormai che proprio lui s’imbatté nell’oneroso compito di tradurre
e compendiare i testi sacri nella Vulgata, in una nuova veste formale che doveva
assegnare per tabulas un’essenza "non mutevole" – avrebbe detto Dante – alle
espressioni selezionate.
A chiusura di questa obbligata sintesi preliminare sul contenuto del nostro
oggetto di studio giova ricordare che Gianfranco Folena (1975), in un brillante lavoro
pionieristico non sempre opportunamente ricordato, fece notare che l’esigenza
naturale e primaria del traduttore è stata sempre quella di comprendere e
interpretare correttamente il testo da riprodurre: esigenza per la prima volta
suggellata con un assioma pregnante nientemeno che da uno dei massimi
rappresentanti dell’Umanesimo fiorentino, Leonardo Bruni nel De interpretatione
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recta (ca. 1420): In principio fuit interpres. Alla poliedrica figura professionale
dell’interpres, ossia dell’esegeta dei testi, rivolgo brevemente la mia attenzione in
avvio di discorso, per scansare ogni possibile dubbio sulla novità del mio approccio.
2. Interpreti plurimi
Possiamo fissare con l’Ermeneutica schleiermacheriana, nella prima metà
dell’Ottocento, l’avvio scientifico di svariate discipline che concorrono nel compito di
transferre, sollecitando però aspetti disomogenei nel processo confrontativo e
riproduttivo (BERMAN, 1995; KELLER, 1997; MOUNIN, 1965; PROFETI, 2007;
VEGLIANTE, 1996). Alle specificità grammaticali delle lingue poste a confronto,
specificità sempre più finemente indagate grazie allo slancio positivista tra altri dei
fratelli Schlegel o di Wilhelm von Humboldt, si associano valenze di natura via via
psicologica,
sociologica,
antropologica,
filosofica
e
infine
d’una
semiotica
totalizzante. E allo studio, variamente privilegiato da ciascuna di codeste discipline,
del significante o del significato, s’includerà anche, per lascito di Rudolf Meringer e
del suo orientamento chiamato Wörter und Sachen ("Parole e Cose"), l’indagine
confrontativa del denotatum o referente, coinvolgendo in questo modo i tre angoli del
triangolo semiotico.
Per limitarmi ora al campo che ovviamente più ci interessa, nella fattispecie
quello della traduzione linguistica tout court, è bene rammentare che un impulso
decisivo l’ha dato lo strutturalismo funzionalista di origine praghese, più tardi
capeggiato in Germania da Eugenio Coseriu e discepoli (ottima rassegna in
ALBRECHT,
1988).
L’indagine
strutturale
di
orientamento
funzionalista
ha
contemplato con massimo rigore e mediante una ricca tassonomia le plurime funzioni
e denotazioni del significante nella lingua di partenza e del traducente nella lingua di
arrivo, riducendo drasticamente quell’impressione di precarietà criticata da Georg
Steiner in After Babel (1972) e già anticipata, seppure da un’altra ottica, dal fortunato
volume di Mario Wandruszka Sprachen – vergleichbar und unvergleichlich (1969).
Lontani da valori squisitamente estetici d’estrazione bembesca o crociana, i nostri
studenti, grazie al lascito strutturalista, affrontano con mano sicura temi delicatissimi
della linguistica confrontativa, quali putacaso nella grammatica la resa dell’aspetto
verbale (russo я лисал/написал письмa ей ког дá мы жили в Ленингрáде – le
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scrissi/scrivevo lettere quando abitavo a Leningrado – ich schrieb/? ihr Briefe, als ich
in Leningrad wohnte – I wrote/? her some letters during my stay at Leningrad), o
nell’ambito del lessico l’effetto esiziale della polisemia e degli – come direbbe Klaus
Heger (1963) – arcisememi universali (lat. patruus/avunculus > oncle, zio, tio, Onkel,
ma sved. forbror/morbror; o basco anaia/neba e arroba/ahizpa contro it. fratello, bras.
germão [di fratello/di sorella] e sorella, germana [di fratello/di sorella]; o infine cinese
jiejie/mèimei
e gege/didi contro sorella o germana e fratello o germão
[grande/piccola-o]).
Più vicino a noi nel tempo e negli interessi che illustrerò nel punto seguente è
l’approdo nella traduttologia della Pragmatica, una branca dell’indagine linguistica e
stilistica divenuta autonoma (la Pragmalinguistik esiste anche in Germania come
Fach o materia d’insegnamento universitario): particelle del discorso (hedges),
segnali discorsivi (strategie di turn-taking, ripresa, chiusura), alterazioni dell’ordine
sequenziale con conseguente sottolineatura di costituenti, sono tutti fenomeni che
affiorano universalmente con peso non univoco in tutte le lingue del mondo, e che
spesso rappresentano i possibili vulnera d’una traduzione mancata. Un solo
esempio, commentato in modo scabro, ci illustrerà questa nuova dimensione e
fungerà nel contempo da anello di congiunzione con l’argomento che stricto sensu
vuole rappresentare il mio contributo in questa sede.
L’espressione della modalità costituisce certamente un universale cognitivo e
linguistico: connotare un’espressione col coinvolgimento emotivo del locutore o
assegnare varie sfumature di valutazione dell’actio da parte dell’agens fa parte dello
strumentario in dotazione ad ogni essere umano nelle svariate situazioni di
comunicazione quotidiana. Eppure, alcune lingue del mondo hanno codificato siffatti
valori pragmatici nelle rispettive strutture grammaticali, mentre altre devono ricorrere
a espedienti complessi d’intervento suppletivo, lessicale e sintattico. Così, in
tedesco, una ricchissima batteria di Abtönungspartikeln (aber, also, auch, bloss,
denn, doch, eben, eigentlich, einfach, halt, ja, etwa, nur, schon, vielleicht, wohl)
contribuisce, come si sa, a rendere difficilissime le traduzioni da codesta lingua, se
non si conoscono perfettamente le minime sfumature pragmatiche di ogni singola
particella modale. Diversi lavori confrontativi sul capolavoro e best-seller di Michael
Ende (1973), Momo, hanno messo in evidenza questa – vorrei chiamare,
collegandomi col punto iniziale del mio intervento – lacuna interpretativa e
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riproduttiva: nelle traduzioni al francese su 100 Abtönungspartikeln soltanto 65 sono
state tradotte, e in quelle che hanno come target lo spagnolo e l’italiano soltanto 30.
Fra i moltissimi casi di perdita non soltanto pragmatica ma pure co(n)testuale (ossia
di riferimento o ripresa anaforica a una presupposizione che precede nel testo),
posso qui emblematicamente ricordare i due casi seguenti (BLASCO; ORTU, 1988):
Meine Eltern lügen doch nicht ≠ I miei non dicono bugie (perdita di "consenso
privativo"); Du meinst also, dass du deine Freunde lieb hast ≠ Tu credi di voler bene
ai tuoi amici (perdita di "assunto condiviso").
È ora di passare all’oggetto precipuo dell´articolo.
3. Linguistica variazionale e traduzione: res novissima ex argumento vetustissimo
Nella panoramica che ho stilato dianzi sulle prospettive metodologiche e
disciplinari del tradurre mancava ancora un settore di ricerca, non per omissione
voluta o disattenzione, ma bensì per latitanza reale: l’indagine sulle variabili della
norma d’uso. Eppure, per restringere il mio discorso in un primo momento all’italiano,
la discussione sulla natura e l’andamento della norma d’uso con riguardo al sistema
della lingua ha radici ben consolidate in Italia e ha coinvolto di recente una legione di
studiosi, anche in interventi assai vivaci ma sempre proficui per il giovamento della
questione (SABATINI, 1985; CASTELLANI, 1991; TESTA, 1997). L’argomento
incandescente sul tappeto riguarda espressamente quelle fratture non orizzontali
(ossia diatopiche) che fra gli anni ’60 e ’90 del secolo scorso furono via via
individuate, studiate e catalogate all’interno della mutata consuetudo della Norma (in
senso coseriuiano) e in contrapposizione alla rigida griglia di opposizioni del Sistema
(la Langue saussuriana). La nuova Varietätenlinguistik, di conio e derivazione
germanica, ingloberà in uno schema interpretativo nuovo e omnicomprensivo le tre
variabili individuate: diamesica (parlato/scritto), diafasica (registri alti/bassi) e
diastratica (marche socioculturali alte/basse). È giocoforza fornire ora una minima
informazione su ciascuna variabile, prima di procedere oltre.
Nella diamesia (il termine è di Alberto Mioni, 1983), ma un’elaborazione
concettuale e applicativa definitiva è stata portata a termine da Peter Koch e Wulf
Oesterreicher (1980, edizione riveduta 2011) l’opposizione principale risiede nel
differenziato status che alcune strutture hanno nel parlato e nello scritto. Non si tratta
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ovviamente di riesaminare la ben nota contrapposizione storica d’estrazione
bembesca e di risoluzione manzoniana fra una lingua italiana che – come ben disse
il Foscolo – «fu sempre scritta e non mai parlata» (Pupo, 1962, p. 123), bensì di
catalogare quegli elementi grammaticali e lessicali che assegnano un testo a una
produzione spontanea e orale piuttosto che pianificata e scritta. Il noto caso di ci ho,
ci hai, ci ha (pronunciato [čò, čài, ča]; alla tv ho sentito persino ciavuto!),
l’interrogativo esclusivo cosa? per che cosa?, la diatesi media (mi bevo una birra), le
dislocazioni di vario tipo con anteposizione/posposizione di tema (il caffè, lo prendo
la mattina/lo prendo la mattina, il caffè), la focalizzazione del rema (il caffè prendo la
mattina, non il latte), le frasi scisse (non è che hai una monettina?), le frasi foderate
(sudava sempre, sudava), la concordanza ad sensum (sulla sedia c’era tazza e
piatto sporchi), l’uso promiscuo di segnali discorsivi (senti un po’, insomma, appunto,
nevvero?) rappresentano tutti i tratti più comuni d’un parlato spontaneo, spigliato,
disinvolto, a volte anche trasandato. Come vedremo subito, questa variabile risulta
essere iperonima rispetto alle altre variabili in gioco, compresa quella diatopica (nel
senso che i tratti dialettali o d’italiano regionale connotano più spiccatamente la
produzione orale); paradigmatica di quest’abbinamento è la lingua del cinema
neorealista, da Antonioni, Visconti, De Sica fino al primo Blasetti ed epigoni.
La diafasia (il termine è di Coseriu: Wüest, 2009, p. 148) coinvolge la
competenza del singolo parlante in rapporto alla tastiera di strutture che dipendono
dai contesti sociali e relazionali: è diafasicamente basso un testo informale verso
interlocutori noti e con cui s’instaura un rapporto colloquiale, familiare. La norma
d’uso contravviene questa volta alle rigide opposizioni funzionali del sistema, ma
rimane accettabile proprio in virtù della consuetudine, o come direbbe il Manzoni,
dell’Usus (col maiuscolo), «quell’Uso che è detto l’Arbitro, il Maestro, il Padrone, fino
il Tiranno delle lingue, la Lingua stessa!» (MANZONI, 1870, p. 310: lettera al
Bonghi). Testimoniano di questa tendenza: il sempre più largo uso di stridenti
troncamenti (trancuo per tranquillo, rinco per rincoglionito), del pronome obliquo in
funzione di soggetto (io e te; e te, non vieni?), di gli per loro (vennero insieme e gli
dissi di andarsene), il che omnibus (il tizio che gli ho dato un euro; la ragazza che
suo padre fa il poliziotto), l’indicativo pro congiuntivo in certe strutture sintattiche (gli
chiesi se sapeva l’ora; voglio che vieni anche te), la negazione demotica (mica ho
soldi io!; oggi nienti giornali!), e un lessico giovanile, perlopiù metaforico e frizzante,
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non refrattario a salaci espressioni (incazzato, scazzato, cazzeggiare, cazziare,
cazzotto, cazzata, non sono cazzi tuoi, sfigato, che figo!, me ne sbatto!, mi ha
mollato, è un ciospo…). Gli studi sulla lingua dei giovani (BULOT, 2004; LAVINIO;
SOBRERO, 1991; VOGHERA, 1992; ZIMMERMANN, 1990), in particolare, hanno
consentito di enucleare una vasta gamma di strutture grammaticali e lessicali che
appartengono a questa variabile, e che sono ovviamente anche tendenzialmente
proprie d’un discorso orale, sebbene il sermo familiaris o humilis possa trovare
facilmente presa nei testi scritti del passato e del presente che imitano una tale
configurazione diafasica (vedi il teatro di Dario Fo e la sua ars eloquendi, ad es. in
L’anarchico, 1969, ora in edizione integrale, 1997).
Infine la diastratia (il termine è del linguista nordico Leiv Flydal, 1951), ossia le
scelte linguistiche che connotano un parlante in base alla sua collocazione
socioculturale. Come ben sappiamo, questa variabile è stata la prima ad essere
profondamente studiata negli anni ’60, dopo un acutissimo spunto di Pier Paolo
Pasolini (poi codificato nei capolavori Una vita violenta e Ragazzi di vita, una vera
sfida per i traduttori) e la fertile discussione sull’italiano popolare che ne conseguì - il
termine è di Tullio De Mauro (1963) ossia su «quell’italiano imperfettamente acquisito
da chi ha per madrelingua il dialetto» (CORTELAZZO, 1972, III, p. 11). Mentre fino al
secondo Dopoguerra non era difficile trovare elementi scritti di italiano popolare, col
rapido declino dell’analfabetismo la situazione è cambiata, ma apprenderemo fra
poco che non sono mancate sperimentazioni letterarie nostrane e forestiere fondate
sull’identificazione dei personaggi di bassa estrazione socioculturale attraverso il
linguaggio della sordidior plebs. I tratti diastratici marcati in basso sono ovviamente
antisistemici e antitetici alla norma, rientrano a pieno titolo esclusivamente nella
parole saussuriana, ossia fra i tratti idiolettali: donde la difficoltà della loro resa. Fra i
tratti diastratici marcati dell’italiano posso ricordare il condizionale nel periodo
ipotetico (*se avrei soldi, mi comprerei una moto), l’uso del ci pronominale in
funzione di dativo (*quando l’ho incontrato ci ho detto tutto) e del ci avverbiale
abbinato (*ogni popolo ha la sua cultura e nessun popolo ce n’ha meno d’un’altra),
l’indicativo nelle comparative (*sentì come se faceva freddo), il relativo senza clitico
di disambiguazione o con estensione di dove (*l’Atalanta è una squadra dove ogni
domenica deve lottare) e l’uso di gerghi fortemente connotati come volgari o settoriali
(del sesso, della malavita, della droga: mecca "ragazza", gabbio "gabbia", gaggio
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"volgare, smodato", spesare "svignarsela", sgobbo "lavoro", smicciare "guardare",
come la vacca? "come butta?"; tutti i lessemi in Una vita violenta, di Pier Paolo
Pasolini, uscito nel 1959 per la Garzanti di Milano; diverse strutture grammaticali in
BLASCO FERRER 1988, 2001 e 2002).
Appare lapalissiano osservare che la cosiddetta Architettura (Coseriu, 1976, p.
27) d’una lingua, ossia le fratture or ora discusse, riflettono in fin dei conti il portato
storico dell’evoluzione che ciascuna lingua vanta nel seno della propria comunità.
Per l’italiano possiamo dar ragione ad Arrigo Castellani (1991), quando in
contrapposizione al termine italiano dell’uso medio introdotto da Francesco Sabatini
(1985), insiste sul fatto che i tratti diafasici e diamesici recuperati da quest’ultimo per
il periodo più recente in realtà sono l’appannaggio dell’italiano normale, ossia
senz’aggettivi di tutti i tempi, unicamente relegati da una supernorma prescrittiva
scritta a un ambito orale asfittico e stigmatizzato. Questa specificità storico-linguistica
ha reso più difficile il compito di riscattare per l’italiano un’intera grammatica
tipologicamente marcata o un lessico chiaramente delimitabile rispetto ai canoni della
norma. Contrariamente a quanto avviene in altre lingue, dove la stabilità della norma
prescrittiva nei secoli ha generato nel tempo chiare valenze demarcative verso il
substandard. Qualche esempio, già pienamente pertinente riguardo allo scopo del
mio testo. Il français parlé (diamesia) dispone d’un lessico familiare ricchissimo, con
termini che afferiscono, senza ulteriori marcature, al sermo cotidianus: livre/bouquin,
ami/copain,
docteur/toubib,
dictionnaire/dicot,
manger/bouffer,
travail/boulot,
auto/bagnole, très/vachement, peur/frousse, trouille, gendarme/flic, argent/fric,
pognon, pleurer/chialer, enfant/gosse, gamin, dégoutant/déguelasse, type/mec,
bougre e così via. Difficile trovare una siffatta variazione in altre lingue (la conoscono
l’inglese e in parte lo svedese). Il tedesco colloquiale può innalzare a marca diafasica
bassa l’assenza dei pronomi-soggetto, obbligatori nella norma d’uso corrente, cosa
che non può fare certamente una lingua pro-drop come l’italiano o lo spagnolo (ma sì
una lingua non-pro-drop, come l’inglese e il francese): hab’ nicht! "non ho!", geh’
doch schon! "già ci vado!", verstehe nicht "non capisco". Infine, l’univerbazione tra il
verbo e le preposizioni o i clitici che lo circondano costituisce una strategia della
diastratia marcata dell’inglese, che non trova riscontro nelle altre lingue: kinda "kind
of", oughta "I ought to", wanna "I want to", gotta "I’ve got to".
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La sfida a cui mi riferivo all’inizio di questo articolo e che illustrerò ora con
qualche esempio letterario sta proprio qui: nel conoscere alla perfezione non soltanto
le strutture della lingua posta a confronto per la traduzione, ma anche la differente
configurazione che le variabili intrattengono con le strutture in ciascuna delle due
lingue. Per essere chiari: transferre una diastratia popolare con una diamesia, o una
diafasia giovanile con un linguaggio letterario non-marcato, non lederà certamente
l’interpretatio, ma sì la restitutio textus.
Di seguito offro alcune prove di traduzioni seguendo la falsariga di prima, con
lo scopo di verificare sulla base di pochi testi scelti l’attendibilità delle corrispondenze
connotative – e, si badi bene, non denotative! – riguardanti le tre variabili evidenziate:
la diamesia, la diafasia e la diastratia. Per ovvi motivi di tempo soffermerò la mia
attenzione in quest’intervento soltanto sulle traduzioni che hanno come lingua di
arrivo l’italiano.
4. La diamesia: traduci nella lingua che parli
Vorrei esporre l’esperienza d’una traduzione che rifletta questa prima variabile
valendomi dell’opera di Louis-Ferdinand Céline, Voyage au bout de la nuit (1932, rist.
2010), tradotto in italiano da Ernesto Ferrero nel 1933 (rist. 1997). Come si sa,
Céline, insieme con Raymond Queneau, dettero un forte impulso alla questione
relativa al néofrançais, proprio partendo da una stridente mimèsi del français parlé
(essenziale BLANK, 1991). Prima di esemplificare la bontà dell’operato condotto dal
traduttore italiano, è necessario affrontare due quesiti preliminari: lo stato della lingua
italiana nello stesso periodo e la configurazione del parlato nelle due lingue.
Per darci subito un’idea concreta di quale tipologia d’italiano fosse vitale a
quell’altezza cronologica basterà rileggere la sentenza epigrammatica di Bruno
Migliorini nella sua indagine su La lingua contemporanea e le condizioni del suo
svolgimento, stilata nel 1938: «Non si scrive come si parla, secondo l’antica norma,
ma si parla come si scriverebbe» (p. 276). Dunque, già una differenza di rilievo
distanzia le due lingue: il francese, come al solito nel suo sviluppo diacronico,
esibisce un forte ritmo d’accelerazione nello sfaldamento del sistema (tutelato da Le
bon usage) a favore della norma demotica e liberale d’un parlato incondizionato;
l’italiano, per converso, resiste tenacemente alle forze centrifughe dei sostrati
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dialettali rafforzando un linguaggio parlato omologato sulla norma unitaria
prescrittiva, più consona dunque agli scritti letterari e controllati.
Il secondo quesito andrà sempre posto in avvio di trattazione confrontativa fra
variabili di due lingue. Occorre immedesimarsi in entrambe le realtà ed enucleare
prioritariamente all’indagine sui testi un quadro sintetico che inglobi le specificità del
parlato spontaneo della lingua di partenza. In questo modo, emergeranno anche più
facilmente quelle idiosincrasie che rendono più faticoso il compito del traduttore, in
una direzione o nell’altra. Per comodità, ho riassunto in una tabella alcuni fenomeni
che contrassegnano il français parlé:
- troncamenti e accorciamenti vari (dicot, rigolo, types sensas);
- caduta di clitici soggetto (faut y aller);
- riorganizzazione dei morfemi verbali di persona (on y va "nous allons");
- negazione semplificata (j’suis pas);
- relativo sintagmatico (le mec que je lui ai donné le fric);
- uso generalizzato di ça esistenziale (les femmes, ça ne médite jamais);
- concordanza ad sensum (les hommes, c’est pas la peine de venir);
- neutralizzazione dell’inversione nelle interrogative dirette (c’est où que vous
êtiez?);
- dislocazioni (La Normandie, j’aime);
- lessico tipico del parlato.
Come si può facilmente vedere, alcune strategie del parlato in francese non
trovano una corrispondenza esatta in italiano parlato, mentre altre invece sì. Ciò che
sarà sempre necessario fare, nel primo caso, è replicare la valenza marcata della
lingua da cui si traduce con espedienti diversi ma ugualmente marcati nella lingua di
arrivo. Vediamo ora con qualche esempio pratico come s’è comportato il nostro
traduttore di Céline.
Le dislocazioni, con ordine lineare marcato e ripresa dell’oggetto tematico con
un clitico (ossia pronome atono), non mancano e la restituzione dell’originale è
corretta: Qu’est-ce qui lui est arrivé à la vieille? = Cos’è che le è capitato alla
vecchia? (e si noti anche lo schema con cleft sentence: cos’è che per cos’è); Tu le
connais tois ce biffin-là? = Lo conosci te quel birba lì? (con te, che rende più forte il
contrasto col modulo interrogativo semplificato dell’originale); Il les méprisait
Mastrodin les bicots = Li disprezzava M., i marocchini (con l’unica pecca di bicot, che
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è fortemente diastratico e peggiorativo e riguarda gli Arabi in generale: forse sporchi
Arabi?); Cependant, on y a été quand même au claque = Comunque ci siamo andati
lo stesso al flamba.
Anche nel caso più complesso del tema sospeso (nominativus pendens,
hanging topic, freies Thema) il nostro traduttore trova nell’impiego del pronome
tonico oggetto di 2 p. una soluzione ideale per rispondere alla marcatezza del
francese, che col suo sistema bipolare (toi pronome – tu clitico verbale,
“pseudodesinenza”) si discosta dal sistema prettamente italiano normativo: Toi, je
suis content de te revoir = Te, son contento di rivederti (con la marca di oggetto
diretto personale a, oramai diffusa nel parlato informale non soltanto a sud della
Toscana, la marcatezza diamesica sarebbe stata più evidente).
L’interrogazione senza inversione e col pronome y non ha corrispondenza in
italiano, ma l’espediente utilizzato nel caso seguente rende passibile il contesto di
essere analizzato come afferente a un parlato spontaneo: Robinso, les verres! C’esty moi qui vais les laver? = R. i bicchieri! Devo mica lavarli io per te?
Un chiaro segnale dell’uso parlato del francese, la sostituzione di nous con on,
viene purtroppo disatteso nella traduzione, pur esistendo nel parlato toscano e nei
testi d’impronta colloquiale una perfetta corrispondenza: (Nous fixions et nous
estimions ensemble nos chances…). On y va? ≠Andiamo? (per: Allora, si va noi?);
Ce Robinson comptait donc sur la nuit pour nous sortir de là? On allait au pas tous
les deux ≠ ’sto R. contava dunque sulla notte per farci uscire di là? Andavamo al
passo tutti e due (per: noi si andava…).
Chiudo col lessico. Anche qui, in più occasioni, il nostro traduttore ha “innalzato”
ingiustificatamente il livello espressivo o connotativo. Così, in: Et le samedi tout y
passait…Merde! que c’est tout du boulot! ≠ E il sabato ci capitavano tutti. Cribbio!
che lavoro che c’era! (perché no?: che sfacchinata, o quanto c’era da sgobbare!).
Anche nell’esempio visto poco prima con biffin, che indica la persona indigente che
raccoglie stracci per sopravvivere, l’impiego di birba ("stupidotto, scimunito") è fuori
luogo: bastava mettere straccione, pezzente, poveraccio, per ottenere un risultato
congruente e soprattutto legato alla diamesia marcata.
Quest’assaggio basta a evidenziare certe difficoltà insite nella diamesia,
quando si vuole rispecchiare nella traduzione lo stesso sapore di parlato disinvolto e
informale, anticonvenzionale. Forse Migliorini (1937) aveva ragione: nel complesso,
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l’italiano parlato, con tutta la sua ricchezza espressiva, era ancora di là da venire ai
tempi di Céline o Queneau.
5. La diafasia: traduci nella lingua dei ventenni
Per saggiare minimamente l’indice colloquiale familiare, un po’ trasandato d’una
traduzione che si basi su un testo scritto appositamente col ricorso a strategie di una
diafasia marcata in basso, mi servirò del notissimo testo inglese di Jerome Salinger,
The Catcher in the Rye (1945 a puntate, 1951 come libro, rist. 2010), tradotto in
italiano da Adriana Motti nel 1961 (rist. 2003). Come è ben saputo, la carica
esplosiva di Salinger risiede – oltreché nel caustico atteggiamento verso la società
altolocata americana – nell’uso puntuale d’uno slang giovanile, pienamente
rappresentato nella grammatica disadorna e anticonformista e nel lessico
selezionato, tutto intarsiato di espressioni proprie dei giovani scapestrati. Come
prima, vediamo di allestire un quadro sommario di caratteristiche dello slang
giovanile americano, verificando sulle grammatiche e i dizionari normativi volta per
volta le marche diasistemiche che ci soccorrono al momento di valutare la
collocazione diafasica di ogni struttura (per i registri bassi le marche sono indicate
come: coll., fam.):
- usura fonetica e riflesso grafico (get’em, wuddaya, see ye, how’sa);
- pronomi personali complemento in funzione di soggetto (it’s me, not him
"he");
- avverbi e quantificatori marcati (awfully sorry, pretty tough "rather, very", sort
of "tipo");
- semplificazione di complementatori (like I was "as if");
- eliminazione di ausiliari (you going out?; you better put something on "you
had better");
- coordinazione asindetica (What I was really hanging around for, I was trying
to feel some kind of a good-by);
- segmentazioni di ogni tipo (it has a very good accademic rating, Pency);
- lessico giovanile (phony slob, coroks, dough, sonuvabitch, to chew the rag,
cut out the crap).
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Chiediamoci adesso, di nuovo, qual era la situazione relativa alla lingua dei
giovani quando uscì la traduzione italiana. In verità, i lavori sul linguaggio giovanile,
sul piano sociolinguistico e linguistico, rappresentano un settore della ricerca
relativamente recente, sia in Germania che nel resto d'Europa. È soltanto verso la
seconda metà degli anni ’70 che in Francia, Germania e Italia si comincia a “studiare”
la tipologia della diafasia marcata, con particolare attenzione all’uso squisitamente
giovanile dei parlanti, studio che poi coinvolgerà altri paesi: Les parlers jeunes, die
Jugendsprache, La lingua dei giovani costituiscono tuttora un banco di prova della
tenuta d’una norma costantemente in fieri e che si dichiara poi un canale d’ingresso
aperto per l’accettazione generale di innovazioni nel seno della norma d’uso
(BULOT, 2004; BLASCO FERRER, 2001). Perciò, non possiamo che conferire un
plauso alla nota traduttrice Adriana Motti, scomparsa di recente, che nel lavoro
pionieristico di traduzione ha saputo gestire con equilibrio la maggior parte dei tratti
dello slang giovanile americano. Ne elenco alcuni, questa volta senza riportare la
fonte americana per esteso:
- uso di dimostrativi accorciati: ’sta porta;
- generalizzazione del ci attualizzante: che ragazza ci hai?;
- negazione marcata: mica come prima "non è mica…"; ma io niente;
- semplificazione di composti predicativi: probabile che ne abbiate sentito "è
probabile";
- dislocazioni e segmentazioni varie: sta a Hollywood, lui; è una scuola ad alto
livello, Pencey; io di cavalli non ne ho visto; ragazze non ce n’erano molte; io i denti
non me li lavo; a me non mi va; com’è che ha parlato di me?.
Per il lessico la Motti si mostra più sobria e più refrattaria ad accogliere voci e
stilemi ben diffusi nello slang giovanile. Sono traducenti marcati, fra altri: gingilli,
quattrini, sacchi, sputtanarsi, piantala lì!, l’hai stantuffata, chiudi il becco, fifa, zucca.
Manca il bersaglio, invece, in altre occasioni, in cui la scelta cade su termini nonmarcati, a differenza delle traduzioni in altre lingue dell’opera americana; così, ad es.
in: dough ≠ soldi (grana); I got the ax ≠ m’avevano liquidato (cacciato via, trombato);
pretty tough ≠ piuttosto secco (incazzato forte, schifosamente secco); sonuvabitch ≠
figlio di buona madre (Pasolini non avrebbe esitato a renderlo con: figlio de ‘na
mignotta); I’ll be up the creek ≠ sono in un guaio (sono con la merda fino al collo,
spacciato; cfr. fr. je vais avoir des emmerdes).
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Per capire, a livello di confronto, il décalage fra lo slang giovanile italiano e
quello francese, basta dare una scorsa veloce alla traduzione francese (uscita però
nel 1986!) per riscontrarvi un’altissima densità di eterosinonimi quasi-totali con
riguardo ai lessemi americani: saloperie, cornerie, dingue, truc, plouc, il m’a flanqué
dehors, fichue réputation, drôlement, vachement, fric, saquer, flic, centré, pigeonner,
déconner, copains.
Come ho anticipato prima, a differenza dell’italiano, l’inglese e il francese
dispongono d’un ricchissimo arsenale di forme proprie del parlato spontaneo, da cui
attinge agevolmente la lingua dei giovani, caricando spesso i termini con una valenza
diafasica specifica in base alla frequenza d’uso nei contesti relazionali.
6. La diastratia: traduci nel sermo plebeius
Chiudo questa rassegna con alcune discettazioni su una variabile che proprio in
Italia vanta la tradizione più solida e pioniera della ricerca: l’italiano popolare. La
sperimentazione pasoliniana in Una vita violenta può guidarci esemplarmente nella
ricerca d’un livello di estrazione socioculturale e linguistico equivalente a quello
registrato nel testo straniero da me selezionato: Of Mice and Men di John Steinbeck
(1937, rist. 2010; ma la scelta poteva cadere su alcuni personaggi del Pygmalion di
Bernard Shaw o sul romanziere popolare latinoamericano Salvador Salazar Arrué,
per fare qualche nome).
Il quadro delle specificità del testo americano rende espliciti i riferimenti che il
Premio Nobel americano sottese con la realtà socioculturale infima, ottimamente
rappresentata dai due protagonisti, George e Lennie:
- sbiadimenti grafico-fonetici e stridenti univerbazioni: on’y "only", tomorra,
whatta?, gi’me "give me";
- semplificazioni paradigmatiche: ain’t per I am not, you are not, he is not; you
was, they was; I says; they was so little;
- assenza di pronomi personali soggetto regolare: kicks us out;
- pronomi oggetto in funzione di soggetto (modalità più sfruttata che in
diafasia): Me and him travels together;
- articolo e dimostrativo demotici: them rabbits, them other guys;
- congruenze sgrammaticate: they was so little; the hell with what I says;
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- participi rifatti sul perfetto: you’re broke;
- trascategorizzazione dell’aggettivo in avverbio: I could get along so easy and
so nice;
- doppia negazione: I wasn’t doin’ nothing bad; I ain’t got nothin’;
- estensione indebita di like come subordinatore omnibus: look down there
across the river, like you can almost see the place; do no bad things like you done;
- argot e termini volgari.
La traduzione del capolavoro di Steinbeck uscì nel 1938 (rist. 2004),
precisamente a cura di Cesare Pavese. La datazione è già cruciale per valutare
ecletticamente l’operato del grande scrittore piemontese: egli s’imbatté in un testo
fortemente marcato come popolare con i soli due poli di riferimento a quel tempo
possibili: la lingua letteraria e i dialetti. Ma, come a ragione sottolinea Sergio Bozzola
(1991, p. 80) in un primo approccio interpretativo di Pavese e Vittorini traduttori:
«Pavese vinse la tentazione dialettale mantenendosi nell’ambito di una lingua i cui
componenti posson trovare riscontro in una ricerca neorealistica come nel richiamo
alla lingua dell’uso». In effetti, io credo personalmente che il sofferto tirocinio col
lavoro steinbeckiano abbia agevolato Pavese nell’individuazione d’un linguaggio
meno ancillare rispetto alla turgida lingua letteraria coeva, più consono a un parlato
poco sorvegliato. Eccone alcuni tratti costitutivi:
- uso generalizzato di lui deittico: Curley è come un mucchio di altri piccolini,
perché lui non è alto;
- dimostrativi accorciati: ‘sto fabro;
- gli per loro: io allora gli stringevo la testa e allora morivano;
- segmentazioni: i conigli pigliamoli di colori differenti; è il conducente che ci ha
fregati;
- lessico tipico del parlato: te le debbo suonare; l’avevi crepato; vorrei
schiaffarti in una gabbia; un sacco di gente; sei arrabbiato.
Un veloce confronto con la traduzione francese del libro (uscita nel 1955) rende
subito evidente lo sfasamento stilistico del testo italiano rispetto alla prosa indigente
e realistica dell’operato francese, con espedienti popolari e volgari quali i seguenti:
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- interrogative dirette con que interpolato: qué que tu veux?; pourquoi que tu
veux?; pourquoi qu’on n’va pas au ranch?; c’est-il que tu veux mon poing sur la
gueule?;
- uso esclusivo del quantificatore bougrement "molto": bougrement chaud; ça
vaudrait bougrement mieux;
- resa funzionale dell’usura fonetica: j’le sais, j’vois, j’crois, t’es piqué, tu
n’peux, t’en fous pas, n’vous frottez pas à lui, nous avons not’ terre, ils n’sont pas,
v’là;
- lessico d’infimo spessore sociale: dépenser son pèze; ce petit salaud se fera
amocher; Lennie déguerpit de la chambre; gonzesse "femme".
Nel complesso, la sperimentazione di Pavese ha avuto come risultato un chiaro
sfasamento di coordinate, con un massiccio travasamento di tratti diastratici nella
diamesia marcata. Un Pasolini, insomma, avrebbe prodotto un risultato molto
diverso, ma a me premeva sottolineare in questa sede soltanto il fatto che per
Pavese il sofferto lavoro di traduzione di Steinbeck servì per valorizzare quella
elasticità della lingua parlata italiana che egli avrebbe così mirabilmente compendiato
nel suo capolavoro Il compagno.
7. Tradurre nella lingua di plastica. Conclusioni
È
tempo
di
stilare
un
consuntivo
sull’argomento
qui
trattato.
La
Varietätenlinguistik di stampo tedesco ci ha insegnato che la stratificazione di ogni
lingua naturale è variegata e coinvolge variabili di vario tipo, incardinate nella norma
d’uso. Per l’italiano l’auspicio preconizzato da Dante, e più tardi applicato dal Bembo
e dall’Accademia della Crusca, d’una lingua monolitica, non mutevole nel tempo,
nello spazio e nella società, non è stato esaudito: l’etichetta più consona all’italiano
contemporaneo, dal secondo Dopoguerra fino ad oggi, è quella opportunamente
coniata da Ornella Castellani Pollidori (1995), di una lingua di plastica, ossia d’un
codice linguistico malleabile, dai mille risvolti.
Quali sono, in conclusione, le acquisizioni ricavabili dal mio contributo che
possono rendere proficui servigi ai traduttori? A mio avviso, la consapevolezza che
nell’oneroso compito di tradurre occorra anche valorizzare le variabili linguistiche
comporta due diverse prese di coscienza:
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(1) Da un lato, un impegno direi personale, di etica professionale, consistente
nello scrutare con particolare attenzione la densità variazionale dell’opera da
tradurre, soffermandosi dunque non soltanto sui denotati, ma anche sui connotati;
(2) dall’altro lato, un impegno direi strutturale, accademico, consistente nel
prendere atto che per poter affrontare le nuove frontiere della traduzione, qui
rappresentate dalle variabili della lingua, sia necessario un aggiornamento in un
campo paraletterario, quello della linguistica variazionale, che mercé l’avanzamento
della ricerca potrà offrire una guida sicura alle scelte di traducenti e stilemi.
L’auspicio che io vorrei formulare in chiusura di discorso è di un intenso
connubio tra nuove figure professionali, dimodoché i linguisti e i traduttori possano
andare a braccetto (de braços dados) e conseguire insieme risultati impeccabili nel
loro operato comune.
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