L`Africa - Infoteca.it

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L`Africa - Infoteca.it
Archivio Slow Food
inchiesta
L’Africa
ci prova gusto
Enrico Casale
S
olitamente si pensa all’Africa
come a un continente affamato,
percorso da ricorrenti carestie
frutto di guerre tribali e di mancanza di
conoscenze in campo agricolo. È inutile
negarlo, questa visione è in parte vera
e, purtroppo, tragicamente attuale (pensiamo al Darfur, alle carenze alimentari
in Etiopia). Eppure in questi ultimi anni
sta emergendo una nuova Africa che,
attraverso una gestione attenta delle
risorse naturali, ha saputo valorizzare
antiche tradizioni agricole ed è oggi in
grado di offrire prodotti alimentari d’eccellenza. Dal miele etiope alla bottarga
mauritana, dalla vaniglia malgascia ai
datteri egiziani, dal vino nordafricano
ai formaggi capoverdiani: il continente
34 Popoli aprile 2009
Carestie e agricoltura arretrata: in Europa si
guarda all’Africa come a un continente affamato.
In realtà, esistono tradizioni gastronomiche antiche
e produzioni di eccellenza. Alcune organizzazioni
italiane le stanno riscoprendo. A vantaggio
delle comunità locali e dei palati nostrani
ha dimostrato di essere in grado di valorizzare la propria cultura agricola e gastronomica e, in alcuni casi, di riuscire a
imporsi sui nostri mercati e nelle nostre
cucine facendo conoscere nel Nord del
mondo sa­pori e gusti sconosciuti. «Noi
lavoriamo da sei anni in Africa - spiega
Serena Milano, segretario generale della
Fondazione Slow Food per la biodiversità -, non ci permettiamo di dare giudizi sui prodotti alimentari e sui mercati
africani. La nostra sensazione, però, è
che ci siano prodotti interessanti tanto
per il mercato locale quanto per quello
internazionale. Per esempio, la vaniglia
del Madagascar ha tutte le potenzialità
per affermarsi in Europa. Ancora, la
bottarga della Mauritania è un prodotto
ottimo che veniva svenduto sulle spiagge locali. Penso anche alle due qualità
di miele sulle quali stiamo lavorando
in Etiopia: sono entrambe straordinarie
e ogni volta che organizziamo una
degustazione comparata con altri mieli,
quelli etiopi vincono senza problemi».
Slow Food, l’associazione italiana che
identità - differenza
Chicchi di caffè della foresta
di Harenna in Etiopia. Sotto,
miele dell’altipiano etiope.
LOCALE È BELLO
Slow Food ha 300 presidi in tutto il
mondo: 180 sono in Italia. Gli altri
120 sono sparsi perlopiù in Europa e
America Latina. In Africa sono solo
dieci ma, nel 2009, dovrebbero raddoppiare. L’associazione offre ai produttori
un’assistenza in vari settori: gestionale,
aiutandoli a collaborare tra loro rimanendo indipendenti o costituendosi in
forme associative; tecnico, fornendo le
conoscenze necessarie per migliorare
l’alimento rispettando la tradizione; organizzativo, aiutandoli a sopperire alle
carenze di attrezzature; nel marketing,
lavorando per far conoscere i prodotti.
«Ci poniamo due obiettivi - ricorda la
Milano -: che i coltivatori possano vendere a un prezzo equo e remunerativo;
che la produzione rispetti le tradizioni
locali e sia di qualità. Noi non miriamo
a imporre a livello internazionale i prodotti dei nostri presidi, ma lavoriamo affinché queste produzioni siano radicate
a livello locale».
Come si può lanciare un prodotto di eccellenza in Africa dove l’emergenza alimentare è una piaga diffusa? La ricetta
di Slow Food è semplice: scommettere
sulla ristorazione locale. «Ai clienti di
alberghi o ristoranti africani vengono
offerti burro del Belgio, marmellata spagnola e latte tedesco. È difficile trovare
prodotti locali perché questi non sono
forniti con regolarità oppure non offrono garanzie di qualità. Sul territorio
ci sono invece risorse interessanti che
vanno valorizzate. Noi quindi cerchiamo di convincere questi ristoratori, che
poi sono le “vetrine” dei Paesi perché
qui arrivano turisti e uomini d’affari,
che devono essere orgogliosi di offrire
prodotti locali». Un esempio può essere
lo zafferano di Taliouine, in Marocco.
La pianta coltivata in questa regione ha
un’alta concentrazione di safranal, la
molecola responsabile del suo aroma.
Attualmente i produttori lo conservano
in vasi di terracotta o vetro e lo consegnano a una cooperativa di commercializzazione o lo vendono direttamente
nel suq: in ogni caso a prezzi bassi. La
polvere di zafferano potrebbe invece essere venduta ai ristoratori locali o addirittura esportata garantendo una giusta
remunerazione alla popolazione.
Peter Namiamya, kenyano, esperto in
scienze gastronomiche, aggiunge: «Molti prodotti africani hanno buone potenzialità. Certo in alcuni casi è necessario
intervenire per migliorarne la qualità,
ma credo che non si siano problemi per
trovare loro sbocchi sui mercati locali.
Proprio in Kenya ci sono alcune piccole
produzioni che potrebbero avere un
buon futuro. Recentemente, per esempio, abbiamo scoperto l’esistenza di uno
yogurt conservato in una particolare
zucca, un sale insaporito con erbe locali,
una varietà locale di zucca, allevamenti
di polli di una specie autoctona». Ma
esiste un mercato locale per i prodotti
alimentari d’eccellenza? «Fare paragoni
con l’Europa è fuorviante. Qui da noi
la domanda non è ancora molto forte,
però esiste. Penso a ristoranti, alberghi, negozi di alimentari, ma anche
ad alcuni tipi di supermercati. Con un
buon lavoro di marketing si possono
catturare quei clienti che adesso si rivolgono ai prodotti esteri». La crescita
della domanda andrebbe ovviamente
a vantaggio delle comunità locali. «Se
questi prodotti riescono a conquistarsi
una fetta di mercato i primi a trarne
giovamento sono i contadini che migliorano la loro condizione economica
e non sono costretti a emigrare. Ma ne
traggono vantaggio anche l’ambiente,
perché si tratta di colture biologiche, e
la cultura locale, perché si salvaguardano produzioni che la globalizzazione
tenderebbe a far sparire».
Anche per questo motivo, Slow Food ha
creato in Africa una rete di cuochi che
utilizzano i prodotti locali. Per preservare queste culture, l’associazione sta lavorando anche sul
piano formativo. Come si può
In Senegal e Co- lanciare
sta d’Avorio sono un prodotto
stati avviati pro- alimentare
getti nelle scuole di eccellenza
per far conoscere nell’Africa
ai più piccoli le affamata?
risorse alimentari Slow Food
dei loro Paesi. In ha deciso
Mali, Slow Food di scommettere
è stato pubblicato sulla ristorazione
un libro di ricette
tradizionali.
Slow Food non è l’unica né la prima organizzazione che lavora per migliorare
la qualità dei prodotti e le condizioni
degli agricoltori del Sud del mondo. Da
alcuni anni in questo settore è attivo
anche il movimento del commercio
equo e solidale, una realtà che in Italia nel 2005 (ultimi dati disponibili)
ha fatturato 103 milioni di euro. «Da
sempre - osserva Ombretta Sparacino,
responsabile comunicazione della cooperativa Chico Mendes (socio della
Archivio Slow Food
promuove la cultura del cibo, è impegnata nella tutela dei prodotti alimentari
africani. «I nostri presidi - osserva la
Milano - salvaguardano gli alimenti e
sostengono le comunità di piccoli produttori. Il percorso con il quale creiamo
un presidio dipende molto dal contesto: non esiste una procedura standard.
In linea di massima, si parte da un
prodotto locale tradizionale fortemente
identitario, cioè con un legame molto
stretto con il territorio e la sua storia. A
quel punto si individua una comunità
di produttori e si lavora con loro per
capire che cosa serve per tutelare quel
prodotto».
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inchiesta
Arnie a Wukro, nella regione etiope
del Tigrai. Sotto, un’enologa controlla
il vino in una cantina sudafricana.
stiano entrando in maniera sempre più
diffusa nelle cucine di grandi chef, che li
propongono nei menù proprio in considerazione della qualità, del gusto e della
resa». È il caso del progetto di collaborazione fra Botteghe dell’Altro Mondo
e ristoranti altoatesini. «Il fair cooking
- spiega Stefan Unterkircher ristoratore,
a Caldaro (Bz) - offre la possibilità di
utilizzare ingredienti di alto livello provenienti dal commercio equo e solidale
per le nostre pietanze. Essendo controllati e selezionati, questi prodotti rendono possibile la composizione di piatti
NON SOLO CIBO
I
n Africa, la produzione vitivinicola sta crescendo quantitativamente e qualitativamente.
«La vite - spiega Gianni Fabrizio, esperto di enologia dell’Università del gusto di Pollenzo
(Cn) - non è originaria dell’Africa. In alcune regioni africane, però, si è ambientata bene e dà
frutti ottimi». In Sudafrica, per esempio, la vite e la cultura del vino furono portate nel XVII
secolo dagli ugonotti che fuggivano dalle persecuzioni in Francia e furono ben accolte dai
boeri, i coloni di origine olandese. Si è così sviluppata un’industria vitivinicola molto evoluta.
Nel 2006, ultimi dati disponibili, ha prodotto 8,4 milioni di ettolitri, diventando il 9° produttore
mondiale. «Ci sono vini sudafricani di grande pregio e che primeggiano sui mercati di tutto il
mondo - commenta Fabrizio -, frutto anche di vitigni di pregio come il pinotage (incrocio fra
pinot nero e cinsault), il cabernet sauvignon, il merlot e il syrah». Peraltro, di fronte a molti
vini sudafricani, alcuni enologi storcono il naso. In Sudafrica, infatti, come in Australia, Cile
e Nuova Zelanda il vino è spesso un prodotto industriale che ha sapori e colori immutati nel
tempo perché determinati da «elaborazioni» effettuate in cantina dagli enologi. «In questo aggiunge Fabrizio - si distingue dall’Europa, dove invece il vino è il prodotto di uno specifico
territorio e delle sue caratteristiche: terreno, clima, ecc.»
Meno conosciuta, l’industria vitivinicola nordafricana. «Anche nel Maghreb - osserva Fabrizio - la
viticoltura è stata portata dai francesi. Con l’indipendenza, i governi locali hanno scoraggiato la
produzione per motivi religiosi». Da una quindicina di anni, però, Marocco e Tunisia (e, in parte, Algeria) hanno capito che il vino può essere fonte di ricchezza, soprattutto come prodotto
di esportazione. Così sono ripresi gli investimenti nell’industria. «Originariamente - conclude
Fabrizio - i francesi utilizzavano i vini maghrebini di alta gradazione e qualità non eccellente per
“tagliare” i loro vini. Oggi invece i produttori nordafricani si sono raffinati. Hanno piantato vitigni
di pregio (cabernet, syrah, ecc.) e i loro vini sono migliorati. Certo, non sono ancora ai livelli
europei. Ma c’è da dire che nel nostro settore i tempi sono lunghi e in Nord Africa si è ripreso a
produrre da pochi anni». Secondo le statistiche dell’Organizzazione internazionale della vite e del
vino, in Algeria nel 1991 si producevano 518mila ettolitri di vino, nel 2005 (ultimo dato disponibile) 770mila; in Marocco: nel 1991 322mila ettolitri, nel 2005 375mila; in Tunisia: nel 1991
297mila ettolitri, nel 2005 331mila; in Egitto: nel 1991 24mila ettolitri, nel 2005 42mila.
ancora più creativi. Come per esempio
il risotto basmati con té verde dell’India,
la pasta di Quinoa (cereale andino) con
tonno fresco e cardamomo».
QUALITÀ CRESCENTE
La qualità dei prodotti è il frutto di
un’attenzione delle centrali del commercio equo e solidale nei confronti
delle materie prime. Ctm Altromercato,
per esempio, effettua su alcuni prodotti
analisi e valutazioni di qualità presso
laboratori indipendenti.
«Il commercio equo e solidale - contiAFP
centrale di importazione Ctm Altromercato) -, tutelare i diritti dei produttori e
garantire loro la serenità di poter pianificare il proprio sviluppo economico
significa anche “accompagnarli” in un
percorso di crescita e graduale investimento nell’ottimizzazione della qualità.
Il commercio equo rappresenta, quindi, uno strumento
Se questi
attraverso il quale
prodotti
i produttori rieriescono
scono ad arginaa conquistare
re gli squilibri del
commercio interil mercato,
nazionale trovani primi a trarne
do, ad esempio,
giovamento
un mercato per le
sono i contadini,
colture tradizioche migliorano
la loro condizione nali di qualità, a
cui il circuito deleconomica
le multinazionali
non dà spazio. La qualità dei prodotti
Ctm Altromercato provenienti dal Sud
del mondo è ormai riconosciuta da numerose associazioni, ma soprattutto dai
consumatori critici, in continuo aumento. Numerose iniziative in atto evidenziano come gli ingredienti equosolidali
Archivio Slow Food
I datteri della grande oasi
di Siwa nella zona desertica
dell’Egitto nord-occidentale.
nua la Sparacino - sostiene i piccoli produttori del Sud del mondo e un sistema
agricolo globale fatto di contadini proprietari delle loro terre, dotati dei mezzi
per coltivarle in armonia con l’ambiente
e liberi di valorizzare la biodiversità delle specie locali. Proteggere la biodiversità significa proteggere l’ambiente e le
sue risorse, restituire ai contadini il loro
ruolo tradizionale e investire sulle loro
competenze e il loro sapere, mettendoli
in grado di coltivare, accanto a ciò che
si vende sul mercato, anche ciò che serve alla loro alimentazione. In definitiva,
garantisce il diritto al cibo». Un esempio
di prodotto bio-diverso, salvaguardato
grazie al commercio equo, è il rooibos:
una pianta dalle cui foglie si trae un
infuso che è la bevanda nazionale sudafricana. Oggi il rooibos è una delle
poche bevande indigene diventate fonte
di reddito.
Questi prodotti possono favorire lo sviluppo di una cucina etnica in Italia,
magari al servizio delle comunità di immigrati? Su questo punto non tutti sono
d’accordo. «Il miele etiope o la vaniglia
malgascia sono ottimi - spiega Vittorio
Castellani, giornalista ed esperto gastronomo - e, proprio perché sono ottimi,
sono utilizzati dagli chef nei loro piatti,
che però sono piatti della nostra cultura.
Non viene quindi dato un contributo alla crescita della cucina etnica nel nostro
Paese». La cucina africana, soprattutto
quella sub-sahariana, fa riferimento a
prodotti in parte diversi rispetto a quelli
della cucina europea. Talvolta si scontra
addirittura con i nostri tabù alimentari:
un europeo difficilmente mangerebbe
insetti o un serpente. «Eppure per gli
immigrati - conclude Castellani - questi
cibi rappresentano i sapori di casa. E la
cucina etnica non può prescindere dalla
tradizione dei Paesi di origine. Se veramente si volesse aiutare la crescita della
cucina etnica, si dovrebbe fare una battaglia per abbattere i dazi che gravano
sull’importazione di moltissimi prodotti
alimentari africani e che per gli africani
rappresentano l’eccellenza. In questo
modo si valorizzerebbe la loro cultura e
si sosterrebbero le loro economie».
Quando mangiare
è un rito
Anna Casella Paltrinieri
P
er i cacciatori Lele del Kasai (Repubblica Democratica del Congo) il cibo è questione importante
e richiede attenzione. Non tutti gli
animali possono essere mangiati:
non gli «animali bambini», i cuccioli,
non i predatori, che rammentano la
prepotenza del guerriero, non quelli
che si cibano di cadaveri e di sporcizia. E se qualcuno potrà alimentarsi
con animali proibiti, ciò avverrà solo
dopo un rituale che li renda immuni
dal pericolo. Le donne Lele, se hanno
superato la pubertà o se sono gravide, eviteranno di cibarsi delle galline,
delle loro uova, del latte, degli uccelli, di qualche specie di scimmia. A
Brazzaville, in un ristorante di lusso,
può però capitare di vedersi servire il
pipistrello, cibo permesso ai bambini
Lele, ma rifiutato dagli adulti.
Grammatica culinaria e sintassi del
cibo diversamente coniugate nella
foresta e nella cucina del ristorante
moderno: perché, come scrive l’antropologa inglese Mary Douglas, che
ai Lele ha dedicato la sua ricerca
etnografica (Antropologia e simbolismo. Religione, cibo e denaro nella
vita sociale, Il Mulino, Bologna 1985,
pp. 384, euro 23,76), il modo con il
quale si tratta il cibo mostra la superiorità dell’uomo sugli animali. Questi si nutrono, ma non discriminano.
L’uomo, «animale culinario» discrimina e separa alimenti commestibili e
non, concessi e vietati.
Seguiamo allora
la linea simboli- In Africa cucinare
ca che in Africa è affare di donne:
collega cibi, re- da sola o con
gioni e culture. le co-mogli, la
Senz’altro sepa- donna si procura
riamo il cibo mo- la legna, le
derato, tranquillo pietre, i vegetali,
del Mediterraneo la manioca,
dalla confusi­o­­­­­ne il mais e il miglio
di sapori, spe­­zie, per il fufù
alimenti dell’Afri- e le spezie
ca e distinguiamo
le regioni gastronomiche del Sahara,
della foresta tropicale, delle isole. Ma
non è nella geografia che si rintracciano le frontiere. Queste, simboliche
e radicate nell’esperienza, riguardano
piuttosto l’uomo e la donna, il sacro e
il profano, il lecito e l’illecito, il sociale
e l’individuale.
CULTURE DIVERSE
Cucinare in Africa è un affare di
donne: da sola o con le co-mogli, la
aprile 2009 Popoli 37
Archivio Slow Food
inchiesta
Lo zafferano di Taliouine in Marocco.
A destra, le spezie dei dogon in Mali
e il caprino stagionato di Capo Verde.
donna africana si procura la legna,
le pietre, i bastoncini e il cotone per
accendere il fuoco, i vegetali, la manioca, il mais e il miglio per il fufù
(una specie di polenta), le spezie. Una
questione di genere, solo di recente
infranta dai ristoratori dei locali di
lusso nelle capiAgricoltori,
tali che esibiscoallevatori,
no chef maschi.
raccoglitori
Perciò è esercizio
di seduzione: cudelle foreste
cinare è, per le
riforniscono
donne africane,
la cucina
rendersi appedei poveri
tibili agli occhi
con piatti
degli uomini. È
selvatici
anche un’attività
che sconcertano
difficile, perché
l’europeo
mette a contatto
con una «sporcizia» ben più pericolosa di quella visibile.
È questa l’altra frontiera simbolica
del cibo in Africa: la divisione tra ciò
che è buono per la vita, e ciò che non
lo è. Poiché l’arte del cucinare espone
chi prepara il cibo e chi lo consuma all’azione di forze nefaste, essa
sarà realizzata lontano da sguardi estranei, preservando in maniera
quasi religiosa lo spazio nel quale
la massaia si muove e preservando la trasmissione delle conoscenze
culinarie, protette dal segreto, quasi
si trattasse di formule magiche. Se-
guiamo ancora Mary Douglas nella
sua ricognizione delle abitudini Lele.
I tabù alimentari, che impediscono ai
Lele di cibarsi di determinati animali
o vegetali, classificano le cose del
mondo con categorie che definiscono
l’ordine e il disordine, il pulito e lo
sporco. Regolano anche il comportamento in relazione al cibo: la donna
gravida o la puerpera, ad esempio,
I GESUITI
In Zambia produzioni biologiche
I
l centro Kasisi per la formazione agricola (Kasisi Agricultural
Training Centre, Katc) è un’iniziativa dei gesuiti della Provincia
Zambia-Malawi. Situato a 30 km da Lusaka, il Katc ha avviato la
sua attività nel 1974 offrendo un corso residenziale di due anni alle
famiglie di agricoltori. Dal 1996, la sua forza risiede nei programmi
di formazione sull’agricoltura biologica indirizzati ai piccoli coltivatori. Il centro forma ogni anno 1.200 agricoltori su varie tematiche: industria casearia, apicoltura, agroforestazione, produzione vegetale
biologica, produzione di cotone biologico, lotta biologica, gestione
agricola, gestione dell’economia agro-alimentare, la produzione di
alberi da frutto e caffè, allevamento di piccoli animali, produzione
di semi. Il percorso formativo si basa sui principi dell’agricoltura
biologica, sull’utilizzo delle tecniche di coltivazione tradizionale e sui
principi dell’agricoltura sostenibile e autosufficiente.
Oltre alla formazione, il Katc offre approfondimenti con programmi
radiofonici ad hoc su Radio Yatsani, l’emittente dell’arcidiocesi di
Lusaka. Nella stagione delle piogge, poi, nelle fattorie e nelle scuole elementari del distretto si tengono lezioni dimostrative in terreni
appositamente attrezzati. Katc ha inoltre pubblicato sei manuali su
agricoltura sostenibile, produzione vegetale biologica, produzione
di cotone biologico, costruzione di piccole dighe in terra, legumi
coltivati in modo biologico e agroforestazione.
Il centro si occupa anche di ricerca nel campo dell’agricoltura
biologica e dell’utilizzo delle tecniche di coltivazione tradizionale
degli indigeni. Le ricerche svolte in passato si sono concentrate sul
controllo del proliferare dei piccoli bruchi del grano attraverso l’uso
di foglie in polvere, sui trattamenti a base di gusci di chiocciola
schiacciati per la cura della congiuntivite del bestiame, e sui rimedi
contro i vermi da bestiame a base di foglie di albero. Attualmente,
sono in corso ricerche sul miglioramento del suolo grazie alle rotazioni dei raccolti. Uno studio molto interessante è stato fatto sulla
coltivazione a impollinazione aperta (cioè non ottenuta in serra sotto il controllo di esperti) di una varietà di mais. Il risultato è stato un
raccolto di 10 tonnellate per ettaro. Questo dato è sorprendente se
si considera che il raccolto medio in queste zone è di una tonnellata
per ettaro. In questo modo, le tesi secondo le quali è necessario
utilizzare semi ibridi e fare uso di fertilizzanti sono state del tutto
confutate. Gli agricoltori che hanno coltivato seguendo il metodo
biologico ora hanno raggiunto la sicurezza alimentare e hanno
investito di più di quanto facessero quando producevano usando
fertilizzanti e concimi chimici. Produrre in modo biologico significa
che le risorse dei coltivatori poveri sono in grado di migliorare il
rendimento e la qualità del suolo spendendo meno e aumentando
i raccolti. Il risultato è che le famiglie hanno più cibo da mangiare
e spendono meno di quando utilizzavano i fertilizzanti. Il fatto di
avere un reddito superiore consente ai coltivatori di mandare i figli
a scuola, pagare le loro cure, migliorare le condizioni delle loro abitazioni e investire capitali sulle loro fattorie. Trecento coltivatori del
distretto di Chongwe che producono mais, arachidi, fagioli, hanno
ricevuto la certificazione biologica Ecocert. Anche gli ortaggi vengono coltivati in modo biologico e commercializzati a Lusaka.
Quattro anni fa è stata fondata un’organizzazione che coordina e
guida le 10 associazioni di agricoltori biologici del distretto di Chongwe. Il primo compito di questa organizzazione consiste nell’offrire
servizi aggiuntivi ai villaggi e nel trovare nuovi mercati per i prodotti
agricoli biologici. Attualmente un volontario di Lusaka sta concentrando le ricerche su mercati locali di ortaggi.
Paul Desmarais S.I.
Archivio Slow Food
Archivio Slow Food
in quanto più esposte al negativo, poi olio di arachide, grani di palma
si allontaneranno dalla cucina per per condimento e foglie di mfunbwa
un tempo e restringeranno ulterior- utilizzate per avvolgere cibi in un
mente il novero delle specie di cui si cartoccio, il liboke, da collocare sulla
possono cibare.
brace. È un mercato che rende visibiLa foresta africana, scrive Tebaldi le la fitta ragnatela con cui sono col(Cibo d’Africa. Percorsi alimentari legati agricoltori, allevatori nomadi,
dal Sahara a Soweto, Slow Food, raccoglitori delle foreste. Una rete
Bra 2006, pp. 120, euro 13,50), è che serve soprattutto la cucina dei
«nutriente». I pigmei, specializzati poveri, cucina della foresta e della
nella raccolta di miele e
brousse, piatti selvatici
nella caccia nel sottobo- La frontiera
che sconcertano l’eurosco, offrono cibo all’eco- simbolica
peo. Perché l’altra fronnomia domestica dei vil- del cibo
tiera dell’alimentazione,
laggi e delle periferie. nella cultura
in Africa, è data dalla
Crudo, cotto e putrido africana
radicale distanza tra il
(il «triangolo culinario» è la divisione
cibo che viene da fuori,
già descritto da Lévi- tra ciò
che sa di frigorifero e
Strauss) si ritrovano nei che è buono
di nave, di potere che
prodotti esposti nei mer- per la vita
perpetua la dipendenza e
cati delle capitali afri- e ciò che
la fame, e il cibo democane, che sia il Mercado non lo è
cratico della foresta e del
Total di Brazzaville o il
campo, che basta coltiRoque Santeiro di Luanvare, raccogliere e trada, e in quelli a lume di
sportare al mercato più
candela (il «mercato della notte») dei vicino a casa dove la donna proverà
villaggi rurali. Si troveranno insetti a venderlo. Quello di cui ci si ciba,
da essiccare con aglio, peperoncino, separa il domestico dallo straniero. I
alloro, pasta di arachide, olio di pal- Lele, per tornare a loro, considerano
ma e sale, facoceri, antilopi, gazzel- i vicini Cokwe come mangiatori di
le, tartarughe, termiti, polli, agnelli, topi, gli Nkutshu mangiatori di serpesci-gatto e serpenti, ostriche e penti. Gli europei hanno disprezzato
riso, larve di insetti, bruchi, grilli e per secoli i «cannibali» africani: fronfunghi, spezie ed erbe aromatiche, tiere tra l’umano e il non-umano, la
cocco e banane, ananas e tamarindo, cultura e la barbarie.
vino di palma e distillati, birra di E infine, è difficile pensare alla conmiglio e burro di karité da cuocere vivialità africana con le categorie
a lungo perché risulti più leggero. E che ci portiamo dal nostro mondo:
il cibo è piuttosto un rito e lo si
affronta con la consapevolezza di
star realizzando un atto cerimoniale.
Nelle foreste della Costa d’Avorio
non è raro osservare la libagione di
vino di palma per gli antenati prima
di un avvenimento importante. E se
il cibo è offerto all’ospite, si baderà
che avvenga con tutta la solennità
del caso.
ECCELLENZE D’AFRICA