Azione - Settimanale di Migros Ticino Trump, rush finale in solitudine
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Azione - Settimanale di Migros Ticino Trump, rush finale in solitudine
Trump, rush finale in solitudine Casa Bianca 8 novembre: A pochi giorni dal voto il tycoon newyorkese risale nei sondaggi ma il gran finale lo vede correre da solo dopo che il Partito repubblicano gli ha praticamente voltato le spalle negandogli soldi e endorsement / 31.10.2016 di Federico Rampini Abbiamo diritto al suspense dell’ultima ora. Trump risale nei sondaggi! Così non ci annoieremo la notte dell’8/9 novembre. A otto giorni dal voto, la «forchetta» del divario tra lui e lei si sta improvvisamente restringendo. È un’inversione di tendenza rispetto alle molte settimane in cui il vantaggio di Hillary Clinton era aumentato. Ma gli esperti precisano: Hillary continua ad essere forte, è lui che recupera tra i repubblicani indecisi, fenomeno inevitabile in una nazione profondamente «bipartitica», dove l’elettore dii destra preferisce votarlo turandosi il naso, piuttosto che favorire una Clinton. In ogni caso se questo recupero di The Donald dovesse prolungarsi nell’ultima settimana, avremo un risultato «risicato», non quella vittoria travolgente della candidata democratica che sembrava delinearsi in precedenza. Una caratteristica sconcertante, fra le tante anomalie di questa campagna, è che il «gran finale» di Trump avviene in una situazione di solitudine. I grandi «tesorieri» della destra gli voltano le spalle: molti capitalisti di provata fede repubblicana non vogliono più avere niente a che fare con The Donald. Ormai sembra quasi che Trump stia facendo campagna elettorale contro il partito repubblicano. L’ultimo segnale di gelo: il candidato alla Casa Bianca ha annunciato che in questi ultimi 13 giorni di campagna non terrà più alcun evento pubblico per la raccolta fondi in favore del partito repubblicano. Gli eventi in questione fanno leva sulla notorietà del candidato alla presidenza, per finanziare le campagne di politici molto meno noti, nei collegi di senatori e deputati in bilico. Oltre alla Casa Bianca, infatti, l’8 novembre sono in palio un terzo dei seggi del Senato e la totalità della Camera. Dunque è un altro segnale che Trump «corre da solo». Prima ancora che lui facesse questo sgarbo al partito che lo candida, è il partito stesso ad avergli voltato le spalle, o almeno gran parte dell’establishment. La grande solitudine di Trump era nelle cose, da quando lui si presentò come l’outsider anti-establishment alle primarie. Ma il fuggi fuggi si è scatenato dopo gli ultimi scandali, in particolare le accuse di molestie sessuali da parte di una dozzina di donne. Sono ormai 160 i leader del Grand Old Party che gli negano il loro endorsement. Alcuni invitano apertamente a votare per Hillary, come i due ex segretari di Stato di Bush, Colin Powell e Condoleezza Rica. L’autorità istituzionale più elevata del partito, il presidente della Camera Paul Ryan, ha modificato tutta la sua strategia elettorale. Ryan non fa più menzione di Trump, si comporta come se non esistesse, e punta invece a salvare il salvabile nelle elezioni legislative, usando un argomento che dà praticamente per scontata la disfatta di Trump: votate per i nostri deputati e senatori, perché il Congresso possa bilanciare lo strapotere di Hillary. Lo stesso argomento si ritrova in Arizona negli slogan di un illustre senatore repubblicano, John McCain: «Se Hillary viene eletta, l’Arizona avrà bisogno di essere rappresentata da un senatore che la controlli». Nessun riferimento alla possibilità che sia Trump a conquistare la Casa Bianca. Sul fronte dei grandi finanziatori, alcuni dei più munifici sostenitori della destra hanno esplicitamente chiesto ai vertici del partito di prendere le distanze da Trump. Il «New York Times» ha raccolto la dichiarazione di David Humphreys, un uomo d’affari del Missouri che aveva donato 2,5 milioni al partito repubblicano nella campagna del 2012 (quando il candidato era Mitt Romney). «Arriva un momento – ha detto Humphreys – in cui devi guardarti allo specchio e ammettere che non puoi giustificare Trump davanti ai tuoi figli, soprattutto alle tue figlie». Un altro finanziatore citato dal «New York Times» è il finanziere newyorchese Bruce Kovner, che nell’ultima campagna donò 2,7 milioni ai repubblicani: «Trump è un pericoloso demagogo del tutto inadeguato rispetto alle responsabilità del presidente degli Stati Uniti». Ancora più significativo è l’atteggiamento dei fratelli Koch, la dinastia petrolchimica, reazionari e negazionisti sul cambiamento climatico, che sono da molti anni la più ricca «cassaforte» di risorse per la destra. Nei confronti di Trump i fratelli Koch sono passati dalla diffidenza iniziale all’ostilità. Hanno deciso di fare, sul fronte delle donazioni elettorali, la stessa scelta di Ryan: finanziano solo campagne di senatori e deputati repubblicani, non danno nulla a Trump. L’unico magnate di rilievo che è rimasto a fianco di Trump è Sheldon Adelson, suo collega di business. Adelson è il più grande proprietario di casinò a Las Vegas, la città del Nevada dove anche Trump ne possiede uno. Adelson inoltre è il proprietario del quotidiano locale, il «Las Vegas Review-Journal»: uno dei pochi in tutta l’America ad aver dato l’endorsement a Trump. Ad un partito che gli volta le spalle, e che per bocca di molti suoi notabili sconfessa apertamente la teoria delle «elezioni truccate», Trump risponde con disprezzo: nei suoi comizi rivolge sempre più spesso degli attacchi ai suoi «presunti» compagni di partito. E si concentra sullo zoccolo duro del suo consenso, a cominciare dalla classe operaia bianca. L’Ohio è una sorta di «ground zero» del malessere operaio americano, un disagio così profondo da spingere nelle braccia di un affarista miliardario i colletti blu disperati. Le statistiche sono ingannevoli, o troppo generiche. I dati ufficiali dicono che l’economia dell’Ohio va bene, il tasso di disoccupazione è leggermente sotto la media nazionale: 4,8% della forza lavoro. Ma cosa c’è dentro quella definizione di forza lavoro? Nelle regioni depresse, dalla città siderurgica di Lorraine all’altopiano degli Appalachi, è un vasto cimitero di fabbriche. Perfino Cleveland è una metropoli a due facce. Ha un policlinico universitario di eccellenza mondiale, dove venne a curarsi Silvio Berlusconi. Ma nel quartiere dove ho alloggiato all’epoca della convention repubblicana la sera scattava un coprifuoco, nell’unico supermercato il cassiere era protetto in una gabbiola antiproiettile, fuori si aggiravano dei relitti umani, il mio vicino di casa teneva al guinzaglio un rottweiler molto nervoso. «Il Nord-est dell’Ohio è stato decimato negli ultimi vent’anni – dice Tom Coyne, sindaco di Brook Park – l’emorragia di lavoro industriale non si ferma». La conseguenza più grave è il dilagare delle tossicodipendenze. Poche settimane fa l’America è stata scossa da una foto apparsa su Facebook. Scattata nell’Ohio dagli infermieri di un’ambulanza che avevano risposto a una chiamata d’emergenza, la foto ritrae due adulti bianchi svenuti per un’overdose, dentro la loro auto. Sui sedili posteriori appare un bambino piccolo, che osserva la scena. Quella foto è diventata il simbolo di una tragedia: il dilagare degli oppiacei tra gli operai e i senza lavoro. Angela Sausser, direttrice della Public Children Services Association dell’Ohio, affronta quotidianamente le conseguenze sui bambini: «In tutto l’Ohio 14.000 minorenni sono stati sottratti ai genitori tossicodipendenti e collocati dai servizi sociali presso famiglie di accoglienza». Il fenomeno investe tutti gli Stati Uniti. Per la prima volta da molti anni la longevità media degli americani si sta accorciando, la causa sono suicidi e droghe. Molto più dell’eroina, della cocaina e delle metanfetamine, la droga che uccide l’operaio bianco di mezza età è un analgesico a base di oppiacei, come l’OxyContin, acquistato in farmacia con la ricetta medica oppure comprato sul mercato nero. In tutti gli Stati Uniti le prescrizioni di questi «oppioidi» sono cresciute da 112 milioni nel 1992 a 250 milioni l’anno scorso. In un anno 165.000 americani muoiono per overdose di questi farmaci. L’Ohio è l’epicentro di questa ecatombe: nell’ultimo quindicennio le morti per overdose di analgesici «oppioidi» sono quadruplicate. Se la classe operaia va in paradiso, qui ha scelto il modo più orribile per arrivarci in fretta. Dietro la droga c’è un degrado socio-economico che le medie nazionali non riescono a descrivere. Sette anni di ripresa sono una realtà, ma in questo periodo chi continua a stare peggio sono i lavoratori senza una laurea: il loro potere d’acquisto è franato del 19% nell’ultimo quindicennio. Un quinto dei maschi adulti in tutta l’America sono senza lavoro, alcuni hanno smesso di cercarlo, altri sono ostracizzati perché hanno precedenti penali, o discriminati per problemi di salute, malattie mentali. Il laboratorio dell’Ohio concentra queste patologie. Il vice di Trump, Mike Pence, parlando ad un raduno di evangelici (Faith and Freedom Coalition), raccoglie applausi quando dice: «Trump ha dato voce ai più frustrati tra voi». È una narrazione che Hillary respinge sdegnata, parlando anche lei a Cleveland: «The Donald dice di stare con i lavoratori, ma i suoi cantieri descrivono una realtà opposta: importa acciaio dalla Cina, non dagli altiforni di qui». Forse alla fine riuscirà a prevalere lei, ma al prezzo di una campagna molto negativa. Suona più autentico l’ex-colletto blu Joe Biden, in un comizio in un’altra città dell’Ohio, Columbus. Le sue parole sono l’ammissione implicita di un fallimento: «La middle class (termine che qui include gli operai, ndr) non è un numero. È un sistema di valori. Significa poter comprare casa col frutto del tuo lavoro. Poter mandare i figli all’università. Poter mandare i bambini a giocare ai giardini e sapere che torneranno sani e salvi. Sapere che quando sarai vecchio i tuoi figli non dovranno mantenerti. Questa è la mia definizione di middle class. Ed è stata annichilita». Anche se dovessero prevalere nell’Ohio e riconquistare la Casa Bianca, i democratici saranno perseguitati a lungo da questo bilancio amaro.