Dall`incontro fra sentimento e ragione nasce il

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Dall`incontro fra sentimento e ragione nasce il
X EDIZIONE
COLLOQUI FIORENTINI
ALESSANDRO MANZONI “SENTIR, RIPRESE, E
MEDITAR”
Firenze, 24 – 26 febbraio 2011
PRIMO CLASSIFICATO – SEZIONE BIENNIO
Titolo:
Dall’incontro fra sentimento e ragione nasce il perdono
di: Roberta Fedele, Anna Morelli, Elena Pullini, David Rametta, Chiara Turri
della IIB igea dell’I.T.C. “C. Matteucci” di Forlì (FC)
Docente Referente: Fabbri Giovanna
Introduzione
Il tema del rapporto fra sentimento e ragione, proposto dal titolo del convegno, ci è
sembrato strettamente legato a quello del perdono che, a nostro parere, è il motivo
centrale de “I Promessi Sposi”, e che attraversa orizzontalmente tutta l'opera.
Abbiamo tentato di esaminare in quale modo questa dinamica (cioè la relazione fra
ragione e sentimento come origine della capacità di perdonare e di accettare di
essere perdonati) si sviluppi nell’itinerario dei personaggi principali del romanzo.
Fin dai primi capitoli Renzo non riesce a perdonare don Rodrigo per il sopruso
operato nei suoi confronti e, mosso dall'istinto, medita progetti di vendetta. É questo il
perno intorno al quale si sviluppa tutto il complesso percorso personale del
protagonista, che non potrebbe raggiungere la maturità senza imparare a perdonare.
Non può però raggiungere questa meta da solo, gli occorre l'aiuto di chi è più avanti
di lui nel cammino, in particolare di Lucia e di fra Cristoforo. A questo proposito ci
sono sembrati significativi due passi: uno nel capitolo VIII e uno nel capitolo XXXV.
Padre Cristoforo nel capitolo VIII si rivolge a entrambi gli sposi invitandoli a pregare
per il loro persecutore (“Noi saremmo indegni della vostra misericordia, se non ve la
chiedessimo di cuore per lui; ne ha tanto bisogno! Noi, nella nostra tribolazione,
abbiamo questo conforto, che siamo nella strada dove ci avete messi Voi: possiamo
offrirvi i nostri guai, e diventano un guadagno. Ma lui!... è vostro nemico. Oh
disgraziato! compete con Voi! Abbiate pietà di lui, o Signore, toccategli il cuore,
rendetelo vostro amico, concedetegli tutti i beni che noi possiamo desiderare a noi
stessi.”), mentre nel capitolo XXXV rivolgendosi a Renzo nel lazzaretto, con parole
anche molto dure, lo aiuta a perdonare definitivamente don Rodrigo morente
(“Guarda, sciagurato!... Guarda chi è Colui che castiga! Colui che giudica, e non è
giudicato! Colui che flagella e che perdona! Ma tu, verme della terra, tu vuoi fare
giustizia! Tu lo sai, tu, quale sia la giustizia! Va sciagurato, vattene!”). L'insegnamento
che il frate impartisce all'inizio del percorso si attua nell'esperienza di Renzo alla fine
del romanzo ed è l'eredità che il frate lascia ai promessi sposi in punto di morte,
un'eredità simbolicamente rappresentata dal “pane del perdono” che Cristoforo ha
conservato per tutta la vita.
Analogamente abbiamo sviluppato l’analisi del percorso di Lucia, di padre Cristoforo
e dell’innominato.
Dalla lettura e analisi del testo, con particolare riferimento proprio a quei capitoli che
trattano la tematica citata, siamo passati al confronto con l'esperienza personale e
abbiamo riscontrato che in ciascuno di noi il conflitto tra ragione e sentimento è
sempre presente, ma soprattutto abbiamo scoperto che la capacità di dare e ricevere
il perdono non è umana, così come testimoniano i personaggi del romanzo. Ci siamo
di volta in volta immedesimati in essi, ci siamo sentiti in sintonia con loro, con i loro
tentativi, i loro limiti, le loro attese, le loro rabbie, le loro speranze, la loro capacità di
affidarsi.
Lucia
Lucia è la protagonista femminile del romanzo, promessa sposa di Renzo. Viene
descritta da Manzoni in maniera efficace. L'elemento caratterizzante è la “modestia
un po’ guerriera” tipica delle contadine.
Lucia possiede una bellezza non appariscente, arricchita dal trasparire di una
serenità interiore che le orna il viso. È una ragazza umile, del popolo, ma le sue
origini non le impediscono di manifestare una grande nobiltà d’animo e una notevole
fermezza. È il personaggio in assoluto più semplice, ma animato da un forte
sentimento religioso. In lei è presente lo spontaneo rifiuto della violenza. Ella è molto
determinata, ma non desidera tanto imporre i propri ideali, quanto piuttosto affidarsi
alla provvidenza, alla preghiera e alla speranza.
Renzo rappresenta l’istinto, mentre Lucia la ragione, e questo si rileva in molte parti
del romanzo. Ad esempio quando Renzo ed Agnese propongono la “disperata”
soluzione del matrimonio clandestino, Lucia è contraria, poiché ritiene più opportuno
affidarsi a padre Cristoforo, un riferimento certo. Renzo, irritato, dà in escandescenze
e Lucia cerca di calmarlo e di farlo ragionare. In seguito il giovane mostra una
reazione violenta, immaginando di realizzare progetti di morte nei confronti di don
Rodrigo e urlando “ la farò io, la giustizia, io!”. Tanto che Lucia si trova costretta a
malincuore di accettare il progetto del matrimonio clandestino.
Un altro passo molto importante è quello in cui padre Cristoforo, nell'ottavo capitolo,
propone di pregare per don Rodrigo. In quella circostanza i due giovani si trovano a
compiere un gesto apparentemente irragionevole, ma che è l'unica strada per
arrivare al perdono, una dimensione profonda, difficile da conquistare. Mentre Lucia
era riuscita appena a convincere Renzo a non uccidere don Rodrigo, il padre
Cristoforo dimostra che in realtà il “potente” è il più debole, perché è lontano da Dio.
Lodovico, questo il nome di battesimo del padre Cristoforo, propone il perdono,
perché ha vissuto da protagonista un'esperienza che gli ha marcato la vita. Dopo
aver ucciso in duello un nobile si reca dalla famiglia del signore, che esige vendetta.
Lodovico con il suo atteggiamento umile riesce a farsi perdonare dal fratello
dell’ucciso e riceve il “pane del perdono”. E' grazie all'esperienza di aver ricevuto il
perdono inaspettatamente, che egli può invitare i due promessi sposi a perdonare il
loro nemico, non in base a un ragionamento intellettuale.
L'esperienza più drammatica che vive Lucia, però, è sicuramente il rapimento da
parte dei bravi dell’innominato che con l’inganno riescono ad avvicinarla e a spingerla
con la forza sulla carrozza. Durante il viaggio l’infelice urla e cerca in ogni modo di
fuggire, ma inutilmente, perché ogni volta viene bloccata da uno degli sgherri, il
Nibbio.
Sconcertata quando scopre che l'accaduto non è frutto di un errore, ma che i rapitori
vogliono proprio lei, capisce che non potrà convincerli a liberarla con argomenti
dettati solo dalla logica umana. Non basta evocare in loro il pensiero di quello che
potrebbero provare la loro madre, la loro figlia, la loro sorella se si trovassero nelle
sue condizioni. E' a questo punto che Lucia tenta di spostare la loro attenzione su un
piano non solo umano con le parole: “Quello che m'avete fatto voi, ve lo perdono di
cuore; e pregherò Dio per voi.” La ragazza indifesa, con la testa bassa e con gli occhi
pieni di lacrime dopo aver implorato la libertà, perdona di cuore i malvagi, ricordando
loro che la vita è breve e che un giorno dovranno implorare la misericordia di Dio.
Vedendo poi che le sue suppliche non smuovono l’animo del Nibbio, Lucia con fede
inizia a pregare Dio.
Arrivata a destinazione, dopo un lungo e angoscioso viaggio, la giovane è portata al
castello dove viene affidata ad una vecchia serva, incaricata di farle coraggio. Le
preghiere di Lucia non commuovono la donna, ma evocano alla mente di lei il ricordo
di una religiosità ormai dimenticata. Intanto il Nibbio confida al suo padrone di aver
provato compassione nei confronti di Lucia. Turbato e stupito, l’innominato decide
dunque di vedere la fanciulla, che lo implora di liberarla, dicendogli “Dio perdona
tante cose, per un’opera di misericordia”.
Con questa frase, che è senza dubbio la chiave di tutto il romanzo, Lucia mostra tutta
la sua fermezza morale, la certezza, la convinzione e l’autorevolezza di chi è nel
giusto, ricordando indirettamente all’innominato tutte le malefatte compiute con quella
autorità che viene dal credere con certezza in ciò che si dice. La frase viene proferita
con un accento di verità che fa riflettere il signorotto, il quale incomincia a
intravvedere anche per se stesso una possibilità di cambiamento. La differenza fra
l’autorità di Lucia e l’autoritarismo dell’innominato non risiede nella forza, ma nel fatto
che la ragazza dice cose in cui crede fermamente e che sostiene pur trovandosi in
una situazione di inferiorità, certa di essere nel giusto.
Le parole della giovane fanno riflettere il potente, che non riesce a liberarsi
dell’immagine della ragazza, e cerca rifugio nella propria stanza.“Il tormentato
esaminator di se stesso, per rendersi ragione d’un sol fatto, si trovò ingolfato
nell’esame di tutta la sua vita”, così esamina tutte le malefatte compiute.
Nell’innominato prevale l’istinto quando pensa di volersi uccidere, per cancellare una
vita di soprusi inflitti ad innocenti. Ma la ragione lo spinge verso una nuova ed
interessante direzione: “Se quell’altra vita di cui m’hanno parlato quand’ero ragazzo,
di cui parlano sempre, come se fosse cosa sicura; se quella vita non c’è, se è
un’invenzione de' preti; che fo io? Perché morire? Cos’importa quello che ho fatto?
Cos’importa? È una pazzia la mia.” Ma poi ben più drammatico e terribile: “…e se c’è
questa vita?”.
Questi dubbi crescono fino alla disperazione, dalla quale non avrebbe potuto fuggire
neanche con la morte. Ancora una volta il suo pensiero torna così alla ragazza, alla
quale avrebbe potuto far del bene, liberandola e chiedendole perdono.
Durante la notte Lucia rimane raggomitolata a terra, rifiuta il cibo, si augura la morte,
e arriva anch'essa quasi alla disperazione. Però sarà in grado di trovare una via di
uscita: usando la ragione riflette, prega e nella fede trova il coraggio di reagire,
facendo voto di castità, rinunciando al “suo” Renzo e affidandosi alla Vergine Maria.
Mediante il voto la ragazza riesce a trovare la serenità interiore, cacciare i pensieri
angosciosi che l'avevano assalita e finalmente addormentarsi in pace. In quella notte
Lucia deve cercare di perdonare qualcosa più grave di una minaccia, perché sta
vivendo un pericolo reale.
Il giorno seguente l’innominato, profondamente turbato e segnato dall'incontro con
Lucia e dalla sua testimonianza, si reca dal cardinal Federigo (in visita al paese), che
gli viene incontro a braccia aperte manifestandogli affetto, inducendolo così a rivelare
i suoi turbamenti. Il potente racconta di Lucia, del perdono divino e della volontà di
cambiamento. Dopo la conversione, l’innominato si reca al proprio castello con
l’intento di liberare la fanciulla, accompagnato dalla moglie del sarto e da don
Abbondio, quest'ultimo costretto da Federigo ad unirsi alla spedizione dal momento
che si trovava lì spinto da Perpetua, per incontrare il cardinale in visita pastorale.
Appena entra nella stanza della ragazza, il signore del castello rimane impietrito
vedendo il male che le ha causato, e subito la rincuora e la libera.
Lucia viene ospitata inizialmente nella casa del sarto dove, in un momento di grande
turbamento, seguendo l’istinto si pente del voto, ma attraverso la ragione questo
viene successivamente confermato. In questo luogo, incarica Agnese di inviare una
lettera a Renzo, in cui gli viene chiesto di mettersi il cuore in pace, ma quando dopo
tante difficoltà giunge la lettera, il ragazzo non riesce a tollerare tale richiesta.
Nel frattempo Lucia viene ospitata dalla moglie di don Ferrante, una nobildonna
milanese, che viene descritta dal Manzoni come una donna ottusa, bigotta e curiosa.
L'intento di Lucia era quello di
dimenticare
Renzo, ma donna Prassede rende
questo tentativo impossibile. Lei vuole far dimenticare a Lucia il suo amato, perché
crede che sia la promessa sposa di un delinquente, quindi parla di lui continuamente
in termini negativi. La giovane si sente costretta a difendere Renzo, trovandosi in un
gran turbamento e spesso le parole si mutano in pianto.
A differenza del suo amato però, Lucia riesce a controllare il proprio istinto ed a
utilizzare la ragione. La cosa più plausibile sarebbe detestare donna Prassede, che
continua imperterrita a domandarle “ Ebbene? (…) non ci pensate più a colui?” e che
non è affatto toccata dalle lacrime di Lucia, anzi “come i gemiti, i gridi supplichevoli,
potranno ben trattenere l'arme d’un nemico, ma non il ferro di un chirurgo.” Così la
nobildonna ritiene, nella sua ottusità, che le sofferenze che essa impone a Lucia
siano salutari per la giovane. Poche persone al mondo sarebbero riuscite a
perdonare donna Prassede, e se Renzo si fosse trovato in una tale situazione, forse
non solo non sarebbe riuscito a perdonarla, ma avrebbe seguito l’istinto
arrabbiandosi. Invece Lucia, davanti a quei fatti, si mantiene la semplice e riservata
paesana che ben conosciamo, testimoniando la sua religiosità.
Successivamente a Milano si assiste allo sconvolgente spettacolo di morte dovuto
alla peste e anche Lucia non ne uscirà indenne. Renzo, dopo averla cercata invano
da Donna Prassede, la cerca tra gli appestati del lazzaretto. Là incontra padre
Cristoforo che, pur malato, dava assistenza ai moribondi. Con l’aiuto dell’anziano
cappuccino, Renzo riesce a vincere l’ira e l’odio contro don Rodrigo, che ormai in fin
di vita, riceve da lui il perdono. Poco dopo, Renzo riprende il suo cammino alla
ricerca di Lucia. Quando sembra ormai vicino alla disperazione, egli sente una voce
inconfondibile, quella della sua amata. Renzo vorrebbe che tutto tornasse come
prima, ma la ragazza insiste ancora a voler rispettare il proprio voto con tenace
coerenza. Di fronte al suo rifiuto, il giovane chiede aiuto a padre Cristoforo. Questi
comprende il gesto di Lucia, ma precisa che il voto non aveva tenuto conto dei
sentimenti del suo promesso e degli impegni che lei aveva già preso, quindi con il
consenso della fanciulla, il frate pronuncia la formula di scioglimento del voto. Al
termine dell'incontro con padre Cristoforo, Renzo e Lucia ricevono dal frate il “pane
del perdono”, che oltre a essere il simbolo del romanzo, è l'eredità che il frate lascia
loro, perché ricordino la sua esperienza e il compito che lui affida loro di perdonare
sempre e di insegnare questo ai loro figli.
Renzo
Il tema del perdono, che si intreccia sempre col conflitto fra istinto e ragione, è
ricorrente nell'esperienza di Renzo. Come primo esempio non possiamo non fare
riferimento al comportamento del personaggio che, con la sua “lieta furia”, troviamo
all'inizio del romanzo quando va a presentarsi al curato per fissare l'orario delle nozze
“di un uomo di vent'anni, che deve in quel giorno sposare quella che ama", e quando
(“con quella cert'aria di festa e nello stesso tempo di braveria…") lo saluta con un
inchino meno profondo del solito, dando al suo interlocutore un'occhiata più
espressiva che riverente. Troviamo in Renzo la presenza di atteggiamenti
contrastanti: reazioni aggressive da un lato e pensieri positivi dall'altro; “l'aria di
braveria” fa presagire una reazione che non tarderà a manifestarsi, sia quando
Renzo si accorge che dietro a tutte le parole di don Abbondio c'è un mistero che
Perpetua, la domestica del curato, non riesce a custodire, sia quando si renderà
conto che più di tutti, Lucia è riuscita a mantenere il segreto. Mentre cammina verso
la casa della sua futura sposa ripensa tormentosamente a quanto successo, "con una
smania addosso di far qualcosa di strano e di terribile". Il desiderio di vendetta, la
volontà di farsi giustizia da solo sono i pensieri dominanti. Naturalmente sono mille le
idee che gli passano per il capo, ma a un certo punto ecco gli balena in mente un
pensiero: "E Lucia?". Al ricordo dell'amata, la situazione cambia: "I migliori pensieri,
cui era avvezza la mente di Renzo, v'entrarono in folla"… anche se subito dopo la
sua istintività ha di nuovo il sopravvento.
Ma forse più che la vicenda del matrimonio in sé, ciò che attira la nostra attenzione è
l'atteggiamento di Renzo davanti alle difficoltà. Le sue reazioni possono essere un
motivo di riflessione stimolante. Certo oggi ci sono ancora giovani fiduciosi e capaci
di guardare alle difficoltà della vita non come a ostacoli insormontabili, ma come a
circostanze in cui occorre "rimboccarsi le maniche". Tale atteggiamento presume
però una visione positiva della realtà, non scontata da trovare in un mondo in cui
spesso prevale il pessimismo. Non sempre noi giovani siamo stati educati a
considerare la realtà in tutte le sue sfumature. A volte siamo soggetti alle pulsioni
dell'istintività e alla violenza, violenza (si spera solo verbale) contro chi sembra
ostacolarci, o perfino rivolta drammaticamente contro noi stessi. L'esempio di Renzo,
della sua spontaneità frutto di una società che a quel tempo poteva anche non dare
le nozioni oggi elementari, indispensabili almeno per noi (vedremo che Renzo a
malapena sa leggere e non sa affatto scrivere!), e che però sapeva insegnare a
vivere, può essere uno spunto per farci riflettere sul bisogno di riferimenti certi e di
significato per la nostra vita.
Un'altra osservazione si impone: la prepotenza a cui è stato sottoposto questo
ventenne è davvero insostenibile, Renzo è sconvolto. Ma in tutto il tumulto dei
pensieri di vendetta, al solo riaffiorare alla memoria del nome di Lucia, per lui tutto
diventa più dolce.
C'è allora da chiedersi: quanti di noi riescono a vedere nella persona amata il dono di
un affetto, che illumina di gioia e di positività il cuore, col quale affrontare con fiducia
un'intera vita? E quanti sarebbero capaci, nel tumulto dei sentimenti, di fermarsi,
anche solo per un attimo, a "gustare" la dolcezza di un rapporto pieno di tenerezza?
Ci pare sia utile prenderne atto. Infatti il comportamento di Renzo in certi momenti
rispecchia molto quello di noi ragazzi, lunatici, ma allo stesso tempo animati dal
desiderio di dimostrare, a noi stessi e alle persone che ci circondano, determinazione
e coerenza. Anche noi senza un punto di riferimento siamo vaghi e ingenui, come
Renzo che ha bisogno della sua amata Lucia, o del caro padre Cristoforo. Figure che
lo aiutano nei momenti di tensione ad usare la ragione. La scoperta del motivo che
aveva fatto andare i bravi incontro a don Abbondio provoca in Renzo un'ira
accompagnata da minacce e propositi di vendetta, che si attenuano solo quando
Agnese propone il più mite consiglio di ricorrere al parere di un avvocato. Lucia
invece si presenta sempre in modo pacato e ragionevole, fiduciosa soprattutto
nell'aiuto del padre Cristoforo.
In un secondo episodio, quando dopo il fallimento della mediazione di padre
Cristoforo con don Rodrigo, Agnese propone il matrimonio clandestino, Renzo si
lascia prendere dai suoi sentimenti e dà sfogo alla rabbia. Ma Lucia, speranzosa in
quel tenue filo di cui ha parlato il suo padre spirituale, cerca di opporsi alle nozze
clandestine. Renzo, che la conosce bene, sbotta quasi istintivamente una accesa
reazione, lasciando immaginare chissà quali terribili iniziative nei confronti di don
Rodrigo. Di fronte alla prepotenza, la sua reazione immediata è quella della vendetta:
"La farò io, la giustizia, io! E' ormai tempo (…) lo libererò io, il paese: quanta gente mi
benedirà…! E poi in tre salti! (…) E bene! Io non v'avrò; ma non v'avrà né anche lui.
Io qui senza di voi, e lui a casa del…" L'unica cosa che può calmare Renzo è la
promessa, strappatale a malincuore, che Lucia fa di accettare il progetto del
matrimonio clandestino. Fatto sta che Renzo era realmente infuriato contro don
Rodrigo, e che bramava ardentemente il consenso di Lucia. Quando due forti
passioni si agitano insieme nel cuore di un uomo, nessuno, nemmeno egli stesso,
può sempre distinguere chiaramente una voce dall'altra. Lucia, come si è visto, sa
dare un giudizio chiaro, anche se la situazione si rivela tale che non le è possibile far
seguire al giudizio l'azione, proprio perché ella deve tener conto dei fattori in gioco e,
istintivamente, sceglie il male minore. Appare coerente con se stesso anche il
giovane Renzo, che essendo più impulsivo sa usare questo aspetto del suo
temperamento per ottenere quel consenso che altrimenti Lucia avrebbe negato.
Ognuno reagisce secondo il proprio carattere e le proprie convinzioni, ecco perché è
importante avere un patrimonio personale di valori frutto dell'educazione e
dell'esperienza, che ci permetta di non restare totalmente in balia di situazioni
incontrollabili. A tutti noi si possono attribuire le stesse caratteristiche di Renzo.
Quando ci arrabbiamo, quando siamo delusi da qualcosa o da qualcuno, facciamo o
diciamo cose di cui ci pentiamo quando ci rendiamo conto di ciò che abbiamo appena
detto.
Questa è l'istintività, l'agire prima di riflettere, il reagire senza pensare alle
conseguenze. Forse anche l'ignorare qualcosa a cui non diamo la giusta importanza.
Renzo, persona semplice ed ottimista, conosce il male del mondo attraverso la
prevaricazione degli uomini potenti, ma non è disposto a lasciarsi sconfiggere senza
lottare. Nonostante la sua natura gioviale, Renzo cede facilmente all'istinto e diventa
minaccioso.
Anche lui, come Lucia, trova però nella fede il punto di riferimento di tutta la vita e
l'appoggio nelle disavventure. Lucia e Renzo, come abbiamo visto, hanno fatto
esperienza del male del mondo, del male che è nella storia. Il male l'hanno vinto con
l'aiuto di Dio, e grazie a questo sono cambiati, sono cresciuti. Renzo è un ingenuo
che conosce poco il mondo e che facilmente si fa prendere dagli avvenimenti, ma al
tempo stesso è abbastanza accorto per togliersi dai guai. A volte dopo aver pagato
un prezzo alto, e non senza rischi.
Nell'assalto al forno delle grucce, mentre la rivolta è particolarmente violenta, Renzo,
avendo ormai addentato il suo pane, incappa nella folla impazzita che dà fuoco a tutti
gli attrezzi del fornaio. Un po' defilato, perché ancora spettatore, fa le sue riflessioni
piene di buon senso: "Questa poi non è una bella cosa (…) se concian così tutti i
forni, dove voglion fare il pane? Ne' pozzi?”
Tuttavia, nonostante questa saggia riflessione Renzo si farà coinvolgere nella rivolta,
fino a essere pur ingiustamente sospettato di esserne uno dei capi.
É il destino di Renzo, quello di essere spesso scambiato per ciò che non è: un bravo,
un ribelle, un untore. Renzo si trova spesso in difficoltà, e questo è comprensibile
data la sua inesperienza nella vita sociale. Infatti ci sono circostanze in cui il giovane
vaga senza trovare la meta. In tutti i suoi viaggi, l'uscita dal “labirinto” comporta
tuttavia una maturazione e l'acquisizione di esperienze che lo porteranno a essere
più saggio.
Questo si
può rilevare fin dal suo arrivo a Milano, dove ingenuamente egli si
coinvolge nel tumulto di San Martino, dal quale riuscirà a mettersi in salvo a fatica
raggiungendo la Repubblica di Venezia.
Nel tragitto il giovane supera tutti gli
ostacoli, anche se non senza momenti di grande difficoltà. Durante il suo tragitto
verso il confine possiamo vedere un Renzo diverso da quello visto a Milano:
attraversando i boschi oscuri, egli pensa a tutto ciò che è accaduto, a Lucia in
particolare, e manifesta un atteggiamento molto più maturo e ragionevole. Però è
ancora in parte smarrito e affranto da tutte le vicissitudini attraversate. Finalmente
riconosce in lontananza lo scorrere dell’Adda (il fiume Adda viene personificato, è
simbolo di salvezza, il ritrovamento di un amico, di un fratello, di un salvatore) e si
dirige verso il corso d'acqua. È la rinascita di Renzo, che esce da un mondo buio e
lugubre per scoprirsi finalmente salvo, pieno di energia e di tanta voglia di vivere.
Riacquista la fiducia in sé e la speranza. Le cose cambiano. Tutto preso da quello
che gli è accaduto gli pare che ogni parola, ogni cosa si porti dietro un alone che le
conferisce un significato ulteriore.
Tutto il viaggio di Renzo è caratterizzato da elementi tipici della fiaba (cammina
cammina... entra nel bosco... ha paura dei mostri...). Infatti oltre ad essere un viaggio
reale il suo è anche un viaggio interiore. Il tema della strada percorsa coincide
appunto con quello della maturazione personale. Lo conferma la prudenza e
l'attenzione con cui scruta le persone alle quali chiedere informazioni con risposte
studiate. Riesce a mettere in atto l'astuzia di scovare il nome di qualche paese vicino
al confine, ritenendo facile poi poter ricavare altre utili informazioni. Renzo vive una
vicenda morale esemplare. Il viaggio è un processo di maturazione che egli compie:
scopre
l'ingiustizia,
la
sopraffazione,
l'inganno
della
parola.
Attraverso
quest'esperienza diventa cosciente della necessità di allontanare da sé ogni
tentazione di violenza, perdona, anzi arriva a pregare per il proprio nemico, come
Adelchi morente aveva pregato per Carlo. Come Ulisse, Enea, Dante, anche Renzo
conosce la discesa agli Inferi. Come Dante, fatta l'esperienza del male (oggettivato
qui nella condizione della città di Milano e dei suoi abitanti), compie il percorso della
purificazione necessaria. Ma ciò che colpisce di più è la sua bontà e la sua
generosità. Si commuove davanti ai poveri, si commuove e prega di fronte alla madre
di Cecilia e davanti a don Rodrigo agonizzante, perdonandogli tutto il male ricevuto, il
passo più difficile e che richiederà tutto il romanzo per giungere a compimento, non
senza l'aiuto decisivo di padre Cristoforo. Il nostro Renzo diviene coraggioso, e
l'ultimo passo è appunto il gesto di compassione e di maturità verso don Rodrigo,
morente di peste. Questo fatto mette in luce un Renzo adulto capace di perdonare
(...tutto commosso e tutto confuso disse: capisco che non gli avevo mai perdonato
davvero; capisco che ho parlato da bestia; e non da cristiano: e ora, con la grazia del
signore, sì, gli perdono proprio di cuore... pregherei il signore di dar pazienza a me, e
di toccare il cuore a lui).
In Renzo si trova esuberanza più che prepotenza. Egli tende a giudicare il prossimo
con fiducia, ma quando è sicuro di essere oggetto di ingiustizie si ribella mettendo in
moto la sua astuzia. Alla fine però il suo buon senso e la sua fede lo inducono a
ragionare e a perdonare, aiutandolo a capire che cambiare non è segno di
debolezza, ma anzi a volte cambiare fa scoprire in noi un lato che ci piace di più!
Padre Cristoforo
Padre Cristoforo è un anziano frate cappuccino. Apparentemente sembra una
persona tranquilla, ma i suoi occhi talvolta lampeggiano con una vivacità repentina,
come due cavalli bizzarri tenuti a freno da un cocchiere, col quale sanno, per
esperienza, che non si può vincerla, pure fanno, di tempo in tempo, qualche
sgambetto, che scontano subito, con una buona tirata di morso.
La vita di padre Cristoforo infatti è caratterizzata dalla continua lotta interna fra
orgoglio e umiltà, istinto e ragione. Era figlio di un ricco mercante e fin da piccolo era
stato trattato con molto rispetto e educato come fosse un nobile. Non venendo
accettato tra i nobili, inizia a difendere le persone umili dai prepotenti, anche facendo
ricorso alla forza, benché mosso dal suo desiderio di giustizia.
Lodovico (così si chiamava al secolo) durante uno scontro armato, causato da una
lite con un prepotente, per vendicare il suo servitore Cristoforo che aveva dato la vita
per lui, uccide impulsivamente un nobile. Grazie alla sua umiltà, viene perdonato dal
fratello dell'ucciso.
Questa inaspettata vicenda e il dolore per l'omicidio commesso lo inducono a
ripensare all’accaduto, superando l'iniziale sentimento di vendetta e riflettendo fino a
cogliere in quell'avvenimento un segno di Dio. Capisce così qual è il suo destino e
decide di entrare nell’ordine dei frati Cappuccini.
La richiesta di Lodovico di recarsi personalmente al palazzo della famiglia del nobile
ucciso per chiedere perdono viene accolta dai parenti della vittima. Davanti all’intero
parentado dell’ucciso, schierato per ricevere soddisfazione, Cristoforo si inginocchia
in un atteggiamento di autentica umiltà. Il gesto e le sue parole sincere e toccanti
muovono il cuore di tutti, gli viene concesso il perdono ed egli chiede in dono, come
pegno, un pane. Non sarebbe stato possibile ottenere il perdono e toccare il cuore di
tutti i presenti nel palazzo del nobile, se Cristoforo non avesse superato l'
atteggiamento impulsivo che lo aveva caratterizzato in precedenza per dare spazio
alla riflessione dalla quale nasce l'umiltà.
Mentre nella casa del nobile regna un clima di cordialità e di letizia, Cristoforo
abbandona la città per intraprendere la sua nuova vita di religioso, portando con sé
quel pane simbolo di tutto il romanzo.
D’ora in poi vivrà in perfetta ubbidienza, senza sottrarsi a nessuno degli impegni che
competono al suo stato, anzi imponendosene altri due particolari: accomodar
differenze, cioè appianare contrasti, e proteggere gli oppressi.
Egli dovrà comunque lottare sempre con sé stesso, per sottomettere il suo
temperamento impetuoso alle regole dell’umiltà.
Padre Cristoforo inizia così ad aiutare il prossimo, si affeziona e si prende cura di
Renzo e Lucia e si impegna in tutti i modi per proteggerli da don Rodrigo che
ostacola il loro matrimonio.
Per questo motivo infatti padre Cristoforo si reca al palazzotto di don Rodrigo.
Tra padre Cristoforo e don Rodrigo si combatte un duello questa volta solo verbale,
ma molto aspro. Nonostante le continue provocazioni di don Rodrigo, nel frate
prevale però la ragione. Infatti egli continua a usare la diplomazia, temperando e
correggendo le frasi che gli vengono alla mente. Poi, visto che il “rivale” continua a
voler tirare al peggio le sue parole e ad evitare di affrontare la questione vera, ricorre
all’arma del richiamo alla giustizia ultraterrena e infine erompe in un’invettiva che
culmina in una minacciosa predizione (verrà un giorno…).
Don Rodrigo, che fino ad ora era in preda alla rabbia, sente aggiungersi ad essa un
misterioso spavento, istintivamente scaccia con orgoglio il frate e rimane a misurare,
a passi infuriati, il campo di battaglia. Apparentemente vittorioso, il potente di turno
resta vittima della sua istintività e della sua ira, mentre il frate torna a casa di Lucia
dove dovrà combattere un'altra battaglia verbale, questa volta con Renzo, in preda al
desiderio di vendetta contro don Rodrigo.
Padre Cristoforo in seguito, ignaro del tentativo di matrimonio clandestino, progetta
per i due innamorati un piano di fuga, che verrà attuato nella notte degli imbrogli. Ma
prima che essi partano li convince a pregare per don Rodrigo, dimostrando così una
grande misericordia, perché è consapevole che più un uomo è lontano da Dio più è
povero, e quindi ha maggior bisogno di Lui. É un livello di coscienza molto alto, che si
può raggiungere solo attraverso un lungo percorso di maturazione personale come
quello fatto da padre Cristoforo.
Questo suo gesto ci ha fatto riflettere molto. Non riuscivamo a capire
come si
potesse essere così misericordiosi. Abbiamo compreso che forse non riusciremmo a
fare come il nostro personaggio, pur sapendo che è la cosa giusta, perché l'orgoglio
prevarrebbe. Speriamo che, crescendo, nella nostra vita Dio ci dia la forza per farlo.
Quando alla fine del romanzo padre Cristoforo ritrova al lazzaretto Renzo, che gli
racconta tutto quello che gli è successo, lo rimprovera perché non vuole che lui nutra
ancora sentimenti di vendetta verso don Rodrigo. E gli ricorda che solo Dio è giudice
degli uomini.
Ma Renzo, ancora, si dice pronto a far vendetta contro don Rodrigo.
A questo punto padre Cristoforo lo rimprovera aspramente, contrapponendo alla
legge della vendetta quella cristiana del perdono e della carità. Lui, che ha fatto
l'esperienza di uccidere un uomo, sa quanto arida sia la strada della vendetta e
quanto allontani da Dio, e quindi dall'umano, la ricerca di una giustizia che impone
morte per morte.
La vera giustizia è la carità, che compensa la morte di un uomo con la crescita di
nuova umanità. Renzo solo per carità, alla fine, si dice disposto al perdono del suo
avversario.
Il frate lo conduce in una capanna, dove gli mostra don Rodrigo moribondo. Renzo
china il viso e prega Dio per il suo persecutore. Purificato da quell’atto di perdono,
Renzo può ora tornare a cercare la sua Lucia.
Infine, quando Renzo e Lucia si riuniscono padre Cristoforo fa loro un discorso che è
insieme benedizione e congedo. Dimostra ancora il suo affetto ai due innamorati
consegnando a loro il pane del perdono, che è il simbolo di tutto ciò che è accaduto
nella sua vita (l'omicidio commesso, la sua conversione e la sua vita di espiazione)
ed è anche simbolo del romanzo.
L’innominato
L'Innominato è una delle figure più complesse di tutto il romanzo. Pur essendo una
figura realmente esistita, la sua immagine viene sviluppata dal Manzoni, che ne fa
un'elaborazione artistica tale da renderlo un personaggio dotato di vita propria, con
un’interiorità coerente e compiuta. É descritto come un uomo di grande corporatura,
bruno, calvo, con viso rugoso, tanto che a prima vista gli si sarebbero dati più dei suoi
sessant’anni. Il contegno, le mosse, la durezza dei lineamenti, e il lampeggiare
sinistro, ma vivo, degli occhi indicavano di lui una grande forza fisica e di animo. Il
dramma dell'innominato è tutto interiore ed è seguito dall’autore nel suo nascere e nel
suo sviluppo. Egli serba, pur nella sua posizione di ribelle, qualcosa di regale,
essendo sempre stato fedele a sé stesso e avendo sempre difeso con coraggio
estremo le proprie cause, anche se ingiuste. Per questo l'innominato è grande anche
nel male, superiore alla bassa malvagità di don Rodrigo. É un animo negato a ogni
compromesso, incapace di vie di mezzo, e per questo la crisi interiore che sta per
vivere lo porterà a una profonda rivoluzione e crescita spirituale. Quando Manzoni lo
presenta, la sua crisi è già iniziata e si manifesta con sentimenti di disgusto,
inquietudine, fastidio per una vita di violenze e di complotti, passata in grande
solitudine. Questo è un peso molto incomodo. ”L’uggia delle sue scelleratezze” si fa a
poco a poco coscienza, già quando vede Lucia che viene portata in carrozza e si
rende conto, in coscienza, di non poterla consegnare a don Rodrigo. Quando lei lo
prega di liberarla, ricordandogli il perdono divino quale compenso per gli atti di
misericordia: “Dio perdona molte cose, per un’ opera di misericordia” l'innominato,
sempre più turbato, lascia intuire che la libererà l'indomani.
La notte dell’innominato è per lui un momento di angoscia mortale, poiché è segnata
dal desiderio di cancellare la ragione, dormendo. Cancellare il sentimento, la
coscienza dei fatti che avevano reso così diversa quella giornata. Alla meditazione
dell’innominato torna sempre l’immagine del volto di Lucia, cosicché egli cerca rifugio
in qualche ricordo del passato che possa pacificare la sua mente. Nonostante questo
l’immagine della giovane che implorava la libertà, invocando Dio e pronunciando la
frase chiave del romanzo “Dio perdona molte cose, per un’opera di misericordia”, lo
assedia interiormente. Si sente toccato dalle parole di Lucia, che si impongono con
una forza di cui egli non si sa render ragione, proprio perché ella con la sua
“modestia un po’ guerriera” è credibile e autorevole nei suoi confronti come mai
nessuno prima. L’incontro con Lucia cambia il rapporto dell’innominato con il proprio
passato. Così egli non si riconosce più nell’uomo che era sempre stato, “e il
tormentato esaminator di sé stesso per rendersi ragione d’un sol fatto si trovò
ingolfato nell’esame di tutta la sua vita”. Egli vorrebbe redimere questo passato
sanguinoso, ma si sente impotente poiché, anche se liberasse Lucia, si limiterebbe
soltanto a fare giustizia per l’ ultima vittima di una lunga catena di delitti. A questo
punto il corso dei suoi pensieri prende una nuova direzione, si sente costretto a
decidere fra tre opzioni: rispettare l’impegno preso con don Rodrigo, oppure operare
il bene liberando Lucia, oppure ancora lasciandosi vincere dalla disperazione più
nera e più grave che aveva addosso, fuggire dandosi la morte, seguendo perciò il
suo istinto. Gli sembra che la morte sia l’unica salvezza e pensa che in questo modo
potrebbe risolvere il suo problema, lasciandosi alle spalle tutti i pensieri che lo
opprimono. Davanti alla scelta fioriscono però in lui tanti dubbi: “valeva la pena
morire? C’era davvero un’altra vita ad aspettarlo?”. Si dimostra che la forza della
ragione tende ad imporsi su quella dell’istinto. In seguito l’innominato, rendendosi
finalmente conto di aver bisogno di aiuto e consiglio, decide di recarsi dal cardinale
Federigo Borromeo che si trovava in visita pastorale nel vicino paese. Il cardinale lo
riceve immediatamente e lo accoglie a braccia aperte. Con fare cortese e parole
amichevoli, il cardinale mette il suo interlocutore a proprio agio, consentendogli di
rivelare i suoi turbamenti. Federigo gli parla del perdono divino, e a quelle parole
l'innominato scoppia in un pianto di sfogo per i sentimenti che prova. E' questa,
ancora tra ragione e sentimento nello snodo centrale di una vita, la vera identità
dell’innominato. Un animo buono nel suo fondo, non un malvagio perverso come era
apparso in precedenza. La sua conversione è finalmente avvenuta e i due possono
abbracciarsi. Il nobile racconta poi a Federigo del rapimento di Lucia e dichiara di
volerla liberare al più presto. Federigo manda a chiamare il cappellano, il parroco del
paese e don Abbondio, affinché si possa organizzare la liberazione della ragazza.
Quando esce per andare a liberare la giovane, insieme a don Abbondio, l’innominato
attraversa la piazza gremita di gente, ed è guardato con ammirazione dalla folla che
ha già saputo della sua conversione. Durante il viaggio egli appare ancora turbato dai
rimorsi e dalle preoccupazioni per la nuova vita. Il gruppo oltrepassa la Malanotte e
giunge nei pressi del castello, dove i bravi guardano il loro signore con perplessità ma
con rispetto, riconoscendo sempre la sua autorità. Infine egli concede la salvezza a
Lucia riconoscendo Dio misericordioso. L’uomo potentissimo abituato a imprese
rischiose e a delitti sanguinosi si sente finalmente sollevato dopo aver ottenuto il
perdono. E' questo uno dei personaggi a cui viene concesso questo prezioso dono,
come è accaduto a Lodovico e a don Rodrigo alla fine del romanzo. Diversamente da
lui, altri invece hanno imparato a concedere il perdono, come ad esempio Renzo. Ma
non è semplice né per gli uni né per gli altri, perché dare e ricevere il perdono non è
facile né istintivo per l'uomo. Occorre usare la ragione e ricorrere all'aiuto di qualcuno
che sia più avanti nel cammino di maturazione personale e di fede. Come accade a
Renzo con padre Cristoforo e all'innominato con Lucia e il cardinale Federigo. Anche
dopo la conversione il rispetto nei confronti dell’innominato rimane intatto, perché non
è il suo temperamento a subire una trasformazione, bensì la sua coscienza e il suo
comportamento. Dal male egli passa al bene chiedendo perdono a Dio e agli uomini,
cominciando così una nuova vita e lasciando spazio al nuovo “sé” che ha scoperto.
Conclusioni
Manzoni, una delle voci più autorevoli della letteratura italiana, è vissuto in un tempo
in cui il “conflitto” fra sentimento e ragione ha animato il dibattito culturale, e ci ha
testimoniato col suo romanzo come questi due aspetti debbano convivere per poter
fare esperienza di una pienezza di vita e per raggiungere quella capacità di
perdonare e accettare il perdono, che cambia l'esistenza e rende uomini veri, come
dimostrano Renzo e l'innominato, che vivono un profondo cambiamento, e Lucia che
tenacemente persevera sulla sua strada, pur venendo messa duramente alla prova.
Per molte persone oggi la parola "perdono" ha poco senso. La legge del perdono è la
grande rivoluzione spirituale che il cristianesimo ha introdotto nel mondo.
Gli antichi greci seguivano “la cultura della vergogna”, secondo la quale chi non si
vendicava era disonorato e veniva considerato un vile. In seguito nella società si è
diffusa la legge del "fai come ti è stato fatto". Se uno ti spezza un dente, spezza
anche tu il dente all'avversario, se uno ti acceca un occhio, cava l'occhio al tuo
avversario. Gli ebrei, che erano educati nel senso religioso, dicevano di perdonare
fino a tre volte. L'apostolo Pietro parlando con Gesù va oltre: "Signore, quante volte
perdonerò mio fratello se pecca contro di me? Fino a sette volte? E Gesù a lui: Non ti
dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette" (Matteo 18:21-22). Gesù Cristo
non intendeva porre un limite matematico oltre il quale si era liberi di vendicarsi. Egli
esclude in senso assoluto il sentimento della vendetta, dovendo l'uomo tenere la
disposizione di perdonare sempre. Vogliamo concludere ricordando l'insegnamento
biblico riguardante il perdono dei peccati e la salvezza. Ogni essere umano è
peccatore per natura, e a causa del peccato è caduto, separato in modo irrimediabile
da Dio e condannato alla morte eterna. Questa è la condizione di tutto il genere
umano. Dio, essendo santo e giusto, deve condannare il peccato, e ciò implica la
morte del peccatore (Ebrei 9:22). Ma nella sua misericordia e amore, Dio ha dato
all'uomo la possibilità di essere perdonato da ogni peccato, reso giusto, riconciliato
con Lui e, da creatura di Dio, diventare figlio di Dio. Perdonare non significa
condonare un'azione, ma riconoscere una mancanza, ed in quella mancanza
perdonare se stessi o gli altri.
La nostra vita terrena è così breve che non ha senso chiedersi se siamo noi a dover
chiedere perdono per primi o siano gli altri a chiedere di essere perdonati. Esistono
fatti che solo una Mente Divina può comprendere. Il vero perdono non è una
prerogativa umana. Il dono del perdono nasce da un atto d'amore. Tanto più piccolo
sarà l'amore iniziale tanto più grande sarà il nostro dono.
Noi possiamo pensare che tra sentimento e ragione ci sia un abisso. Invece questi
due mondi sono separati soltanto da un filo sottile. Non sono opposti, anzi, si
possono e si devono incontrare come dimostrano i personaggi del romanzo
manzoniano e come noi abbiamo cercato di dimostrare nel nostro lavoro. Abbiamo
capito infatti che anche per Manzoni, figlio della cultura illuminista da giovane e di
quella romantica in seguito, è necessario riconoscere che la razionalità non può dare
una risposta esauriente a tutti gli interrogativi della vita, e che quindi è ragionevole
riconoscere la presenza di Qualcosa di più grande, che lui chiama Provvidenza, per
non censurare nessun aspetto dell'esistenza.
Nella vita le persone sbagliano, e mediante i propri errori e le proprie esperienze
riescono a maturare interiormente. Raramente nel mondo d’oggi si vedono persone
disposte a perdonare, perché anche a causa del condizionamento operato dai massmedia e da tanti spettacoli, si sono persi i valori umani fondamentali. Gli occhi sono
infuocati dall'ira, dalla rabbia e dalla voglia di vendetta che spinge ad utilizzare
l’istinto, senza pensare alle conseguenze. Così facendo i sentimenti più veri e le
emozioni più umane si perdono. Il perdono nel mondo moderno, rispetto a quanto
abbiamo appreso da “I Promessi Sposi”, ha un ruolo irrilevante, come se non fosse
importante, e come se alle persone non interessasse essere perdonate o perdonare.
Il mondo è come una giostra che gira vorticosamente senza fermarsi un secondo a
riflettere. Essere perdonati o perdonare dona all’anima un sentimento di pace, di
calma, di certezza, come accade a Renzo dopo aver perdonato don Rodrigo. Solo
allora egli può andare a cercare la sua promessa sposa sostenuto dalla speranza,
pronto anche ad accettare ciò che il Destino gli riserverà. E' questa modo di stare
davanti alla realtà che Manzoni ci insegna e ci propone come il frutto di un percorso
personale lungo e impervio, ma possibile. Questo ci testimoniano le vicende dei
personaggi che abbiamo incontrato.