Nicola Bruno, Alessandra C. Jacomuzzi IL QUESITO DI

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Nicola Bruno, Alessandra C. Jacomuzzi IL QUESITO DI
Nicola Bruno, Alessandra C. Jacomuzzi
IL QUESITO DI MOLYNEUX COME ESPERIMENTO MENTALE
Abstract
A tre secoli dalla sua formulazione il quesito di Molyneux è ancora attuale.
Nel Settecento e Ottocento la risposta veniva cercata in ambito filosofico. Nel
secolo scorso il quesito è stato indagato prevalentemente per mezzo di analisi
empiriche su casi di cecità congenita operati in età adulta. Tuttavia, ad oggi, una
risposta empirica al quesito non è stata data. Suggeriamo che tale risposta non
può provenire in linea di principio da questo tipo di analisi. Molyneux, infatti,
parla di un cieco a cui istantaneamente venga data la vista. Lo studio degli interventi eseguibili sulla cecità dalla nascita evidenzia che un simile passaggio non
può mai verificarsi. Un’analisi comparativa di dieci casi di cecità dalla nascita e
dalla prima infanzia operata in età adulta dimostra, inoltre, che è estremamente
difficile fare generalizzazioni empiriche sulle capacità percettive di questi soggetti a poca distanza temporale dall’operazione. È dunque necessario modificare l’approccio al quesito restituendogli la sua connotazione originaria di esperimento mentale. In questo modo il quesito potrà essere considerato come
un’argomentazione teorica o come un dispositivo euristico utile alla formulazione di esperimenti reali. Lungi dal ridurne l’interesse, questo approccio fa
emergere una serie di ulteriori quesiti riguardanti lo studio della cognizione a
molti livelli diversi.
1. Introduzione
Il quesito di Molyneux ha avuto una storia molto particolare. Al centro di un
importante dibattito filosofico tra Settecento e Ottocento, nel secolo scorso è
stato indagato attraverso un lavoro empirico condotto su casi di cecità congenita
operata in età adulta. Questo tipo di studio non ha però portato a risultati soddisfacenti. Nelle intenzioni di Molyneux, infatti, il quesito non era un test empirico
ma piuttosto una sorta di esperimento mentale in cui veniva analizzata una
situazione non realizzabile nella realtà. I casi di cecità congenita operata in età
adulta si avvicinano per certi versi alla situazione descritta da Molyneux ma non
rispondono perfettamente alle caratteristiche da lui richieste. Il motivo principale risiede nel fatto che il passaggio dalla cecità alla visione, diversamente da
Rivista di estetica, n.s., 21 (3 / 2002), XLII, pp. 49-70 © Rosenberg & Sellier
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come viene descritto nel quesito, non avviene mai istantaneamente. Un cieco
dalla nascita per acquistare la vista deve sottoporsi ad interventi chirurgici complessi che hanno un decorso post-operatorio molto lungo e che causano spesso
un trauma post-operatorio. La visione quindi viene recuperata solo molto lentamente. Risulta dunque impossibile definire un punto preciso nel tempo in cui si
verifica la situazione descritta da Molyneux: the blind man ... be made to see.
Inoltre, limitare la ricerca ai casi di cecità congenita operata in età adulta nel
tentativo di trovare una risposta empirica tende ad oscurare l’importanza della
domanda. Se analizziamo il quesito come un esperimento mentale, invece, possiamo notare che esso contiene i semi di una notevole varietà di domande specifiche sulla natura e l’origine della cognizione, la cui analisi teorica ed empirica
potrebbe costituire uno schema di riferimento per la ricerca futura. Per sviluppare il nostro argomento è utile considerare innanzitutto lo sviluppo storico del
dibattito sul quesito.
2. Il dibattito filosofico sul quesito di Molyneux
Il quesito di Molyneux è stato il «principale problema dell’epistemologia del
diciottesimo secolo» (Cassirer, 1951). Il quesito compare per la prima volta in
una lettera che Molyneux scrisse il 7 luglio 1688 agli autori della Bibliothèque
Universelle, una rivista curata da Jean Leclerc, che proprio in quell’anno era
stata pubblicata per la prima volta. Nel numero di gennaio era comparso un
Abrégé dell’Essay concerning human understanding di J. Locke, che sarebbe
stato poi pubblicato interamente nel 1690. Molyneux aveva letto una copia
dell’Abrégé e la lettura del capitolo sulla percezione lo indusse a porre a Locke
questo quesito:
A Problem Proposed to the Autor of the
Essai Philosophique concernant L’Entendement
A Man, being born blind, and having a Globe and a Cube, nigh of the same bignes, Committed
into his Hands, and being taught or Told, which is Called the Globe, and which the Cube, so as
easily to distinguish them by his Touch or Feeling; Then both being taken from Him, and Laid
on a Table, Let us suppose his Sight Restored to him; Whether he Could by his sight, and before
he touch them, know which is the Globe and which the Cube? Or whether he Could know by his
sight, before the stretchd out his Hand, whether he could not Reach them, to they were Remouved
20 or 1000 feet from him?
If the Learned and Ingenious Author of the Forementiond Treatise think this problem Worth his
Consideration and Answer, He may at any time Direct it to One that Much Esteems him, and is
di questi scambi Molyneux suggerì nuovamente il quesito a Locke. La seconda
formulazione del quesito è semplificata rispetto alla prima in quanto Molyneux
omette la parte «motoria» della domanda, ossia quella riguardante la capacità di
sapere, prima di stendere le braccia nella direzione degli oggetti, di non poterli
raggiungere essendo questi posti ad una notevole distanza da lui. La lettera che
contiene tale formulazione è del 2 marzo 1693:
Suppose a Man born blind, and now adult, and taught by his Touch to Distinguish between a
Cube and a Sphere, (Suppose) of Ivory, nighly of the same Bignes, so as to tel, when he felt one
and tother, Which is the Cube which the Sphere. Suppose then, the Cube and the Sphere placed
on a Table, and the Blind man to be made to see. Quaere, Whether by his sight, before he touchd
them, he could now Distinguish and tel which is the globe and which the cube. I answer not; for
tho he has obtaind the Experience of How a Globe, how a Cube affects his Touch. (Locke, 1978)
Questa volta Locke prese in considerazione il quesito, cercò di darvi una risposta e lo inserì nella seconda edizione dell’ Essay concerning human
understanding, che sarà pubblicata nel 1694, dando inizio così ad un dibattito
che avrebbe fatto discutere per oltre un secolo i più importanti pensatori. Nella
sua formulazione molto semplice, infatti, il quesito contiene dei nodi da sempre
al centro della riflessione filosofica come il dibattito tra empirismo ed innatismo
e il problema dei sensibili comuni aristotelici. Quando Molyneux chiede se un
cieco dalla nascita che abbia acquistato la vista possa riconoscere, solamente
guardandoli, un cubo e una sfera precedentemente esplorati attraverso il tatto,
in realtà sta chiedendo diverse cose. Innanzitutto egli fa riferimento al problema
del ruolo dell’esperienza nel costituirsi della conoscenza. Si tratta di stabilire se
noi nasciamo dotati di alcune idee o conoscenze innate oppure se, secondo
l’espressione lockeana, la nostra mente è una tabula rasa su cui l’esperienza
viene a scrivere. Il conflitto sul ruolo dell’esperienza nella cognizione è uno dei
dibattiti più antichi della storia della filosofia ed è per questo che il quesito non
ha tardato a trasformarsi in un vero e proprio banco di prova della disputa fra
empirismo e razionalismo. Quando si formula una soluzione del problema di
Molyneux, infatti, è inevitabile pronunciarsi su questo punto. Se si prospetta
una soluzione negativa del quesito, di solito, la si argomenta affermando che
occorre il contributo dell’esperienza per riuscire a riconoscere le figure che si
presentano ai nostri occhi. Molyneux e Locke, i primi ad aver dato una soluzione di questo tipo, sono partiti dal presupposto che solo l’esperienza può darci la
capacità necessaria a riconoscere il cubo e la sfera:
His Umble servant
William Molyneux
High Ormonds Gate in Dublin, Ireland (Locke,1978)
for tho he has obtaind the Experience of How a Globe, how a Cube affects his Touch. Yet he has
not yet attaind the Experience, that what affects my Touch so or so, must affect my Sight so or so;
or that a Protuberant Angle in the Cube that presd his hand unequally, shall appear to his Eye as
it does in the Cube. (Locke, 1978)
Né Locke né Leclerc si resero conto che tale problema aveva attinenza con i
temi trattati nel paragrafo VII del capitolo II dell’Abrégé. Così il 1690 l’Essay
concerning human understanding venne pubblicato nella sua versione integrale senza che vi fosse alcun riferimento al famoso quesito. Nel 1692 però con le
parole di estrema stima nei confronti di Locke che Molyneux scrisse nella
Diottrica Nova ebbe inizio una fitta corrispondenza tra i due filosofi. Nel corso
I due filosofi hanno sostenuto che il cieco, avendo avuto solo esperienze tattili
della sfera e del cubo, non può sapere che a quel tipo di esperienza tattile corrisponde quella particolare esperienza visiva. Solo con l’aiuto del senso che da
sempre ha utilizzato egli potrà, con il susseguirsi dell’esperienza imparare a
riconoscere visivamente i due oggetti. Diversamente chi si è pronunciato in
maniera positiva sul problema, come Leibniz o La Mettrie, è partito dal presup-
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posto che fosse possibile una trasposizione delle conoscenze tattili alle conoscenze visive senza l’aiuto dell’esperienza. Esisterebbe quindi la possibilità di
un qualche elemento comune ad entrambe le percezioni che ci permette, non
appena apriamo gli occhi, di riconoscere gli oggetti che sono di fronte a noi,
senza toccarli e senza averne mai avuto un’esperienza visiva:
Or un globe attentivement considéré par le toucher, clairement imaginé et conçu, n’a qu’à se
montrer aux yeux ouverts; il sera conforme à l’image ou à l’idée gravée dans le cerveau; et
conséquement il ne sera pas possible à l’âme de ne pas distinguer cette figure de toute autre. (La
Mettrie, 1745/1970)
Un altro problema contenuto nella formulazione del quesito è quello dei sensibili comuni che emerge in maniera chiara analizzando le risposte positive.
Tali risposte di solito si basano sull’affermazione dell’esistenza di proprietà sensibili comuni a più sensi che permetterebbero di riconoscere visivamente un
oggetto di cui si è avuta una precedente esperienza tattile. Se il dibattito tra
empirismo ed innatismo era stato da sempre al centro della discussione filosofica, il problema dei sensibili comuni aveva la sua origine nella filosofia antica.
Aristotele si era soffermato più volte (nel De Anima, De Sensu, De memoria et
reminiscenti, De invetute et senectute e nel De somno et vigilia) ad argomentare circa l’esistenza di proprietà come movimento, forma, grandezza, numero,
unità e tempo, che non verrebbero colte con un organo di senso specifico. Inoltre l’attualità del problema tra Seicento e Settecento era testimoniata dalla presenza del sensus communis nelle Regulae di Cartesio e dalle nozioni chiare e
distinte del sens commun di cui parla Leibniz. Non può stupire quindi che il
quesito sia stato al centro di un dibattito filosofico molto importante nel Settecento. I molteplici problemi che in esso erano contenuti erano di fondamentale
importanza per la teoria della conoscenza.
Nel corso del dibattito, inizialmente, sembrò prevalere una posizione empirista
sostenuta dallo stesso Molyneux da Locke e da Berkeley; posizione che inoltre
sembrò trovare una prova empirica nella prima testimonianza di un paziente
cieco dalla nascita operato di cataratta a tredici anni nel 1728. Il chirurgo
Cheselden che aveva eseguito l’operazione scrisse a proposito del suo paziente
che per oltre un mese non riuscì a riconoscere oggetti e figure, e che riusciva a
percepire esclusivamente colori. Tale resoconto tuttavia era molto impreciso.
Nonostante inizialmente sembrò costituire la prova della validità della tesi
empirista, ben presto venne suggerito che tale testimonianza poteva in realtà
essere interpretata in maniera diversa. Secondo La Mettrie, ad esempio, l’incapacità del giovane paziente di riconoscere oggetti e figure era da attribuirsi ad
un problema di riabilitazione visiva che necessariamente doveva verificarsi in
seguito ad un intervento eseguito su un organo così delicato. Inoltre se il cieco
riusciva a percepire il colore, necessariamente doveva essere capace di percepire
l’estensione su cui il colore si presentava:
Je crois: 1. Que faute d’une juste position dans les parties de l’œil, la vision devait se faire mal; [...]
2. S’il voit de la lumière et des couleurs, il voit par conséquent de l’étendue. 3. Les aveugles ont le
tact fin, un sens profite toujours du défaut d’un autre sens: les houps nerveuses non
perpendiculaires, comme par tout le corps, mais parallèles et longitudinalement étendues jusqu’à
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la pointe des doigts comme pour mieux examiner un objets[...]Acquièrent facilement par le toucher,
les idées des figures des distances... (La Mettrie, 1745/1970)
Il dibattito sul quesito, dunque, non ebbe fine con la pubblicazione del resoconto di Cheselden. Le testimonianze di questo paziente e di altri soggetti che
vennero operati tra Settecento e Ottocento continuarono ad essere presenti nel
dibattito come supporto di argomentazioni filosofiche. Tuttavia nel Settecento
le tecniche chirurgiche erano ancora molto rozze e lo stesso resoconto di Cheselden era troppo impreciso per attrarre l’attenzione degli scienziati. Per questo il
quesito continuò ad essere trattato prevalentemente in ambito filosofico. Nel
Novecento, invece, il miglioramento delle tecniche chirurgiche e la messa a punto
dell’intervento di osteo-odonto-cheratoprotesi hanno permesso un’analisi maggiormente dettagliata di pazienti ciechi e operati in età adulta. Questo ha fatto sì
che lo studio del quesito si sia spostato in laboratorio, in un lavoro empirico a
cavallo tra psicologia e medicina. Nonostante questa indagine però, ad oggi,
una risposta basata su dati oggettivi non è ancora stata trovata.
3. L’esperimento mentale di Molyneux
Se Molyneux avesse presente la possibilità di restituire la vista ad un cieco
congenito per mezzo di qualche cura, chirurgica o altrimenti, non è dato sapere. Tuttavia il fatto che la moglie del filosofo fosse cieca ci legittima a supporre
che Molyneux potesse essere motivato a seguire da vicino i tentativi che i medici
avevano presumibilmente già cominciato a fare in questa direzione, e che sarebbero sfociati, pochi anni dopo, nel primo resoconto di un’operazione di cataratta
(Cheselden, 1728). Non bisogna dimenticare, inoltre, che Molyneux era membro di una élite intellettuale (aveva studiato al prestigioso Trinity College di
Dublino e giurisprudenza a Londra) e aveva sicuramente la possibilità di venire
a sapere dei resoconti scientifici che venivano scambiati in forma privata o pubblicati dai ricercatori dell’epoca. Resta il fatto, comunque, che in entrambe le
formulazioni del quesito Molyneux sembra descrivere una serie di operazioni
molto precise: una volta appresi per via tattile, gli oggetti vengono messi su un
tavolo e «al cieco viene restituita la vista». Molyneux immagina dunque un passaggio immediato dalla cecità alla visione. Non c’è alcun dubbio che tale passaggio fosse, ai tempi di Molyneux, del tutto ipotetico e infatti nel dibattito filosofico iniziale il quesito venne discusso come thought experiment sul ruolo
dell’esperienza nella cognizione nel contesto del rapporto tra sensazioni visibili
e sensazioni tangibili (Degenaar, 1996; p. 25).
Curiosamente, questo aspetto è passato parzialmente in secondo piano nella
valutazione dei casi clinici da Cheselden in poi. Tuttavia vi sono assai pochi
dubbi sul fatto che un passaggio da uno stato di cecità ad uno stato di visione
completamente funzionale ben difficilmente può verificarsi in seguito ad un
intervento chirurgico. Una veloce consultazione di alcuni manuali di oftalmologia (Bianchi, Brancato, Bandello, 1995; Parrish, 2002) mostra che gli interventi eseguibili a questo scopo sono di tre tipi: estrazione del cristallino, trapianto di cornea e intervento di osteo-odonto-cheratoprotesi. Tutti e tre
comportano un lungo processo di riabilitazione visiva e non sono privi in molti
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casi di trauma post-operatorio. Si tratta, infatti, di interventi estremamente
complessi.
Nel caso dell’estrazione del cristallino si possono adoperare due tecniche. La
prima, detta tecnica di estrazione extracapsulare, prevede un incisione di 6-12
mm per estrarre prima l’involucro anteriore poi la parte centrale dura della
cataratta in un unico pezzo ed infine la periferica molle. Quindi viene inserito
un cristallino artificiale di diametro 6.0 mm. La seconda, detta tecnica di
facoemulsificazione, prevede invece un’incisione di 3,0 mm per estrarre l’involucro anteriore. Poi viene frammentata in vari pezzi la parte centrale della cataratta
e infine la periferica molle. Attraverso la stessa incisione viene poi, di solito,
inserito un cristallino pieghevole. In entrambi i casi, dopo l’intervento, l’occhio
deve rimanere bendato fino alla prima visita del chirurgo ed è necessario l’uso di
farmaci antibiotici e antinfiammatori. Inoltre occorre proteggere l’occhio con
degli occhiali affumicati nelle ore diurne e con una conchiglia di plastica nelle
ore notturne. In questo tipo di intervento vengono messi di solito dei punti di
sutura per cui il decorso post-operatorio è lungo, può durare da qualche settimana a mesi a seconda del soggetto
Nel caso del trapianto di cornea si interviene, invece, in questo modo: stabilito il diametro del lembo da trapiantare si incide con un trapano nella cornea
del donatore il lembo delle dimensioni richieste. Quindi si esegue lo stesso procedimento sulla cornea del paziente ricevente e si scambiano i due lembi. Il
lembo trasparente (quello del donatore) viene immesso al posto del lembo del
ricevente. È opportuno far coincidere il più possibile i margini del lembo e quelli della cornea residua, chiamata letto. Con un filo di nylon e un ago di caratteristiche idonee si suturano tra loro il lembo e il letto a 360° cercando di mantenere costanti la tensione, la simmetria, la profondità e l’orientamento della sutura
stessa. L’intervento viene eseguito in anestesia generale. Dopo l’operazione è
necessario coprire gli occhi con una benda e con una conchiglia di plastica. Il
recupero funzionale è di solito molto lento sono necessari da tre a sei mesi per
ottenere una visione discreta e circa un anno perché si abbia una stabilizzazione
della cicatrice che incide sulla stabilizzazione funzionale e quindi sull’acuità
visiva.
Ancora più complicato è l’intervento di osteo-odonto-cheratoprotesi che viene eseguito in due fasi. In fase preparatoria, viene innestato un lembo di mucosa
labiale a scopo tettonico e trofico sulla cornea alterata. Due mesi dopo viene
eseguito l’intervento definitivo. L’impianto osteo-odonto-acrilico viene introdotto tra la cornea e la mucosa labiale previa perforazione del centro della cornea e della mucosa labiale. A questo punto la lente acrilica posta al centro dell’occhio presenta una sporgenza di circa 3 mm. Il rimanente segmento anteriore
che circonda la lentina appare di colorito rosso scuro. Anche in questo caso il
decorso post-operatorio è molto lungo ci vuole almeno un mese perché la funzionalità visiva si stabilizzi. Questo tempo è però suscettibile di variazioni a
seconda dei casi.
Il processo di riabilitazione dell’organo visivo che segue questi interventi è
dunque molto lungo e la visione viene recuperata solo molto lentamente. Secondo gli oculisti bisogna considerare un tempo che va in media dai 25 ai 29
giorni perché l’organo visivo si ristabilisca. Tale periodo, inoltre, può variare a
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seconda dei casi e può aumentare soprattutto qualora insorgano delle complicazioni. Appare piuttosto evidente, dunque, che la situazione di cui parla Molyneux
non ha riscontro nel decorso post-operatorio di pazienti come quelli descritti
sopra. Anche accettando una serie di approssimazioni, se volessimo analizzare
la visione di questi pazienti per ottenere dati rilevanti per il quesito dovremmo
scontrarci con diversi problemi. Ad esempio, sarebbe necessario stabilire quando sottoporre il soggetto al test. Di sicuro non ha senso sottoporre il quesito di
Molyneux ad un soggetto che è stato operato da pochi giorni. Il suo organo
visivo, non ancora ristabilito, potrebbe non avere acquisito la capacità necessaria a percepire figure a tre dimensioni. Tuttavia se anche si aspettasse che l’organo fosse ristabilito sorgerebbero comunque dei problemi. Infatti, nel periodo di
riabilitazione il soggetto fa diverse esperienze visive ed impara a collegarle con
le sue esperienze tattili. I criteri stessi su cui il quesito si basa verrebbero meno.
Dunque è lecito e anche più vantaggioso avvicinarsi al quesito interpretandolo come un esperimento mentale. In questo modo, infatti, emergono nuove
prospettive di studio che possono portare ad una chiarificazione delle
problematiche poste da Molyneux. Non esiste una trattazione epistemologica
che ci permetta di dare una definizione esaustiva dell’esperimento mentale.
Tuttavia possiamo notare che nel dibattito epistemologico contemporaneo gli
esperimenti mentali vengono considerati almeno in due modi diversi: come
argomentazioni teoriche o come dispositivi euristici utili alla costruzione di esperimenti empirici. Entrambe queste interpretazioni, se riferite al quesito di
Molyneux, permettono di mettere in luce campi di ricerca fin’ora inesplorati.
Innanzitutto, un’analisi del perché il quesito di Molyneux è un esperimento
mentale ci mette di fronte ad un dato di fatto: il processo di riabilitazione che
segue ad un intervento eseguito su una cecità congenita è necessariamente esteso nel tempo. Questa constatazione ci porta ad interrogarci sulle caratteristiche
di questa riabilitazione. Sarebbe interessante capire se e quale tipo di processo
di apprendimento sussiste dietro allo sviluppo della funzionalità percettiva di
questi soggetti. Dal momento che è necessario molto tempo perché un soggetto,
cieco dalla nascita, dopo essersi sottoposto ad un intervento possa riuscire ad
avere delle percezioni visive è lecito chiedersi quali siano le cause che determinano questa necessità. Possiamo addurre unicamente delle cause fisiologiche o
possiamo parlare di un processo di apprendimento percettivo?
Inoltre, se consideriamo il quesito come un dispositivo euristico che deve
servire per elaborare degli esperimenti empirici non possiamo limitare la ricerca
allo studio del riconoscimento di forme a tre dimensioni da parte di un ipotetico
cieco, ma dobbiamo prendere in considerazione tutti i problemi rilevanti circa
la percezione visiva di questo soggetto. Ad esempio si potrebbe studiare la capacità di questo soggetto di pianificare l’azione in base alle sue percezioni visive.
Tale ricerca non andrebbe sicuramente trascurata dal momento che nell’ultimo
decennio si è assistito ad una vera e propria riscoperta del problema della trasformazione senso motoria nell’ambito delle scienze cognitive. Infine, un esperimento mentale può essere studiato analizzando situazioni che si avvicinano a
quella descritta, situazioni che possono costituire il punto di partenza per la
formulazione di esperimenti empirici volti ad indagare le tematiche contenute
nel quesito. Certamente una di queste è quella di soggetti ciechi dalla nascita o
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dalla prima infanzia operati in età adulta, però bisogna tenere conto che ne
esistono altre come la situazione di un neonato o di un soggetto cui sia stata
applicata una protesi per non vedente. Da questo punto di vista le possibilità di
studiare l’esperimento mentale da un punto di vista empirico diventano davvero
molte.
4. Cosa ci dicono veramente i casi di cecità operati in età adulta?
L’impossibilità di ritrovare le condizioni descritte da Molyneux nel decorso
post-operatorio di non-vedenti sottoposti ad interventi di cataratta o rimozione
del cristallino è peraltro ampiamente confermata dai resoconti degli studiosi
che hanno analizzato la prestazione visiva di questi pazienti dopo l’operazione.
Per indagare quale tipo di informazioni siano realmente disponibili intorno al
decorso temporale del recupero visivo di questi pazienti, abbiamo condotto
un’analisi comparativa di dieci casi di questo tipo che si sono verificati nel Novecento (Ackroyd, Humphrey, Warrington 1974; Banissoni, Ponzo, Valvo 1967;
Banissoni, Ponzo,Valvo 1968; Gregory, Wallace, 1974; MacLeod, 2001; Sacks,
1995; Smallman, Fine, Macleod, 2000; Umezu, Torii, Uemura, 1975). Il quadro
clinico e le caratteristiche dei soggetti sono state tratte dagli articoli e dai resoconti redatti dai medici e dagli psicologi che avevano seguito i casi. Per ogni
soggetto è stato possibile ricostruire l’evoluzione della funzionalità visiva nel
corso del primo mese dopo l’intervento. È stato segnalato il tipo di percezione
visiva che i soggetti avevano nel momento in cui sono state tolte loro le bende, a
cinque giorni, a quindici giorni, a venticinque giorni e a trenta giorni dall’intervento.
Dai risultati ottenuti è emerso che in realtà per nessuna delle generalizzazioni
che sono state fatte nel corso dei secoli sulla percezione visiva di questi soggetti
l’evidenza risulta schiacciante. Di questi pazienti, infatti, è stato detto che presentano problemi nella percezione della distanza e della terza dimensione e che
presentano agnosia visiva.
Ora, per quanto riguarda la percezione della distanza è necessario evidenziare
che nei resoconti in cui viene descritta la percezione spaziale dopo l’intervento
si fa sempre e solo riferimento alla distanza che intercorre tra la persona e l’oggetto (distanza egocentrica) e mai alla percezione della distanza che può esserci
tra due oggetti (allocentrica). Tipicamente, viene riferito che la distanza
egocentrica viene grandemente sottostimata. Ad esempio, Gregory riferisce che
il suo paziente S.B. era convinto di poter toccare terra scavalcando una finestra
che si trovava a dieci metri dal suolo (Gregory, Wallace, 1974). Il resoconto è
suggestivo, soprattutto se si tiene conto del fatto che l’estensione spaziale vuota
tende ad essere sovrastimata rispetto alla stessa estensione occupata da oggetti e
terreno (Sinai, Ooi, Zijang, 1998). L’entità e la natura del problema rimane tuttavia difficile da valutare. Infatti, solo sei dei dieci pazienti sono stati sottoposti
ad un qualche test di valutazione di distanze, in condizioni comunque non
comparabili. Per quanto riguarda invece la capacità di apprezzare la struttura
tridimensionale degli oggetti, nei soggetti presi in considerazione tenderebbero
a persistere difficoltà ancora ventinove giorni dopo l’intervento, nonostante la
stabilizzazione, già in questo periodo, della percezione dei colori, dei contorni e
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delle figure a due dimensioni. Anche rispetto a questo specifico problema tuttavia l’evidenza non sembra del tutto coerente. Infatti, nonostante si evidenzino
delle difficoltà talvolta ancora un mese dopo l’intervento quattro pazienti dopo
30 giorni hanno già superato questo problema. Questo significa che non siamo
in possesso di dati sufficienti per poter affermare che la difficoltà mostrata nel
percepire la terza dimensione non è causata dal trauma post-operatorio ma è
qualcosa che effettivamente caratterizza la percezione di soggetti che vengono
ad acquistare la vista dopo quasi mezzo secolo di cecità. Inoltre, per affermare
che un soggetto non percepisce la terza dimensione bisognerebbe valutare anche le rispose motorie nello spazio tridimensionale. In nessuno dei resoconti
viene riportato se i soggetti, oltre a percepire figure a due dimensioni quando
vengono loro presentate figure a tre dimensioni, presentino anche difficoltà nel
muoversi nello spazio tridimensionale.
In tutti i resoconti si afferma invece che questi soggetti soffrono di agnosia
visiva, una sintomatologia per cui non riescono ad attribuire significato agli oggetti che vedono. In effetti una simile situazione sembra realmente verificarsi
quando i soggetti iniziano ad avere percezioni visive. Tuttavia questa difficoltà
nell’attribuire un significato agli oggetti percepiti visivamente svanisce non appena si informano i pazienti di cosa hanno davanti. Non si tratta quindi
dell’agnosia visiva di cui soffriva il paziente di Oliver Sacks che continuava a
scambiare la moglie per un cappello (Sacks, 1985). I pazienti che si sottopongono ad un intervento per acquistare la vista vengono catapultati in un mondo
sensoriale diverso. Non riescono effettivamente ad attribuire un significato a ciò
che vedono perché è la prima volta che lo vedono, questo problema però svanisce con il tempo. Il punto che andrebbe chiarito è piuttosto cosa fa sì che l’agnosia
venga superata. Sembra corretto suggerire che nel decorso post-operatorio ha
luogo un processo di apprendimento o ri-apprendimento visuopercettivo, soprattutto a carico degli aspetti che riguardano il significato delle nuove esperienze percettive che il paziente si trova davanti, forse in parte anche a carico
delle proprietà oggettuali «di base» come colore e forma tridimensionale (ma il
recupero di tali funzioni ha un decorso assai simile a quello del semplice recupero
della funzionalità ottica dell’organo operato). Il problema della natura di tale
processo e dei meccanismi in esso coinvolti rimane di grande interesse, ma sembra poco probabile che lo studio di pazienti di questo tipo, peraltro destinati a
diventare sempre più rari, possa fornire dati utili.
5. I quesiti di Molyneux
Abbiamo dimostrato, dunque, che i casi di cecità dalla nascita e dalla prima
infanzia operati in età adulta pur rimanendo interessanti non possono fornire
una risposta empirica al quesito di Molyneux. Questo perché il filosofo parla in
realtà di un passaggio istantaneo dalla cecità alla visione. Il soggetto dunque
non dovrebbe aver avuto alcun tipo di esperienza visiva, neanche degradata, del
cubo e della sfera. Solamente se queste condizioni venissero rispettate si potrebbe cercare una risposta basata su una testimonianza reale. Il problema però è
che i soggetti ciechi dalla nascita e operati in età adulta acquistano la vista solo
molto lentamente a causa di problemi legati al decorso post-operatorio. Nel pe57
riodo di tempo in cui l’organo visivo si ristabilisce non possiamo impedire al
soggetto di avere delle percezioni visive, e non possiamo impedirgli di associare
queste prime percezioni visive con le percezioni tattili. Nel film di Irvin Wilker,
At first sight, basato sulla testimonianza di un paziente di Oliver Sacks operato
dopo quasi mezzo secolo di cecità, il protagonista Virgil viene sottoposto ad un
test da uno psicologo. Gli viene mostrata una fotografia di una mela e Virgil pur
riuscendo a riconoscere la mela non si rende conto che in realtà si tratta di una
fotografia. Non c’è modo però di sapere se questo avviene perché Virgil non ha
ancora potuto imparare ad associare le sue percezioni tattili con quelle visive o
semplicemente perché il suo organo visivo non si è ancora completamente ristabilito.
Lo studio da un punto di vista empirico del quesito che è stato fatto nel Novecento non potrà quindi mai dare risultati soddisfacenti. Inoltre pensiamo che
confinare il lavoro sul problema seicentesco in un’analisi di pazienti ciechi e
operati in età adulta possa oscurarne l’importanza. Proponiamo, invece, di interpretare il quesito come un esperimento mentale. Partendo da questa interpretazione è infatti possibile scomporre il quesito in una serie di domande che
riguardano la cognizione umana e che ci permettono di ripristinare l’importanza stessa del problema seicentesco.
6. Il quesito di Molyneux nella sua forma classica
La formulazione classica della domanda di Molyneux è quella intorno alla
quale si è svolto il dibattito settecentesco e che viene di solito citata quando si
parla del quesito: può un cieco dalla nascita che acquista la vista distinguere e
riconoscere le forme a tre dimensioni di oggetti familiari? Abbiamo visto come
lo studio dei pazienti ciechi e operati in età adulta ci permetta di dire esclusivamente che questi soggetti non potrebbero riconoscere queste forme prima di 20
o 30 giorni dopo l’intervento. Il problema però è che questi soggetti non riescono a riconoscere gli oggetti perché ancora non riescono a percepire la terza dimensione, a causa di problemi legati al decorso post-operatorio. Quindi la risposta di questi soggetti non è certo una risposta al quesito visto che il problema
che viene evidenziato è un problema causato dall’intervento chirurgico cui sono
stati sottoposti.
Da un altro punto di vista si potrebbe cercare una risposta verificando se esiste quello che viene chiamato trasferimento intermodale dal tatto alla vista. Infatti il cieco che acquista la vista non dovrebbe avere difficoltà a riconoscere gli
oggetti soltanto guardandoli se avvenisse un trasferimento delle precedenti informazioni tattili alla vista. Riguardo a questo problema diverse evidenze sperimentali hanno messo in luce come in soggetti normali di solito si verifichi un
trasferimento di questo tipo. Ad esempio Caviness (1964) in un esperimento
mostrava ai soggetti un set di dieci oggetti non familiari, con parti simili e più o
meno della stessa grandezza. I soggetti dovevano inizialmente toccare uno dei
dieci oggetti senza guardarlo e in seguito dovevano cercare di identificare quell’oggetto all’interno del set di dieci che gli venivano presentati solamente guardandoli senza toccarli. Nel 90% dei casi i soggetti riuscivano a riconoscere l’oggetto. Il problema di questi risultati però è che sono stati conseguiti con persone
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vedenti. Persone che hanno potuto avere numerose associazioni nella loro vita
di percezioni tattili e percezioni visive. Non ci è dato di sapere se le prestazioni
di questi soggetti siano dovute a meccanismi amodali innati o non siano piuttosto influenzate dall’associazione tra percezioni tattili e visive che questi soggetti
hanno potuto fare nel corso della loro vita
Ad oggi risulta dunque davvero difficile dare una risposta alla domanda di
Molyneux nella sua formulazione classica. Non bisogna però dimenticare che
questa non è l’unica domanda che emerge dall’analisi del quesito. Iniziamo
dunque a spostare l’attenzione su alcune varianti del quesito che possono essere
studiate anche a livello sperimentale.
7. Un problema di discriminazione
Una prima variante del quesito di Molyneux la possiamo trovare sostituendo
il termine discriminazione al termine identificazione. Può un soggetto neovedente discriminare visivamente tra oggetti posti a diverse distanze o aventi
diverse forme o grandezza, indipendentemente dall’angolo visivo sotteso? Si
tratta di capire in che misura le costanze di forma distanza e grandezza posso
essere attive anche se il soggetto non ha mai avuto percezioni visive. Seguendo
la posizione empirista dovremmo immaginare che simili costanze non possono
essere presenti fino a che non si è sviluppata un po’ di esperienza visiva. Infatti
non dovrebbe esservi alcuna proprietà astratta che percepita attraverso il tatto
possa essere trasferita direttamente alla vista. Seguendo questa impostazione
diverse teorie della mente hanno sostenuto che al momento della nascita i sistemi sensoriali sono separati ed indipendenti e che un’integrazione o comunicazione tra di essi si verifica solo successivamente.
Tuttavia alcune ricerche sperimentali compiute sui neonati hanno dimostrato che già a un mese di vita le informazioni circa le proprietà degli oggetti ricavate attraverso il tatto possono essere utilizzate per discriminare attraverso la
vista; sembra dunque esserci già in quel periodo una forma di comunicazione
tra i diversi sistemi sensoriali (Meltzoff, Borton, 1979). In un esperimento condotto da Meltzoff e Borton i soggetti venivano lasciati liberi di esplorare con la
bocca o con le mani una tettarella liscia o una che presentava delle asperità. Il
tempo che veniva loro concesso per l’esplorazione tattile era di 90 secondi. Durante questa fase i bambini non potevano vedere gli oggetti che stavano toccando. Dopo questa fase di esplorazione ai bambini venivano presentate due grandi sfere arancioni, una liscia e una con delle asperità. Registrando il tempo totale
di fissazione visiva sull’oggetto è stato verificato che i neonati che avevano manipolato le tettarelle lisce preferivano guardare la sfera liscia mentre quelli che
avevano manipolato quella ruvida preferivano guardare quella ruvida. Questo
risultato è stato interpretato come prova dell’esistenza di un trasferimento
intermodale già ad un mese di vita.
In realtà però quest’interpretazione risulta problematica per almeno due ragioni. Innanzitutto di solito i neonati tendono a guardare più a lungo uno stimolo che non hanno mai conosciuto rispetto ad uno stimolo che hanno già
potuto esplorare. Questo è il principio che sta alla base del metodo dell’abituazione comunemente utilizzato nella ricerca con i bambini. Non si capisce
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dunque perchè nell’esperimento di Meltzoff e Borton il guardare più a lungo lo
stimolo venga interpretato come segno dell’avvenuto riconoscimento dello stimolo precedentemente esplorato con il tatto. In secondo luogo è difficile generalizzare agli adulti partendo dai risultati conseguiti coi neonati dal momento
che sembra che le competenze innate abbiano bisogno di particolari strutture
ambientali per essere attivate e debbano essere sfruttate in determinati periodi
critici. In effetti differenze inerenti allo sviluppo possono essere osservate anche
nelle varie fasi dell’infanzia. In un esperimento condotto da Arlette Streri con
neonati tre mesi, ad esempio, è stato dimostrato che a quell’età è presente un
trasferimento intermodale dal tatto alla vista ma non dalla vista al tatto (1987,
1991). La cosa più sorprendente è che lo stesso esperimento condotto però con
neonati di cinque mesi ha dimostrato che a quell’età si è sviluppato un trasferimento dalla vista al tatto ma che il trasferimento dal tatto alla vista è molto
indebolito (Streri, Molina, 1993). Nonostante tutte queste difficoltà inerenti all’interpretazione stessa dei risultati, c’è chi sostiene che le ricerche con i neonati
abbiano prodotto risultati coerenti con una risposta positiva al quesito (Gallagher,
1996).
8. Il quesito di Molyneux nella formulazione di Leibniz
Un’altra variante del quesito di Molyneux la possiamo trovare nei Nouveaux
essais sur l’entendement humain di Leibniz pubblicati nel 1765. Il filosofo in
questo testo argomentava a favore di una risposta positiva al quesito dando però
una propria interpretazione del problema. Egli infatti aggiungeva alla formulazione classica una condizione: il soggetto avrebbe dovuto essere informato che
quelli che gli venivano presentati erano cubo e una sfera. Secondo Leibniz avendo
avuto questa informazione preliminare il soggetto non avrebbe dovuto avere
alcun problema a riconoscere i due oggetti. Egli avrebbe dovuto, infatti, esclusivamente utilizzare la ragione e le sue precedenti esperienze tattili per giungere
alla nozione astratta di rotondità che gli avrebbe permesso di identificare la sfera, oppure alla nozione astratta di angolo che lo avrebbe aiutato a riconoscere il
cubo.
La cosa interessante è che in questa variante del quesito proposta da Leibniz
viene introdotta quella che gli psicologi cognitivi oggi chiamerebbero componente top down. Il riconoscimento degli oggetti dovrebbe, infatti, essere condizionato dalle conoscenze stesse del soggetto. L’idea che i processi percettivi siano influenzati dalla cultura e dall’esperienza personale del soggetto è stata portata
avanti in psicologia negli anni sessanta dal movimento del New Look (Bruner,
1957). Nella forma molto generale in cui veniva proposta da questo movimento
questa teoria è quasi sicuramente sbagliata. Tuttavia recenti ricerche hanno messo
in luce che la componente top down può avere un’influenza nella categorizzazione percettiva dello stimolo complesso, ad esempio nel caso dell’identificazione del viso (Beale, Keil, 1995). Non è dunque del tutto irragionevole pensare
che la componente top down possa influenzare la possibilità di utilizzare le
informazioni tattili in un compito di riconoscimento visivo.
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9. La componente motoria nel quesito di Molyneux
All’inizio di questo articolo abbiamo evidenziato che Molyneux aveva dato
due formulazioni del quesito e abbiamo mostrato come la formulazione pubblicata da Locke nell’Essay fosse semplificata rispetto alla prima. Infatti nella lettera del 1688 Molyneux inziava ponendo una domanda circa la capacità del
neovedente di identificare forme a tre dimensioni: «Whether he Could by his
sight, and before he touch them, know which is the Globe and which the Cube?»
(Locke, 1978). Tuttavia il quesito non si esauriva con questa domanda ma continuava con una domanda relativa alla capacità di questo soggetto di pianificare
un’azione: «Or whether he Could know by his sight, before the stretchd out his
Hand, whether he could not Reach them, to they were Remouved 20 or 1000
feet from him?» (Locke, 1978). Questo secondo problema però nel corso del
dibattito sul quesito è stato tralasciato. Tuttavia, alla luce della vera e propria
riscoperta del problema della trasformazione senso-motoria cui si è assistito nel
secolo scorso, non possiamo lasciarlo passare inosservato.
Noi non sappiamo quali siano state le ragioni che hanno indotto Molyneux
ad eliminare questa seconda domanda nella lettera del 1693, però possiamo fare
delle ipotesi. Possiamo ad esempio seguire quella che è stata suggerita dalla
Degenaar nel suo libro Molyneux’s problem: Molyneux, dopo aver letto l’Essay
di Locke, potrebbe essere giunto alla convinzione che un soggetto neovedente
in nessun caso avrebbe potuto percepire la distanza. Da questo punto di vista la
seconda domanda non aveva alcun senso e proprio per questo Molyneux la eliminò nella lettera successiva (Degenaar, 1996). Un’altra interessante ipotesi,
invece, potrebbe essere quella secondo cui in realtà il filosofo riteneva che questa seconda domanda fosse ridondante. Già la prima, infatti, presupponeva la
capacità del soggetto di percepire relazioni e strutture spaziali. La seconda domanda dunque non faceva altro che ribadire ciò che in realtà era già stato chiesto nella prima. Per questo Molyneux decise nella lettera del 1693 di dare una
formulazione più sintetica, ma non per questo semplificata, del quesito. Questa
ipotesi è particolarmente interessante perché se realmente le cose sono andate in
questa maniera dobbiamo pensare che Molyenux sia stato uno dei primi sostenitori di un’assunzione implicita in molte teorie della cognizione spaziale; Assunzione secondo cui ci sarebbe una perfetta corrispondenza tra le risposte
motorie e le risposte verbali ad uno stesso stimolo visivo. Questa ipotesi diventa
ancora più interessante se consideriamo che recenti ricerche hanno messo in
luce come in particolari situazioni questa corrispondenza in realtà non si verifica (Aglioti, De Souza, Goodale, 1995; Franz, 2001). Tali dissociazioni sono oggi
oggetto di diverse ricerche sperimentali e vengono generalmente interpretate
come sintomo dello sdoppiamento dell’informazione visiva a livello della corteccia primaria in due proiezioni. Una proiezione che va lungo la via ventrale e
l’altra che va lungo la via dorsale. Secondo una recente teoria questo sdoppiamento potrebbe essere interpretato come prova dell’esistenza di due sistemi
visivi nei mammiferi, uno deputato al riconoscimento degli oggetti l’altro al
controllo delle azioni su questi oggetti (Milner, Goodale, 1995).
Avendo messo in luce l’importanza della seconda domanda di Molyneux non
possiamo esimerci dal prenderla in considerazione. Analizzandola possiamo
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far emergere una serie di quesiti che riguardano la capacità di un soggetto
neovedente di pianificare e controllare un’azione motoria nel corso dello svolgimento di un compito di prensione. Noi sappiamo che quando un soggetto compie un compito di prensione si devono considerare due cose: la componente di
manipolazione e la componente di trasporto. La componente di manipolazione
riguarda la forma della mano nel momento in cui viene svolto il compito. Infatti, in soggetti normali la mano viene ad assumere una forma adeguata alla grandezza dell’oggetto che deve prendere. Sarebbe interessante verificare se anche
in un soggetto neovedente la componente di manipolazione risponde agli stessi
parametri. Quindi possiamo formulare una nuova variante del quesito in questa maniera: può un soggetto neovedente specificare in un programma motorio
per il reaching, la componente di manipolazione in maniera appropriata alla
grandezza fisica degli oggetti presentati? La componente di trasporto invece
riguarda la capacità di un soggetto, sempre in un compito di prensione, di stendere il braccio adeguatamente alla distanza a cui gli oggetti sono stati posti.
Anche in questo caso in soggetti normali il braccio si stende nella direzione
degli oggetti e in maniera conforme alla distanza che deve percorrere per raggiungerli. Altrettanto interessante sarebbe verificare se questi stessi parametri
sono rispettati nel caso di un soggetto neovedente, per cui un’ulteriore variante
potrebbe essere: può un soggetto neovedente specificare in un programma
motorio per il reaching, la componente di trasporto in maniera appropriata alla
distanza egocentrica degli oggetti?
Ed una terza variante di questa seconda domanda di Molyneux potrebbe invece riguardare la capacità di controllare e modificare le due componenti in base
al feedback che il soggetto riceve durante lo svolgimento dell’azione: può il
neovedente modulare, all’interno del ciclo di feedback per il controllo del reaching
durante lo svolgimento dell’azione, le componenti di trasporto e/o manipolazione in maniera appropriata alla distanza egocentrica e alla grandezza degli
oggetti presentati? L’importanza di questi temi è indubbia. Tuttavia non sono
stati presi in considerazione neanche nei recenti studi di pazienti ciechi e operati in età adulta; studi in cui non sono stati fatti test per verificare la capacità di
questi soggetti di pianificare e controllare un’azione motoria.
10. Protesi per non vedenti
Nel secolo scorso la ricerca sul quesito di Molyneux si è svolta prevalentemente attraverso l’analisi di soggetti ciechi dalla nascita che si sono sottoposti ad
un intervento chirurgico per acquistare la vista. Quello che però non bisogna
dimenticare è che la chirurgia non è l’unico modo per intervenire in caso di
cecità. Sono state studiate, ed in alcuni casi anche prodotte, delle protesi per non
vedenti. Attualmente sono in via di sperimentazione ma sicuramente in futuro
potranno costituire una valida alternativa all’intervento chirurgico in caso di
cecità. Analizzando questi tipi di protesi emerge un’ulteriore variante del quesito di Molyneux: può un soggetto cieco dalla nascita a cui sia stata applicata una
protesi per non vedenti riconoscere un cubo e una sfera, precedentemente conosciuti attraverso il tatto, solamente guardandoli?
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Ad oggi esistono tre tipi di protesi di questo tipo: la retina artificiale (Peachey,
Chow, 1999), i sistemi di sostituzione tattile visiva di Bach-y-Rita (Bach-Y-Rita,
Collins, Saunders, Scadden, 1969) e il sistema di visione artificiale di Dobelle
(2000). Tutti e tre questi sistemi sono in via di sperimentazione per cui non è
ancora possibile cercare una risposta al quesito basandosi sullo studio dei soggetti cui tali protesi sono state applicate. Tuttavia l’analisi del funzionamento di
questi sistemi può aiutarci a chiarire alcune cose. Innanzitutto possiamo cercare di capire se a questi soggetti si potrà sottoporre un test di Molyneux e inoltre
se in questi casi si riescono ad evitare i problemi che si avevano con i pazienti
sottoposti ad un intervento chirurgico. Attraverso l’analisi di questi sistemi possiamo cercare di capire se i soggetti a cui vengano applicate queste protesi possono acquistare la vista in maniera istantanea così come richiesto nel quesito.
Il prototipo di retina artificiale consiste in un disco del diametro di tre millimetri e spesso un decimo di un capello, che contiene 3500 minuscole cellule
solari al silicio. Queste cellule sono costruite in modo tale che se vengono attivate dalla luce producono degli impulsi elettrici. Questo tipo di retina artificiale
viene impiantata nel paziente attraverso un particolare intervento chirurgico
messo a punto da Gholam Peyman e José Pulido. Ad oggi la retina artificiale è
stata impianta nell’occhio di sei pazienti. Tre di questi erano affetti da retinite
pigmentosa e sono stati sottoposti all’impianto nel luglio del 2000 (Chase, 2000).
Gli altri tre invece si sono sottoposti all’intervento un anno dopo.
Purtroppo non possiamo soffermarci in maniera dettagliata nell’analisi del
funzionamento di questo tipo di protesi perché ancora non sono stati pubblicati
i resoconti degli studi relativi a questi pazienti. Non sappiamo dunque che cosa
i soggetti a cui è stata applicata questa protesi riescono a vedere e quanto sia
lungo il decorso post-operatorio che incide sulla stabilizzazione della loro funzionalità visiva. Tuttavia è indubbio che l’invenzione di questo tipo di protesi
costituisce una svolta nella ricerca sulla cecità dal momento che permette di
intervenire anche nei casi di retinite pigmentosa, patologia che fino a poco tempo fa non si sperava di poter curare.
Abbiamo invece informazioni più precise per quanto riguarda i sistemi di
sostituzione tattile visiva inventato da Bach-y-Rita. Questo tipo di protesi è costituita da una telecamera e da una matrice di 24 per 24 stimolatori tattili alimentati ad energia e prevede di fornire un’informazione visiva utilizzando quella
che è in realtà una stimolazione dei recettori tattili. Infatti, l’immagine catturata
attraverso la telecamera viene codificata nei termini di un pattern di stimolazione
tattile.
Il primo sistema inventato da Bach-Y-Rita negli anni sessanta prevedeva la
stimolazione elettrica della schiena (Bach-Y-Rita, Collins, Saunders, Scadden,
1969). Recentemente però la ricerca ha portato a nuovi risultati: nel tentativo di
inventare dei sistemi sempre più sofisticati sono stati costruiti un sistema di
stimolazione delle dita e uno della lingua (Kaczmarek, Tyler, Bach-Y-Rita, 1997).
Il principio su cui si basano questi sistemi è sempre lo stesso, ad un particolare
pattern corrisponde una particolare stimolazione tattile, tuttavia ci sono alcune
differenze tra i vari sistemi per la schiena, per le dita e per la lingua. In particolare quest’ultimo, che prevede la stimolazione del dorso della lingua, sembra
funzionare meglio rispetto agli altri. Infatti richiede solo il 3% del voltaggio e
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molta meno corrente. Inoltre la saliva assicura un buon contatto elettrico (Bachy-Rita, Kaczmarek, Tyler, Garcia-Lara, 1998).
Tutti e tre questi sistemi permettono ai soggetti di percepire visivamente ed
identificare diverse immagini. Ad esempio persone cieche che hanno utilizzato
questo sistema sono riuscite a riconoscere semplici figure come cerchi, quadrati
e triangoli e a compiere un’azione motoria sullo stimolo presentato (riuscivano
a prendere una palla che veniva fatta rotolare su di un tavolo). Inoltre questi
soggetti erano capaci di riconoscere le facce delle persone. A questo proposito è
interessante evidenziare che le immagini che vede il cieco che usa il sistema di
sostituzione sensoriale sono prive di contenuto emotivo. Proprio per questo, per
questi soggetti la vista di una persona amata è di solito deludente. I messaggi
emotivi che una lunga esperienza visiva permette di avere, infatti, non possono
essere indotti attraverso il sistema. Secondo Bach-Y-Rita questo problema potrebbe forse essere legato al ridotto numero di ore che questi soggetti hanno
avuto a disposizione per provare il sistema di sostituzione sensoriale (Bach-YRita, 1997). Sembra quasi che il soggetto debba imparare a vedere i messaggi
emotivi legati a ciò che sta guardando.
Il principio della sostituzione sensoriale è alla base anche di un altro sistema
che permette attraverso la percezione acustica di avere una rappresentazione
visiva dello spazio circostante (Cronly-Dillon, Persaud, Gregory, 1999; CronlyDillon, Persaud, Blore, 2000 ). Per questo tipo di sistema occorre innanzitutto
trasformare l’immagine spaziale in forme sonore. Quindi tali suoni vengono
fatti sentire al soggetto che analizzandoli riesce a creare un’immagine visiva di
ciò che questi suoni rappresentano. La trasformazione iniziale delle immagini
visive in suoni viene fatta tramite una video camera digitale collegata ad un
apposito computer. In questa maniera è possibile trasformare in suoni alcuni
semplici elementi geometrici: una linea orizzontale viene rappresentata attraverso una veloce ripetizione di una singola nota, una linea verticale viene rappresentata attraverso una serie di note diverse suonate tutte simultaneamente
mentre una linea obliqua viene invece rappresentata attraverso un scala di note.
Queste rappresentazioni sonore di semplici linee vengono utilizzate e combinate insieme dalle persone cieche o bendate per ricostruire l’immagine di figure
più complesse. Prima che ai soggetti vengano sottoposti dei suoni da analizzare
viene loro insegnato come vengono rappresentate queste linee semplici. Il soggetto poi si limita ad usare questi insegnamenti per riuscire a riconoscere forme
più complesse costruite attraverso una combinazione dei suoni che rappresentano queste semplici linee. Questo tipo di sistema per il momento è stato sperimentato solo con soggetti ciechi che però per parecchio tempo non avevano
avuto problemi alla vista o con soggetti vedenti e bendati. Sembra difficile pensare di poter utilizzare questo sistema con soggetti ciechi dalla nascita. Infatti
attraverso questo tipo di sistema si riesce ad avere una rappresentazione dello
spazio. Nel caso in cui la persona abbia già avuto delle esperienze visive è possibile che tale rappresentazione sia visiva. Probabilmente però attraverso questo
sistema il cieco congenito può crearsi una rappresentazione dello spazio che
però non potrà essere tradotta in immagine visiva. Ci è comunque sembrato
importate segnalare anche l’esistenza di questo tipo di sistema come ulteriore
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prova del fatto le funzioni assolte dalla vista possono essere assolte anche da altri
sensi.
Infine, un altro tipo di protesi per non vedenti è quella inventata da Dobelle
e che è stata sperimentata su un soggetto che era diventato cieco a 36 anni. Anche in questo caso l’occhio del soggetto non svolge alcun ruolo. La sua funzione
viene svolta da una piccola telecamera e da un sensore di ultrasuoni a distanza
posti sugli occhiali che il soggetto deve portare. Il sensore è collegato tramite un
cavo ad un piccolo computer attaccato alla cintura del paziente. I segnali di
distanza e le immagini captate dalla telecamera vengono elaborate dal computer che estrae la posizione dei contorni degli oggetti presenti nella scena. In
seguito, il computer da un segnale ad un altro microcomputer che trasmette
impulsi elettrici ad un impianto di 68 elettrodi di platino impiantati nella superficie della corteccia visiva del cervello. La stimolazione elettrica della corteccia
fa comparire nel campo visivo dei lampi di luce, detti fosfeni. La struttura spaziale
dei fosfeni corrisponde a quella del mondo esterno captato con la telecamera.
Questo permette al non vedente di imparare in breve tempo a svolgere compiti
nello spazio circostante.
Il soggetto studiato da Dobelle, ad esempio, è stato sottoposto all’intervento
di impianto degli elettrodi nel 1978 e oggi ha raggiunto un’acuità visiva di 20/
400; riesce a leggere le lettere di Snellen grandi due pollici e poste a 5 piedi di
distanza così come gli anelli di Landtold, l’HOTV test, le E di Tumbling. Paradossalmente ha più difficoltà a leggere lettere grandi piuttosto che piccole perché fuoriescono dal suo «tunnel» visivo. Inoltre riesce a muoversi in una stanza
dove ci sono tre manichini senza urtarli, riesce a prendere un cappello appeso al
muro e a metterlo sulla testa di uno dei manichini e riesce a seguire un bambino
di 8 anni che cammina per la stanza.
Analizzando ciò che un soggetto che usa la protesi studiata da Dobelle può
arrivare a vedere e il modo in cui tale protesi funziona possiamo renderci subito
conto che siamo molto vicini alla situazione di cui parla Molyneux. A differenza
dei pazienti ciechi ed operati in età adulta, infatti, in questo caso non si verificano problemi legati al trauma post-operatorio e non ci sono problemi legati alla
riabilitazione visiva di questi soggetti. L’unico intervento che viene eseguito e
che certamente può avere un decorso post-operatorio lungo è quello che serve
per impiantare gli elettrodi. Tuttavia tale intervento viene effettuato molto prima del momento in cui si mette in funzione il sistema. Questo vuol dire che in
teoria un individuo che prova questo tipo di protesi dovrebbe poter vedere tutto
non appena accende il sistema. Purtroppo non abbiamo informazioni relative
alla prima volta che il soggetto descritto da Dobelle ha accesso il sistema. L’unica cosa che sappiamo e che proprio la lettura dei casi di cecità operata in età
adulta aveva convinto Dobelle della necessità di parecchio tempo perché i soggetti riuscissero ad usare il sistema. Invece dopo soltanto pochi giorni il soggetto
descritto nell’articolo del 2000 dimostrò di essere capace a riconoscere visivamente gli stimoli presentati. Recentemente otto pazienti si sono sottoposti ad un
impianto ed hanno provato questo sistema di visione artificiale. Tali pazienti
hanno dimostrato di vedere dei fosfeni, anche colorati. Tra questi pazienti ce
n’erano alcuni che erano rimasti ciechi per oltre 40 anni che sono riusciti come
gli altri a vedere i fosfeni. I risultati conseguiti con questi pazienti sono però
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preliminari ed ancora incerti. I pazienti hanno, infatti, ricevuto l’impianto solo
nell’aprile del 2002.
Purtroppo anche in questo caso sembra difficile poter dare una risposta
empirica al quesito di Molyneux. Innanzitutto bisogna considerare che le informazioni fornite dalla stimolazione elettrica sono minime. Nonostante il soggetto riesca a vedere tramite queste stimolazioni la sua visione è comunque limitata dalla risoluzione spaziale e temporale della rappresentazione dell’ambiente
spaziale e temporale dei fosfeni, anche se già dal 1978 si sono fatti molti progressi in questo senso e di sicuro in futuro si riusciranno a fornire informazioni
sempre maggiori. In secondo luogo bisogna tenere conto che il soggetto su cui
Dobelle sta sperimentando il sistema è diventato cieco a 36 anni. Quindi non
possiamo sapere quanto la sua capacità di vedere i fosfeni sia influenzata dalle
esperienze visive che ha avuto prima che insorgesse la cecità. Inoltre, sempre nel
1978 la placca con gli elettrodi è stata impianta su un altro soggetto che aveva
perso la vista quando aveva cinque anni che però non è mai riuscito a vedere i
fosfeni anche vent’anni dopo l’intervento. Secondo Dobelle questo problema
potrebbe essere dovuto al fatto che la sua corteccia visiva non si è sviluppata. Se
questo fosse vero dovremmo concludere che il sistema di Dobelle non può essere utilizzato con soggetti affetti da cecità. Tuttavia questa è soltanto un’ipotesi.
In realtà non sappiamo con certezza che cosa non ha funzionato con questo
paziente, se davvero il sistema non può essere utilizzato con soggetti ciechi dalla
nascita o se invece non possa in futuro costituire la situazione più vicina a quella richiesta nel quesito.
11. La simulazione del cieco di Molyneux
Per concludere vorremmo proporre un’ultima versione del quesito di
Molyneux. Si tratta di una versione molto interessante per lo studio della cognizione umana, ma ancora in larga misura esplorata. Immaginiamo di aver costruito due modelli di un cubo e di una sfera, più o meno della stessa grandezza.
Ipotizziamo quindi di avere un programma che simula un braccio robot. Questo braccio tocca i due oggetti e dopo averli toccati passa informazioni a una
serie di unità input in una rete neurale. La rete neurale deve essere costruita in
maniera tale da produrre attivazioni diverse delle unità di output a seconda che
le unità di input siano relative ad informazioni riguardanti il cubo o la sfera.
Ovviamente sarebbe necessario che tale rete neurale venisse creata appositamente per questo esperimento. Comunque esiste una vasta letteratura che mostra la possibilità di creare reti neurali che imparano a fare delle classificazioni
corrette dopo un certo numero di sessioni di training. Immaginiamo poi di collegare questo sistema con un secondo programma che simula un occhio robot
che esplora visivamente gli oggetti. Quest’occhio fornisce nuove infromazioni
alle unità di input nella rete neurale. Immaginiamo però che l’occhio non sia
mai stato attivato prima, e che quindi non ci sia stato alcun tipo di addestramento relativo alle informazioni visive riguardanti il cubo e la sfera. A questo punto
proviamo a guardare quali attivazioni vengono prodotte nelle unità di output. Il
lavoro di classificazione funzionerà allo stesso modo di quello basato sulle unità
di input date dal braccio robot? Nel caso in cui la risposta sia negativa, ci vuole
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un lungo periodo di training perché possano diventarlo? Questo periodo è più
lungo di quello che era stato necessario per il braccio?
Ovviamente le risposte a queste domande dipendono dall’architettura stessa
della rete neurale e dalla maniera in cui è stata costruita. Inoltre bisogna segnalare che c’è il rischio di cadere in un circolo vizioso. Infatti, nel momento stesso
in cui decidiamo come programmare il braccio e come vengono codificate le
informazioni che verranno mandate alla rete neurale, in realtà poniamo dei vincoli al modo in cui gli output verranno classificati. Infatti, se stabiliamo che gli
input relativi ai due oggetti guardati e quelli relativi ai due oggetti toccati sono
simili allora necessariamente sarà possibile una classificazione degli output in
entrambi i casi. Si potrebbe cercare di ridurre almeno in parte questo problema
cercando di programmare il braccio tenendo conto di conoscenze sulla biologie
dei sistemi visuomotorio e visivo in un animale. Questa conoscenza è però ad
oggi ancora incompleta e non sarebbe facile catturarne le caratteristiche critiche
in un modello matematico, che, vale la pena sottolinearlo, per definizione costituisce una rappresentazione semplificata e selettiva del reale. Ci è sembrato comunque interessante segnalare questa variante del quesito perché se si riuscissero ad eliminare i problemi relativi alla fase di programmazione si potrebbe
tentare una simulazione del un test di Molyneux,
12. Conclusione
Alla fine del Seicento Molyneux formulava un esperimento mentale che riguardava la natura e l’origine della cognizione umana e il rapporto tra i vari
sensi. Abbiamo dimostrato che nel secolo scorso questo esperimento mentale è
stato trattato come un test empirico e che questo tipo di ricerca ha rischiato di
oscurarne l’importanza. Lo studio dei pazienti ciechi e operati in età adulta non
può in nessun caso dare una risposta empirica al quesito di Molyneux dal momento che la situazione di questi pazienti non corrisponde alla situazione del
cieco di cui parla il filosofo. In realtà però al suo primo apparire il quesito era
stato trattato come thought experiment, ovvero come un punto di partenza per
una più ampia riflessione sul problema della cognizione umana. Abbiamo dunque proposto di tornare a quest’interpretazione originaria del problema. Seguendo i termini dell’odierno dibattito sugli esperimento mentali, il quesito può
essere interpretato sia come argomentazione teorica che come dispositivo euristico
utile alla costruzione di esperimenti reali. Partendo da questa interpretazione
possiamo notare come esso possa essere scomposto in una serie di quesiti sull’origine e la natura della cognizione umana che possono costituire il punto di
partenza per la ricerca futura. In questo modo abbiamo ripristinato l’importanza dei temi che sono stati al centro del dibattito sul quesito per oltre tre secoli;
temi che riguardano non soltanto la capacità percettiva di soggetti neovedenti
ma anche il problema del trasferimento intermodale nei bambini e negli adulti.
Ci proponiamo di continuare il nostro lavoro seguendo alcune delle linee ricerca che abbiamo proposto nel presente studio.
67
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