FALCE E PISELLO

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FALCE E PISELLO
FALCE E PISELLO
CARMINA PRIAPEA
Interpretazioni.
I.
O tu che di questi rozzissimi
versacci gli scherzi scurrili
per leggere stai, sù risparmiati
le ciglia aggrottate che al gretto
decoro latino si addicono.
Non abita in questo tempietto
non Diana*, non Vesta* né Pallade*
che nacque dal capo del padre,
ma c'è, con un cazzo lunghissimo,
Priapo, il custode rubizzo
il quale non tiene mai gli inguini
coperti da veli, bendaggi o vestiti.
E dunque o distendi una tunica
su ciò che nasconder conviene
oppure ai versi rivolgiti
con gli occhi con cui guardi un pene.
*celebri divinità dell'Olimpo greco.
Carminis incompti lusus lecture procaces,
conveniens Latio pone supercilium.
Non soror hoc habitat Phoebi, non Vesta, sacello
nec quae de patrio vertice nata dea est,
sed ruber hortorum custos, membrosior aequo,
qui tectum nullis vestibus inguen habet.
Aut igitur tunicam parti praetende tegendae
aut quibus hanc oculis adspicis ista lege.
II.
Questi miei versi per il tuo giardino
li ho scritti, Priapo, solo per giocare
e non certo alle stampe li destino
perché li feci senza cesellare.
E non, come i poeti laureati,
le Sante Muse in questo luogo io tolsi
non proprio verginale, ché mancati
le vene mi sarebbero ed i polsi
a condurre le vergini sorelle
e il coro delle Pieridi* al cospetto
del cazzo di Priapo. Perciò quelle
cose che, stando in ozio nel tempietto,
sui muri scrissi, anche se non belle,
accettale, ti prego, con diletto.
*altro nome delle Muse.
Ludens haec ego, teste te, Priape,
horto carmina digna, non libello
scripsi non nimium laboriose.
Nec Musas tamen, ut solent poetae,
ad non virgineum locum vocavi:
nam sensus mihi corque defuisset
castas, Pierium chorum, sorores
auso ducere mentulam ad Priapi.
Ergo quicquid id est, quod otiosus
templi parietibus tui notavi,
in partem accipias bonam, rogamus.
III.
Potrei chiederti poco chiaramente:
dàmmi ciò che puoi dar, senza paura
di perdere alcunché, continuamente;
dàmmi quello che quando una matura
barba deturperà il bell'aspetto
forse tu vorrai dare inutilmente;
quello che diede a Giove il giovinetto*,
il qual, rapito in cielo anticamente
dall'aquila del dio, versa all'amante
in auree coppe il nettare gradito;
quel che la prima notte dà tremante
la verginella al cùpido marito,
inesperta e paurosa che le faccia
altra ferita; ma a parole chiare:
Damm'il culo, mi'amor! Che vuoi che faccia
se la mia musa** è trucida e volgare?
*Ganimede di cui Giove si innamorò e che rapì trasformandosi in aquila per portarlo sull'Olimpo e
fargli fare il coppiere degli dei. **Minerva, che l'ignoto poeta ha scambiato per una Musa.
Obscure poteram tibi dicere 'da mihi quod tu
des licet adsidue, nil tamen inde perit.
Da mihi quod cupies frustra dare forsitan olim,
cum teget obsessas invida barba genas,
quodque Iovi dederat qui raptus ab alite sacra
miscet amatori pocula grata suo,
quod virgo prima cupido dat nocte marito,
dum timet alterius vulnus inepta loci.'
Simplicius multo est 'da pedicare' latine
dicere. Quid faciam? Crassa Minerva mea est.
IV.
Priapo, a te votati
offre dipinti Làlage*
osceni, ed ispirati
ai versi di Elefàntide **
e vuol che tu prometti
che svolga la sua opera
conforme a quei quadretti.
*Prostituta del tempo, non altrimenti nota. ** Poetessa greca realmente esistita e autrice di versi
osceni.
Obscenas rigido deo tabellas
dicans Elephantidos libellis
dat donum Lalage rogatque temptes
si pictas opus edat ad figuras.
V.
Un giorno dura legge fu dettata
da Priapo a chi ruba e par che sia
quella che ti sarà fra un po' spiegata
da questa semplicissima poesia:
“Impunemente tu mi ruberai
tutto ciò che il mio orto possiede
se prometti che poi mi darai
tutto ciò che il tuo orto possiede.”
Quam puero legem fertur dixisse Priapus
versibus haec infra scripta duobus erit:
quod meus hortus habet sumas impune licebit
si dederis nobis quod tuus hortus habet.
VI.
Io, Priapo, benché di legno sia
e siano come me la falce e il pene,
come ben puoi vedere, tuttavia
ti prenderò un giorno e se ciò avviene
ti terrò stretta a me e con quest'affare
tanto lungo quant'è e più tirato
d'un fil di cetra, senza lesinare
t'entrerò fino al settimo costato.
Qui sum ligneus, ut vides, Priapus
et falx lignea ligneusque penis,
prendam te tamen et tenebo prensum
totamque hanc sine fraude quantacumque est
tormento cithraque tensiorem
ad costam tibi septimam recondam.
VII.
Quando parlo sbaglio una lettera:
“mi” “ti” faccio: è la lingua: mi scivola.
Cum loquor una mihi peccatur littera: nam te
pe* dico semper blesaque lingua mihi est.
*giochino “enigmistico”; ce n'è un altro in questi componimenti.
VIII
Priapo:
Andate via di qui, caste matrone,
non è ben che leggiate porcherie!
Ma loro se ne fregan, le babbione,
e imboccano dritte questa via.
Non vi meravigliate! A quanto pare
le pudiche signore san godere
e reggere anche loro con piacere
la vista di un cosi grazioso affare.
Matronae procul hinc abite castae:
turpe est vos legere impudica verba.
Non assis faciunt euntque recta.
Nimirum sapiunt videntque magnam
matronae quoque mentulam libenter.
IX
Ti domandi perché tenga scoperte
le parti basse. Ma prima di farmi
questa domanda, dimmi se coperte
son soliti gli dei portare le armi.
Del fulmine fa Giove mostra a tutti
né cerca di nascondere il tridente
colui ch'è venerato dio dei flutti*
né la spada, per cui Egli è potente,
Marte nasconde e Pallade non cela
la lancia nel tepore del suo petto.
Febo arrossisce quando si rivela
con le sue frecce d'oro? Ed il suo aspetto
forse nasconde Artemide se porta
la faretra? O ha paura di mostrare
Ercole la sua clava che è contorta
da molti nodi? O tenta di celare
sotto il mantello la sua verga il dio
dai piedi alati?** Né fu mai veduto
coprir con veste l'esil tirso Lio.***
E te, o Amore, chi t'ha mai veduto
celar la fiamma? Io sol commetterei
reato nel seguir cotesto andazzo?
Se un'arma non avessi, resterei
certo indifeso e dunque mostro il cazzo.
*Poseidone (Nettuno); ** Ermes (Mercurio); *** Dioniso (Bacco).
Cur obscena mihi pars sit sine veste requiris:
quaero tegat nullus cur sua tela deus.
Fulmen habet mundi dominus; tenet illud aperte
nec datur aequoreo fuscina tecta deo.
Nec Mavors illum, per quem valet, occulit ensem
nec latet in tepido Palladis hasta sinu.
Nam pudet auratas Phoebum portare sagittas?
Clamne solet pharetram ferre Diana suam?
Num tegit Alcides nodosae robora clavae?
Sub tunica virgam num deus ales habet?
Quis Bacchum gracili vestem praetendere thyrso?
Quis te celata cum face vidit, Amor?
Nec mihi sit crimen, quod mentula semper aperta est:
hoc mihi si telum desit inermis ero.
X.
Stolta fanciulla, che cos'hai da ridere?
Non Prassitele* o Scopa* m'han scolpito
né la mano di Fidia*. Mi fe' nascere
un pastore da un tronco rinsecchito.
Sgrossatolo, mi disse: “Sii Priapo!”
Ma non ti basta! Tu mi guardi ancora
e ricominci a ridere da capo.
Tu fai così? Che vuoi che dica? Allora
non mi dovrebbe far meravigliare
che ti sembri una cosa tanto comica
questo coso che qui vedi spuntare
fortemente aggettante dai miei inguini.
*celebre scultore dell'antica Grecia.
Insulsissima quid puella rides?
Non me Praxiteles Scopasve fecit
nec sum phidiaca manu politus,
sed lignum rude vilicus dolavit
et dixit mihi 'tu Priapus esto!'
Spectas me tamen et subinde rides:
nimirum tibi salsa res videtur
adstans inguinibus columna nostris.
XI.
Bada ch'io non ti prenda, giovanotto,
che se ti prendo mal non ti farò
con un bastone né con il sarchiello
crudelmente ferire ti vorrò;
ma te lo metterò tutto nel culo
e ti aprirò talmente lo sfintere
che crederai di non avere più
le pieguzze nel buco del sedere.
Ne prendare cave! Prenso nec fuste nocebo
saeva nec incurva volnera falce dabo,
Traiectus conto sic extendere pedali
ut culum rugas non habuisse putes.
XII.
Una tale, d'eta non inferiore
alla madre di Ettore* e germana
della Sibilla**, credo, e certo anziana
quanto colei*** che Teseo vincitore
sul rogo ritrovò (tempi lontani!),
levando al cielo le rugose mani
viene con passo stanco qui a pregare
il cazzo mio di farla ancor campare.
Proprio ieri pregando sputò un dente
dei tre che le restavano. Le ho detto:
“Portati via di qui quell'indecente
maschera e bada ben che dal cospetto
mio s'allontani presto e che si celi
sotto la sporca tunica o il mantello,
com'è solita far, né si riveli
alla luce del sole, poiché in quello
orribile crepaccio si spalanca,
tanto che, così aperta, rassomiglia
al nasone peloso, poco manca,
di Epicuro**** annoiato che sbadiglia.
*Ecuba, regina di Troia, nell'Iliade; **celebre profetessa campana che distribuiva i suoi responsi da
una grotta vicino Napoli; *** Ecale [vecchina che diede ospitalità a Teseo lì di passaggio e che
l'eroe al ritorno trovò morta (mito raccontato da Callimaco, poeta greco, in un suo poemetto che
porta appunto il titolo “Ecale”)];****celebre filosofo greco.
Quaedam haud iunior Hectoris parente,
cumaeae soror, ut puto, Sibyllae,
aequalis tibi, quam domum revertens
Theseus repperit in rogo iacentem,
infirmo solet huc gradu venire
rugosasque manus ad astra tollens
ne desit sibi mentula rogare.
Hesterna quoque luce dum praecatur
dentibus de tribus excreavit unum.
'Tolle' inquam 'procul ac iube latere
scissa sub tunica stolaque russa,
ut semper solet, et timere lucem,
qui tanto patet indecens hiatu,
barbato macer eminente naso,
ut credas Epicuron oscitari.'
XIII.
Avverto che ogni giovane
il culo rotto avrà
e perderà ogni vergine
la sua verginità:
la terza pena all'ispido
ladrone toccherà.
Percidere, puer, – moneo – futuere, puella.
Barbatum furem tertia poena manet.
XIV.
Entra pure, chiunque tu sia,
non pensar di far bene ad evitare
il tempietto d'un dio buontempone.
E se è di notte e ti fa compagnia
una fanciulla, non è una ragione
per temere di entrare.
Tale rispetto, ai numi d'alte sfere!
Noi siamo birboni,
modesti iddii di periferia,
e teniamo i coglioni
all'aperto, sia sotto il sole
che sotto la pioggia. Chi vuole,
entri senza paura: che importa se è stato
da poco al casino e di nera
fuliggine s'è impiastricciato?
Huc huc, quisquis es, in dei salacis
Deverti grave ne puta sacellum.
Et si nocte fuit puella tecum,
hac re quod metuas adire, non est.
Iste caelitibus datur severis,
nos vappae sumus et pusilla culti
ruris numina, nos pudore pulso
stamus sub Iove coleis apertis.
Ergo quilibet huc licebit intret
nigra fornicis oblitus favilla.
XV.
Chiunque oserà alzar mani rapaci
sul campicello che mi fu affidato
potrà provare quanto sian fallaci
le voci che mi dicono castrato.
Penserà: “Tra i cespugli, in isolato
posto, nessuno mai verrà a sapere
che da Priapo io fui cavalcato.”
Sbaglia. La cosa si potrà vedere
che presenti saran due testi... moni.
Conmisso mihi non satis modestas
quicumque attulerit manus agello,
is me sentiet esse non spadonem.
Dicat forsitan haec sibi ipse: 'Nemo
hic inter frutices loco remoto
perscissum sciet esse me.' sed errat:
magnis testibus ista res agetur.
XVI.
Le mele con cui Ippomene* a suo padre
Scheneo* rapì la rapida Atalanta*,
quelle di cui il magnifico giardino
delle Esperidi** un tempo s'adornava,
quelle di cui Nausica*** caricava
molto probabilmente il grembiulino
spaziando per i campi di suo padre,
quella che Aconzio**** incise col messaggio
onde, letto che l'ebbe, destinata
fu la fanciulla al giovinetto ardente,
per il suo campicello assai fiorente,
di tutte queste mele il pio padrone
alla mensa del dio vuol fare omaggio
che alla luce del sol nudo si espone.
* mito: Atalanta chiede al padre Scheneo di non darle marito e il padre per accontentarla proclama
che la potrà sposare solo colui che la vincerà nella corsa e che, se non vincerà, dovrà morire per
mano di lei: Ippomene la sfida e prima di essere raggiunto da lei ed essere quindi trafitto la distrae
gettandole fra i piedi delle mele d'oro, per cui la fanciulla si attarda a raccoglierle e viene sconfitta;
**mito: erano ninfe che abitavano nell'estremo occidente del mondo allora conosciuto dove
avevano giardini meravigliosi con alberi che producevano mele d'oro. ***mito: celebre personaggio
dell'Odissea: Ulisse, deposto dalle acque del mare sulla costa dei Feaci, viene raccolto dalla giovane
principessa, Nausica, che si innamora ma invano di lui. **** mito: Aconzio per sposare Cidippe,
che non voleva neanche lei prendere marito, la sfida nella corsa e la vince perché le getta davanti,
mentre corre, una mela d'oro su cui e incisa la scritta “Giuro che sposerò Aconzio.”: la ragazza la
legge e resta legata dal giuramento in essa contenuto.
Qualibus Hippomenes rapuit schoeneida pomis,
qualibus Hesperidum nobilis hortus erat,
qualia credibile est spatiantem rure paterno
Nausicaam pleno saepe tulisse sinu,
quale fuit malum quod litera pinxit Aconti
qua lecta est cupido pacta puella viro,
talia cumque puer dominus florentis agelli
inposuit mensae, nude Priape, tuae.
XVII.
Che ti prende? Perché, guardian molesto,
non vuoi che venga il malintenzionato?
Lascia che venga: se ne andrà assai mesto
e col culo parecchio dilatato.
Quid mecum tibi, circitor moleste?
Ad me quid prohibes venire furem?
Accedat sine: laxior redibit.
XVIII.
Il mio cazzo ha una dote rinomata:
non c'è fica per lui troppo allargata.
Commoditas haec est in nostro maxima pene:
laxa quod esse mihi femina nulla potest.
XIX.
Ma quando Teletusa*, il puttanone
che viene qui ad agitare tutta spoglia
natiche e ventre in ogni direzione,
smuoverà sculettando in te la voglia,
non te soltanto, io penso, ecciterebbe,
o Priapo, ché forse un'eccezione
perfino il casto Ippolito** farebbe.
*prostituta non altrimenti nota. ** celebre personaggio mitologico, figlio di Teseo, noto perché
preferiva la caccia all'amore e dunque “casto”. In una tragedia che ha per titolo il suo nome
Euripide racconta che di questo bellissimo giovane si innamorò senza successo la matrigna Fedra.
La donna, respinta, si uccise lasciando una lettera a Teseo in cui denunciava calunniosamente
Ippolito di aver attentato alle di lei castità. Teseo invoca sul figlio la maledizione di Poseidone e
Ippolito muore per intervento del dio.
Hic quando Telethusa circulatrix
quae clunem tunica tegente nulla
extis latius altiusque movit
crissabit tibi fluctuamte lumbo,
haec sic non modo te, Priape, p[ossit,
privignum quoque sed movere Phaedrae.
XX.
Dei fulmini, si sa, Giove è il signore
e Nettuno ha per arma il suo tridente,
Minerva l'asta e dicono potente
Marte per la sua spada, Bacco ognora
con i tirsi sottili dà battaglia,
e che per man d'Apollo sia scagliata
dicon la freccia ed è di clava armata
la mano destra d'Ercole invincibile.
E io infine, Priapo, fo paura
per la mia nerchia tesa tesa e dura.
Fulmina sub Iove sunt, Neptuni fuscina telum;
ense potens Mars est; hasta, Minerva tua est;
sutilibus Liber committit proelia thyrsis;
fertur apollinea missa sagitta manu;
Herculis armata est invicti dextera clava;
at me terribilem mentula tenta facit.
XXI.
Son troppe, son fregato:
orsù, Priapo, tu non mi tradire.
Via, non farmi la spia:
le dolcissime mele che ti ho dato
non andare a ridire
che le ho rubate sulla Sacra Via.
Copia me perdit: tu suffragare rogatus,
indicio nec me prode, Priape, tuo;
haec quaecumque tibi posui vernacula poma
de sacra nulli dixeris esse via.
XXII.
Se una donna presto presto
mi farà una marachella
così un uomo o un giovanotto,
mi darà la bocca quello,
mi darà la fregna quella,
e avrà il terzo il culo rotto.
Femina si furtum faciet mihi virve puerve
haec cunnum, caput hic, praebeat ille nates.
XXIII.
Chi senza comperarle porta via
rose o viole o mele oppur verdura
prego che resti senza compagnia
senza femmine o maschi e la tortura
ch'io soffro soffra: il cazzo eternamente
batta sul suo ombelico inutilmente.
Quicumque hic violam rosamque carpet
furtivumque olus aut inempta poma,
defectus pueroque feminaque
hac tentigine quam videtis in me,
rumpatur precor usque, mentulaque
nequiquam sibi pulset umbilicum.
XXIV.
Dell'orto fertilissimo il padrone
a guardia qui mi pose e m'ha ordinato
di sorvegliarlo. E dunque tu, ladrone,
sarai punito e se dirai indignato:
“Sopporterò io questo per un cavolo?”
io ti dirò: “E certo, per un ca...volo!”
Hic me custodem fecundi vilicus horti
mandti curam iussit habere loci.
Fur, habeas poenam, licet indignere 'feramque
propter olus' dicas 'hoc ego? - Propter olus.
XXV.
Questo mio scettro, se verrà tagliato
più mai non produrrà nessuna foglia;
non lo fate, di esso hanno gran voglia
le fanciulle più allegre e più briccone.
Spesso da molti re è desiderato
e anche le “regine” nobilissime
gli danno baci ardenti a profusione.
Ma solo nel budello
del ladro dritto andrà fino al pisello
e fino alla radice dei coglioni.
Hoc sceptrum, quod ubi arbore est recisum,
nulla iam poterit virere fronde,
sceptrum quod pathicae petunt puellae,
quod quidam cupiunt tenere reges,
cui dant oscula nobiles cinaedi,
intraque viscera furis ibit usque
ad pubem capulumque coleorum.
XXVI.
Dunque, Romani, poi che per salvarmi
non riesco a vedere altra maniera,
o voi vi decidete ad amputarmi
il membro che, ogni notte, le indiscrete
vicine mi tormentano, infojate
più che uccelli in amore a primavera
oppure io scoppierò e voi resterete
senza Priapo. Avanti, giudicate
personalmente quanto sia spompato
e macilento e pallido e spossato.
Io che un tempo ero solito scucire
forte e rubizzo i più duri ladroni
sento i reni mancarmi e dai polmoni
sputo sangue e non faccio che tossire.
Porro (nam quis erit modus?), Quirites,
aut praecidite seminale membrum,
quod totis mihi noctibus fatigant
vicinae sine fine prurientes,
vernis passeribus solaciores,
aut rumpar nec habebitis Priapum.
Ipsi cernitis, ecfututus ut sim
confectusque macerque pallidusque
qui quondam ruber et valens solebam
fures caedere quamlibet valentes.
Defecit latus et periculosam
cum tussi miser expuo salivam.
XXVII.
Conosciuta da tutti a Caracalla,
passatempo dolcissimo ai cafoni,
Quinzia, che sa agitare quando balla
le natiche vibranti, questi doni,
o Priapo, ti porta: due strumenti,
il cembalo ed il crotalo, eccitanti
d'ogni osceno prurito, ed un tamburo
da suonar con i pugni. Prega in cambio
d'esser sempre gradita ai propri amanti
e che l'abbian, costoro, tutti quanti,
come te sempre dritto e sempre duro.
Deliciae populi, magno notissima circo
Quintia, vibratas docta movere nates,
cymbala cum crotalis, pruriginis arma, Priapo
ponit et adducta tympana pulsa manu.
Pro quibus ut semper placeat spectantibus orat
tentaque ad exemplum sit sua turba dei.
XXVIII.
Tu che stai meditando di rubare
nell'orto e a malincuor ti tiri indietro,
sappi che un cazzo lungo mezzo metro
t'aspetta qui prontissimo a inculare.
E se non basterà la punizione
pur cosi grave e dura, andrò a toccare
più alte cime con il mio bastone.
Tu, qui non bene cogitas, et aegre
carpendo tibi temperas ab horto
pedicabere fascino pedali.
Quod si tam gravis et molesta poena
non profecerit, altiora tangam.
XXIX.
Ch'io muoia or or, Priapo, se il rossore
non m'assale nel dir degli sfondoni;
ma quando tu, un dio, senza pudore
metti in mostra un bel paio di coglioni
se un'idea debbo rendere lubrica
debbo dir pene a pene e fica a fica.
Obscenis, peream, Priape, si non
uti me pudet improbisuqe probris:
sed cum tu posito deus pudore
ostendis mihi coleos patentes,
cum cunno mihi mentula est vocanda.
XXX.
“Tu che minacci con la falce e il pene,
o Priapo, sai dirmi quale via
mi conduce alla fonte?” “Certo. Vai
per le vigne, ma bada, se ti viene
l'idea di coglier l'uva, l'acqua avrai...
da ben diversa fonte tuttavia.”
'Falce minax et parte tui maiore, Priape,
ad fontem, quaeso, dic mihi qua sit iter.'
Vade per has vites, quarum si carpseris uvam
cur aliter sumas, hospes, habebis aquam.
XXXI.
Finché niente di me toccherai
con mano audace, ti conserverai
più pudica e più casta
della stessa dea Vesta*;
se così non farai
la mia asta
ti allargherà a tal punto lo sfintere
che uscir potrai dal tuo stesso sedere.
*dea solo romana, protettrice della famiglia e del focolare domestico.
Donec proterva nil mei manu carpes,
licebit ipsa sis pudicior Vesta;
sin, haec mei te ventris arma laxabunt,
exire ut ipsa de tuo queas culo.
XXXII.
Arida e secca più dell'uva passa,
pallida più della novella cera
e del legno di bosso, una fanciulla,
che a suo confronto fa sembrare grassa
persino una formica e che mostrare
potrebbe a un mago etrusco gli intestini
attraverso la pelle trasparente,
arsa come la pomice e carente
d'ogni sorta di linfa, sì che rare
son le volte che sputa, e le cui vene
hanno per sangue, a detta del dottore,
polvere e segatura, se ne viene
a me la notte con il suo pallore
e la sua fantomatica figura.
Per cui assomiglio tutto a un lazzarone
deportato, ormai fabbro, che si cura
di pulir la lanterna col bastone.
Uvis aridior puella passis
buxo pallidior novella cera,
collatas sibi quae suisque membris
formicas facit altiles videri,
cuius viscera non aperta Tuscus
per pellem poterit videre haruspex,
quae suco caret usque et usque pumex,
nemo viderit hanc ut expuentem,
quam pro sanguine pulverem scobemque
in venis medici putant habere
ad me nocte solet venire et adfert
pallorem maciemque larualem.
Ductor ferreus insulariusque
lanternae videor fricare cornu.
XXXIII.
Gran quantità di ninfe i miei maggiori
ebbero sia dei monti che del mare
e c'era posto per poter placare
la tensione del cazzo; or dai dolori
è assalito il mio pene, poiché niente
c'è più e la mia foja è tanto forte
ch'io credo afflitto e sconsolatamente
che le Ninfe oramai sian tutte morte.
E' turpe a farsi, ma per non scoppiare
deporrò per un poco la mia falce
e con la mano mi darò da fare.
Naiadas antiqui Dryadasque habuere Priapi,
et quo tenta dei vena subiret, erat:
nunc adeo nihil est, adeo mea plena libido est,
ut Nymphas omnes interiisse putem.
Turpe quidem factu, sed, ne tentigine rumpar,
falce manu posita fiet amica manus.
XXXIV.
Poiché si celebrava un rito sacro
al nume di Priapo, una puttana
del raccordo anulare fu chiamata
che da sola si desse a tutti quanti...
e dunque io, Priapo, adesso tanti
cazzi fatti di salcio a te consacro
quanti ne smidollai quella nottata.
Cum sacrum fieret deo salaci,
conductast pretio puella parvo,
communis satis omnibus futura,
quae quot nocte viros peregit una
tot verpas tibi dedicat salignas.
XXXV.
Dovrai il mio cazzo duro e lungo prendere
la prima volta in culo, furbacchione,
ma attento, ché se ancor ti fai sorprendere
sarai costretto a farmi un rigatone.
Poi se prepari ancora un terzo furto
per infliggerti entrambe queste pene
contemporaneamente in un sol urto
in culo e in bocca prenderai il mio pene.
Pedicabere, fur, semel, sed idem,
si deprensus eris bis, inrumabo.
Quod si tertia furta molieris,
ut poenam patiare et hanc et illam,
pedicaberis inrumaberisque.
XXXVI.
D'ognun di noi é ben noto l'aspetto:
lunghi riccioli ha Febo e muscoloso
Ercole appare e Bacco giovinetto
mostra un corpo virgineo assai grazioso,
languido sguardo ha Venere e Minerva
ha gli occhi azzurri, i Fauni puoi vedere
con i capelli sparsi sulla fronte
e ali ai piedi ha il fido messaggere
degli immortali*, invece è claudicante
il dio di Lemno**. E se Esculapio*** è detto
di lunga barba, più dell'arrogante
Marte non v'è che abbia un fiero petto.
Non mi resta che dir fra tutte quante
qual è la nota illustre del mio aspetto.
Subito. E' presto detto:
io vi assicuro che nessun iddio
possiede un cazzo lungo più del mio.
*Mercurio, Ermes in greco; ** Vulcano, Efesto in greco; Esculapio, figlio di Apollo, e celebre
medico nell'antichità.
Notas habemus quisque corporis formas.
Phoebus comosus, Hercules lacertosus,
trahit figuram virginis tener Bacchus,
Minerva ravo lumine est, Venus paeto,
frontes crinitos arcadas vides Faunos,
habet decentes nuntius deum plantas,
tutela Lemni dispares movet gressus.
Intonsa semper Aesculapio barba est,
nemo est feroci pectorosior Marte.
Quod siquis inter hos locus mihi restat,
deus Priapo mentulatior non est.
XXXVII.
Perché, chiedete, sulla tavoletta
c'è disegnato un membro genitale?
Avendo avuto al cazzo molto male
ed avendo paura d'affidarlo
ad un chirurgo o ad un di quegli dei
già medici famosi, come Apollo
o il di lui figlio, qua come potei
venni e a Priapo dissi: “Tu che sembri
essere parte stessa della parte
che mi fa stare tanto in apprensione
aiutami ti prego e la tua arte
mi curi il membro senza operazione,
perché se riuscirai un buon dottore
io te ne porterò una campita
uguale uguale, pure nel colore,
a quella parte che m'avrai guarita.”
Il dio promise che l'avrebbe fatto
accennando di sì con il suo dito
e dopo quel contratto
così come chiedevo fui guarito.
Cur pictum memori sit in tabella
membrum, quaeritis, unde procreamur?
Cum penis mihi forte laesus esset
chirurgamque manum miser timerem,
dis me legitimis nimisque magnis,
ut Phoebo puta filioque Phoebi,
curandam dare mentulam verebar.
Huic, dixi, fer opem, Priapi, parti,
cuius tu, pater, ipse pars videris,
qua salva sine sectione facta
ponetur tibi picta, quam levaris,
par vel consimilisque concolorque.
Promisit fore mentulamque movit
pro nutu deus et rogata fecit.
XXXVIII.
Qui bisogna parlare chiaramente:
desideri sapere
perché la mia natura agli occhi tuoi
si manifesti tanto apertamente.
Io desidero romperti il sedere,
tu invece le mie mele vuoi rubare:
ebbene, per avere
le mele che tu vuoi
alle mie voglie devi sottostare.
Simpliciter tibi me, quodcumque est, dicere oportet
natura est quoniam semper aperta mihi.
Pedicare volo, tu vis decerpere poma:
quod peto si dederis, quod petis accipies.
XXXIX.
Per venustà Mercurio può piacere,
Apollo, lo san tutti, è un bel pischello,
Bacco poi lo dipingon sempre bello.
Bellissimo fra tutti spicca Amore.
Quanto a me, lo confesso, non son bello,
però, lo devo dire, ci ho un pisello
meraviglioso e questo fa piacere
più che bellezza, più che ogni altra cosa,
ad una bella fica saporosa.
Forma Mercurius potest placere
forma conspiciendus est Apollo,
formosus quoque pingitur Lyaeus,
formosissimus omnium est Cupido,
me pulcra fateor carere forma,
verum mentula luculenta nostra est.
Hanc mavolt sibi quam deos priores
si qua est non fatui puella cunni.
XL.
Alla Suburra* la conoscon tutte
le puttanelle quella Teletusa**
che libera s'è resa
con i guadagni a forza di marchette.
E poiché le mignotte
ti stimano un gran santo
ella vuole, o Priapo, con un guanto
tutto dorato ornare
la tua prerogativa peculiare.
Nota suburanas inter Telethusa puellas,
quae, puto, de quaestu libera facta suo est,
cingit inaurata penem tibi, sancte, corona:
hunc pathicae summi numinis instar habent.
* quartiere dell'antica Roma, oggi corrispondente al rione Monti. **prostituta non meglio nota: la
stessa del carme XIX?
XLI.
Chi viene qui sia poeta
d'osceni versi a me dedicati
e chi non ci vuol stare
può portare
le sue ragadi anali a passeggiare
fra i poeti laureati.
Quisquis venerit huc poeta fiat
et versus mihi dedicet iocosos.
Qui non fecerit inter eruditos
ficosissimus ambulet poeta.
XLII.
Aristagora sono, agricoltore,
e son contento che l'uva mi sia
cresciuta bene e ben matura; onore
ti voglio fare, o dio, con questa mia
offerta in mele fatte con la cera.
Perciò, Priapo, se tu sei contento
di queste mele finte, a primavera
fa che il raccolto ne abbia un incremento.
Laetus Aristagoras natis bene vilicus uvis
de cera facta dat tibi poma, deus.
At tu sacrati contenuts imagine pomi
fac veros fructus ille, Priape, ferat.
XLIII.
Che vuole la fanciulla che qui viene
a riempirmi di baci il pisello
benché sia di legno?
Non ci vuole l'ingegno
d'un augure, lettore, per saperlo.
Perché mi ha detto:
“Ogni sollazzo amoroso
prenda in me ben eretto
il tuo cazzone nodoso.”
Velle quid hanc dicas, quamvis sim ligneus, hastam.
Oscula dat medio siqua puella mihi.
Augure non opus est: “In me”, mihi credite, dixit:
“utetur Veneris lusibus hasta rudis.”
XLIV.
Non crediate ch'io parli per parlare:
dopo tre o quattro volte che i furfanti
si son fatti pescare
l'han da prendere in bocca tutti quanti.
Nolite omnia, quae loquor, putare
per lusum mihi per iocumque dici.
Deprensos ego ter quaterque fures
omnes, ne dubitetis, inrumabo.
XLV.
Il dio dal cazzo dritto vide un tale
arricciarsi i capelli dal barbiere
con un aggeggio arroventato al fuoco.
Voleva assomigliare almeno un poco
ad una mauritana nell'aspetto.
Il dio gli disse: “Dimmi un po', moretto,
son meglio i ricci finti
d'un femminiello
che sembra una ragazza d'oltremare
dei ricci che tu vedi incoronare
il mio pisello?”
Cum quendam rigidus deus videret
ferventi caput ustulare ferro,
ut maurae similis foret puellae,
“Heus” inquit, “tibi dicimus, cinaede:
uras te licet usque torqueasque:
num tandem prior est puella, quaeso,
quam sunt, mentula quos habet capilli?”
XLVI.
Meno bianca tu sei d'un marocchino,
ma più appestata di tremila froci,
del pigmeo più corta, cui perfino
fan paura le gru dai pie' veloci,
degli orsi più scabrosa e più pelosa,
fanciulla, sai che c'è? Se vuoi rimani,
ma per me te ne puoi andare via,
ché se si tende già la nerchia mia
mi ci vorrebbero almeno tuttavia
ben dieci mazzolini di rughetta
per strofinarli su codesta sporca
schiera di vermicelli che ti getta
fra gli inguini il crepaccio della sorca.
O non candidior puella mauro,
sed morbosior omnibus cinaedis,
pygmaeo brevior gruem timenti,
ursis asperior pilosiorque,
Medis laxior Indicisve bracis,
mallem hinc scilicet ut libenter ires.
Nam quamvis videar satis paratus,
erucarum opus est decem maniplis
fossas inguinis ut teram dolemque
cunni vermiculos scaturrientis.
XLVII.
Se fra coloro che stan qui a cenare
qualcuno non si sente di poetare
in onor mio, io prego che la moglie
sfoghi tutte le voglie
del suo rivale a forza di toccare.
Ed egli invece dorma sol soletto
tutta una lunga notte
in compagnia d'un mazzo di rughetta.
Quicumque vestrum qui venitis ad cenam,
libare nullos sustinet mihi versus
illius uxor aut amica rivalem
lasciviendo languidum, precor, reddat
et ipse longa nocte dormiat solus
libidinosis incitatus erucis.
XLVIII.
Ciò che vedi bagnare la parte
per la quale Priapo mi chiamo
non è rugiada, credimi, né brina,
ma ciò che viene fuori prontamente
se corre la mia mente
al culo d'una bella malandrina.
Quod partem madidam mei videtis
per quam significor Priapus esse,
non ros est, mihi crede, nec pruina,
sed quod sponte sua solet remitti
cum mens est pathicae memor puellae.
IL.
Se su queste pareti leggi versi
di contenuto osceno ed indecente,
chiunque tu sia, non t'offendere
perché al mio cazzo non fa schifo niente.
Tu quicumque vides circa tectoria nostra
non nimium casti carmina plena ioci
versibus obscenis offendi desine: non est
mentula subducti nostra supercilii.
L.
Priapo, senti, sia come ti piace,
ma c'è una che fa la schizzinosa,
si fa gioco di me, non mi dà pace,
non dice te la dò, ma sul non darla tace:
tutto si inventa a rimandar la cosa
ed a fare aumentare le mie voglie.
Perciò, Priapo, se tu, benedetto,
mi aiuti ad assaggiare quel boccone
verrò qui, lo prometto, con mia moglie,
a cingere di fiori il tuo bastone.
Quaedam, si placet hoc tibi, Priape,
fucosissima me puella ludit
et nec dat mihi nec negat daturam:
causas invenit usque differendi.
Quae si contigerit fruenda nobis
tota sutilibus, Priape noster,
cingemus tibi mentulam coronis.
LI.
Che mistero è mai questo? Che affare?
Quali sono le oscure ragioni
per cui scelgono molti ladroni
di venir nel mio orto a rubare
se quello che io qui sorprendo
paga tutta completa la pena
inculato fin sotto alla schiena?
I miei fichi non sono più buoni
dei fichi vicini né spero
sia quella che tu vai cogliendo,
la mia uva, o Arete*, in Omero,
né le mele, diresti, le prendo
dai frutteti dell'agro piceno,
né le pere son tali da correre
un sì grave periglio o le prugne
della cera novella più chiare
né il sorbo che il culo ti cura
se gli prende a scacarellare
né i miei rami producono more
di acre e squisito sapore
né la noce di forma allungata,
avellano, mi pare, chiamata,
né le mandorle dolci ed amare
risplendenti nei fiori di porpora.
Non mi vanto di fare dei cavoli
o pur bietola miracolata
né dei porri che sempre ricrescono
da se stessi, dal lor proprio capo.
Né i ladri son poi tanto scemi
da cercar zucche piene di semi
o il basilico oppure il cocomero
che sta lì quasi seminterrato
o che vengano qui per l'erbetta
su cui è bello stare sdraiato
né per prendere l'acre ruchetta
o il cespo di menta odoroso
o le salubri rute o l'amara
cipolla o pur l'aglio fibroso.
Che se prosperano nel mio giardino
queste piante, non meno assortite
vengono anche nell'orto vicino.
E voi invece, ladroni viziosi,
trascurate gli altri orti e venite
a rubare nel mio poderetto.
Se è così tutto allora è spiegato:
voi venite per quel ch'io prometto:
vi minaccio un castigo assai chiaro
ed è questo, non altro, il richiamo.
*regina dei Feaci, cantata da Omero nell'Odissea.
Quid hoc negoti est quave suspicer causa
venire in hortum plutimos meum fures,
cum, quisquis in nos incidit, luat poenas
et usque curvos excavetur ad lumbos?
Non ficus hoc est praeferenda vicinae
uvaeque quale flava legit Arete,
non mala, truncis adserenda picenis
pirumve tanto quod periculo captes
magisque cera luteum nova prunum
sorbumve ventres lubricos moraturum.
Praesigne rami nec mei ferunt morum
nucemve longam quae vocatur a lana
amygdalumve flore purpurae fulgens.
Non brassicarum ferre glorior caules
betasve quantas hortus educat nullus
crescensve semper in suum caput porrum.
Nec seminosas ad cucurbitas quemquam
ad ocymumve cucumeresve humi fusos
venire credo sessilesve lactucas
nec ut salaces nocte tollat erucas
mentamve olentem cum salubribus rutis
acresve caepas aliumque fibratum.
Quae cuncta, quamvis nostro habemus in saepto,
non pauciora proximi ferunt horti.
Nimirum apertam convolatis ad poenam,
hoc vos et ipsum quod minamur invitat.
LII
Priapo al ladro:
“Ehi tu, evidentemente
dall'orto a me affidato
trattieni a stento la rapace mano:
bada che il dio infojato
e libertino
entrando e uscendo alternativamente
dal tuo bel deretano
te lo farà più largo d'un tombino.
Poi c'entreranno gli altri due che a lato
gli stanno per difese,
l'uno e l'altro dotato
di belle palle appese.
E quando, ormai prostrato, finalmente
t'avranno fino in fondo ben sondato
s'appresserà al tombino un asinello
infojato e più grosso di pisello.”
Priapo fra sé e sé:
“Per cui se non è matto,
sapendo che qui trova tanti cazzi
si guarderà da un male cosiffatto.”
Heus tu, non bene qui manum rapacem
mandato mihi contines ab horto,
iam primum stator hic libidimosus
alternis et eundo et exeundo
porta te faciet patentiorem.
Accedent duo qui latus tuentur,
pulcre pensilibus peculiati.
Qui cum te male foderint iacentem,
ad portam veniet salax asellus
et nil deterius mutuniatus.
Quare si sapiet malus cavebit
cum tantum sciet esse mentularum.
LIII.
Bacco non dice niente
se al tempo del raccolto
quando nei tini capienti
entra a stento il molto vino
io gli offro solo un grappoletto d'uva.
E Cerere* non vuole sui capelli
che una sola corona
allorché per la buona raccolta
l'aia pur grande non è sufficiente.
Anche tu, dunque, mio Priapo, ascolta
da dio minore la preghiera mia:
seguendo l'esempio dei grandi,
gradisci e accetta i miei doni
sebbene non sian proprio tanti.
*in greco Demetra, dea delle méssi e delle stagioni calde.
Contentus modico Bacchus solet esse racemo
cum capiant alti vix cita musta lacus;
magnaque fecundis cum messibus area desit
in Cereris crines una corona datur.
Tu quoque, dive minor, maiorum exempla secutus,
quamvis pauca damus, consule poma boni.
LIV.
Se tu scrivi su un foglio CD
disegnandovi sopra un bastone
scoprirai che hai ritratto il briccone
che desidera romperti il cul.
C D si scribis temonemque insuper addas,
qui medium vult te scindere pictus erit.
LV.
Chi mai potrebbe credere a un tal fatto?
E' una cosa inaudita!
I ladri hanno sottratto
proprio dalle mie dita
la falce, addirittura.
E non mi duole tanto la sventura
per quello che ho perduto né il rossore
quanto il giusto timore di dovere
perdere il resto della mia armatura.
Che se accade dovrò cambiar quartiere
e a dirla proprio franca
chissà che forse un giorno,
Lampsaco*, non ritorno
fra le tue mura,
ma da voce bianca.
*città greca, oggi turca, posta sulla riva sud dello stretto dei Dardanelli; lì, secondo il mito, Priapo
sarebbe nato.
Credere quis possit? Falcem quoque (turpe fateri!)
de digitis fures subrupuere meis.
Nec movet amissi tam me iactura pudorque
quam praebent iustos altera tela metus.
Quae si perdidero, patria mutabor et olim
ille tuus civis, Lampsace, gallus ero.
LVI.
E mi deridi pure, mascalzone,
squadrandomi le fiche
nel mentre ti minaccio.
Ahimè che son tapino poiché questo
che mi ti fa apparire spaventoso
è puro legno. Ma sai cosa faccio?
Siccome il mio padrone ci ha un bel coso
gli passerò l'incarico molesto
di farsi far dai ladri un rigatone.
Drides quoque fur et impudicum
ostendis digitum mihi minanti?
Eheu me miserum, quod ista lignum est
quae me terribilem facit videri.
Mandabo domino tamen salaci
ut pro me velit inrumare fures.
LVII.
Una cornacchia, un rudere, una vera
farmacia semovente
una caterva d'anni tabescente,
forse balia efficiente
di Priamo* o di Titone**
o di Nestore***, forse, se non fosse
già stata vecchia quando quelli erano
ancora fanciulletti tenerelli,
vien qui da me ogni sera
a farmi la sua solita preghiera
di non lasciarla a corto di piselli.
E' come se chiedesse di tornare
al tempo della prima giovinezza.
Per me, se può pagare
non è che non la possa accontentare.
* re di Troia, marito di Ecuba e padre di una numerosa prole. **mito: di lui si innamorò l'Aurora (in
greco Eos) che chiese a Giove di donargli l'immortalità, ma si dimenticò di chiedere anche l'eterna
giovinezza, per cui Titone è rappresentato sempre come vecchissimo e perciò l'Aurora lascia il letto
nuziale la mattina presto. Alla fine Titone ottenne di essere tramutato in cicala. *** re di Pilo,
situata sulla costa occidentale della Grecia, il quale si recò alla guerra di Troia già molto vecchio.
Cornix et caries vetusque bustum,
turba putida facta saeculorum
quae forsan potuisset esse nutrix
Tithoni Priamique Nestorisque
illis ni pueris anus fuisset,
ne desit sibi, me rogat, fututor.
Quid si nunc roget ut puella fiat?
Si nummos tamen haec habet, puella est.
LVIII.
Io prego che dal culo sgangherato
gli escano fuori i vermi
al ladro ingannatore.
E per colei
che allungherà il suo braccio disgraziato
sui meli miei
io prego che non trovi il fottitore.
Quicumque nostram fur fefellerit curam
effeminato verminet precor culo;
quaeque haec proterva carpserit manu poma
puella nullum reperiat fututorem.
LIX.
Affinché tu non possa negare
che ne eri già stato avvisato:
se ti provi a incularmi e ad entrare
di sicuro ne esci inculato.
Praedictum tibi dictum ne negare possis:
si fur veneris impudicus exis.
LX.
Io ti dico, Priapo, con certezza
che vinceresti Alcìnoo* per ricchezza
se le tue mele fossero abbondanti
come i tuoi canti.
*re dei Feaci che, secondo Omero nell'Odissea, ospitò Ulisse e gli permise di raggiungere Itaca.
Si quot habes versus tot haberes poma, Priape,
Esses antiquo ditior Alcinoo.
LXI.
Perché ti lagni invano, contadino,
contro di me che, un tempo fruttuoso,
or da due anni non produco niente?
Non gli anni, come te probabilmente
vai almanaccando, gravan sul tapino
e non son travagliato
dalla crudele grandine e neppure
bruciò lo spiro d'un inverno tardo
le gemme appena nate
né i venti né le piogge né l'arsura
mi arrecarono danni, per lamenti
fatti da me contro di loro. E infine
non lo storno né il corvo predatore
né la vecchia cornacchia o la fangosa
anatra degli stagni o l'assetato
corvo mi nocque. Invece è che sopporto
sui miei poveri rami tormentati
i versi di un poetastro beccamorto.
Quid frustra quereris, colone, mecum,
quod quondam bene fructuosa malus
autumnis sterilis duobus adstem?
Non me praegravat, ut putas, senectus,
nec sum grandine verberata dura
nec gemmas modo germine exeuntes
seri frigoris ustulavit aura.
Nec venti pluviaeque siccitasve,
quod de se quererer, malum dederunt.
Non sturnus mihi graculusve raptor
aut cornix anus aut aquosus anser
aut corvus nocuit siticulosus,
sed quod carmina pessimi poetae
ramis sustineo laboriosis.
LXII.
E voi, miei cani, andate a riposare
la quiete che vi spetta,
ché in compagnia d'Erìgone* diletta
Sirio* sull'orto resterà a vegliare.
Securi dormite, canes: custodiet hortum
cum sibi dilecta Sirius Erigone.
*mito: Erigone, figlia di Icario, che Bacco (Dioniso) ha fatto ubriacare insieme ai suoi concittadini e
che perciò, credendo che il vino fosse un veleno, è stato da essi ucciso, a sua volta si uccide
impiccandosi e così il suo cane, che l'aveva condotta vicino al copro del padre morto, anche lui si
uccide. Tutti e tre furono trasformati in costellazioni: in particolare Erigone fu trasformata nella
costellazione della Vergine, anche se alcune varianti del mito dicono che Bacco l'avrebbe sedotta. In
ogni caso Sirio con questo mito c'entra poco, però il poeta associa le due costellazioni in questo
distico che sembra il frutto di un momento particolarmente ispirato dalla solitudine notturna, prima
che arrivi il sonno.
LXIII.
E' poco se sopporto l'arsura dell'estate
qui dove un giorno scelsi la dimora
mentre la terra s'apre
in crepe paurose
sotto il sole crudele e la calura?
E se le piogge penetrano
in ogni mia fessura
e la grandine assalta i miei capelli
e la barba rimane congelata
in rigidi cristalli?
Se mi ritrovo sempre l'ossa rotte
per aver fatto il mazzo tutto il giorno
e sgobbato così anche la notte?
A questo aggiungi che da un fusto rozzo
mi sgrossarono mani contadine
sommariamente e che tra tutti i numi
son l'ultimo, chiamato
il legnoso custode di cocuzze.
E mettici anche il segno
della virilità,
piramide gonfiata dal nervo lussurioso.
Per essa viene spesso una fanciulla,
della quale non voglio fare il nome,
insieme a uno che forse se la fotte
e si esercita in tutte le figure
descritte da Filenide* e anche nuove
e dopo avermi sconquassato i reni
provando e riprovando posizioni
se ne va con la fregna che le brucia
come un cratere pieno di carboni.
*poetessa greca forse ispiratrice del poeta latino Properzio; stando alla tradizione non si può
escludere che fosse autrice anche di un libro a contenuto erotico.
Parum est mihi, quod hic, fixi ut semel sedem,
agente terra per caniculam rimas
siticulosam sustinemus aestatem?
Parum, quod imos perfluunt sinus imbres,
et in capillos grandines cadunt nostros
rigetque dura barba victa crystallo?
Parum, quod acta sub laboribus luce
parem diebus pervigil traho noctem?
Huc adde quod me fuste de rudi vilem
manus sine arte rusticae dolaverunt
interque cunctos ultimum deos numen
cucurbitarum lignues vocor custos.
Accedit istis impudentiae signum.
Libidinoso tenta pyramis nervo:
ad hanc puella, paene nomen adieci,
solet venire cum suo fututore,
quae tot figuris quot Philaenis enarrat
novisque fictis pruriosa discedit.
LXIV.
Un tizio strano, assai più delicato
del midollo d'un'oca, attirato
dalla pena
è venuto a rubare.
Per me può fare,
che tanto fingerò di non guardare.
Quidam mollior anseris medulla
furatum venit huc amore poenae.
Furetur licet usque: non videbo.
LXV.
Dal sordido recinto
or vittima ti viene consacrato
il porco che col muso
i non sbocciati gigli ha rosicchiato:
ma se non vuoi ridurmi, ahimè tapino,
senza bestiame,
Priapo, prego, fa che il cancelletto
del tuo giardino
resti sempre chiuso.
Hic tibi qui rostro crescentia lilia morsit
caeditur e tepida victima porcus hara.
Ne tamen exanimum facias pecus omne, Priape,
horti sit, facias, ianua clausa tui.
LXVI.
Tu che per non vedere il chiaro segno
dell'uomo, cambi via,
come conviensi a femmina pudica,
non meravigli affatto, che l'ordegno
di cui schifi la vista, tuttavia
lo desideri aver dentro la fica.
Tu quae ne videas notam virilem
hinc averteris ut decet pudicam,
nil mirum nisi quod times videre
intra viscera habere concupiscis.
LXVII.
Fa che la prima di CUrione venga
dopo la prima sillaba di INcerto
e la prima di REmo
dopo la prima di LAtona. Avremo
così la pena che mi pagherai
per risarcirmi l'eventuale torto
che tu mi arrecherai
entrando di nascosto nel mio orto.
Penelopes* primam Didonis* prima sequatur
et primam Caci* syllaba prima Remi*
quodque fit ex illis tu mi deprensus in horto
fur dabis: haec poena culpa luenda tua est.
*per necessità di trascrizione ho dovuto cambiare i nomi utilizzati dal poeta latino: Penelope e
Didone e Remo sono noti; Caco è un gigante che ruba le mucche di Ercole e che perciò viene
ucciso dall'eroe.
LXVIII.
Perdonami se forse un po' ti sembra
ch'io parli veramente da coglione:
non leggo libri, lego solo fieno
e faccio delle mele la raccolta.
Ma per quanto sia rozzo, qualche volta
son costretto a sentire il mio padrone
leggere Omero ed ho imparato quelli
dei vocaboli suoi che suonan meno.
E ti dirò che Omero definisce
“cheraunion psoloenta” il cazzo
quando è dritto, infuocato e smanioso
e il culo “kouleon” e “merdaleon”
dice di cosa assai poco pulita
giacché dei froci il coso
si sa che è merdoloso. Ma perché?
Perché, dico, se il cazzo del Troiano (1)
non fosse mai piaciuto allo spartano
speco (2) infedele non avrebbe avuto
materia per il canto il venerando
Cieco (3) e se non si fosse conosciuto
di Agaménnone (4) il magico pisello
il vecchio Crise (4) non avrebbe avuto
motivo di lagnarsi. Proprio quello
privò infatti l'amico della bella (4).
E intanto lui, Achille (4), piè veloce
la commovente tèssala canzone
intonò sulla cetra, ma di quella
più teso era il suo ordegno. Tuttavia
nata da questo l'ira, prese il via
l'Iliade celebrata. E quello sdegno
fu causa prima del poema sacro.
Ma altra fu materia dell'errore
del moltéplice Ulisse? Non direi:
in verità anche lui cede all'amore.
Qui trovi una radice
da cui, lui dice, sboccia l'aureo fiore:
se così lui lo chiama, affari suoi!
Fatto sta che da noi
si chiama “cazzo”, tu dì quel che vuoi.
I grandi vasi di Dulichio (5) poi
si legge che richiesero a quel prode
le dee Circe e Calipso (6). Ed è certo:
anche la figlia di Alcìnoo (7), si dice,
che si meravigliasse di quel coso
che a stento poteva essere coperto
da un gran ramo frondoso.
Però l'eroe ormai si preparava
a ritornare dalla sua vecchietta (8)
e tutta la sua mente concentrava
nel buco di Penelope diletta.
Ma tu te ne restavi intemerata
nonostante partecipe dei pranzi
nella casa occupata da quei ganzi
che volevano fartisi dei quali
per scovare chi fosse il più valente
quei proci infregoliti volesti esaminare:
“Tendere il nervo tanto arditamente
quanto il mio Ulisse nessun uom sapeva,
sarà per la gran forza che lui aveva
nei reni o sarà stata la destrezza.
Ora, poiché lui sta nell'eterno riposo,
tendételo anche voi, sicché mio sposo
sia uno del cui senno io abbia certezza.”
Per questo tuo tranello sì ingegnoso,
o mia cara Penelope, è assodato
che avrei potuto esserti gradito
ma pur troppo in quel tempo trapassato
non ero ancora stato concepito.
(1) Paride, il principe troiano che, avendo sedotto Elena, scateno la guerra di Troia. (2) Elena. (3)
Omero. (4) Crise, sacerdote di Apollo, chiede ai Greci di liberare la figlia Criseide, da loro catturata
e toccata in sorte ad Agamennone, re e capo supremo della spedizione contro Troia; Agamennone
cede Criseide ma ordina di avere in sostituzione Briseide, la schiava toccata in sorte ad Achille, il
campione dell'esercito greco che ovviamente, sentendosi oltraggiato, si ritira dalla guerra all'inizio
del decimo anno provocando una serie di sconfitte ai Greci. La guerra si risolverà solo quando lui
tornerà a combattere. Tutto questo è in sintesi il contenuto del poema che il poeta spiega in modo
priapeo. (5) Sarebbe una piccola isola che, secondo Omero, si troverebbe vicino ad Itaca e sarebbe
dotata di due porti (ai quali alluderebbe in modo osceno il poeta); ma ad oggi non e stato possibile
rintracciare nei dintorni di Itaca un'isola identificabile con questa. (6) Ninfe note amate da Ulisse
nell'Odissea. (7) Re dei Feaci. (8) Penelope.
Rusticus indocte si quis dixisse videbor,
da veniam: libros non lego, poma lego.
Sed rudis hic dominum totiens audire legentem
cogor, homericas edidicique notas.
Ille vocat, quod nos psolen, ψολοεντα κεραυνον,
et quod nos culum, κουλεον ille vocat;
Μερδαλεον certe si res non munda vocatur
et pediconum mentula merdalea est.
Quid? Nisi taenario placuisset troica cunno
mentula quod caneret non habuisset opus.
Mentula tantalidae bene si non nota fuisset,
nil senior Chryses quod quereretur erat.
Haec eadem socium tenera spoliavit amica
quaeque erat aeacidae maluit esse suam.
Ille pelethronium cecinit miserabile carmen
ad citharam cithara tensior ipse sua.
Nobilis hinc nata nempe incipit Ilias ira:
principium sacri carminis illa fuit.
Altera materia est error fallentis Ulixi:
si verum quaeras hanc quoque movit amor.
Hic legitur radix de qua flos aureus exit,
quem cum μωλυ vocat mentula μωλυ fuit.
Hic legimus Circen atlantiademque Calypson
grandia Dulichii vasa petisse viri,
huius et Alcinoi mirata est filia membrum
frondenti ramo vix potuisse tegi.
Ad vetulam tamen ille suam properabat et omnis
mens erat in cunno, Penelopea, tuo,
quae sic casta manes, ut iam convivia visas,
utque fututorum sia tua plena domus.
E quibus ut scires qui quoque valentior esset
haec es ad arrectos verba locuta procos:
'Nemo meo melius nervum tendebat Ulixe,
sive ille laterum sive erat artis opus.
Qui quoniam periit vos nunc intendite qualem
esse virum sciero, vir sit ut ille meus.'
Hac ego, Penelope, potui tibi lege placere:
illo sed nondum tempore factus eram.
LXIX.
Quando del fico penserai la dolcezza
e la mano starai per allungare,
guarda, ladro, e misura con certezza
quanto sia grosso il cazzo da cacare.
Cum fici tibi suavitas subibit
et iam porrigere huc manum libebit
ad me respice, fur, et aestimato
quot pondo est tibi mentulam cacare.
LXX.
Mi giocò il contadino sempliciotto
senza volerlo un bel tiro mancino
portando qui focacce e farro cotto.
Compiuto il rito, in parte quelle cose
fra gli inguini ed il dito mi nascose.
Accorse qui la cagna del vicino,
seguendo, credo, l'orma dell'odore
e dopo aver mangiato il biscottino
nella notte elargì più d'un favore
al dito mio che sta sempre in calore.
Voi dunque non portatemi più niente,
affinché non mi venga qui un fottio
di caste cagne attratte dal mangiare.
Se no, per venerare il nume mio,
voi ridurreste quelle a bocchinare.
Inlusit mihi pauper inquilinus
qui cum libo aderat molaque fusa,
quorum partibus abditis in inguen
sacro protinus hinc abit peracto.
Vicini canis huc subinde venit,
nidorem puto prosecuta fumi,
quae libamine mentula comeso
tota nocte mihi litat rigendo.
At vos amplius hoc loco cavete
quicquam ponere ne famelicarum
ad me turba velit canum venire
ne, dum me colitis meumque numen,
custodes habeatis inrumatos.
LXXI.
Se i frutti ruberai
che furono affidati
alla custodia mia
quanto amaro mi sia
personalmente, amico, proverai.
Si conmissa meae carpes pomaria curae
dulcia quid doleam perdere doctus eris.
LXXII.
Un mariuolo a Priapo:
“Guarda con diligenza i tuoi pomari
e allontanane i furbi
col tuo arnese infojato!”
Priapo al mariuolo:
“Non fare il furbo! I tuoi raccomandari
sono inutili, o male intenzionato;
che se mele mature tu mi rubi
un rude ramo in sovrappeso avrai.”
Tutelam pomari diligens, Priape, facito;
rubricato furibus minare mutinio.
Quod monear non est, quia si furaberis ipse
grandia mala tibi bracchia macra dabo.
LXXIII.
O rotte in culo, mi guardate storto?
Sappiate che, se in foja, il passinmano
negli inguini non sta, porche fottute.
E se esso ora è morto
ed inutile legno pende invano
sarà ben di mestiere
quando gli fornirete voi il braciere.
Obliquis pathicae quid me spectatis ocellis?
Non stat in inguinibus mentula tenta meis.
Quae tamen exanimis nunc est et inutile lignum,
utilis haec, aram si dederitis, erit.
LXXIV.
Maschi in calore e baldi giovanotti
avranno i culi rotti
da cotesto mio bischero;
ma la bocca, non l'ano,
mi darà chi è più anziano.
Per medios ibit pueros mediasque puellas
mentula, barbatis non nisi summa petet.
LXXV.
Giove, Dodona (1) è sacra a te e va bene;
a Era sono sacre Samo e Micene (2)
e le onde del Tènaro (3) son care
al grande Posidone, dio del mare.
Alle rocche Cecropie (4) è affezionata
la vergine Minerva e Apollo a Delfi (5),
ombelico del mondo, l'incantata.
Diana, quella, preferisce Creta
e i Cinzii (6) colli. Il Mènalo (7) ama il fauno
e d'Arcadia (7) selvosa le convalli;
Ercole ama il suo Tivoli e l'Aniene
con Gades (8) ed il dio dal pie' furtivo (9)
la nevosa Cillene (10), ama Vulcano
Lemno (11) infocata e Cerere (12), gran madre,
curan le nuore siciliane ad Enna;
mentre Cizico (13), piena di conchiglie,
ama la di lei figlia, Proserpina (13).
Ma di Venere bella il bel sorriso
s'adora soprattuto a Pafo (14) e a Cnido (15).
(1) Località a nord-ovest della Grecia dove c'era un bosco sacro a Giove. (2) Isola e città famose.
(3) Grotte situate sulla costa est del Peloponneso da dove, secondo il mito, era possibile la discesa
negli Inferi. (4) Rocce sacre a Cecrope, mitico re di Atene, sulle quali sorse la città. (6) Sull'isola di
Delo, dove la dea era nata, c'è il monte Cinto, da cui l'epiteto “cinzio” spesso riferito anche alla dea
stessa. (7) Monte dell'Arcadia, regione posta a nord-ovest del Peloponneso. (8) Cadice: si riferisce
alle colonne d'Ercole. (9) Ermes (Mercurio). (10) Montagna fra l'Arcadia e l'Acaia nel Peloponneso,
dove nacque il dio. (11) Isola a nord del mar Egeo, sacra a Vulcano (Efesto) perché vi era nato. (12)
Cerere (in greco Demetra) godeva di un particolare culto nella città di Enna in Sicilia. (13) Cizico,
antica città greca, oggi turca, sulla sponda sud del mare dei Dardanelli: secondo il mito, fu donata a
Proserpina (Persefone in greco) da Zeus come dote. (14) Località di Cipro sacra Venere che,
secondo il mito, era nata lì. (15) Antica città greca dell'Anatolia, sacra a Venere.
Dodone tibi, Iupiter, sacrata est,
Iunoni Samos et Mycena ditis,
undae Taenaros aequorumque regis.
Pallas caecropias tuetur arces,
Delphos Pythius, orbis umbilisum,
Creten delia cynthiosque colles,
Faunus Maenalon Arcadumque silvas.
Tutela Rhodos est beata Solis,
Gades herculis umidumque Tibur.
Cyllene celeri deo nivosa,
tardo gratior aestuosa Lemnos.
Hennaeae Cererem nurus frequentant,
raptam Cyzicos ostreosa divam,
formosam Venerem Cnidos Paphosque.
LXXVI.
Son vecchio? E che vuol dire?
E' vero che incomincio a incanutire,
ma quando si facessero pescare
(fossero repellenti come Nestore
o come il vecchio Priamo o come il mesto
Titone* antico)
in men che non ti dico
me li potrei inculare.
*vedi note al carme LVII.
Quod sim iam senior meumque canis
cum barba caput albicet capillis,
deprensos ego perforare possum
Tithonum Priamumque nestoremque.
LXXVII.
In ira insana e matta mi indurrete
voi che di volta in volta
la fratta un dì sì folta
a posto rimettete
ed impedite ai ladri di passare.
Questo è far danno per voler ben fare,
un non mandare i tordi ai cacciatori.
Se la fratta è rifatta i predatori
venir più non potranno né pagare
la pena potrà più fra chiappa e chiappa
il mariuolo che incappa
in inciampo imprevisto mentre scappa.
Ergo io che prima tanti e tanti e tanti
culi di ladri lacerar solevo
ora da alcune notti e dì altrettanti
pago pene a mia volta e senza speme
(che questo è il colmo!) mi consumo in seme:
un dì gagliardo fottitore, or devo
(l'avresti mai pensato?)
vivere la mia vita in astinenza
come un citaristello infibulato.
E dunque di codesta diligenza
che consumare in muffa mi farà
fatene a meno; se ben far volete,
non mettete a Priapo la cintura
di castità.
Inmanem stomachum mihi movetis
qui densam facitis subinde saepem
et fures prohibetis huc adire.
Hoc est laedere dum iuvatis, hoc est
non admittere ad aucupem volucres.
Obstructa est via nec licet iacenti
iactura natis expiare culpam.
Ergo qui prius usque et usque et usque
furum scindere podices solebam
per noctes aliquot diesque cesso.
Poenas do quoque quot satis superque est
in semenque abeo salaxque quondam
nunc vitam perago, quis hoc putaret?
ut clusus citharoedus abstinentem.
At vos, ne peream situ senili,
quaeso, desinite esse diligentes
neve inponite fibulam Priapo.
LXXVIII.
Che gli dei e le dee neghino il cibo
ai tuoi denti di lesbica che lecca
la fica dell'amica, mia vicina,
per cui la mia fanciulla che a suo tempo
velocemente, rapida, sicura
e a passo svelto qui da me veniva
ora giura che a stento lei cammina
sopra la fossa della sua vagina.
At di deaeque dentibus tuis escam
negent, amicae cunnilinge vicinae,
per quem puella fortis ante nec mendax
et quae solebat inpigro celer passu
ad nos venire, nunc misella landicae
vix posse iurat ambulare prae fossis.
LXXIX.
Priapo, che tu sia molto gravato
da un cazzo sempre duro e teso teso
(te lo rimproverò nei suoi bei versi
il celebre Poeta!) tu non devi
di certo vergognartene: non c'è
un poeta del Nostro più dotato.
Priape, quod sis fascino gravis tento,
quod exprobravit hic tibi suo versu
poeta noster, erubescere hoc noli.
Non est poeta fascinosior nostri.
LXXX.
Fedele:
Tu pensi che non sia abbastanza lungo
il cazzo mio? E pensi forse pure
che non sia troppo grosso e che non cresca
se lo maneggi? Ahimè, le mie misure
ingannano le ingorde ragazzine,
ma uno più grosso al mondo non ce n'é.
Priapo:
Guarda Tideo che, se credi a Omero,
era d'indole valida allo scontro
ma di corpo minuto.
Fedele:
Mi fu inciampo
l'esser la prima volta, il primo incontro,
e poi la timidezza e il mio pudore:
li devo da me sempre allontanare!
Priapo:
Finché vivi, ti è lecito sperare.
Fedele:
Ma tu, Priapo, rustico custode,
sta qui, i miei nervi assisti zitto zitto,
tu che te ne stai sempre a cazzo dritto.
At non longa bene, at non stat bene mentula crassa
et quam si tractes crescere posse putes?
Me miserum! Cupidas fallit mensura puellas,
non habet haec aliud mentula maius eo.
Utilior Tydeus, qui, siquid credis Homero,
ingenio pugnax, corpore parvus erat.
Sed potuit damno nobis novitasque pudorque
esse; repellendus saepius iste mihi.
Dum vivis sperare decet; tu, rustice custos,
huc ades, et nervis, tente Priape, fave.
LXXXI. (*)
Una volta facevo l'impiegato
dell'erario, ma adesso, pensionato,
coltivo un orticello per diletto.
Son Perspecto** e ti dedico il tempietto
che vedi ed è per esso che ti chiedo
se è lecito, santissimo: sii quello
che custodirà sempre il campicello.
E se verrà qualcuno per rubare...
non ti dico di più: sai cosa fare!
(*) attribuito a Tibullo; ** personaggio non meglio conosciuto.
Vilicus aerari quondam, nunc cultor agelli
haec tibi Perspectus, templa, Priape, dico.
Pro quibus officiis, si fas est, cancte, paciscor,
assiduus custos ruris ut esse velis.
Improbus ut si quis nostrum violarit agellum
hunc tu... sed taceo: scis, puto, quod sequitur.
LXXXII
Che è questa novità? Quale mai ira
di dei mi annuncia? Nella silenziosa
notte passata un giovane assai bello
e candido giaceva in braccio a me
ma Venere ahimè non si scompose
né virilmente il cazzo mi si tese:
vecchio e inerte com'è non alzò il capo.
Ti piace, o dio Priapo, tu che all'ombra
di un albero sdraiato sempre stai,
col sacro capo inghirlandato d'uva,
rubicondo a riposo e a cazzo dritto?
Pure, o Trifallo*, spesso i fiori nuovi
intrecciammo inesperti alle tue chiome
e spesso con le grida vecchi corvi
e gracchianti civette allontanammo
affinché il sacro capo non ferissero.
.
Allora io ti abbandono, ingrato iddio,
che non aiuti a drizzarsi il cazzo mio;
addio, Priapo, nulla più ti debbo.
Te ne starai tra i campi abbandonato
e un bianco muschio ti ricoprirà
e la cagna affamata o il lutulento
porco strofineranno contro il legno
della tua statua il loro sporco fianco.
E tu, mio cazzo scellerato, tu
che ora sei per me maledizione,
tu pagherai una pena, come devi,
giusta e severa. Hai voglia a lamentarti!
Non più mai un garzone ardito e bello
ti si darà e ti offrirà il culetto
reggendosi alla sponda del tuo letto
per far tremare le vibranti natiche
con arte femminile né una bella
fanciulla con la mano sua graziosa
e le sue belle cosce depilate
standoti sopra ti accarezzerà.
Si prepara per te una vecchia amica
di Romolo, che lei ricorda bene,
con due denti soltanto, entro i cui inguini,
sotto la pelle flaccida del ventre,
nascosto se ne sta un antro oscuro
che un secolare gelo fuori assedia
con ragnatele e muschio inargentati.
Per te costei si appresta a divorare
tre o quattro volte con la sua profonda
fossa il tuo capo moscio e raggrinzito.
E tu te ne starai solo e malato
più floscio di una serpe ma strizzato
povero poveretto per riempire
tre o quattro volte la profonda fossa.
A nulla servirà codesta tua
incurabile inerzia quando il capo
immergerai nel fango gorgogliante.
Che dici, lavativo? Ti rincresce
dunque la tua arroganza? Questa volta
t'è andata bene, impunito. Ma se torna
da me quel giovanotto fascinoso,
appena senti per strada risuonare
il suo passo felpato, il nervo tuo
ridesterai con rigida libidine
e l'inquieto turgore eleverai
dagli inguini né cesserai di farlo
fin quando non ti avrà l'allegra Venere
sfinito il molle capo ormai stremato.
*dio invocato nelle processioni propiziatorie della fertilità (falloforie); qui riferito a Priapo forse per
ignoranza o semplicemente per iperbole (fallo lungo tre volte) sempre dettata da ignoranza.
Quid hoc novi est? Quid ira nuntiat deum?
Silente nocte candidus mihi puer
tepente cum iaceret abditus sinu
Venus fuit quieta nec viriliter
iners senile penis extulit caput.
Placet, Priape, qui sub arboris coma
soles sacrum revincte pampino caput
ruber sedere cum rubente fascino?
At, o Triphalle, saepe floribus novis
tuas sine arte deligavimus comas
abegimusque voce saepe, cum tibi
senexve corvus impigerve graculus
sacrum feriret ore corneo caput.
Vale, nefande destitutor inguinum,
vale, Priape: debeo tibi nihil.
Iacebis inter arva pallidus situ,
canisque saeva susque ligneo tibi
lutosus adfricabit oblitum latus.
At o sceleste penis, o meum malum,
gravi piaque lege noxiam lues.
Licet querare: nec tibi tener puer
patebit ullus, imminente qui toro
iuvante verset arte mobilem natem
puella nec iocosa te levi manu
fovebit adprimetve lucidum femur.
Bidens amica Romuli senis memor
paratur, inter atra cuius inguina
latet iacente pantice abditus specus
vagaque pelle tectus, annuo gelu
araneosus obsidet forem situs.
Tibi haec paratur ut tuum ter aut quater
voret profunda fossa lubricum caput.
Quid est, iners? Pigetne lentitudinis?
Licebit hoc inultus auferas semel:
sed ille cum redibit aureus puer,
simul sonante sneseris iter pede
rigente nervus excubet libidine
et inquietus inguina arrigat tumor
neque incitare cesset usque dum mihi
Venus iocosa molle reperit latus.
LXXXIII.*
Primavera le rose e la matura
frutta m'offre l'autunno e le dorate
spighe del grano a me offre l'estate.
Mi prende solo una grande paura,
quando col suo rigore vien l' inverno,
che non finisca al fuoco questo legno.
*attribuito a Virgilio.
Vere rosa, autumno pomis, aestate frequentor
spicis: una mihi est horrida pestis hiems.
Nam frigus metuo et vereor ne ligneus ignem
hic deus ignaris praebeat agricolis.
LXXXIV.
Io fui, viandante, un pioppo che, sgrossato
dalla mano inesperta di un villano,
come Priapo fui qui fui delegato
a guardare il podere che tu hai a mano
sinistra avanti a te e il casolare.
Io l'orticello al povero padrone
proteggo dalla mano malandrina
del ladro che venisse qui a rubare.
A primavera vengo festeggiato
con fiorite corone ed in estate
con bionde spighe al sole maturate
e coi pampini verdi e poi d'inverno
con le olive dal freddo inargentate.
Dai miei pascoli poi le mie caprette
latte abbondante nelle gonfie tette
recano all'insaziabile città
e un grasso agnello preso alle mie stalle
colma la mano mi riporta a casa
di abbondante denaro e poi una pingue
giovenca la cui madre ancora piange
sopra l'ara di un dio versa il suo sangue.
Perciò, viandante, il dio sia rispettato,
tira indietro la mano, per te è un bene,
perché è già pronta la pena; no, anzi, il pene.
“Magari!” dici? Sbagli, sventurato.
Ecco che arriva il rustico padrone
dal cui braccio possente a me strappato
nella sua destra il cazzo mio è un bastone.
Ego haec, ego arte fabricata rustica,
ego arida, o viator, ecce populus
agellulum hunc, sinistra et ante quem vides,
herique villulam hortulumque pauperis,
tueor: malaque furis arceo manu.
Mihi corolla picta vere ponitur:
mihi rubens arista sole fervido:
mihi virente dulcis uva pampino:
mihi glauca duro oliva cocta frigore,
mais capella delicata pascuis
in urbem adulta lacte portat ubera.
Meisque pinguis agnus ex ovilibus
gravem domum remittit aere dexteram.
Teneraque matre mugiente vaccula
deum profundit ante templa sanguinem:
proin, viator, hunc deum vereberis,
manumque sursum habebis: hoc tibi expedit.
Parata namque crux stat ante mentula.
'Velim pol' inquis: at pol ecce villicus
venit, valente cui revulsa brachio
fit ista mentula apta clava dexterae.
LXXXV.
Questo luogo palustre e il casolare
circondato di giunchi e di cespugli,
sbozzato da una quercia disseccata
e da mano inesperta e improvvisata,
giovani, io lo proteggo e lo coltivo
perché sia d'anno in anno più fecondo.
Mi rispettano infatti come un dio
i padroni del povero tugurio,
un padre accorto e il figlio rispettoso,
che mi curano entrambi assiduamente
l'uno con cura assidua acché le erbacce
e i cespugli invadenti dal mio tempio
stiano lontani e l'altro con la giovane
mano i suoi doni offrendomi abbondanti.
Poi con l'amena primavera in fiore
mi adornano di floride corolle
e di tenera spiga per primizia
e di viole gialline ed di papaveri
color del latte e di zucchine pallide
e dolci mele mature e profumate
ed uva rosseggiante maturata
sotto l'ombra dei pampini e dei tralci.
Questa mia arma (voi non lo direte!)
versa il sangue del tenero capretto
e della sua capretta in sacrificio.
Dunque Priapo deve dimostrarsi
grato per questi onori e l'orticello
e la vigna proteggere ai padroni.
Perciò, ragazzi, andatevene via,
mettete via malvagi desideri
e ruberie connesse: qui vicino
c'è un Priapo assai ricco ed indolente.
Da lui prendete: per di là è la via.
Hunc ego, o iuvenes, locum villulamque p[alustrem,
tectam vimine iunceo cariasque maniplis,
quercus arida rustica formidata securi
nutrior: magis et magis sit beata quotannis.
Huius nam domini colunt me deumque salutant,
pauperis tuguri pater filiusque adulescens,
alter assidua colens diligentia, ut herbae
aspera aut rubus a meo sit remota sacello,
alter parva manu ferens semper munera larga.
Florido mihi ponitur picta vere corolla,
primitus tenera virens spica mollis arista,
luteae violae mihi lacteumque papaver
pallentesque cucurbitae et suave olentia mala,
uva pampinea rubens educata sub umbra.
Sanguine haec etiam mihi, sed tacebitis, arma
barbatus linit hirculus cornipesque capella.
Pro quis omnia honoribus hoc necesse Priapo est
praestare et domini hortulum vineamque tueri.
Quare hinc, o pueri, malas abstinete rapinas:
vicinus prope dives est neglegensque Priapus;
inde sumite, semita haec deinde vos feret ipsa.
LXXXVI.
Ti dedico, Priapo, e ti consacro
questo boschetto attraversando il quale
si giunge alla tua casa e alla tua selva,
a Lampsaco*, laggiù, dove la riva
dell'Ellesponto, d'ostriche piu ricca
d'ogni altra spiaggia, soprattutto venera
la tua divinità fin dalla nascita.
*Vedi il carme LV.
Hunc lucum tibi dedico consecrorque, Priape,
qua domus tua Lampsaci est quaque silva, Priape.
Nam te praecipue in suis urbibus colit ora
hellespontia, caeteris ostreosior oris.
LXXXVII.
Salve, o Priapo, o sacro padre, salve.
Concedimi l'eterna giovinezza,
concedimi che a giovani e fanciulle
io piaccia sempre per il mio pisello
sempre vigile e attento e per i miei
giochi e scherzi infiniti ma innocenti.
Fa che dalla mia anima io possa
tener lontane le angosciose cure
e ch'io non tema la vecchiezza estrema
né mi assilli il timore della morte
che alle case d'Averno mi trarrà
dove il crudele re trattiene i morti
e donde mai nessuno tornerà.
Salve, o Priapo, o sacro padre, salve.
Venite dunque voi quanti ne siete
e voi fanciulle che pur frequentate
il sacro bosco e le acque limpidissime
quante ne siete qui venite e dite
al dio con voce melodiosa e chiara:
“Salve, o Priapo, o sacro padre, salve.”
Date agl'inguini suoi mille bacetti
e il cazzo con corone profumate
di fiori variopinti incoronate
e a lui di nuovo in coro dite tutte:
“Salve, o Priapo, o sacro padre, salve.”
Egli infatti tenendone lontani
gli uomini sanguinari vi permette
di andare per i boschi e per gli ombrosi
silenzi dove il colpevole non c'è.
Egli dalle sue fonti scaccia pure
i briganti che con furtivi passi
attraversano le sue limpide acque
intorbidandole e spesso si lavano
le mani senza chiedervi il consenso
con una prece, o Naiadi* divine.
Dite tutte cantando: “Priapo, aiutaci!
Salve, o Priapo, o sacro padre, salve.”
Salve o Priapo, amico mio potente,
o se vuoi padre esser chiamato o autore
del mondo intero, oppur Natura proprio
o Pan** l'eterno che sull'erme alture
i pascoli rallegra col suo flauto,
comunque tu voglia chiamarti, salve.
Per la tua forza infatti è concepito
ciò che concima il suolo, il cielo e il mare.
Perciò, salve, Priapo, salve, o santo.
Lo stesso Giove per tua volontà
i fulmini crudeli scaglia e lascia
infojato le sue reggie splendenti.
Te venerano Venere beata
e il focoso Cupido e le sorelle,
le Grazie dico, e Lieo*** che di gioia
è dispensiere. Senza te né Venere
né le Grazie né Bacco né Cupido
piacciono più. O Priapo, amico mio
potente, con preghiere le fanciulle
ti invocano pudiche perché sciolga
loro la vesticciola troppo a lungo
mantenuta allacciata e te la sposa
prega affinché al marito per la vita
dritto e potente il membro sempre sia.
Salve, o Priapo, o sacro padre, salve.
* Ninfe delle acque. ** Divinita minore che tutelava i pascoli e le greggi. *** Altro nome di Bacco.
Salve, sancte pater, Priape, rerum,
salve. Da mihi floridam iuventam,
da mihi ut pueris et ut puellis
fascino placeam bonis procaci
lusibusque frequentibus iocisque
dissipem curas animo nocentes
nec gravem timeam nimis senectam,
angar haud miser hoc pavore mortis
quae ad domus trahet invidas Averni,
fabulas manes ubi rex coercet,
unde fata negant redire quemquam.
Salve, sancte pater, Priape, salve.
Convenite simul quot est in omnes,
quae sacrum colitis nemus puellae,
quae sacras colitis aquas puellae,
convenite quot estis atque bello
voci dicite blandula Priapo:
“Salve, sancte pater, Priape, rerum.”
Inguini oscula figite inde mille,
fascinum bene olentibus coronis
cingite illi iterumque dicite omnes:
“Salve, sancte pater, Priape, rerum”.
Nam malos arcens homines cruentos
ire per silvas dat ille vobis
perque opaca silentia incruenta,
ille fontibus arcet et scelestos
improbo pede qui sacros liquores
transeunt faciuntque turbolentos
qui lavantque manus nec ante multa
invocant prece vos, deae puellae.
“O Priape, fave, alme” dicite omnes,
“Salve, sancte pater, Priape, salve”.
O Priape, potens amice, salve,
seu cupis genitor vocari et auctor
orbis aut physis ipsa Panque, salve.
Namque concipitur tuo vigore
quod solum replet aethera atque pontum.
Ergo salve, Priape, salve, sancte.
Saeva Iuppiter ipse te volente
ultro fulmina ponit atque sedes
te Venus bona, fervidus Cupido,
Gratiae geminae colunt sorores
atque letitiae dator Lyaeus.
Namque te sine nec Venus probatur,
Gratiae illepidae, Cupido, Bacchus.
O Priape, potens amice, salve.
Te vocant prece virgines pudicae,
zonulam ut soleas diu ligatam
teque nupta vocat, sit ut marito
nervus saepe rigens potensque semper.
Salve, sancte pater, Priape, salve.
Giustificazioni.
I componimenti in latino di questa raccolta, contenuti tutti in un unico codice, sono poesie su
temi osceni scritte presumibilmente quasi tutte nel primo secolo avanti Cristo quando il latino,
adeguatosi al greco, aveva già conosciuto la splendida versificazione di Ovidio, Tibullo, Orazio e
Virgilio. Gli autori di queste poesie furono, salvo forse pochi casi, poetastri improvvisati, imitatori
di quei grandi, che utilizzavano questo o quel tipo di verso senza comprenderne lo stretto legame
col contenuto che esso aveva nelle composizioni dei loro modelli. I temi trattati erano scherzose e
oscene minacce del dio ai ladri o alle ladre, da esporre più o meno fintamente negli orti per tenerneli
lontani. In alcuni di essi poi si va oltre, tematizzando altre situazioni oscene comunque legate alla
concezione diffusa di questo dio greco, Priapo, di nascita recente rispetto alle divinità cosiddette
olimpiche e alle divinità minori ad esse collegate, rappresentato come una figura maschile
minacciosa che brandiva due armi “temibili”: una falce e un genitale di spropositate proporzioni,
generalmente in statue o statuette scolpite nel legno.
Le composizioni che seguono dunque sono tutte scherzose minacce di punizioni corporali a
sfondo sessuale e ci hanno trasmesso documenti di una mentalità rozza, tra contadina e infantile,
che si sfogava nello spazio ridotto e isolato di un muro, interno o esterno, di un tempietto o di una
casa, su cui si scriveva con la carbonella, quasi mai su supporti dedicati, troppo costosi per
verseggiatori di questo tipo. Poi qualche intellettuale raffinato deve averli trascritti prendendoli da
qua e là o semplicemente copiandoli da una fonte precedente, messa insieme con gli stessi intenti,
fino a costituire il corpus che io ho qui “tradotto”.
Tradotto, poi! Li ho “riscritti” in italiano. Anche se uso il termine tradizionale di tradurre,
l'idea di tradurre mi è sostanzialmente estranea. Faccio parte a mia insaputa di quella schiera di
volonterosi che insegnano a “capire (il latino) per tradurlo” e non a “tradurlo per capirlo”.
Perché li ho tradotti, esattamente non lo so. Furono esercizi maliziosi di uno studente di
filologia greca e latina, immaturo e sperduto, che liquidava in tal modo la rimeria classica italiana
per cercare di capire meglio quella elaborata dai poeti italiani del novecento, ma fu anche la prova
che chi traduceva non aveva alcuna speranza di divenire un poeta; poteva diventare tutt'al più un
abile versificatore il quale, non avendo nulla da dire, si poteva solo divertire a riproporre in italiano
contenuti, non sempre sconci come in questo caso, ma in questo caso con la malizia di chi si
avvicinava con curiosità alle faccende del sesso. Come dire? Tradurre per trovare nella propria
lingua le definizioni del proprio kamasutra ancora tutto da scrivere e, con un po' di fortuna, anche
da sperimentare.
Gli ultimi componimenti, segnatamente i componimenti 81 e il gruppetto 83-85, per evidenti
riscontri testuali sembrano essere attribuibili rispettivamente a Tibullo e a Virgilio o, più
probabilmente, a loro imitatori che però rispettano in quei versi l'atteggiamento casto dei due grandi
poeti. L'ultimo invece è una vera e propria preghiera a Priapo il cui tenore tuttavia è talmente
ingenuo che non si potrebbe dire se è il frutto di una sciocca ironia o di un semplice sciocco
tentativo di ricondurre Priapo tra gli dei per bene.
Si tratta per concludere di un esercizio di mezzo secolo fa che però non voglio perdere in
ricordo di tutte le sciocchezze che si fanno da giovani. Con l'avvertenza che la loro lettura è
comunque sconsigliata a chiunque per il loro contenuto osceno e troppo diretto nel parlare delle
cose del sesso.
P.S.: Oggi però ho forse trovato un possibile sviluppo di questo lavoro. Rileggendo Petronio
mi sono reso conto che Priapo è quasi il nume tutelare dell'intera vicenda narrata in quel romanzo e
tutta impregnata di sesso, specialmente omoerotico. Vale forse la pena di riscrivere il Satyricon con
qualche accorgimento per metterlo come tutte le cose inserite in questo sito a disposizione di chi
vuole conoscerlo senza essere necessariamente un filologo o un latinista.