Maria Rita Parsi
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Maria Rita Parsi
“IL MIO AVATAR NON MORIRÀ MAI” ESSERE ADOLESCENTE AGLI INIZI DEL III MILLENNIO di Maria Rita Parsi di Lodrone Adolescente (dal latino adolesco = crescere) è colui che è “in via di crescita”. E’ l’uomo in cammino dall’infanzia, età della curiosità, della scoperta, dell’esperienza imitativa e del gioco, età della fragilità e della dipendenza, della fantasia e del pensiero magico all’età adulta, epoca del pieno sviluppo fisico e psichico, della maturità, dell’indipendenza, della progettualità, della concretezza e della responsabilità. L’adolescenza è dunque il “processo” che segnala e accompagna questo passaggio. Non è, quindi, una condizione specifica e come tale appare indefinita e flessibile, differente da individuo ad individuo, orientata dal gruppo di appartenenza, sensibile ai mutamenti sociali e culturali delle diverse epoche storiche. In alcune culture e in alcune epoche sembra addirittura non esistere una fase di passaggio, protratta nel tempo, che separi nettamente la condizione del fanciullo da quella dell’adulto. L’adolescenza, ovvero l’età più o meno compresa tra i 12 ed i 20 anni, con le sue caratteristiche di criticità, di ribellione, di emarginazione, di trasgressione, di inquietudine e di ricerca è il prodotto di una mutazione culturale ed antropologica che ha riguardato soprattutto i Paesi con un forte sviluppo industriale e tecnologico. Cambiamenti epocali hanno dato “origine” ad una fase di vita in cui sostare per acquisire le conoscenze e gli strumenti, sempre più sofisticati e complessi, necessari per prendere parte in maniera attiva e produttiva alla vita adulta. La scuola e l’istruzione obbligatoria, in particolare, hanno regalato e sancito per tutti il tempo dell’infanzia e dell’adolescenza, che fino a qualche secolo fa erano riservati solo ai figli di genitori abbienti o illuminati. Agli inizi del secolo scorso, lo psicologo russo Lev S. Vigotsky andava affermando che il comportamento umano non può essere compreso se non si tiene conto del contesto in cui questo si sviluppa e si attua. Il contesto è il tessuto socioculturale in cui l’individuo nasce, cresce, vive. Sono i fattori culturali e sociali, dunque, che hanno determinato ed orientato, nel tempo, modalità e criticità dello sviluppo adolescenziale. Vigotsky fa presente che la cultura di un gruppo sociale è composta, non soltanto dall’insieme dei valori, conoscenze, credenze e convenzioni condivise ma, soprattutto, nasce e si modella intorno ai sistemi di simboli, “strumenti” condivisi, di cui il linguaggio, parlato e scritto, è l’espressione più importante, completa ed incisiva. Grazie agli “strumenti”, l’uomo modifica l’ambiente esterno e si modifica egli stesso attraverso l’uso che ne fa. Il linguaggio, strumento principe, viene utilizzato per riflettere sulla realtà ma, essendo esso stesso un prodotto culturale, è in grado di orientare l’elaborazione concettuale e la visione del mondo a seconda di parametri che connotano la società in cui l’individuo è inserito. Ai tempi di Vigotsky il compito di sostenere lo sviluppo dei minori e trasmettere loro valori e conoscenze, era affidato alle due classiche agenzie educative, la famiglia e la scuola. Ma la seconda metà del secolo scorso ha visto la nascita esplosiva di una terza agenzia educativa, i mezzi di comunicazione di massa, che in maniera incisiva, pervasiva, multiforme e accattivante hanno veicolato e veicolano informazione e formazione. La capillare diffusione di questi strumenti ha significativamente e irrevocabilmente modificato il tessuto culturale e sociale in cui le nuove generazioni nascono e crescono. E se, come diceva Vigotsky, sia lo sviluppo ontogenetico sia quello filogenetico sono influenzati ed orientati dallo sviluppo storico e culturale della società, per cui nessun individuo di una generazione è paragonabile o assimilabile ad uno precedente, ivi compresi i propri genitori, ancor più oggi questa analisi appare valida ed esplicativa nel definire il gap generazionale che, sempre più insistentemente e, talora, irrimediabilmente, negli ultimi decenni, tende a separare le nuove dalle vecchie generazioni. Anche lo stesso concetto di generazione, scandito dal prefissato quarto di secolo, va rivisitato e riformulato e non più in base al trascorrere del tempo ma, piuttosto, tenendo in considerazione il ritmo incessante con cui i nuovi strumenti tecnologici, espressione funzionale di una nuova cultura scientifica, vanno modificando la vita quotidiana delle persone, i loro modi di agire, di comunicare, di pensare. Nel mondo popolato dalle nuove generazioni, la dimensione così detta “reale” e quella virtuale si sono fuse e sovrapposte. L’era della multimedialità e della cibernetica, della ipertecnologia era già stata annunciata dalla letteratura e dalla cinematografia del secolo scorso. La trilogia composta dai classici “2001 Odissea nello spazio“, “Blade Runner“ e “Matrix” si propone quale profetica “Voce” a presagire un’epoca dell’umanità che vede la convivenza complessa, promiscua, per molti versi drammaticamente confusiva, tra l’uomo e le sue creature tecnologiche. Il film di Stanley Kubrick, che viene proiettato nelle sale nel rivoluzionario ‘68, si ispira liberamente ad un breve racconto di Arthur C. Clarke, “La sentinella”. Quest’ultimo, poi, tradurrà, assieme a Kubrick, la sceneggiatura del film “2001 Odissea nello spazio“, in un libro dal titolo omonimo. La trama, ricca di significati simbolici e di metafore, ruota intorno all’apparire, in epoche millenarie diverse e luoghi diversi (sulla Terra, sulla Luna e su Giove), di grandi monoliti neri al cui cospetto gli uomini sono in grado di porre in atto nuove modalità di relazionarsi a se stessi e all’ambiente. Nella 3ª parte del film, durante la missione diretta su Giove, Kubrick pone in risalto il rapporto tra l’Uomo e l’Universo in cui vive, tra lo Spazio e il Tempo, il desiderio di conoscerli e dominarli attraverso la scienza, l’uso della tecnologia e l’intelligenza artificiale. Ad Hal 9000, un super computer di bordo, viene affidato il vero significato della missione, taciuto invece ai due astronauti svegli sull’astronave Discovery e sempre il computer deve risolvere il “conflitto” tra collaborare con i compagni di bordo “lealmente”, senza alterare dati ed informazioni, così come è stato programmato, o tacere loro quanto potrebbe rivelare gli obiettivi reali del viaggio. Nel cercare di trovare una soluzione al “dilemma“ che, come macchina rigidamente perfetta, non è in grado di contenere, Hal tenta di uccidere gli astronauti ma il capitano Bowman riesce a disabilitare le funzioni “superiori” del computer e a sopravvivere. Appare chiaro il desiderio di Kubrick di rappresentare, attraverso queste immagini, le ambivalenze emotive che, in realtà, riguardano l’Uomo, le paure che inconsciamente cova nei confronti delle sue creature tecnologiche, il timore apocalittico che un giorno queste possano prendere il sopravvento e distruggere proprio chi le ha create. Nel film “Blade Runner”, del 1982, Ridley Scott, ispirandosi al romanzo “Il cacciatore di androidi” di Philip K Dick, pone in risalto il tentativo umano di rigenerare sé stesso, di emulare il Dio Creatore “progettando” e costruendo replicanti del tutto simili agli umani. La trama, tessuta intorno a passaggi carichi di forte tensione emotiva, narra la storia di sei replicanti che, sfuggiti dalle colonie extramondo, tentano di introdursi nella fabbrica in cui sono stati generati, per modificare la loro imminente data di termine. Gli umani, rintracciati gli androidi, tenteranno di catturarli e fermarli per sempre. In un succedersi di scontri e di incontri tra gli uomini e le loro creature tecnologiche anche il regista Ridley Scott traccia, con grande incisività, il “dubbio” che si affaccia nella mente umana allorquando riflette sull’utilizzo delle conoscenze scientifiche e tecnologiche: esse saranno in grado di favorire il reale progresso ed evoluzione della specie umana oppure, un giorno, gli uomini stessi saranno condotti, superati, assoggettati dalle loro opere tecnologiche? In un celebre passaggio del film, il replicante Roy Batty salva il poliziotto Deckard, invece di ucciderlo, e prima di spegnersi per sempre dice: I've seen things you people wouldn't believe. Attack ships on fire off the shoulder of Orion. I watched c-beams glitter in the dark near the Tannhauser Gate. All those... moments will be lost... in time, like tears... in rain. Time to die. (Ho visto cose che voi umani non potreste immaginare. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.) Il titolo “Matrix”, del film dei fratelli Wachowski, deriva dal termine latino matrix (matricalis) che ha come significato utero, origine, fonte, progenitrice, madre. In matematica le matrici nascono come tabelle numeriche in grado di agevolare i calcoli e vengono ampiamente utilizzate in ambito informatico come un processo che consente di definire nuovi tipi di dati partendo da tipi preesistenti. Il film viene proiettato nelle sale nel 1999 e riscuote anch’esso un grande successo. In Matrix l’Uomo è capace di creare macchine dall’intelligenza artificiale in grado di pensare. Queste macchine riescono a prender il sopravvento dando l’illusione agli uomini di vivere liberamente, invece tutta l’umanità viene utilizzata dalle macchine quale fonte alternativa per trarre da essa l’energia necessaria per la loro sopravvivenza funzionale. Questo dominio si attua attraverso il controllo cerebrale e la simulazione di un mondo costruito al computer. In realtà ciò che appare agli occhi è un programma chiamato Matrix. All’interno di questo sistema la gente vive senza accorgersi della propria vera condizione. Solo alcuni percepiscono qualcosa di strano, qualcosa che non va, ma non sono in grado di descrivere esattamente queste sensazioni. Tra i diversi, gli sfuggiti al Sistema, c’è Neo, il nuovo, considerato “l’eletto” da un gruppo di persone facenti parte della Resistenza, perché ritenuto capace di restituire la libertà al genere umano, riuscendo a rompere l’involucro artificiale e ritornando alla realtà. Fa parte di questo gruppo il capitano della nave da guerra Nabucodomosor che convince Neo ad uscire da Matrix. Significativi sono i dialoghi tra i due personaggi, tesi a porre in risalto quanto la realtà possa essere alterata, deformata, “virtualizzata” dall’uso inconsapevole e coercitivo di strumenti tecnologici. “Gli uomini sono la proiezione mentale dell’Io digitale”, dice Morpheus a Neo. E ancora “Matrix è un mondo virtuale elaborato al computer creato per tenerci sotto controllo” … “Matrix è ovunque. E’ intorno a noi … E’ il mondo che ti è stato messo davanti agli occhi per nasconderti la verità”. Il film propone, pregnante, il tema della consapevolezza e della scelta in grado di orientare il proprio destino e quello degli altri. Un destino che nel film è solo fittizio, l’immaginario virtuale nel quale l’Uomo è stato imprigionato dalle macchine che ha creato, di cui ha perso il controllo, e che finiscono per controllare, esse stesse, la vita di chi le ha ideate. Un sano è costruttivo rapporto tra l’uomo e la tecnologia, l’utilizzo consapevole e mirato delle conoscenze scientifiche e dei suoi strumenti, il destino quale condizione inconsapevole a cui si può porre rimedio attraverso il percorso della crescita consapevole, della ricerca di sé, dei significati e dei valori dell’esistere, sono alcuni degli spunti “morali” di questa favola fantascientifica del 20° secolo a cui può essere salutare prestare attenzione. Quali disagi psicologici , affettivi e relazionali possono pesare soprattutto sulle nuove generazioni, sulle personalità in costruzione, se lasciate di fronte a scenari virtuali, capaci di soddisfare nell’immediatezza bisogni e desideri, di risolvere paure e debolezze, di “realizzare” virtualmente l’immagine ideale dell’Io, attraverso avatar perfettibili ed immortali? Freud, dagli inizi del secolo scorso, studiava i fenomeni della nevrosi isterica, dello sdoppiamento di personalità, in soggetti che nella vita reale erano, per varie cause, spesso educative e culturali, risultati incapaci di orientare la loro libido in maniera concreta e soddisfacente. Oggi i nostri ragazzi, la generazione dei “nativi digitali”, venuti al mondo “in società multi schermo, utilizzando interattivamente strumenti che favoriscono lo scambio sociale, l’espressione dell’emotività e la libertà di scegliere cosa essere e cosa fare”, devono trovare la strada per poter coniugare armonicamente l’eredità delle conoscenze e delle esperienze “analogiche”, mutuabili dalla storia millenaria dei padri, con le eredità, più innovative ma acerbe, della cultura digitale e multi mediale. Per quanto super moderna ed ipertecnologica, scientificamente progressista, la cultura digitale appare, nella sua precipitosa e multiforme genesi, priva di regole e norme condivise, indefinita e, forse, indefinibile nei passaggi, nei contenuti, nei confini. Il primo tra tutti quello tra il così detto “mondo reale” e “mondo virtuale”. La Fondazione Movimento Bambino, in collaborazione con la Fondazione Ferrero, di fronte a questo stravolgente mutamento espocale ed antropologico, che riguarda prevalentemente e soprattutto bambini, ragazzi e giovani, ha favorito l’incontro e il confronto interdisciplinare di esperti al fine di elaborare un codice di comportamento condiviso, per l’utilizzo consapevole dei nuovi media da sottoporre a più livelli: dai fruitori ai fornitori, dalle strutture educative alle organizzazioni socio-culturali, a quelle governative. Alla base del protocollo, denominato “Carta di Alba”, elaborato dagli esperti coinvolti nel progetto, appare chiaro l’enunciato che delinea il I° punto del documento conclusivo: è necessario approcciare le tematiche e le problematiche emergenti nella nostra epoca considerando mondo reale e mondo virtuale quale unicum inscindibile e i prodotti e le forme tecnologiche quali espressioni e “strumenti” (per dirla alla Vigotsky) culturali e comunicativi di un’unica realtà. Tutte le società civili del mondo, anche quelle che nascono nei “Paesi virtuali”, necessitano, per essere tali, di atti costitutivi espliciti e condivisi che sanciscano diritti e dovere dei cittadini, a tutela di tutti, soprattutto dei più indifesi e dei più “esposti“. Gli adolescenti, in particolare, hanno bisogno di potersi confrontare con punti di riferimento chiari e coerenti, necessitano di autorità leali e responsabili, capaci di sostenere con impegno il ruolo che esercitano, chiedono di poter conoscere e comprendere leggi e regolamenti anche quando trasgrediscono. In questa epoca della vita la mente, il corpo, l’immaginario e le emozioni cambiano e si trasformano, i pensieri e le certezze di bambino/a crollano per lasciare posto al dubbio, alla confusione, al senso di solitudine e alla delusione, legati anche al crollo del “mito” delle figure genitoriali che non appaiono più potenti e competenti ma limitate, fallaci, umane; proprio in questa epoca i ragazzi hanno bisogno di trovare, nei contenitori sociali, orientamenti, percorsi e protocolli da seguire, da rivisitare acriticamente e creativamente; leggi sociali con cui confrontarsi e scontrarsi, da mettere in discussione per tendere verso le utopie e i sogni che, fortunatamente, popolano, da sempre, la mente delle giovani generazioni. Pensieri carichi di energie e spinte rigeneratrici che hanno dato forza a cambiamenti epocali: alle azioni e contestazioni giovanili, infatti, si legano i moti culturali che hanno trasformato, nell’ultimo secolo, la politica, la scuola, il ruolo delle donne nella famiglia e nella società…. Francoise Doltò affermava: “La crisi adolescenziale di cui si parla non è una crisi più di quanto lo sia un parto; è la stessa cosa, si tratta di una trasformazione. Non si può dire che il bruco che diventa crisalide attraversi una crisi …. Il feto rischia la vita: solo così può nascere. Se non smettesse di respirare, non potrebbe avere inizio il travaglio del parto. E’ quindi necessario che rischi di morire. E, in realtà, muore in quanto feto per diventare neonato, ma deve rischiare.” Ebbene l’adolescenza non è una crisi: è un periodo di trasformazione, cosa del tutto diversa. Cosa potrebbe accadere se la primitiva cultura digitale, ricca di energia e di potenzialità e di capacità di espansione, non maturasse, grazie ad una voluta riflessione etica e morale della società globalizzata? Come potrebbero orientarsi i più giovani se lasciati itinerare, senza bussola, nei vasti e variopinti spazi della rete telematica planetaria? William Golding, nel 1952, scrive il libro “Il Signore delle Mosche” che, nel ‘63, ad opera del regista Peter Brook e in un remake, nel 1990, dal regista Harry Hook, viene trasformato in ben due film. Il racconto narra la storia di un gruppo di giovanissimi studenti inglesi che, durante un volo di evacuazione a causa di un imminente conflitto planetario, sopravvive miracolosamente all’incidente dell’aereo su cui viaggia, mentre, drammaticamente, periscono tutti gli adulti. Si ritrovano naufraghi su un’isola del Pacifico, un’isola sconosciuta, in cui non vi è tracci di altri esseri umani. I ragazzini sono soli con sé stessi. Inizialmente tendono ad organizzarsi, provando a riproporre gli stili del mondo civilizzato da cui provengono. Il residuato delle regole introiettate è ancora chiaramente vivo in loro: sono ragazzini disperati ma, nel tentativo di sopravvivere insieme, si lasciano “guidare” dalle norme dell’esclusivo collegio inglese da cui provengono. Inizia a definirsi una struttura di gruppo in cui si delineano le diverse personalità dei giovanissimi protagonisti che portano ad assumere ruoli diversi all’interno del gruppo stesso e nascono così chiare dinamiche relazionali. Ci sono ragazzi meno capaci di esprimere sé stessi, disposti a seguire i comportamenti e le indicazioni di quelli più intraprendenti che hanno capacità di “leadership” e di comunicazione più immediate ed incisive. Tra questi si evidenzia la figura di Ralph che è capace di ottenere il consenso del gruppo e di organizzarne le forze. Il suo stile rappresenta quello di un leader democratico che invita tutti a collaborare, secondo le proprie qualità, per il benessere collettivo. Seguendo le direttive di Ralph, i ragazzini provvedono a costruire rifugi, a procacciarsi il cibo e a conservare provviste, a tenere vivo il fuoco che ha anche la funzione di segnale per un’eventuale avvistamento. Altre figure che emergono sono quella di Piggy, un ragazzino grasso con gli occhiali, figura esplicativa del secchione, quella di Jack, capo del gruppo corale scolastico, “guerriero” nello spirito, patito di caccia e quella di Simone, uno dei coristi, che diviene amico e aiutante di Ralph e . Jack organizza un gruppo di coristi, che si armano di lance per cacciare i maiali selvatici. Il tempo trascorre ma nei ragazzini cominciano ad emergere paure primordiali, come quella che l’isola sia abitata da una creatura mostruosa e demoniaca. In realtà si tratta del cadavere di un paracadutista appeso ad un albero, che viene agitato dal vento. Alcuni ragazzini, guidati dall’impulsivo guerriero Jack, si distaccano dal resto del gruppo per formare un clan di cacciatori, coeso intorno alle nuove irrazionali “credenze”, animato da spinte aggressive e istintive. Jack uccide un maiale e pone la sua testa su un palo. Il macabro totem diviene il “Signore delle Mosche”, coperto di insetti, a rappresentare il predominio della forza e della primitiva istintualità sulla ragione e sul rispetto di regole democratiche ed egualitarie. La contrapposizione tra i due gruppi diviene inevitabile. L’imbarbarimento feroce dei ragazzi guerrieri, il desiderio di domini su tutto e tutti, la sete di potere, spinge Jack a guidarli verso lo scontro fisico e il massacro dei compagni più indifesi. Quando tutto ormai sembra perduto, perché anche l’isola è stata data a fuoco, dai ragazzi guerrieri, nel tentativo di scovare ed uccidere il sopravvissuto Ralph, riappare la società degli adulti: sulla spiaggia un ufficiale di Marina, con il suo equipaggio, aiuta i giovanissimi naufraghi a lasciare l’isola. Il virtuale è, sempre più di frequente, per i nostri ragazzi la florida isola, inesplorata e selvaggia, sulla quale approdano, senza mediatori culturali e strumenti di tutela codificati e condivisi dall’intera comunità virtuale, senza adulti consapevoli e coinvolti, adeguatamente alfabetizzati, non solo all’utilizzo delle nuove tecnologie ma anche, e soprattutto, a porre in atto azioni “educative” attraverso le nuove tecnologie. Ovvero genitori, educatori, sociologi, psicologi, uomini della Cultura e della Politica che sappiano rivolgersi ai giovani e comunicare con loro attraverso i nuovi linguaggi multimediali, così cari ai ragazzi e così presenti e incisivi nelle loro vite. In Internet, poi, come nell’isola del Signore delle Mosche, le regole apprese a trasposte dalla società civile orientano il azioni di buon senso e di democratica convivenza: il rispetto della privacy, ad esempio attraverso il nickname, il “chador” telematico, strumenti a tutela dei minori, come codici di autoregolamentazione promossi dal Governo. Ma lo strumento nato per comunicare a grandi distanze, in maniera veloce e completa, in dotazione ad organizzazioni militari (che di regole ne adottano e applicano tante!), nato per contenere, veicolare e trasmettere informazioni e saperi, sta, oggi deragliando dagli impliciti orientamenti iniziali, per sconfinare in una situazione di primitivo imbarbarimento, dove tutto è possibile, lecito ed “autorizzato”. Ogni scibile umano può esservi rovesciato dentro senza filtri, senza controllo, senza verifiche di attendibilità. E così possibile occupare spazi virtuali e pubblicare tutta una serie di informazioni che ti riguardano. Chi vuole può mettersi in contatto con te, non solo leggere quello che pensi ma anche “dialogare” attivamente. Un oceano di informazioni individuali di estremo interesse finisce col mescolarsi con un mare di inattendibili, stupide, distruttive e/o terrificanti informazioni che, per lo più, disorientano, confondono, disilludono coloro che possiedono strumenti di decodifica e capacità critiche ma (e purtroppo), altrettanto di frequente, questa “deregulation” finisce col danneggiare le persone più fragili o in crescita che, non avendo, di per sé stesse, orientamenti chiari e solidi equilibri, possono essere travolte da chi violentemente e distruttivamente usa gli strumenti tecnologici. Sull’isola, i ragazzini, abbandonati a sé stessi, tentano inizialmente di sopravvivere aggrappandosi al loro bisogno di bene e di condivisione, di fraterna solidarietà. Bisogni che, come tali, sottendono uno stato di necessità e di vuoto, una “fame” che attende risposte da parte delle figure di riferimento per potersi trasformare in uno stato di soddisfacimento del bisogno stesso e di una piena realizzazione. I bisogni evolutivi sono moti della mente e dell’anima che durante l’adolescenza sono tesi a ricercare attivamente un equilibrato rapporto tra l’Io e gli Altri, tra il senso di sé e del proprio benessere e le realtà affettive esterne, altro da sé. In preadolescenza e in adolescenza, sulla razionalità ed il buon senso prevalgono spinte pulsionali che orientano i ragazzi verso la sperimentazione quotidiana e concreta, costante ed affannosa. Il saggio equilibrio non è soltanto uno status psichico ancora da acquisire ma, agli occhi dei ragazzi, appare quale noiosa e inutile condizione che ne limita l’espressione e l’inventiva. E così come i giovani naufraghi, senza adulti che quotidianamente offrano risposte adeguate alla loro sete di conoscenza, senza autorità che si propongano quali punti di riferimento da riconoscere e/o contestare, senza mediatori capaci di promuovere occasioni di dialogo e di confronto tra ragazzi ed adulti, i nostri giovani rischiano di essere sopraffatti dalla loro parte pulsionale ed emotiva ed essere contagiati dalla distruttività, dalla sete di potere, dall’ignoranza di chi, arbitrariamente, si impone nella loro vita utilizzando strumenti di comunicazione molto persuasivi ed efficaci. Gli adulti che si estromettono dal mondo dei ragazzi, abbandonandoli a sé stessi, quotidianamente “fanno fuori” giovanissimi Ralph, o meglio la parte di Ralph che è in ogni adolescente, che vuole confrontarsi con l’autorità e le regole, che ne ha bisogno e ne riconosce il valore. Con le nostre assenze il nostro laissez faire, quello che proponiamo alle giovani generazioni è una terra virtuale in cui l’homo virtualis che la frequenta e la popola dovrà attraversare e ripercorrere gli stessi riti e gli stessi processi di civilizzazione che, secoli or sono, ha attraversato l’homo sapiens nella dimensione “analogica”. Non meravigliamoci, dunque, se negli spazi virtuali accanto ad intuizioni geniali, innovazioni e scoperte appaiono scene di cyber bullismo, prolifichi la calunnia e, come in nuove arene ipertecnologiche, l’uccisione ridivenga uno sport eccitane e possibile. “Nei miti dell’origine” o “miti della creazione” si narra che tutto comincia con il Caos “la materia inerte ed indistinta, confusa miscela di tutte le cose nello spazio vuoto” . Dal Caos ebbero origine Gea, la Terra e altre divinità primordiali. Gea, la dea primigenia, da sola, generò Urano, il Cielo stellato, che la fecondò. Dalla loro unione nacquero i Titani: sei maschi e sei femmine; più tardi i Ciclopi, da un solo occhio, e gli Ecantonchiri, dalle cento mani. Il più giovane dei Titani, Crono, su istigazione della madre, adirata con Urano perché aveva relegato alcuni figli nel Tartaro, con una falce fornitagli sempre dalla stessa Gea, evirò il padre Urano e lo privò del potere. Crono divenne così il sovrano degli dei e sposò la sorella Rea da cui ebbe numerosi figli. Per paura che questi lo spodestassero, come egli stesso aveva fatto con il proprio padre, li mangiò ad uno ad uno. Ma Rea, ribellandosi nascostamente al marito, riuscì a salvare il più piccolo, Zeus, presentandogli, in vece del figlio, una pietra avvolta in fasce che Crono prontamente divorò. Alla fame di potere e di predominio del padre, la donna si oppone, dice “no”, affida Zeus ad altre donne che lo nascondono e lo allevano. Una volta divenuto grande, Zeus, si fece assumere, sempre con l’aiuto della madre, come coppiere di Crono e versò nell’idromele del padre una mistura capace di fargli vomitare, ad uno ad uno, i suoi figli. Con il loro aiuto, Zeus, mosse guerra al padre alleato dei Titani. La guerra durò dieci anni ma, alla fine, il giovane e i suoi fratelli ebbero la meglio. Zeus divenne il nuovo re degli Dei. Pur essendo il Sommo, quando prende il potere, Giove lo condivide con gli altri dei. Anche la stessa capacità di conoscere il futuro, il Fato, a cui egli stesso è sottomesso e di cui è garante ed esecutore, viene delegata ad altri dei, come Apollo, o mortali oracoli, come Teresia. Giove, discendente del Caos, nel suo Olimpo multiforme e promiscuo, governa non più accentrando il potere ma lasciando che vizi e virtù, odi e amori, generosità e capricci dei suoi dei guidino le loro azioni e condizionino quelle degli uomini. Nel Regno di Giove ci si accoppia e ci si lascia, tutti sono parenti di tutti, parentele legittime ed illegittime, figliolanze legittime ed illegittime; complotti, vendette, alleanze, intrighi, magie … L’Olimpo di Giove, metafora della primitiva condizione dell’animo umano, ricorda l’odierno mondo virtuale dove c’è ed è possibile qualunque cosa. Vi è un mare di informazioni ottime: nel virtuale puoi pescare veramente tanto: se chiedi ti sarà dato e, come nel mondo degli dei, puoi rintracciare infinite possibilità e soluzioni. Puoi trovare protettori, promotori e sostenitori delle Scienze, delle Arti e della Natura e “pozioni“ per curare il dolore fisico, mentale e spirituale; puoi trovare naviganti, eroi, poeti e musici: un mondo variopinto a disposizione di tutti, in cui bisogni, follie, problematiche e frivolezze trovano spazio e risposta. E come nei miti di creazione, l’Era del virtuale, l’Era di Giove, è stata preceduta da un’epoca in cui il ruolo dei padri e quello dei figli erano nettamente distinti; uno stile austero improntato sul timore e sul rispetto, separava le nuove dalle vecchie generazione che esercitavano un controllo severo sulla crescita dei figli. Un’epoca governata e segnata dal tempo (Chronos per i greci è stato a lungo la personificazione proprio del Tempo), dove ogni fase era scandita, ogni tappa già incisa nel “destino” che guidava il percorso di crescita dalla giovinezza alla vita adulta. Un tempo ineluttabile e definito che divorava i suoi figli e le loro vite, ricordando loro di esser nati per essere destinati a morire. All’angoscia di morte che accompagna la sua condizione, l’Uomo cerca da sempre una risposta; al trascorrere del tempo, che minuto per minuto ne divora il suo esistere, tenta di opporre la forza rigeneratrice della Vita. L’essere umano non fa niente altro che sperare, attraverso la Madre, attraverso il corpo della donna, di rinascere, rinascere e rinascere ancora. Così la specie si rigenera e si evolve, da millenni. Ma il precario “essere o non essere” di ogni individuo resta ad alimentare paure ed angosce esistenziali. Gli incidenti, soprattutto stradali che costano la vita a tanti giovani ci spingono ad interrogarci su un tema mai abbastanza scandagliato: cosa spinge un essere umano, e specie i ragazzi, a “corteggiare” la morte, beffandola grazie alle proprie facoltà di padronanza e controllo? Per certi ragazzi, poi, magari cresciuti giocando con i videogame, tutto avviene come in una battaglia. La vita è sfida continua contro i propri limiti, anzitutto quelli corporei, che si trasforma in un’ardita tenzone per azzerare la paura. La biologia e la neurofisiologia ci danno una risposta, ormai condivisa dagli ambienti scientifici: il rischio, la paura attivano nell’organismo due ormoni che hanno affinato la loro funzione con l’evoluzione della specie, quali l’adrenalina e la dopamina. Essi hanno la funzione fondamentale di sviluppare nell’essere umano la forza di vivere e sopravvivere e di percepire la propria corporeità; nei nostri progenitori tali neuro mediatori attivanti servivano a difendersi dalla morte per inedia spingendo a procacciarsi il cibo contro ogni avversità. Tali ormoni sono visti come un equilibratore delle angosce, la prima della quali, quella più distruttiva e destabilizzante, è l’angoscia di morte. Un’angoscia che presiede la nostra vita sin dallo stadio neonatale. Perché, passando dalla condizione fetale a quella di esserino ormai autonomo, il bimbo ha cognizione che il nutrimento non gli proverrà più attraverso il grembo materno, dal quale è stato protetto e alimentato, bensì dovrà far conto su fonti “esterne” che potrebbero anche venire a mancare, provocandone la morte. Risale a questo momento l’iniziale cognizione della propria mortalità, quello che gli antichi chiamavano horror vacui. Crescendo, l’uomo avvia una serie di difese/reazioni per sfuggire a tale sensazione di caducità che potremmo distinguere in sei categorie: a) difesa demografica, attraverso la perpetuazione della specie e la produzione della prole; b) difesa religiosa, col convincimento che c’è una vita oltre la vita; c) difesa ideologica, ovvero la teoria secondo la quale le idee degli uomini e le loro elaborazioni intellettuali ne eternano il ricordo; d) difesa legata all’arte ed alle opere materiali; il messaggio eternizzante del singolo viene affidato ai monumenti, alla scultura, alla pittura, a tutto ciò in cui si trasfonde concretamente il senso estetico e creativo di un artista; e) difesa distruttiva: è quella di chi affida il proprio rendersi memorabile alla guerra ed alla distruzione, ovvero al trascinare anche gli altri con sé nel baratro ferale. “Muoia Sansone con tutti i Filistei” è il motto di chi rifugge il fiato della morte sul collo e vuole sconfiggerla contagiandola agli altri; f) il tipo di difesa più moderno e avanzato ce la offrono le nuove tecnologie. A parte le futuribili ambizioni di chi vuol ricorrere all’ibernazione per “rinascere” in un tempo successivo, nel quale le proprie patologie abbiano trovato un rimedio scientifico, l’elaborazione di una Second Life e di un Avatar che è un se stesso eterno, rappresenta il conforto che quel corpo corruttibile laboratorio biochimico che produce 21 grammi d’anima - nel web ci avvicinerà all’eternità di Dio, Come dire: “Il mio Avatar non morirà mai!”. Perché l’altra faccia della medaglia della paura della morte è rappresentata, appunto, dall’essere consapevole che è proprio quel particolare che ci divide dalla Divinità. Nell’età del digitale, una nuova madre che tutto e tutti accoglie nel grembo primordiale, fertile e prolifero, la Virtualità multimediale, rinnova la speranza di riuscire ad opporsi al trascorrere del tempo e ai limiti imposti dalla spazio fisico e sociale. L’infinito spazio telematico, generato dalla moderna tecnologia, onnipotente ed onnisciente, può offrire soluzioni ai mali del vivere e rappresentare la terra promessa in cui rifugiarsi per liberarsi della propria insoddisfacente e limitata condizione e sperimentare percorsi paralleli. L’assenza di adulti di riferimento nella vita dei giovani, comunque, non è un problema che riguarda unicamente lo spazio virtuale, è una realtà che pervade la vita quotidiana dei nostri figli. La famiglia si è grandemente trasformata: da famiglia composta e multi parentale dell’epoca patriarcale a famiglia mononucleare talvolta disgregata. Gli adulti approdano alla loro genitorialità in età avanzata, decisi e consapevoli ma la loro “opera procreativa” si ferma, solitamente, al primo o secondo bambino. Sui figli si riversa un forte investimento emotivo ma anche aspettative e speranze che i genitori frustrati o insoddisfatti riversano su loro. Il coinvolgimento emotivo-affettivo e la consapevolezza non sempre si traducono, o possono tradursi, in presenza, vicinanza, quotidiano sostegno. I genitori, ancora soprattutto i padri, sono troppo spesso impegnati in prolungate attività di lavoro. Durante l’infanzia i bambini, i figli unici e/o i figli dei piccoli atolli familiari crescono in assenza dei papà, ma anche delle mamme, ricompensati da attenzioni consumistiche e gratificati attraverso espressioni affettive che finiscono per sviluppare e alimentare nei piccoli immagini narcisistiche del sé: “Sei speciale… Sei bravo… Sei un ometto … Sei in grado di cavartela anche senza di me…”. Ricompense “virtuali” che non permettono certo di fare esperienza concreta di contatto, di dialogo, di confronto. Tra i banchi di scuola dei più piccoli è scomparsa la figura del maestro, poche e sparute mosche bianche si aggirano, quale esemplari rari di una razza in via d’estinzione che non trova nel tessuto culturale e politico, specie del nostro Paese, le risorse motivazionali ed economiche necessarie per rinnovarsi e rivitalizzarsi. La politica, lontana ormai non solo da ideologie ma anche da ideali, è rinchiusa in spazi di azione programmatica che, di fatto, non riescono a modificare sostanzialmente la condizione di marginalità dei giovani (se non di vera emarginazione) dal mondo della formazione e del lavoro. Disillusi e disorientati, incapaci di ribellarsi a condizioni sociali vissute come irrimediabilmente estranee ed ostili, bombardati da informazioni frantumante che della realtà espongono il peggio dell’essere umano, mostrando una società lenta ad accoglierli, disgregata, antiquata, ignobile, ingiusta, i ragazzi abbandonano la dimensione “reale” della loro crescita per rifugiarsi, migrare nella dimensione virtuale, dove tutto è rapido e possibile, dove tutto è connesso, in rete. Un esempio estremo di questa condizione di emigranti virtuali, che vivono nel corpo per soddisfare quasi esclusivamente bisogni primari, e delegano alla mente che esplora il mondo attraverso il computer, il “compito” di esistere, è quella dei giovani giapponesi chiamati Hikikomori. Sono adolescenti e preadolescenti che, per ribellarsi ad un mondo vissuto come ostile, si rifiutano di frequentare la scuola o di dedicarsi ad attività lavorative e, rintanandosi in casa, si rapportano al mondo esterno esclusivamente attraverso il computer. Questi piccoli samurai tecnologici si asserragliano in uno spazio di cui sentono di avere il dominio (la propria camera), concedono alla loro affettività inaridita soltanto - e non sempre - il legame ad un animale domestico (alcune volte anche questo virtuale) e rifiutano di uscire. Una componente del fenomeno (che coinvolge secondo il dott. Saito, esperto in questo disturbo, circa un milione di giapponesi, praticamente l’1% della popolazione) è di certo generata dalla competitività della scuola giapponese, che riflette l’altrettanto estrema competitività del mercato del lavoro nipponico. Si tratta di una scuola che si fonda su una sacralità dell’istruzione e, col suo autoritarismo, immette elementi depressivi in individui che hanno la percezione di non riuscire a raggiungere gli standard richiesti, preferendo così rifugiarsi in una propria realtà, in casa. Una casa che è una sorta di fortino, in cui la famiglia è estranea, visto che i genitori fanno soprattutto parte del complesso ingranaggio di una società votata al lavoro, alla produttività ed al profitto, più che essere punto di riferimento affettivo. Lo stato emotivo dei giovani giapponesi e il loro senso di alienazione dalla società dei grandi sono condivisi da molti giovani occidentali. A fronte di questa condivisione i ragazzi tendono ad immergersi nella “monade tecnologica”, allevati da TV, da iPod, da consolle che fanno loro da baby sitter o compagni di gioco. Al contempo si affermano come punti di riferimento le icone tecnologiche, le immagini e i modelli trasmessi attraverso il computer, l’universo infinito del web, i videofonini, icone che, come parenti virtuali, si sostituiscono ai contatti fisici e “offrono”, comunque, una risposta incompleta e, troppo spesso, inadeguata al senso di solitudine che dilaga fra le generazioni di pre-adolescenti ed adolescenti. Così, paradossalmente, i giovani d’oggi sperimentano intimità e confidenza nelle coloratissime e personalizzate pagine dei blog, diari virtuali, dove offrono, indiscriminatamente a tutti, uno specchio di sé e dei propri pensieri. E’, infatti, proprio attraverso i loro blog che, spesso, si ha la possibilità di conoscerli meglio e di comprendere le loro idee sul mondo. Molti di questi ragazzini, cresciuti magari alimentando la fantasia con la lettura delle imprese di Harry Potter, considerano la tecnologia una bacchetta magica che li rende potentissimi, capaci di mettersi in comunicazione con chiunque, quando vogliono; di ottenere, interattivamente, tutte le informazioni di cui necessitano; di vivere una Second Life (una seconda vita parallela) a misura del loro immaginario; di inviare virtualmente la propria immagine a colloquio con le immagini della persone che desiderano incontrare; liberi, con il segreto del nickname o dell’alias, di poter esprimere qualunque giudizio, opinione, relazione d’amore o di odio, di aprire o chiudere, all’improvviso, qualunque contatto sganciato dalle convenzioni del tempo e dello spazio. Il mondo degli adulti, invece, che pure ha voluto, messo a punto e che continua a perfezionare le nuove tecnologie, non sempre riesce ad “addomesticarle” e, anzi, in molti casi, ne è perfino tagliato fuori (dati Istat 2007: la maggior parte degli utilizzatori adulti del computer sa effettuare solo processi elementari, ad esempio soltanto il 36,7% degli uomini e il 17,9% delle donne è in grado di individuare e risolvere problemi di funzionamento del computer). Gli adulti sono, invece, chiamati a garantire e seguire il progresso e, una volta creati gli strumenti, non è corretto lasciarli in mano ai ragazzi, abbandonandoli a sé stessi. Il viaggio della crescita dei nostri figli necessita di percorsi e approdi garantiti e sicuri: l’aereo su cui oggi viaggiano è il progresso stesso, non è possibile né sano rallentare il suo corso. E’ necessario attivarsi, dunque, perché anche nel mondo reale le rotte siano molteplici ed i giovani possano intraprendere itinerari formativi che consentano loro di realizzarsi professionalmente ed umanamente. In una ricerca condotta dalla M.T.V. sui valori dei giovani appare al primo posto la fedeltà, seguono l’amicizia e la famiglia. I ragazzi, immersi in tessuti affettivi e sociali sempre più disgregati, in un mondo sempre più smembrato, ricercano la fedeltà come possibilità di continuità e di appartenenza, ad esempio fedeltà ad un gruppo, ad una community. Ma sentono forte soprattutto il bisogno di restare fedeli a sé stessi, ai loro sogni, ai loro desideri: “Da grande sarò …, da grande farò …” Ma le soluzioni ai progetti sul futuro sono sempre più spesso dettate da stretti e coercitivi parametri economici: dalla scelta dei percorsi scolastici, formativi e le attività lavorative alle scelte affettive e di autonomia dalla famiglia d’origine. I dati Istat, pubblicati nel dicembre del 2009, riguardanti “le difficoltà di transizione dei giovani allo stato adulto e le criticità dei percorsi di vita femminili” mostrano come la permanenza prolungata dei giovani in famiglia sia uno dei principali problemi del Paese. Pochi, tra coloro che tre anni prima della conclusione dell’indagine avevano dichiarato di avere l’intenzione (certa o probabile) di uscire dalla famiglia di origine sono stati in grado di realizzare il loro progetto. “Fattori economici, in particolare l’accesso dei giovani al mercato del lavoro e al mercato abitativo, da un lato e fattori culturali dall’altro” appaiono fondamentali nella realizzazione di questo passaggio. La trasformazione da bambino ad adulto, di cui parla la Doltò, che si opera durante la preadolescenza e l’adolescenza, si traduce in una “crisi” di identità e non già per il processo psico-biologico che l’accompagna, rispetto al quale la natura umana appare istintualmente attrezzata, quanto piuttosto per le avversità e gli ostacoli che l’adolescente deve superaere per integrarsi nella vita sociale e politica del Paese. La fuga verso il mondo virtuale è orientata, dunque, dalla incapacità degli adulti di garantire ai ragazzi il volo verso l’età adulta, creando quel tessuto, quella rete, di riferimenti concreti e reali che si realizza collegando la famiglia d’origine alla scuola, la scuola ai mezzi di comunicazione di massa e al territorio, alle Istituzioni. Se questa rete di ascolto, di accoglienza, di contenimento, di orientamento, se questo raccordo tra Puer e Senex, non si realizzassero, le angosce esistenziali dei giovani sarebbero destinate a crescere e l’evasione massiva verso pianeti virtuali resterebbe per molti un modo per risolvere il conflitto. Non potendo realizzare un Io reale, scontrandosi con il mondo dei Padri e risolvendo il tema edipico, che caratterizza questa fase evolutiva, l’adolescente - virtuale rischia di rimanere imprigionato nella dimensione narcisistica. Rispecchiandosi nel proprio Avatar, immagine ideale dell’Io, immagine eterna e perfettibile, inconsapevolmente morirà a sé stesso, tuffandosi in una dimensione irreale, nell’illusione e nella speranza di poter raggiungere così, uno stato di appagante completezza.