Maria Rita Parsi

Transcript

Maria Rita Parsi
“IL MIO AVATAR NON MORIRÀ MAI”
ESSERE ADOLESCENTE AGLI INIZI DEL III
MILLENNIO
di
Maria Rita Parsi di Lodrone
Adolescente (dal latino adolesco = crescere) è colui che è “in via
di crescita”. E’ l’uomo in cammino dall’infanzia, età della
curiosità, della scoperta, dell’esperienza imitativa e del gioco, età
della fragilità e della dipendenza, della fantasia e del pensiero
magico all’età adulta, epoca del pieno sviluppo fisico e psichico,
della maturità, dell’indipendenza, della progettualità, della
concretezza e della responsabilità.
L’adolescenza è dunque il “processo” che segnala e accompagna
questo passaggio. Non è, quindi, una condizione specifica e come
tale appare indefinita e flessibile, differente da individuo ad
individuo, orientata dal gruppo di appartenenza, sensibile ai
mutamenti sociali e culturali delle diverse epoche storiche.
In alcune culture e in alcune epoche sembra addirittura non
esistere una fase di passaggio, protratta nel tempo, che separi
nettamente la condizione del fanciullo da quella dell’adulto.
L’adolescenza, ovvero l’età più o meno compresa tra i 12 ed i 20
anni, con le sue caratteristiche di criticità, di ribellione, di
emarginazione, di trasgressione, di inquietudine e di ricerca è il
prodotto di una mutazione culturale ed antropologica che ha
riguardato soprattutto i Paesi con un forte sviluppo industriale e
tecnologico. Cambiamenti epocali hanno dato “origine” ad una
fase di vita in cui sostare per acquisire le conoscenze e gli
strumenti, sempre più sofisticati e complessi, necessari per
prendere parte in maniera attiva e produttiva alla vita adulta. La
scuola e l’istruzione obbligatoria, in particolare, hanno regalato e
sancito per tutti il tempo dell’infanzia e dell’adolescenza, che fino
a qualche secolo fa erano riservati solo ai figli di genitori abbienti
o illuminati.
Agli inizi del secolo scorso, lo psicologo russo Lev S. Vigotsky
andava affermando che il comportamento umano non può essere
compreso se non si tiene conto del contesto in cui questo si
sviluppa e si attua. Il contesto è il tessuto socioculturale in cui
l’individuo nasce, cresce, vive.
Sono i fattori culturali e sociali, dunque, che hanno determinato ed
orientato, nel tempo, modalità e criticità dello sviluppo
adolescenziale.
Vigotsky fa presente che la cultura di un gruppo sociale è
composta, non soltanto dall’insieme dei valori, conoscenze,
credenze e convenzioni condivise ma, soprattutto, nasce e si
modella intorno ai sistemi di simboli, “strumenti” condivisi, di cui
il linguaggio, parlato e scritto, è l’espressione più importante,
completa ed incisiva. Grazie agli “strumenti”, l’uomo modifica
l’ambiente esterno e si modifica egli stesso attraverso l’uso che ne
fa.
Il linguaggio, strumento principe, viene utilizzato per riflettere
sulla realtà ma, essendo esso stesso un prodotto culturale, è in
grado di orientare l’elaborazione concettuale e la visione del
mondo a seconda di parametri che connotano la società in cui
l’individuo è inserito.
Ai tempi di Vigotsky il compito di sostenere lo sviluppo dei
minori e trasmettere loro valori e conoscenze, era affidato alle due
classiche agenzie educative, la famiglia e la scuola. Ma la seconda
metà del secolo scorso ha visto la nascita esplosiva di una terza
agenzia educativa, i mezzi di comunicazione di massa, che in
maniera incisiva, pervasiva, multiforme e accattivante hanno
veicolato e veicolano informazione e formazione. La capillare
diffusione
di
questi
strumenti
ha
significativamente
e
irrevocabilmente modificato il tessuto culturale e sociale in cui le
nuove generazioni nascono e crescono.
E se, come diceva Vigotsky, sia lo sviluppo ontogenetico sia
quello filogenetico sono influenzati ed orientati dallo sviluppo
storico e culturale della società, per cui nessun individuo di una
generazione è paragonabile o assimilabile ad uno precedente, ivi
compresi i propri genitori, ancor più oggi questa analisi appare
valida ed esplicativa nel definire il gap generazionale che, sempre
più insistentemente e, talora, irrimediabilmente, negli ultimi
decenni, tende a separare le nuove dalle vecchie generazioni.
Anche lo stesso concetto di generazione, scandito dal prefissato
quarto di secolo, va rivisitato e riformulato e non più in base al
trascorrere del tempo ma, piuttosto, tenendo in considerazione il
ritmo incessante con cui i nuovi strumenti tecnologici, espressione
funzionale di una nuova cultura scientifica, vanno modificando la
vita quotidiana delle persone, i loro modi di agire, di comunicare,
di pensare.
Nel mondo popolato dalle nuove generazioni, la dimensione così
detta “reale” e quella virtuale si sono fuse e sovrapposte. L’era
della multimedialità e della cibernetica, della ipertecnologia era
già stata annunciata dalla letteratura e dalla cinematografia del
secolo scorso.
La trilogia composta dai classici “2001 Odissea nello spazio“,
“Blade Runner“ e “Matrix” si propone quale profetica “Voce” a
presagire un’epoca dell’umanità che vede la convivenza
complessa,
promiscua,
per
molti
versi
drammaticamente
confusiva, tra l’uomo e le sue creature tecnologiche.
Il film di Stanley Kubrick, che viene proiettato nelle sale nel
rivoluzionario ‘68, si ispira liberamente ad un breve racconto di
Arthur C. Clarke, “La sentinella”. Quest’ultimo, poi, tradurrà,
assieme a Kubrick, la sceneggiatura del film “2001 Odissea nello
spazio“, in un libro dal titolo omonimo. La trama, ricca di
significati simbolici e di metafore, ruota intorno all’apparire, in
epoche millenarie diverse e luoghi diversi (sulla Terra, sulla Luna
e su Giove), di grandi monoliti neri al cui cospetto gli uomini sono
in grado di porre in atto nuove modalità di relazionarsi a se stessi e
all’ambiente.
Nella 3ª parte del film, durante la missione diretta su Giove,
Kubrick pone in risalto il rapporto tra l’Uomo e l’Universo in cui
vive, tra lo Spazio e il Tempo, il desiderio di conoscerli e
dominarli attraverso la scienza, l’uso della tecnologia e
l’intelligenza artificiale.
Ad Hal 9000, un super computer di bordo, viene affidato il vero
significato della missione, taciuto invece ai due astronauti svegli
sull’astronave Discovery e sempre il computer deve risolvere il
“conflitto” tra collaborare con i compagni di bordo “lealmente”,
senza alterare dati ed informazioni, così come è stato
programmato, o tacere loro quanto potrebbe rivelare gli obiettivi
reali del viaggio. Nel cercare di trovare una soluzione al
“dilemma“ che, come macchina rigidamente perfetta, non è in
grado di contenere, Hal tenta di uccidere gli astronauti ma il
capitano Bowman riesce a disabilitare le funzioni “superiori” del
computer e a sopravvivere. Appare chiaro il desiderio di Kubrick
di rappresentare, attraverso queste immagini, le ambivalenze
emotive che, in realtà, riguardano l’Uomo, le paure che
inconsciamente cova nei confronti delle sue creature tecnologiche,
il timore apocalittico che un giorno queste possano prendere il
sopravvento e distruggere proprio chi le ha create.
Nel film “Blade Runner”, del 1982, Ridley Scott, ispirandosi al
romanzo “Il cacciatore di androidi” di Philip K Dick, pone in
risalto il tentativo umano di rigenerare sé stesso, di emulare il Dio
Creatore “progettando” e costruendo replicanti del tutto simili agli
umani. La trama, tessuta intorno a passaggi carichi di forte
tensione emotiva, narra la storia di sei replicanti che, sfuggiti dalle
colonie extramondo, tentano di introdursi nella fabbrica in cui
sono stati generati, per modificare la loro imminente data di
termine.
Gli umani, rintracciati gli androidi, tenteranno di catturarli e
fermarli per sempre.
In un succedersi di scontri e di incontri tra gli uomini e le loro
creature tecnologiche anche il regista Ridley Scott traccia, con
grande incisività, il “dubbio” che si affaccia nella mente umana
allorquando riflette sull’utilizzo delle conoscenze scientifiche e
tecnologiche: esse saranno in grado di favorire il reale progresso
ed evoluzione della specie umana oppure, un giorno, gli uomini
stessi saranno condotti, superati, assoggettati dalle loro opere
tecnologiche?
In un celebre passaggio del film, il replicante Roy Batty salva il
poliziotto Deckard, invece di ucciderlo, e prima di spegnersi per
sempre dice:
I've seen things you people wouldn't believe. Attack ships on fire
off the shoulder of Orion. I watched c-beams glitter in the dark
near the Tannhauser Gate. All those... moments will be lost... in
time, like tears... in rain. Time to die.
(Ho visto cose che voi umani non potreste immaginare. Navi da
combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho
visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser. E
tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella
pioggia. È tempo di morire.)
Il titolo “Matrix”, del film dei fratelli Wachowski, deriva dal
termine latino matrix (matricalis) che ha come significato utero,
origine, fonte, progenitrice, madre. In matematica le matrici
nascono come tabelle numeriche in grado di agevolare i calcoli e
vengono ampiamente utilizzate in ambito informatico come un
processo che consente di definire nuovi tipi di dati partendo da tipi
preesistenti.
Il film viene proiettato nelle sale nel 1999 e riscuote anch’esso un
grande successo. In Matrix l’Uomo è capace di creare macchine
dall’intelligenza artificiale in grado di pensare. Queste macchine
riescono a prender il sopravvento dando l’illusione agli uomini di
vivere liberamente, invece tutta l’umanità viene utilizzata dalle
macchine quale fonte alternativa per trarre da essa l’energia
necessaria per la loro sopravvivenza funzionale. Questo dominio
si attua attraverso il controllo cerebrale e la simulazione di un
mondo costruito al computer. In realtà ciò che appare agli occhi è
un programma chiamato Matrix. All’interno di questo sistema la
gente vive senza accorgersi della propria vera condizione. Solo
alcuni percepiscono qualcosa di strano, qualcosa che non va, ma
non sono in grado di descrivere esattamente queste sensazioni. Tra
i diversi, gli sfuggiti al Sistema, c’è Neo, il nuovo, considerato
“l’eletto” da un gruppo di persone facenti parte della Resistenza,
perché ritenuto capace di restituire la libertà al genere umano,
riuscendo a rompere l’involucro artificiale e ritornando alla realtà.
Fa parte di questo gruppo il capitano della nave da guerra
Nabucodomosor che convince Neo ad uscire da Matrix.
Significativi sono i dialoghi tra i due personaggi, tesi a porre in
risalto quanto la realtà possa essere alterata, deformata,
“virtualizzata” dall’uso inconsapevole e coercitivo di strumenti
tecnologici. “Gli uomini sono la proiezione mentale dell’Io
digitale”, dice Morpheus a Neo. E ancora “Matrix è un mondo
virtuale elaborato al computer creato per tenerci sotto controllo”
… “Matrix è ovunque. E’ intorno a noi … E’ il mondo che ti è
stato messo davanti agli occhi per nasconderti la verità”.
Il film propone, pregnante, il tema della consapevolezza e della
scelta in grado di orientare il proprio destino e quello degli altri.
Un destino che nel film è solo fittizio, l’immaginario virtuale nel
quale l’Uomo è stato imprigionato dalle macchine che ha creato,
di cui ha perso il controllo, e che finiscono per controllare, esse
stesse, la vita di chi le ha ideate.
Un sano è costruttivo rapporto tra l’uomo e la tecnologia,
l’utilizzo consapevole e mirato delle conoscenze scientifiche e dei
suoi strumenti, il destino quale condizione inconsapevole a cui si
può
porre
rimedio
attraverso
il
percorso
della
crescita
consapevole, della ricerca di sé, dei significati e dei valori
dell’esistere, sono alcuni degli spunti “morali” di questa favola
fantascientifica del 20° secolo a cui può essere salutare prestare
attenzione.
Quali disagi psicologici , affettivi e relazionali possono pesare
soprattutto
sulle
nuove
generazioni,
sulle
personalità
in
costruzione, se lasciate di fronte a scenari virtuali, capaci di
soddisfare nell’immediatezza bisogni e desideri, di risolvere paure
e debolezze, di “realizzare” virtualmente l’immagine ideale
dell’Io, attraverso avatar perfettibili ed immortali? Freud, dagli
inizi del secolo scorso, studiava i fenomeni della nevrosi isterica,
dello sdoppiamento di personalità, in soggetti che nella vita reale
erano, per varie cause, spesso educative e culturali, risultati
incapaci di orientare la loro libido in maniera concreta e
soddisfacente.
Oggi i nostri ragazzi, la generazione dei “nativi digitali”, venuti al
mondo “in società multi schermo, utilizzando interattivamente
strumenti che favoriscono lo scambio sociale, l’espressione
dell’emotività e la libertà di scegliere cosa essere e cosa fare”,
devono trovare la strada per poter coniugare armonicamente
l’eredità delle conoscenze e delle esperienze “analogiche”,
mutuabili dalla storia millenaria dei padri, con le eredità, più
innovative ma acerbe, della cultura digitale e multi mediale. Per
quanto super moderna ed ipertecnologica, scientificamente
progressista, la cultura digitale appare, nella sua precipitosa e
multiforme genesi, priva di regole e norme condivise, indefinita e,
forse, indefinibile nei passaggi, nei contenuti, nei confini. Il primo
tra tutti quello tra il così detto “mondo reale” e “mondo virtuale”.
La Fondazione Movimento Bambino, in collaborazione con la
Fondazione Ferrero, di fronte a questo stravolgente mutamento
espocale ed antropologico, che riguarda prevalentemente e
soprattutto bambini, ragazzi e giovani, ha favorito l’incontro e il
confronto interdisciplinare di esperti al fine di elaborare un codice
di comportamento condiviso, per l’utilizzo consapevole dei nuovi
media da sottoporre a più livelli: dai fruitori ai fornitori, dalle
strutture educative alle organizzazioni socio-culturali, a quelle
governative.
Alla base del protocollo, denominato “Carta di Alba”, elaborato
dagli esperti coinvolti nel progetto, appare chiaro l’enunciato che
delinea il I° punto del documento conclusivo: è necessario
approcciare le tematiche e le problematiche emergenti nella nostra
epoca considerando mondo reale e mondo virtuale quale unicum
inscindibile e i prodotti e le forme tecnologiche quali espressioni e
“strumenti” (per dirla alla Vigotsky) culturali e comunicativi di
un’unica realtà.
Tutte le società civili del mondo, anche quelle che nascono nei
“Paesi virtuali”, necessitano, per essere tali, di atti costitutivi
espliciti e condivisi che sanciscano diritti e dovere dei cittadini, a
tutela di tutti, soprattutto dei più indifesi e dei più “esposti“.
Gli adolescenti, in particolare, hanno bisogno di potersi
confrontare con punti di riferimento chiari e coerenti, necessitano
di autorità leali e responsabili, capaci di sostenere con impegno il
ruolo che esercitano, chiedono di poter conoscere e comprendere
leggi e regolamenti anche quando trasgrediscono. In questa epoca
della vita la mente, il corpo, l’immaginario e le emozioni
cambiano e si trasformano, i pensieri e le certezze di bambino/a
crollano per lasciare posto al dubbio, alla confusione, al senso di
solitudine e alla delusione, legati anche al crollo del “mito” delle
figure genitoriali che non appaiono più potenti e competenti ma
limitate, fallaci, umane; proprio in questa epoca i ragazzi hanno
bisogno di trovare, nei contenitori sociali, orientamenti, percorsi e
protocolli da seguire, da rivisitare acriticamente e creativamente;
leggi sociali con cui confrontarsi e scontrarsi, da mettere in
discussione per tendere verso le utopie e i sogni che,
fortunatamente, popolano, da sempre, la mente delle giovani
generazioni.
Pensieri carichi di energie e spinte rigeneratrici che hanno dato
forza a cambiamenti epocali: alle azioni e contestazioni giovanili,
infatti, si legano i moti culturali che hanno trasformato,
nell’ultimo secolo, la politica, la scuola, il ruolo delle donne nella
famiglia e nella società….
Francoise Doltò affermava: “La crisi adolescenziale di cui si parla
non è una crisi più di quanto lo sia un parto; è la stessa cosa, si
tratta di una trasformazione. Non si può dire che il bruco che
diventa crisalide attraversi una crisi …. Il feto rischia la vita: solo
così può nascere. Se non smettesse di respirare, non potrebbe
avere inizio il travaglio del parto. E’ quindi necessario che rischi
di morire. E, in realtà, muore in quanto feto per diventare neonato,
ma deve rischiare.”
Ebbene l’adolescenza non è una crisi: è un periodo di
trasformazione, cosa del tutto diversa.
Cosa potrebbe accadere se la primitiva cultura digitale, ricca di
energia e di potenzialità e di capacità di espansione, non
maturasse, grazie ad una voluta riflessione etica e morale della
società globalizzata? Come potrebbero orientarsi i più giovani se
lasciati itinerare, senza bussola, nei vasti e variopinti spazi della
rete telematica planetaria?
William Golding, nel 1952, scrive il libro “Il Signore delle
Mosche” che, nel ‘63, ad opera del regista Peter Brook e in un
remake, nel 1990, dal regista Harry Hook, viene trasformato in
ben due film.
Il racconto narra la storia di un gruppo di giovanissimi studenti
inglesi che, durante un volo di evacuazione a causa di un
imminente conflitto planetario, sopravvive miracolosamente
all’incidente dell’aereo su cui viaggia, mentre, drammaticamente,
periscono tutti gli adulti.
Si ritrovano naufraghi su un’isola del Pacifico, un’isola
sconosciuta, in cui non vi è tracci di altri esseri umani.
I ragazzini sono soli con sé stessi.
Inizialmente tendono ad organizzarsi, provando a riproporre gli
stili del mondo civilizzato da cui provengono. Il residuato delle
regole introiettate è ancora chiaramente vivo in loro: sono
ragazzini disperati ma, nel tentativo di sopravvivere insieme, si
lasciano “guidare” dalle norme dell’esclusivo collegio inglese da
cui provengono.
Inizia a definirsi una struttura di gruppo in cui si delineano le
diverse personalità dei giovanissimi protagonisti che portano ad
assumere ruoli diversi all’interno del gruppo stesso e nascono così
chiare dinamiche relazionali.
Ci sono ragazzi meno capaci di esprimere sé stessi, disposti a
seguire i comportamenti e le indicazioni di quelli più
intraprendenti
che
hanno
capacità
di
“leadership”
e
di
comunicazione più immediate ed incisive. Tra questi si evidenzia
la figura di Ralph che è capace di ottenere il consenso del gruppo
e di organizzarne le forze. Il suo stile rappresenta quello di un
leader democratico che invita tutti a collaborare, secondo le
proprie qualità, per il benessere collettivo. Seguendo le direttive di
Ralph, i ragazzini provvedono a costruire rifugi, a procacciarsi il
cibo e a conservare provviste, a tenere vivo il fuoco che ha anche
la funzione di segnale per un’eventuale avvistamento. Altre figure
che emergono sono quella di Piggy, un ragazzino grasso con gli
occhiali, figura esplicativa del secchione, quella di Jack, capo del
gruppo corale scolastico, “guerriero” nello spirito, patito di caccia
e quella di Simone, uno dei coristi, che diviene amico e aiutante di
Ralph e .
Jack organizza un gruppo di coristi, che si armano di lance per
cacciare i maiali selvatici. Il tempo trascorre ma nei ragazzini
cominciano ad emergere paure primordiali, come quella che
l’isola sia abitata da una creatura mostruosa e demoniaca. In realtà
si tratta del cadavere di un paracadutista appeso ad un albero, che
viene agitato dal vento.
Alcuni ragazzini, guidati dall’impulsivo guerriero Jack, si
distaccano dal resto del gruppo per formare un clan di cacciatori,
coeso intorno alle nuove irrazionali “credenze”, animato da spinte
aggressive e istintive.
Jack uccide un maiale e pone la sua testa su un palo. Il macabro
totem diviene il “Signore delle Mosche”, coperto di insetti, a
rappresentare il predominio della forza e della primitiva
istintualità sulla ragione e sul rispetto di regole democratiche ed
egualitarie.
La contrapposizione tra i due gruppi diviene inevitabile.
L’imbarbarimento feroce dei ragazzi guerrieri, il desiderio di
domini su tutto e tutti, la sete di potere, spinge Jack a guidarli
verso lo scontro fisico e il massacro dei compagni più indifesi.
Quando tutto ormai sembra perduto, perché anche l’isola è stata
data a fuoco, dai ragazzi guerrieri, nel tentativo di scovare ed
uccidere il sopravvissuto Ralph, riappare la società degli adulti:
sulla spiaggia un ufficiale di Marina, con il suo equipaggio, aiuta i
giovanissimi naufraghi a lasciare l’isola.
Il virtuale è, sempre più di frequente, per i nostri ragazzi la florida
isola, inesplorata e selvaggia, sulla quale approdano, senza
mediatori culturali e strumenti di tutela codificati e condivisi
dall’intera comunità virtuale, senza adulti consapevoli e coinvolti,
adeguatamente alfabetizzati, non solo all’utilizzo delle nuove
tecnologie ma anche, e soprattutto, a porre in atto azioni
“educative” attraverso le nuove tecnologie. Ovvero genitori,
educatori, sociologi, psicologi, uomini della
Cultura e della
Politica che sappiano rivolgersi ai giovani e comunicare con loro
attraverso i nuovi linguaggi multimediali, così cari ai ragazzi e
così presenti e incisivi nelle loro vite.
In Internet, poi, come nell’isola del Signore delle Mosche, le
regole apprese a trasposte dalla società civile orientano il azioni di
buon senso e di democratica convivenza: il rispetto della privacy,
ad esempio attraverso il nickname, il “chador” telematico,
strumenti
a
tutela
dei
minori,
come
codici
di
autoregolamentazione promossi dal Governo.
Ma lo strumento nato per comunicare a grandi distanze, in
maniera veloce e completa, in dotazione ad organizzazioni militari
(che di regole ne adottano e applicano tante!), nato per contenere,
veicolare e trasmettere informazioni e saperi, sta, oggi deragliando
dagli impliciti orientamenti iniziali, per sconfinare in una
situazione di primitivo imbarbarimento, dove tutto è possibile,
lecito ed “autorizzato”. Ogni scibile umano può esservi rovesciato
dentro senza filtri, senza controllo, senza verifiche di attendibilità.
E così possibile occupare spazi virtuali e pubblicare tutta una serie
di informazioni che ti riguardano. Chi vuole può mettersi in
contatto con te, non solo leggere quello che pensi ma anche
“dialogare” attivamente. Un oceano di informazioni individuali di
estremo interesse finisce col mescolarsi con un mare di
inattendibili, stupide, distruttive e/o terrificanti informazioni che,
per lo più, disorientano, confondono, disilludono coloro che
possiedono strumenti di decodifica e capacità critiche ma (e
purtroppo), altrettanto di frequente, questa “deregulation” finisce
col danneggiare le persone più fragili o in crescita che, non
avendo, di per sé stesse, orientamenti chiari e solidi equilibri,
possono essere travolte da chi violentemente e distruttivamente
usa gli strumenti tecnologici.
Sull’isola, i ragazzini, abbandonati a sé stessi, tentano inizialmente
di sopravvivere aggrappandosi al loro bisogno di bene e di
condivisione, di fraterna solidarietà. Bisogni che, come tali,
sottendono uno stato di necessità e di vuoto, una “fame” che
attende risposte da parte delle figure di riferimento per potersi
trasformare in uno stato di soddisfacimento del bisogno stesso e di
una piena realizzazione.
I bisogni evolutivi sono moti della mente e dell’anima che durante
l’adolescenza sono tesi a ricercare attivamente un equilibrato
rapporto tra l’Io e gli Altri, tra il senso di sé e del proprio
benessere e le realtà affettive esterne, altro da sé.
In preadolescenza e in adolescenza, sulla razionalità ed il buon
senso prevalgono spinte pulsionali che orientano i ragazzi verso la
sperimentazione quotidiana e concreta, costante ed affannosa.
Il saggio equilibrio non è soltanto uno status psichico ancora da
acquisire ma, agli occhi dei ragazzi, appare quale noiosa e inutile
condizione che ne limita l’espressione e l’inventiva.
E così come i giovani naufraghi, senza adulti che quotidianamente
offrano risposte adeguate alla loro sete di conoscenza, senza
autorità che si propongano quali punti di riferimento da
riconoscere e/o contestare, senza mediatori capaci di promuovere
occasioni di dialogo e di confronto tra ragazzi ed adulti, i nostri
giovani rischiano di essere sopraffatti dalla loro parte pulsionale
ed emotiva ed essere contagiati dalla distruttività, dalla sete di
potere, dall’ignoranza di chi, arbitrariamente, si impone nella loro
vita utilizzando strumenti di comunicazione molto persuasivi ed
efficaci.
Gli adulti che si estromettono dal mondo dei ragazzi,
abbandonandoli a sé stessi, quotidianamente “fanno fuori”
giovanissimi Ralph, o meglio la parte di Ralph che è in ogni
adolescente, che vuole confrontarsi con l’autorità e le regole, che
ne ha bisogno e ne riconosce il valore.
Con le nostre assenze il nostro laissez faire, quello che
proponiamo alle giovani generazioni è una terra virtuale in cui
l’homo virtualis che la frequenta e la popola dovrà attraversare e
ripercorrere gli stessi riti e gli stessi processi di civilizzazione che,
secoli or sono, ha attraversato l’homo sapiens nella dimensione
“analogica”.
Non meravigliamoci, dunque, se negli spazi virtuali accanto ad
intuizioni geniali, innovazioni e scoperte appaiono scene di cyber
bullismo, prolifichi la calunnia e, come in nuove arene
ipertecnologiche, l’uccisione ridivenga uno sport eccitane e
possibile.
“Nei miti dell’origine” o “miti della creazione” si narra che tutto
comincia con il Caos “la materia inerte ed indistinta, confusa
miscela di tutte le cose nello spazio vuoto” .
Dal Caos ebbero origine Gea, la Terra e altre divinità primordiali.
Gea, la dea primigenia, da sola, generò Urano, il Cielo stellato,
che la fecondò. Dalla loro unione nacquero i Titani: sei maschi e
sei femmine; più tardi i Ciclopi, da un solo occhio, e gli
Ecantonchiri, dalle cento mani.
Il più giovane dei Titani, Crono, su istigazione della madre,
adirata con Urano perché aveva relegato alcuni figli nel Tartaro,
con una falce fornitagli sempre dalla stessa Gea, evirò il padre
Urano e lo privò del potere.
Crono divenne così il sovrano degli dei e sposò la sorella Rea da
cui ebbe numerosi figli. Per paura che questi lo spodestassero,
come egli stesso aveva fatto con il proprio padre, li mangiò ad uno
ad uno. Ma Rea, ribellandosi nascostamente al marito, riuscì a
salvare il più piccolo, Zeus, presentandogli, in vece del figlio, una
pietra avvolta in fasce che Crono prontamente divorò.
Alla fame di potere e di predominio del padre, la donna si oppone,
dice “no”, affida Zeus ad altre donne che lo nascondono e lo
allevano.
Una volta divenuto grande, Zeus, si fece assumere, sempre con
l’aiuto della madre, come coppiere di Crono e versò nell’idromele
del padre una mistura capace di fargli vomitare, ad uno ad uno, i
suoi figli. Con il loro aiuto, Zeus, mosse guerra al padre alleato dei
Titani. La guerra durò dieci anni ma, alla fine, il giovane e i suoi
fratelli ebbero la meglio. Zeus divenne il nuovo re degli Dei. Pur
essendo il Sommo, quando prende il potere, Giove lo condivide
con gli altri dei. Anche la stessa capacità di conoscere il futuro, il
Fato, a cui egli stesso è sottomesso e di cui è garante ed esecutore,
viene delegata ad altri dei, come Apollo, o mortali oracoli, come
Teresia. Giove, discendente del Caos, nel suo Olimpo multiforme
e promiscuo, governa non più accentrando il potere ma lasciando
che vizi e virtù, odi e amori, generosità e capricci dei suoi dei
guidino le loro azioni e condizionino quelle degli uomini. Nel
Regno di Giove ci si accoppia e ci si lascia, tutti sono parenti di
tutti, parentele legittime ed illegittime, figliolanze legittime ed
illegittime; complotti, vendette, alleanze, intrighi, magie …
L’Olimpo di Giove, metafora della primitiva condizione
dell’animo umano, ricorda l’odierno mondo virtuale dove c’è ed è
possibile qualunque cosa. Vi è un mare di informazioni ottime: nel
virtuale puoi pescare veramente tanto: se chiedi ti sarà dato e,
come nel mondo degli dei, puoi rintracciare infinite possibilità e
soluzioni.
Puoi trovare protettori, promotori e sostenitori delle Scienze, delle
Arti e della Natura e “pozioni“ per curare il dolore fisico, mentale
e spirituale; puoi trovare naviganti, eroi, poeti e musici: un mondo
variopinto a disposizione di tutti, in cui bisogni, follie,
problematiche e frivolezze trovano spazio e risposta.
E come nei miti di creazione, l’Era del virtuale, l’Era di Giove, è
stata preceduta da un’epoca in cui il ruolo dei padri e quello dei
figli erano nettamente distinti; uno stile austero improntato sul
timore e sul rispetto, separava le nuove dalle vecchie generazione
che esercitavano un controllo severo sulla crescita dei figli.
Un’epoca governata e segnata dal tempo (Chronos per i greci è
stato a lungo la personificazione proprio del Tempo), dove ogni
fase era scandita, ogni tappa già incisa nel “destino” che guidava il
percorso di crescita dalla giovinezza alla vita adulta. Un tempo
ineluttabile e definito che divorava i suoi figli e le loro vite,
ricordando loro di esser nati per essere destinati a morire.
All’angoscia di morte che accompagna la sua condizione, l’Uomo
cerca da sempre una risposta; al trascorrere del tempo, che minuto
per minuto ne divora il suo esistere, tenta di opporre la forza
rigeneratrice della Vita. L’essere umano non fa niente altro che
sperare, attraverso la Madre, attraverso il corpo della donna, di
rinascere, rinascere e rinascere ancora. Così la specie si rigenera e
si evolve, da millenni. Ma il precario “essere o non essere” di ogni
individuo resta ad alimentare paure ed angosce esistenziali.
Gli incidenti, soprattutto stradali che costano la vita a tanti giovani
ci spingono ad interrogarci su un tema mai abbastanza
scandagliato: cosa spinge un essere umano, e specie i ragazzi, a
“corteggiare” la morte, beffandola grazie alle proprie facoltà di
padronanza e controllo?
Per certi ragazzi, poi, magari cresciuti giocando con i videogame,
tutto avviene come in una battaglia. La vita è sfida continua contro
i propri limiti, anzitutto quelli corporei, che si trasforma in
un’ardita tenzone per azzerare la paura.
La biologia e la neurofisiologia ci danno una risposta, ormai
condivisa dagli ambienti scientifici: il rischio, la paura attivano
nell’organismo due ormoni che hanno affinato la loro funzione
con l’evoluzione della specie, quali l’adrenalina e la dopamina.
Essi hanno la funzione fondamentale di sviluppare nell’essere
umano la forza di vivere e sopravvivere e di percepire la propria
corporeità; nei nostri progenitori tali neuro mediatori attivanti
servivano a difendersi dalla morte per inedia spingendo a
procacciarsi il cibo contro ogni avversità.
Tali ormoni sono visti come un equilibratore delle angosce, la
prima della quali, quella più distruttiva e destabilizzante, è
l’angoscia di morte.
Un’angoscia che presiede la nostra vita sin dallo stadio neonatale.
Perché, passando dalla condizione fetale a quella di esserino ormai
autonomo, il bimbo ha cognizione che il nutrimento non gli
proverrà più attraverso il grembo materno, dal quale è stato
protetto e alimentato, bensì dovrà far conto su fonti “esterne” che
potrebbero anche venire a mancare, provocandone la morte. Risale
a questo momento l’iniziale cognizione della propria mortalità,
quello che gli antichi chiamavano horror vacui.
Crescendo, l’uomo avvia una serie di difese/reazioni per sfuggire a
tale sensazione di caducità che potremmo distinguere in sei
categorie:
a) difesa demografica, attraverso la perpetuazione della specie e la
produzione della prole;
b) difesa religiosa, col convincimento che c’è una vita oltre la vita;
c) difesa ideologica, ovvero la teoria secondo la quale le idee degli
uomini e le loro elaborazioni intellettuali ne eternano il ricordo;
d) difesa legata all’arte ed alle opere materiali; il messaggio
eternizzante del singolo viene affidato ai monumenti, alla scultura,
alla pittura, a tutto ciò in cui si trasfonde concretamente il senso
estetico e creativo di un artista;
e) difesa distruttiva: è quella di chi affida il proprio rendersi
memorabile alla guerra ed alla distruzione, ovvero al trascinare
anche gli altri con sé nel baratro ferale. “Muoia Sansone con tutti i
Filistei” è il motto di chi rifugge il fiato della morte sul collo e
vuole sconfiggerla contagiandola agli altri;
f) il tipo di difesa più moderno e avanzato ce la offrono le nuove
tecnologie. A parte le futuribili ambizioni di chi vuol ricorrere
all’ibernazione per “rinascere” in un tempo successivo, nel quale
le proprie patologie abbiano trovato un rimedio scientifico,
l’elaborazione di una Second Life e di un Avatar che è un se
stesso eterno, rappresenta il conforto che quel corpo corruttibile laboratorio biochimico che produce 21 grammi d’anima - nel web
ci avvicinerà all’eternità di Dio, Come dire: “Il mio Avatar non
morirà mai!”.
Perché l’altra faccia della medaglia della paura della morte è
rappresentata, appunto, dall’essere consapevole che è proprio quel
particolare che ci divide dalla Divinità.
Nell’età del digitale, una nuova madre che tutto e tutti accoglie nel
grembo primordiale, fertile e prolifero, la Virtualità multimediale,
rinnova la speranza di riuscire ad opporsi al trascorrere del tempo
e ai limiti imposti dalla spazio fisico e sociale. L’infinito spazio
telematico, generato dalla moderna tecnologia, onnipotente ed
onnisciente, può offrire soluzioni ai mali del vivere e
rappresentare la terra promessa in cui rifugiarsi per liberarsi della
propria insoddisfacente e limitata condizione e sperimentare
percorsi paralleli.
L’assenza di adulti di riferimento nella vita dei giovani,
comunque, non è un problema che riguarda unicamente lo spazio
virtuale, è una realtà che pervade la vita quotidiana dei nostri figli.
La famiglia si è grandemente trasformata: da famiglia composta e
multi parentale dell’epoca patriarcale a famiglia mononucleare
talvolta disgregata. Gli adulti approdano alla loro genitorialità in
età avanzata, decisi e consapevoli ma la loro “opera procreativa”
si ferma, solitamente, al primo o secondo bambino.
Sui figli si riversa un forte investimento emotivo ma anche
aspettative e speranze che i genitori frustrati o insoddisfatti
riversano su loro. Il coinvolgimento emotivo-affettivo e la
consapevolezza non sempre si traducono, o possono tradursi, in
presenza, vicinanza, quotidiano sostegno. I genitori, ancora
soprattutto i padri, sono troppo spesso impegnati in prolungate
attività di lavoro. Durante l’infanzia i bambini, i figli unici e/o i
figli dei piccoli atolli familiari crescono in assenza dei papà, ma
anche delle mamme, ricompensati da attenzioni consumistiche e
gratificati attraverso espressioni affettive che finiscono per
sviluppare e alimentare nei piccoli immagini narcisistiche del sé:
“Sei speciale… Sei bravo… Sei un ometto … Sei in grado di
cavartela anche senza di me…”. Ricompense “virtuali” che non
permettono certo di fare esperienza concreta di contatto, di
dialogo, di confronto.
Tra i banchi di scuola dei più piccoli è scomparsa la figura del
maestro, poche e sparute mosche bianche si aggirano, quale
esemplari rari di una razza in via d’estinzione che non trova nel
tessuto culturale e politico, specie del nostro Paese, le risorse
motivazionali ed economiche necessarie per rinnovarsi e
rivitalizzarsi.
La politica, lontana ormai non solo da ideologie ma anche da
ideali, è rinchiusa in spazi di azione programmatica che, di fatto,
non riescono a modificare sostanzialmente la condizione di
marginalità dei giovani (se non di vera emarginazione) dal mondo
della formazione e del lavoro.
Disillusi e disorientati, incapaci di ribellarsi a condizioni sociali
vissute come irrimediabilmente estranee ed ostili, bombardati da
informazioni frantumante che della realtà espongono il peggio
dell’essere umano, mostrando una società lenta ad accoglierli,
disgregata, antiquata, ignobile, ingiusta, i ragazzi abbandonano la
dimensione “reale” della loro crescita per rifugiarsi, migrare nella
dimensione virtuale, dove tutto è rapido e possibile, dove tutto è
connesso, in rete.
Un esempio estremo di questa condizione di emigranti virtuali,
che vivono nel corpo per soddisfare quasi esclusivamente bisogni
primari, e delegano alla mente che esplora il mondo attraverso il
computer, il “compito” di esistere, è quella dei giovani giapponesi
chiamati Hikikomori. Sono adolescenti e preadolescenti che, per
ribellarsi ad un mondo vissuto come ostile, si rifiutano di
frequentare la scuola o di dedicarsi ad attività lavorative e,
rintanandosi
in
casa,
si
rapportano
al
mondo
esterno
esclusivamente attraverso il computer.
Questi piccoli samurai tecnologici si asserragliano in uno spazio di
cui sentono di avere il dominio (la propria camera), concedono
alla loro affettività inaridita soltanto - e non sempre - il legame ad
un animale domestico (alcune volte anche questo virtuale) e
rifiutano di uscire.
Una componente del fenomeno (che coinvolge secondo il dott.
Saito, esperto in questo disturbo, circa un milione di giapponesi,
praticamente l’1% della popolazione) è di certo generata dalla
competitività della scuola giapponese, che riflette l’altrettanto
estrema competitività del mercato del lavoro nipponico.
Si tratta di una scuola che si fonda su una sacralità dell’istruzione
e, col suo autoritarismo, immette elementi depressivi in individui
che hanno la percezione di non riuscire a raggiungere gli standard
richiesti, preferendo così rifugiarsi in una propria realtà, in casa.
Una casa che è una sorta di fortino, in cui la famiglia è estranea,
visto che i genitori fanno soprattutto parte del complesso
ingranaggio di una società votata al lavoro, alla produttività ed al
profitto, più che essere punto di riferimento affettivo.
Lo stato emotivo dei giovani giapponesi e il loro senso di
alienazione dalla società dei grandi sono condivisi da molti
giovani occidentali. A fronte di questa condivisione i ragazzi
tendono ad immergersi nella “monade tecnologica”, allevati da
TV, da iPod, da consolle che fanno loro da baby sitter o compagni
di gioco. Al contempo si affermano come punti di riferimento le
icone tecnologiche, le immagini e i modelli trasmessi attraverso il
computer, l’universo infinito del web, i videofonini, icone che,
come parenti virtuali, si sostituiscono ai contatti fisici e “offrono”,
comunque, una risposta incompleta e, troppo spesso, inadeguata al
senso di solitudine che dilaga fra le generazioni di pre-adolescenti
ed adolescenti.
Così, paradossalmente, i giovani d’oggi sperimentano intimità e
confidenza nelle coloratissime e personalizzate pagine dei blog,
diari virtuali, dove offrono, indiscriminatamente a tutti, uno
specchio di sé e dei propri pensieri.
E’, infatti, proprio attraverso i loro blog che, spesso, si ha la
possibilità di conoscerli meglio e di comprendere le loro idee sul
mondo.
Molti di questi ragazzini, cresciuti magari alimentando la fantasia
con la lettura delle imprese di Harry Potter, considerano la
tecnologia una bacchetta magica che li rende potentissimi, capaci
di mettersi in comunicazione con chiunque, quando vogliono; di
ottenere, interattivamente, tutte le informazioni di cui necessitano;
di vivere una Second Life (una seconda vita parallela) a misura del
loro immaginario; di inviare virtualmente la propria immagine a
colloquio con le immagini della persone che desiderano
incontrare; liberi, con il segreto del nickname o dell’alias, di poter
esprimere qualunque giudizio, opinione, relazione d’amore o di
odio, di aprire o chiudere, all’improvviso, qualunque contatto
sganciato dalle convenzioni del tempo e dello spazio.
Il mondo degli adulti, invece, che pure ha voluto, messo a punto e
che continua a perfezionare le nuove tecnologie, non sempre
riesce ad “addomesticarle” e, anzi, in molti casi, ne è perfino
tagliato fuori (dati Istat 2007: la maggior parte degli utilizzatori
adulti del computer sa effettuare solo processi elementari, ad
esempio soltanto il 36,7% degli uomini e il 17,9% delle donne è in
grado di individuare e risolvere problemi di funzionamento del
computer).
Gli adulti sono, invece, chiamati a garantire e seguire il progresso
e, una volta creati gli strumenti, non è corretto lasciarli in mano ai
ragazzi, abbandonandoli a sé stessi. Il viaggio della crescita dei
nostri figli necessita di percorsi e approdi garantiti e sicuri: l’aereo
su cui oggi viaggiano è il progresso stesso, non è possibile né sano
rallentare il suo corso. E’ necessario attivarsi, dunque, perché
anche nel mondo reale le rotte siano molteplici ed i giovani
possano intraprendere itinerari formativi che consentano loro di
realizzarsi professionalmente ed umanamente.
In una ricerca condotta dalla M.T.V. sui valori dei giovani appare
al primo posto la fedeltà, seguono l’amicizia e la famiglia. I
ragazzi, immersi in tessuti affettivi e sociali sempre più disgregati,
in un mondo sempre più smembrato, ricercano la fedeltà come
possibilità di continuità e di appartenenza, ad esempio fedeltà ad
un gruppo, ad una community.
Ma sentono forte soprattutto il bisogno di restare fedeli a sé stessi,
ai loro sogni, ai loro desideri: “Da grande sarò …, da grande farò
…”
Ma le soluzioni ai progetti sul futuro sono sempre più spesso
dettate da stretti e coercitivi parametri economici: dalla scelta dei
percorsi scolastici, formativi e le attività lavorative alle scelte
affettive e di autonomia dalla famiglia d’origine.
I dati Istat, pubblicati nel dicembre del 2009, riguardanti “le
difficoltà di transizione dei giovani allo stato adulto e le criticità
dei percorsi di vita femminili” mostrano come la permanenza
prolungata dei giovani in famiglia sia uno dei principali problemi
del Paese. Pochi, tra coloro che tre anni prima della conclusione
dell’indagine avevano dichiarato di avere l’intenzione (certa o
probabile) di uscire dalla famiglia di origine sono stati in grado di
realizzare il loro progetto. “Fattori economici, in particolare
l’accesso dei giovani al mercato del lavoro e al mercato abitativo,
da un lato e fattori culturali dall’altro” appaiono fondamentali
nella realizzazione di questo passaggio.
La trasformazione da bambino ad adulto, di cui parla la Doltò, che
si opera durante la preadolescenza e l’adolescenza, si traduce in
una “crisi” di identità e non già per il processo psico-biologico che
l’accompagna, rispetto al quale la natura umana appare
istintualmente attrezzata, quanto piuttosto per le avversità e gli
ostacoli che l’adolescente deve superaere per integrarsi nella vita
sociale e politica del Paese.
La fuga verso il mondo virtuale è orientata, dunque, dalla
incapacità degli adulti di garantire ai ragazzi il volo verso l’età
adulta, creando quel tessuto, quella rete, di riferimenti concreti e
reali che si realizza collegando la famiglia d’origine alla scuola, la
scuola ai mezzi di comunicazione di massa e al territorio, alle
Istituzioni.
Se questa rete di ascolto, di accoglienza, di contenimento, di
orientamento, se questo raccordo tra Puer e Senex, non si
realizzassero, le angosce esistenziali dei giovani sarebbero
destinate a crescere e l’evasione massiva verso pianeti virtuali
resterebbe per molti un modo per risolvere il conflitto.
Non potendo realizzare un Io reale, scontrandosi con il mondo dei
Padri e risolvendo il tema edipico, che caratterizza questa fase
evolutiva, l’adolescente - virtuale rischia di rimanere imprigionato
nella dimensione narcisistica.
Rispecchiandosi nel proprio Avatar, immagine ideale dell’Io,
immagine eterna e perfettibile, inconsapevolmente morirà a sé
stesso, tuffandosi in una dimensione irreale, nell’illusione e nella
speranza di poter raggiungere così, uno stato di appagante
completezza.