Cosa fare per motivare i collaboratori

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Cosa fare per motivare i collaboratori
Pubblicazione CeRCA, C3/9-2012
Cosa fare per motivare i collaboratori
Vittorio D’Amato
Direttore CeRCA
Centro di Ricerca sul Cambiamento e Apprendimento Organizzativo
Perché è importante avere persone motivate
Risultati eccellenti vengono ottenuti da persone preparate e
competenti. Questa affermazione è vera solo in parte.
Sfortunatamente le competenze, persino quelle che sono state
empiricamente correlate con una performance efficace, sono
necessarie, ma non sufficienti a predire la performance. Le
competenze ci aiutano a capire cosa è in grado di fare una persona e
che cosa ha fatto in passato, ma non che cosa farà. In questo modo,
le competenze ci spiegano come facciamo ad ottenere una
performance efficace, ma non perché la otteniamo oppure no.
Abbiamo bisogno di sapere di più sulla motivazione e sui valori
delle persone; abbiamo bisogno di sapere quanto è forte il contratto
psicologico che lega persone e organizzazione e quanto sono
compatibili con la cultura aziendale. Il fatto che le persone mettano
in gioco o meno le loro competenze o addirittura che ne sviluppino
di nuove dipende da questo. Alcuni autori come Richard Boyatzis
inseriscono nella definizione di competenza il concetto di
“intenzione”. Sebbene questo renda più completo il profilo di
competenza necessario alla prestazione migliore, tuttavia non
incide ancora sul “desiderio” di utilizzare le proprie competenze o
di svilupparne di nuove. Se consideriamo le competenze necessarie
ad una performance superiore, sia in ambito professionale che nella
vita in genere, ci troviamo sempre di fronte al concetto di
intenzionalità; qual è il motivo per cui le persone mettono in atto le
loro capacità?
Performance: competenza X motivazione
Le teorie fondamentali sulla motivazione
La parola motivazione deriva dal latino motivus, motivo, e
movere, muovere. La motivazione designa dunque i motivi che ci
spingono all’azione. Per apprendere come motivare bisogna prima
comprendere il processo psicologico in base al quale la
motivazione appare, si sviluppa e svanisce. Sigmund Freud, per
primo, teorizzò sul tema descrivendo il concetto di energia psichica
Vittorio D'Amato, Direttore del CeRCA – Centro di Ricerca sul
Cambiamento e Apprendimento Organizzativo della Università Cattaneo –
LIUC, Docente del Dipartimento di Economia Aziendale dell’Università
Cattaneo – LIUC, E-mail: [email protected].
Ideatore e Responsabile dell’Accelerated Leadership Program e
dell’Executive Master dell’Università Cattaneo – LIUC.
Presidente di AIADS - Associazione Italiana di Analisi Dinamica dei
Sistemi.
che chiama eccitazione nervosa. Per Freud, non appena ci si sente
bene e si prova una sensazione di pace e benessere, vuol dire che
l’energia psichica è bassa. Il sopravvenire di un bisogno genera una
produzione di energia psichica, che è quella che si chiama tensione,
definita dagli studiosi di apprendimento organizzativo tensione
creativa o energia realizzativa. Questa tensione, generata dalla
spinta dell’energia psichica, ci spingerà ad agire per soddisfare tale
bisogno. Entrando in azione si permette alla tensione di spegnersi e
dunque all’energia psichica di ritornare al suo livello base, portando
anche una sensazione di soddisfazione e piacere nello stesso tempo.
Esistono numerose motivazioni ed ogni persona è mossa da una
miscela interiore di motivazioni diverse il cui dosaggio è nello
stesso tempo personale e variabile nel tempo:
•
sicurezza
•
amore e riconoscenza
•
piacere
•
comfort
•
novità/creatività
•
giustizia
•
miglioramento personale
•
seduzione/sesso
•
bellezza/armonia
•
superamento di sé
•
realizzazione di sé
•
libertà/autonomia
•
legame
•
avventura/rischio
•
ordine/disciplina
•
denaro
•
potere
Il denaro ed il potere li abbiamo lasciati ultimi in quanto meritano
una considerazione particolare. Il denaro ed il potere non sono di
per se una fonte di motivazione. Per contro, contengono molti
fattori motivanti. I soldi permettono di soddisfare molti degli altri
bisogni: sentirsi più sicuro, migliorare il confort, svagarsi, ottenere
riconoscimento sociale. Il denaro dunque è uno strumento di
motivazione che gioca su più fronti contemporaneamente. Motivare
qualcuno con il denaro è semplice, ma meno efficace del motivarlo
agendo su bisogni specifici. Non dobbiamo poi dimenticare che con
il denaro possiamo comprare solo alcuni degli altri 15 fattori di
motivazione. Il collaboratore che, ad esempio, cerca di crescere e di
apprendere in un ambiente stimolante, non troverà quello che cerca
lavorando per una azienda che paga molto bene ma che non offre
sfide o possibilità di apprendimento. Il potere funziona con lo
stesso principio. Offre riconoscimento, realizzazione, sicurezza, ma
è anche sinonimo di maggior stress e di pochi divertimenti.
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Difficile parlare di motivazione senza citare le opere di Abraham
Maslow e la piramide dei bisogni.
Per Maslow la preoccupazione maggiore degli esseri umani è il
soddisfacimento dei propri bisogni. Questi sono classificati in
cinque categorie:
Gerarchia dei
bisogni di Maslow
Bisogni
di
autorealizzazione
Gerarchia dei
timori sul posto di
lavoro
Non crescere
professionalmente
Non soddisfare
le attese
Bisogni di stima
Non integrarsi
Bisogni di affetto
Bisogni di sicurezza
Perdita del
posto di lavoro
Bisogni fisiologici
In primo luogo l’uomo cerca di soddisfare i bisogni di tipo
fisiologico, fino a quando tali bisogni non saranno soddisfatti,
secondo Maslow, gli sforzi dell’individuo non potranno essere
mirati a ottenere qualche cosa d’altro. È quindi inutile cercare di
motivare le persone se la loro sussistenza non è assicurata. Le
ricerche di Maslow, benché non siano esenti da critiche, come
vedremo in seguito, permettono di trarre due insegnamenti
fondamentali:
•
al momento di agire il comportamento dell’uomo è guidato
dal bisogno che sente più intensamente;
•
un bisogno soddisfatto non stimolerà più alla stessa maniera
di uno non ancora soddisfatto.
Prima di procedere nell’analisi, riteniamo importante
confrontare la Teoria dei bisogni di Maslow con la Teoria dei
bisogni relazionali di Clayton Alderfer. Con "bisogni di relazione"
si intendono le esigenze che hanno le persone di avere una
interazione con altre persone. I bisogni di relazione si differenziano
dai bisogni individuati nella teoria di Maslow. Il modello di
Maslow presuppone, come abbiamo appena visto, una gerarchia di
bisogni in virtù della quale un bisogno, una volta soddisfatto, dà
adito ad un bisogno di ordine superiore. Al contrario della teoria
maslowiana la teoria dei bisogni relazionali sostiene il concetto
di universalità, continuità e progressività dei bisogni
relazionali:
•
Universalità
Bisogni che sono presenti indipendentemente dallo status
economico, dalla posizione di responsabilità o di potere delle
persone. Potremmo quindi concludere che tali bisogni sono
universali, nel senso che non sono riferibili a classi o a
particolari tipologie di individui.
•
Continuità
•
Avere soddisfatto un bisogno relazionale non implica che si
possa trascurarlo nel futuro o che si debba passare alla
soddisfazione di un bisogno differente.
Progressività
Se un bisogno relazionale non viene soddisfatto, si ripresenterà
sempre più forte.
Questa teoria individua tre bisogni relazionali di base:
Bisogno di ascolto
Il bisogno di essere ascoltati è basilare nelle relazioni
interpersonali, si presenta generalmente per primo in ordine
temporale, rispetto ad altri bisogni relazionali. Chiunque ci parli
vuole avere segni precisi che gli confermino di essere ascoltato.
Questo bisogno non presuppone che quel che egli dice debba venire
condiviso, nè implica che possa avere un risultato sul
comportamento degli altri.
• Bisogno di feedback
Le persone hanno bisogno di avere un feedback, di sapere come
stanno lavorando, come si stanno comportando. La cosa peggiore è
l’indifferenza, intesa come assenza di qualunque feedback.
• Bisogno di partecipare
Partecipare significa prendere parte, avere una parte. Se
abbiamo partecipato ad un evento, un progetto in qualche modo ci
sentiremo responsabili, ci sentiremo parte (appartenenti) del
gruppo.
•
Clayton Alderfer con la teoria dei bisogni relazionali, non solo
introdusse il concetto della non gerarchia dei bisogni ma lo arricchì
con il concetto di frustrazione-regressione. Secondo Alderfer la
motivazione non è una piramide gerarchica: non è necessario
soddisfare prima un bisogno per poi accedere a un altro e si
può essere stimolati da più bisogni contemporaneamente.
Inoltre introdusse il concetto di frustrazione-regressione: quando
non si riesce a soddisfare un bisogno, si tende a buttarsi su un’altra
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categoria di bisogni dove si investe maggiormente. Ad esempio, se
l’ambiente e le relazioni di lavoro non sono soddisfacenti, si può
ripiegare sullo stipendio.
Un altro studioso Frederick Herzberg ipotizzò la teoria bifattoriale della motivazione. Tale teoria mette in evidenza due
categorie di fattori: quelli generatori di insoddisfazione che
riguardano essenzialmente l’ambiente di lavoro e quelli portatori di
soddisfazione che riguardano il contenuto del lavoro e le
gratificazioni che procura. Tale distinzione introduce una
dimensione nuova nella comprensione del meccanismo della
motivazione. In effetti egli dimostrò che:
• i fattori ambientali possono demotivare ma che la loro
soppressione non genera necessariamente motivazione.
Pertanto offrire condizioni di lavoro sfavorevoli contribuisce a
demotivare, ma l’implementazione di condizioni di lavoro
favorevoli non serve altro che a fermare la demotivazione.
• la vera motivazione è interiore (motivazione intrinseca) si
alimenta dal cuore stesso dell’individuo, attingendo dai suoi
desideri fondamentali. Ecco perché la motivazione estrinseca,
che consiste nel fare incitare qualcuno dall’esterno attraverso
premi e riconoscimenti, non può che avere una portata limitata.
Perché in questo caso il motore è alimentato dall’esterno e, una
volta esaurito il carburante (premi, riconoscimenti, viaggi…),
sarà necessario un nuovo apporto di energia;
• meno interessante è il lavoro più le persone saranno
sensibili a stimoli esterni.
Lo studioso Jeff Pfeffer si occupo del legame tra motivazione
e coinvolgimento. Egli identificò tre fattori essenziali per
coinvolgere le persone:
•
Coerenza: fare ciò che si predica. Quanto dichiarato va
costantemente perseguito.
•
Reciprocità: molte aziende considerano il coinvolgimento dei
propri collaboratori come la naturale contropartita dello
stipendio. Per le persone, invece, un coinvolgimento totale è
possibile solo se l’azienda è coinvolta andando oltre la
remunerazione (sfide, apprendimento…).
•
Appropriazione: i manager che sanno riconoscere il contributo
ai risultati aziendali o alle realizzazioni di coloro che li hanno
materialmente prodotti rafforzano il loro coinvolgimento.
•
Piacere: esiste una relazione evidente fra il piacere e il
coinvolgimento o lo slancio verso un compito.
Credenze erronee riguardo alla motivazione
Quando premiare equivale a deprimere
Perché vi è una tale unanimità di vedute riguardo all’effetto
motivante delle ricompense? Principalmente a causa della teoria
comportamentistica che sostiene che ogni comportamento
ricompensato tende a consolidarsi. Con la ricompensa si innesca
una spinta che porta a lavorare di più. Ma la motivazione è di breve
durata, giusto il tempo di ottenere la ricompensa. Non appena
sparisce l’incentivo, si ritorna al comportamento precedente. Le
ricompense, come ha spiegato Frederick Herzberg, sono un fattore
estrinseco alla motivazione e non cambiano il nostro
comportamento, così come non creano un impegno durevole. Una
ricerca Watson Waytt effettuata nel 2010 su 1.700 dipendenti ha
dimostrato che le persone che non si aspettano nessuna ricompensa,
al di là della remunerazione concordata, sono più efficaci di quelle
che si aspettano una ricompensa. E più il lavoro è legato
all’intelletto, più le persone lavorano male quando la ricompensa è
il punto chiave. Il Prof. Richard Guzzo dell’Università del
Maryland, ha condotto uno studio su 330 aziende, dimostrando che
esiste una relazione positiva fra ricompensa, premi e produttività
nel breve periodo, ma, ciò non ha effetti sulla motivazione,
sull’attaccamento all’azienda e non migliora la qualità. Sono
principalmente 3 i fattori che limitano l’efficacia dei premi:
I premi individuali incrinano lo spirito di gruppo.
Ciascuno corre dietro alla propria ricompensa invece di
lavorare per un obiettivo comune. Per distruggere un clima
collaborativo basta trasformare le persone in concorrenti, basta
generare una “sana” competizione interna.
I premi creano i cacciatori di premi.
Quando un’azienda ricorre solo al sistema della motivazione
estrinseca, le persone si abituano a considerare l’azienda come un
distributore di premi. I valori, la missione, la visione l’interesse nel
proprio lavoro si affievoliscono. L’effetto indotto dai premi è che,
alla lunga le persone condizionano il loro mobilitarsi a quanto
otterranno.
La ricompensa diminuisce l’interesse nel lavoro.
Edward Deci e Richard Ryan, dell’Università di Rochester
hanno dimostrato che gli incentivi finanziari giocano un ruolo
negativo sulla motivazione intrinseca: “se l’azienda mi promette
premi perché io faccia una certa cosa, allora vuol dire che questa
cosa non è un compito interessante.” Il fatto di ricevere una
ricompensa per un dato comportamento influisce su quello che
facciamo, ci sentiamo manipolati. O, meglio, più qualcuno cerca di
esercitare un controllo su di noi e più abbiamo la sensazione di
andare a lavorare per ottenere un premio, meno ci sentiremo
autonomi, meno saremo interessati al nostro lavoro.
L’eccellenza altrui può demotivare.
L’essere d’esempio è un principio fondamentale del
management. Ma vi è un ambito in cui l’esemplarità può rivelarsi
controproducente. Ciò accade, quando, nel voler dare l’esempio, il
manager evidenzia un tale scarto rispetto al collaboratore che
quest’ultimo, nel misurare il gap che lo separa dal gesto ideale, si
sente incapace di colmare la lacuna. Molti ottimi professionisti
divenuti manager hanno un vero talento nello spegnere la
motivazione dei loro collaboratori con la loro tecnica esemplare.
Formare, far crescere, motivare, richiedono competenze molto
diverse da quelle che servono per dimostrare la propria eccellenza
come un esempio da replicare.
Vogliamo gente motivata.
“Vogliamo gente motivata”: questa affermazione non ha alcun
senso. La motivazione è una pulsione, un processo mentale che
incita a fare sforzi, con lo scopo di conseguire un obiettivo
specifico nell’ambito di una attività specifica. La motivazione
cambia a seconda delle circostanze, nessun essere umano è
motivato per sempre. Ancora una volta, sta al capo gerarchico
creare le condizioni migliori per il collaboratore e non esigere che
sia geneticamente motivato. Esigere un candidato che sia sempre
motivato non ha più senso del volere a ogni costo assumere un
candidato sempre felice.
Dalla motivazione all’engagement
Crediamo che il concetto di motivazione debba essere integrato
con il concetto di engagement. Il termine engagement può avere
differenti significati come: commitment nei confronti
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dell’organizzazione, forte legame con l’azienda, pieno
coinvolgimento nella attuazione del proprio lavoro. Come afferma
Julian Birkinshaw della London Business School: “Engagement is
concerned essentially with making work more fulfilling and less
machine-like”. Una persona è engaged quando è fisicamente,
intellettualmente ed emotivamente attaccata al proprio lavoro e
all’azienda per cui lavora. L’engagement, rifacendosi alla teoria
della riconciliazione di Fons Trompenaars, mira ad una
riconciliazione tra teoria intrinseca e quella estrinseca della
motivazione.
COMPANY FIT
L’engagement pone al centro sia la persona che l’azienda (capo
gerarchico) vedendo l’engagement come:
•
Soddisfazione personale nello svolgimento del lavoro.
•
Contributo significativo all’azienda (valore aggiunto).
•
Allineamento di significato (visione e valori personali ed
aziendali).
•
Apprendimento (desiderio di imparare).
Commitment
Condivisione di missione,
visione, valori
Involvement
Desiderio di migliorare e di
generare valore per l’azienda
Engagement
Learning
LEARNING &
DEVELOPMENT
JOB
SATISFACTION
Soddisfazione per quello
che si sta facendo
ADD VALUE
Motivation
Di seguito riportiamo i risultati di un progetto di ricerca
internazionale condotto dai ricercatori del CeRCA - Centro di
Ricerca sul Cambiamento e Apprendimento Organizzativo
dell’Università Cattaneo - LIUC, in partnership con Julian
Birkinshaw della London Business School.
L’interesse della ricerca si è principalmente concentrato sulla
popolazione aziendale degli operai ed impiegati con un
medio/basso livello di responsabilità ed un altrettanto medio/basso
livello di retribuzione. La ricerca, che è durata un anno, è stata
strutturata in:
• Interviste
Sono state effettuate in Inghilterra, da Julian Birkinshaw e dai
suoi ricercatori, 50 interviste in 6 aziende di settori e dimensioni
differenti: manifatturiero, servizi, industria, education. Le interviste
sono state effettuate ad un campione statisticamente significativo di
impiegati/quadri, ai loro diretti responsabili ed ai Senior Executive.
• Assessment on line
Per l’attuazione della ricerca è stato sviluppato un questionario
on line, al quale hanno risposto 1.593 operai, impiegati, quadri e
dirigenti di aziende provenienti da differenti settori e paesi. Di
questi 1.373 italiani e 220 inglesi.
Le interviste, effettuate dai ricercatori della London Business
School, si sono principalmente concentrate nel comprendere quali
sono i principali fattori di motivazione e di engagement.
Desiderio di imparare e di
crescere professionalmente
La prima domanda rivolta al campione selezionato è stata:
“Cosa rende il mio lavoro motivante e coinvolgente?”. Pur avendo
ricevuto differenti risposte, tutte convergono verso 5 caratteristiche
principali:
1. Possibilità di fare qualcosa di utile per l’azienda
2. Un alto livello di libertà nel modo in cui raggiungo i
risultati
3. L’opportunità di crescere professionalmente e di
aumentare le mie competenze
4. L’opportunità di lavorare con persone professionali
5. Riconoscimento per un buon lavoro svolto
Nel corso delle interviste, nessuno (impiegati, quadri ed
executive) ha mai citato l’aspetto economico. Questa non è una
grande sorpresa, in quanto da tempo si sa che mentre i soldi
possono essere una fonte di demotivazione, non sono generalmente
considerati un fattore motivante. Allo stesso modo nessuno degli
intervistati ha posto l’accento sullo “physical working
environment.” Sia la retribuzione che l’ambiente di lavoro fanno
parte di ciò che Frederick Herzberg definiva i fattori “igienici”: se
sono percepiti al di sotto di un certo livello creano insoddisfazione,
ma non sono generalmente fonte di motivazione.
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Misurare l’engagement: il livello di engagement
Il livello di engagement è l’indicatore che è in grado di
quantificare quanto una persona è fisicamente, intellettualmente ed
emotivamente “attaccata” al proprio lavoro e all’azienda per cui
lavora. Differenti ricerche e studi hanno evidenziato gli elementi in
grado di quantificare il livello di engagement:
•
Consapevolezza di ciò che l’azienda si aspetta da me sul
lavoro
•
Disponibilità
•
Opportunità di dimostrare ciò che sono capace di fare
•
La missione aziendale mi fa apprezzare l’importanza del mio
lavoro
•
•
•
•
Competenza/professionalità dei colleghi
Opportunità di imparare e crescere
Sul lavoro le mie opinioni vengono considerate
Ritengo che il mio talento venga utilizzato da questa azienda
La figura di seguito mostra in che misura, nel campione
considerato, i diversi elementi influenzano il livello di engagement.
Da una prima panoramica generale, si può notare che i valori
assunti dagli otto fattori si collocano in un Δ di 1,13 determinato
dalla differenza dell’elemento risultato in media con valore
maggiore e quello con valore minore, potremmo dire, quindi, che
per il campione analizzato tutti gli otto elementi sono da ritenersi
importanti nella costruzione del livello di engagement delle
persone.
Sono sempre pronto a “farmi in quattro” per questa azienda
Sono consapevole di ciò che “questa” azienda si aspetta da
me sul lavoro
Al lavoro ho l’opportunità di dimostrare ogni giorno ciò di
cui sono capace…
La “missione” aziendale mi fa apprezzare l’importanza del
mio lavoro…
I miei colleghi sono determinati ad eccellere nel proprio
lavoro
Nell’ultimo anno in azienda, ho avuto l’opportunità di
imparare e crescere
Sul lavoro le mie opinioni vengono considerate
Ritengo che il mio talento venga pienamente utilizzato da
questa azienda
SCALA 1-5: 1 = completo disaccordo, 5 = completo accordo
Percorrendo in dettaglio gli elementi, risulta che quello più
influente sull’engagement è la disponibilità delle persone ad essere
pronti a fare di più per la propria azienda, evidenziando così un
attaccamento all’organizzazione e al proprio lavoro. Le persone
mostrano una grande dedizione e sono disposte a dare un contributo
maggiore all’azienda su tutti i fronti, fisico, intellettuale ed
emotivo. Conoscere e comprendere ciò che l’azienda vuole dalle
singole persone è un altro degli elementi risultati principali
nell’influenzare l’engagement di una persona. Aver compreso quali
aspettative e risultati ci si attende da sè, permette alle persone di
fornire un contributo adeguato al sistema aziendale. In questo modo
si crea un rapporto tra collaboratore ed azienda chiaro e trasparente.
Avere l’opportunità di dimostrare ciò di cui si è capaci, ha un
impatto diretto e significativo sull’engagement delle persone,
questo perché dare il proprio contributo e vedere un interesse
nell’interlocutore rafforza il coinvolgimento del collaboratore.
Considerazioni conclusive
Vorremmo concludere con una riflessione che ci conduce ad
una riconciliazione tra la teoria intrinseca e quella estrinseca sulla
motivazione. La motivazione, come l’apprendimento ed il
cambiamento è principalmente auto-diretta. Vale a dire che il
nostro comportamento cambia quando è il risultato di una decisione
o di una scelta. La stessa cosa vale per il cambiamento. In altre
parole gli adulti decidono che cosa e come cambieranno. La
motivazione auto-diretta consiste in un cambiamento volontario di
4,28
4,02
3,74
3,65
3,44
3,41
3,39
3,15
una parte di quello che siamo (la realtà) e/o di quello che
vorremmo essere (l’ideale). Il processo di cambiamento
(demotivazione-motivazione) di solito comincia quando si
sperimenta una discontinuità, che provoca un risveglio della
consapevolezza, unito ad un senso d’urgenza. La prima
discontinuità, oltre che potenziale punto di inizio del processo, è
rappresentata dalla scoperta che esistono due dimensioni, legate al
sé: quello che si è e quello che si vorrebbe essere. In altre parole la
scoperta dell’esistenza del sé reale e del sé ideale. Il se reale
corrisponde a chi siamo. O forse sarebbe meglio dire chi crediamo
di essere. E’ l’insieme dei nostri valori, comportamenti,
atteggiamenti e della nostra cultura. Ovviamente ognuno di noi ha
una percezione di se stesso, ma ciò non è sufficiente. Non è facile
essere consapevoli di chi siamo, ovvero della persona che gli altri
vedono e con cui interagiscono. E’ normale che la psiche umana si
protegga automaticamente dal l’elaborare in modo consapevole
tutte le informazioni che abbiamo su noi stessi. Questi meccanismi
di difesa servono a proteggerci, ma contribuiscono anche a
costruire un’immagine personale che si autoalimenta e che alle
volte può divenire disfunzionale. Parte della spiegazione risiede nel
fatto che la percezione di chi siamo, di quanto e come stiamo
cambiando si sviluppa in modo lento e graduale. Anche per tale
ragione è indispensabile avere l’opinione di chi ci conosce bene. Il
sé ideale è l’immagine della persona che vorremmo essere. Emerge
dai nostri sogni e dalle nostre aspirazioni. Quello che desideriamo e
sogniamo, ciò a cui aspiriamo dipende dai nostri valori, dalla nostra
filosofia di vita, dalle nostre aspirazioni. Prima di impegnarci in un
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progetto la cui retribuzione supera il soddisfacimento dei bisogni
fondamentali, ognuno di noi si interroga consciamente od
inconsciamente per capire se quel lavoro ha un senso per lui. Più
una persona considererà che gli scopi, i progetti ed i valori
dell’azienda coincidono con i propri, più metterà la sua
motivazione e la sua energia al servizio dell’azienda. È davvero
curioso che noi, pur sapendo quanto sia importante il sé ideale,
spesso trascuriamo di mettere bene a fuoco la nostra immagine
ideale,
quando
intraprendiamo
un
processo
di
cambiamento/apprendimento. Se i genitori, il partner, il capo o
l’insegnante dicono che c’è qualcosa che non va in noi, ci stanno
semplicemente dando la loro visione del nostro sé ideale, ci stanno
dicendo come dovremmo essere secondo loro. Se noi accogliamo
quest’immagine, essa diverrà parte del nostro sé ideale; quanto più
l’accogliamo, tanto più profondamente lo modificherà. La nostra
riluttanza nell’accettare le aspettative degli altri è un sintomo che
non possiamo vivere secondo i desideri degli altri e cambiare
secondo i loro programmi.
Può succedere che una persona, pur possedendo un ideale di sé
forte e mobilitante, non riesca a trovare le risorse necessarie per
esprimerlo. Ecco che interviene così un’altra istanza psichica:
l’immagine di sé. In effetti, quello che si considera essere
l’immagine di sé si rivela sovente una cosa diversa da ciò che uno
vorrebbe essere (ovvero l’ideale di sé). L’immagine di sé
rappresenta il valore soggettivo che ci si attribuisce. L’immagine di
sé si modella essenzialmente sulla base delle esperienze passate,
positive o meno, e i risultati contribuiscono, nel processo di
consolidamento a rendere più solido o più debole l’edificio interno
della persona. L’immagine di sé prende corpo anche sulla base
dell’immagine che gli altri ci rimandano di noi stessi. L’immagine
di sé costituisce un ingranaggio fondamentale nel meccanismo della
motivazione, la prima pietra sulla quale costruire le scale di
probabilità che ci permettono di stimare la possibilità di successo o
di fallimento per una data azione.
Se viene svalutata, influenzerà sensibilmente sulla volontà di
intraprendere l’azione richiesta e potrà minacciare gli stessi
fondamenti della motivazione, come se non valesse la pena di
tentare alcunché perché votato al fallimento sicuro. Al contrario
quando conseguiamo un risultato l’immagine di sé si rafforza e con
questa la probabilità di riuscita.
Questo percorso di motivazione auto-diretto deve essere
facilitato dal capo gerarchico. I capi devono ricordare che il loro
compito primario è quello di gestire le persone. Ma cosa vuole dire
gestire le persone?
Di seguito riportiamo due elenchi, il primo si riferisce ai
risultati di una ricerca di Harvard condotta dal Prof. Renato Tagiuri
nella quale vengono riportati i comportamenti necessari per
permettere alle persone di lavorare al meglio. Nella seconda
colonna sono elencati i comportamenti ritenuti non demotivanti e
quelli motivanti per le persone.
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Cosa deve fare un capo per permettere ai
collaboratori di lavorare al meglio?
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Cosa deve fare un capo per avere
collaboratori motivati?
Mette in chiaro gli obiettivi e la natura del compito.
Colloca il compito nella prospettiva della missione, dei
valori e delle strategie dell’azienda.
Si assicura di avere ascoltato le opinioni delle persone a cui
viene affidato il compito.
Dimostra di aver cura dei propri collaboratori, li tratta con
rispetto, considera le loro esigenze, li aiuta a sviluppare le
loro competenze.
Fornisce, soprattutto all’inizio, continui feedback
sull’andamento del lavoro.
Si assicura che le persone dispongano di tutte le risorse
necessarie per svolgere il compito
Informa i collaboratori su quali criteri sarà valutata la loro
prestazione.
Si assicura di meritare la loro fiducia.
Si assicura che la retribuzione, gli incentivi ed altri benefici
siano percepiti adeguati ai risultati conseguiti.
Prende le decisioni di sua responsabilità,
Ammette i suoi errori e quando non può mantenere una
promessa, spiega il perché.
Dalla tabella si può facilmente constatare come i
comportamenti necessari per permettere alle persone di
lavorare al meglio non sono gli stessi che consentono
di avere collaboratori motivati.
NON DEMOTIVARLI (fattori igienici)
Fornisce le risorse necessarie a svolgere il compito.
Crea ambienti di lavoro adeguati al compito
(possibilmente piacevoli).
• Corrisponde uno stipendio adeguato alla posizione e
alle responsabilità.
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MOTIVARLI
Deve dare un senso/significato al lavoro quotidiano
(definire scopo, meta, valori, e macro strategie).
Avere attese elevate/sfidanti dai propri collaboratori.
Fornire feedback ad intervalli regolari.
Ascoltare i collaboratori.
Conoscere i bisogni dei collaboratori e se può
soddisfarli.
Identificare e favorire l’applicazione del talento dei
collaboratori.
Far lavorare i collaboratori con persone competenti
Essere riconosciuti per i risultati ottenuti
Contribuire alla crescita professionale
Da autonomia nello svolgere il lavoro
Di seguito riportiamo una tabella che riporta i
comportamenti
necessari
per
permettere
ai
collaboratori di lavorare al meglio e di essere motivati.
Cosa deve fare un capo per permettere ai collaboratori
di lavorare al meglio e di essere motivati?
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Mette in chiaro gli obiettivi e la natura del compito.
Colloca il compito nella prospettiva della missione, dei valori e delle strategie dell’azienda.
Si assicura di avere ascoltato le opinioni delle persone a cui viene affidato il compito.
Si assicura che le persone dispongano di tutte le risorse necessarie per svolgere il compito
Informa i collaboratori su quali criteri sarà valutata la loro prestazione.
Si assicura che la retribuzione, gli incentivi ed altri benefici siano percepiti adeguati al ruolo, alle responsabilità ed ai
risultati conseguiti.
Prende le decisioni di sua responsabilità,
Ammette i suoi errori e quando non può mantenere una promessa, spiega il perché.
Crea ambienti di lavoro adeguati al compito (possibilmente piacevoli)
Ha attese elevate/sfidanti dai propri collaboratori
Fornisce feedback ad intervalli regolari
Conosce i bisogni dei collaboratori e se può li soddisfa
Identifica e favorisce l’applicazione delle competenze e del talento dei collaboratori
Fa lavorare i collaboratori con persone competenti
Da autonomia nello svolgere il lavoro
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