L`investimento italiano in Vietnam
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L`investimento italiano in Vietnam
“L’investimento italiano in Vietnam” di Tomaso Andreatta * Perché investire in Vietnam Ci sarebbero molte ragioni per le aziende italiane per investire in Vietnam, ma fino ad oggi poche hanno fatto lo sforzo di arrivare fin qui. Il Vietnam è una delle migliori basi per entrare nel grande sistema produttivo dell’estremo oriente, nella supply chain dei giapponesi e dei coreani, e al tempo stesso una porta per il mercato dell’ASEAN e per tutto il mercato asiatico. Da tempo Giappone e Corea trasferiscono la capacità produttiva nei Paesi vicini, in Cina dapprima e principalmente, ma con il rapido aumento del costo del lavoro e la riduzione di disponibilità di manodopera nel grande Paese, con i problemi di tensione politica, soprattutto sul Mar della Cina Meridionale, e con le politiche restrittive sull’investimento internazionale, in tutti i Paesi ASEAN. Le grandi aziende dei settori auto, infrastrutture, elettronica, materiali da costruzione, e, a cascata, i loro fornitori, hanno creato nuove fabbriche in ciascun Paese del sud-est asiatico, sia per diversificare il rischio sia per evitare le tariffe che fino a tempi recenti effettivamente chiudevano i mercati nazionali, sia infine perché in Asia si vende solo dove si ha una presenza fisica. Moltissime aziende italiane sono fornitrici di prodotti meccanici, elettrici ed elettronici di aziende tedesche, che consolidano la tecnologia italiana insieme alla propria in impianti interi o macchine complesse, che la loro dimensione permette di vendere (e finanziare) in tutto il mondo. Ora che la Cina, uno dei mercati di sbocco più importanti per la Germania, ha rallentato gli acquisti, le aziende tedesche soffrono. Piazzarsi vicino alle grandi aziende giapponesi e coreane e produrre per loro completerebbe la copertura di mercato degli italiani e aprirebbe loro tutto il mondo, dato che venderebbero ad aziende globali. In più sarebbero di casa nell’area del mondo dove per struttura della popolazione, accumulazione del reddito ed investimenti, per cultura ed investimento in educazione ci sarà la maggiore crescita economica dei prossimi decenni. Al contrario del Sud America e dell’Africa, i Paesi asiatici infatti crescono anche al di fuori delle materie prime. L’ASEAN, il gruppo dei dieci Paesi del sud-est asiatico, con 600 milioni di abitanti e reddito medio pro-capite sui 4000 dollari è già un’area in cui le tariffe sono a zero o si stanno gradualmente avvicinando all’intervallo 5%-0%. Nel 2015 i Paesi dell’ASEAN vorrebbero lanciare una comune area economica e stanno lavorando alacremente a firmare nuovi trattati sulla doppia imposizione e witholding tax e sull’estensione dei trattati di libero scambio (FTA) tra ASEAN e grandi Paesi vicini 1 (Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda e India) da bilaterali (ASEAN+1) a multilaterali (ASEAN+6). Questo permetterà a merci con contenuto minimo locale del 40% di entrare ed uscire dall’area senza imposizione di alcun dazio o con tariffe molto contenute. L’ovvia eccezione saranno i prodotti “strategici” dell’agricoltura e, in una certa misura, dell’auto e della componentistica. I quattro Paesi arrivati per ultimi nell’ASEAN, Vietnam, Cambogia, Laos e Myanmar, hanno ottentuto delle facilitazioni per cui mentre i dazi verso gli altri Paesi ASEAN e, a fortiori, i grandi Paesi asiatici saranno bassi da subito, per quelli all’entrata i Paesi hanno tempo fino al 2018 o oltre per adattarsi. Questo crea una base con protezione temporanea per chi volesse produrre in questi quattro Paesi. La realtà è tuttavia che mentre il Vietnam pratica una politica di liberalizzazione economica dal 1986, è nei mercati internazionali dai primi anni ’90 e ha ricevuto una quantità record di investimenti diretti e aiuti statali per la costruzione di infrastrutture, gli altri sono molto indietro, e Cambogia e Laos sono anche molto piccoli (rispettivamente con 16 milioni e 6 milioni di abitanti), per cui non ci sono dubbi su dove abbia senso investire oggi. Myanmar è più grande, con oltre 60 milioni di abitanti ma non ha infrastrutture politiche ed economiche solide, non ha capitali accumulati o il livello dell’educazione che il Vietnam ha sviluppato negli ultimi due decenni. Oggi è un Paese che gode di una grande attenzione, e ciò ha già portato ad una bolla speculativa nel settore immobiliare, in quello del turismo, e persino in quello delle licenze telefoniche, ma la corretta priorità per le società internazionali è di assicurarsi l’accesso alle risorse naturali ed energetiche di cui è ricco. Per chiudere la disamina dei Paesi ASEAN dove avrebbe senso investire1, rimangono Indonesia, Thailandia e Filippine. Ciascuno di loro ha vantaggi e svantaggi rispetto al Vietnam. La Thailandia ha dimostrato di essere coerentemente aperta all’investimento, ed è di gran lunga più avanzata come infrastrutture e come know how soprattutto nel settore auto. L’Indonesia ha un mercato locale molto più grande del Vietnam e un reddito medio maggiore, ma enormi sfide politiche e logistiche. Le Filippine hanno la popolazione più educata e con conoscenza dell’inglese quasi totale, ma, come l’Indonesia, è prigioniera di una struttura industriale polarizzata tra imperi privati che proteggono attivamente la propria posizione privilegiata e micro aziende senza capitale. Un vantaggio competitivo del Vietnam sui vicini è la cultura simile a quella cinese: un Paese ufficialmente laico, ma con una popolazione buddhista mahayana (cioè meno passiva di quella del resto dell’Indochina, che è a maggioranza Theravada) e confuciana (ovvero che valuta l’educazione, anche tecnica, come valore alto, tanto 2 che si può effettivamente negoziare il trade-off training contro salario immediato). I vietnamiti hanno forti idee su come fare il proprio lavoro e si aspettano rispetto per la propria professionalità, ma al tempo stesso sono assetati di maggiore conoscenza. La generazione oggi nel mercato del lavoro, pur avendo chiaro che “lavora per vivere”, lavora sodo e spesso con due o tre lavori contemporaneamente. Sono le autorità che cercano di imporre limiti all’orario di lavoro e ad altre pratiche in cui si cerchi di sfruttare il lavoratore. Dal 2008 il Vietnam fa parte del WTO e ha goduto di forti flussi di investimento sia diretto sia finanziario soprattutto verso la fine della negoziazione. L’UE e gli Stati Uniti sono i due mercati principali dei prodotti vietnamiti. Verso entrambi questi mercati il Vietnam si avvantaggia di tariffe preferenziali per l’esportazione mentre il suo mercato interno è fortemente protetto. Il Vietnam per ora gode del General System of Preferences, GSP, da parte dell’UE, ovvero tariffe al minimo o a zero in quanto Paese in via di sviluppo, ma avendo dichiarato di essere un Paese a medio reddito è destinato a perdere questo vantaggio. Per questo è in corso la negoziazione di un FTA - free trade agreement o trattato di libero scambio –bilaterale che confermerà anche per il futuro una situazione commercio favorevole con l’Europa. Le aspettative sono di una firma del trattato entro due anni. Gli Stati Uniti invece, che già hanno concesso tariffe a zero o comunque molto favorevoli al Vietnam, stanno negoziando un ambizioso TPA - Trans Pacific Agreement o accordo Trans Pacifico – con diversi Paesi dell’Asia e del’America Latina allo stesso tempo, il che indebolisce il potere negoziale di ciascun Paese. Oggi il Vietnam è in una pausa di riflessione rispetto al TPA, ma sicuramente le pressioni diplomatiche, soprattutto USA e giapponesi, lo riporteranno nella negoziazione. Vendere in Vietnam e usare il Vietnam come base per vendere in Asia Il Vietnam è, come quasi tutti i Paesi asiatici, un Paese a cultura implicita, ovvero una cultura in cui si considera non necessario spiegare tanto di sè e dei propri principi perché si assume che l’interlocutore li conosca e li condivida già. Molto più simile all’Italia agricola anche del XX secolo che agli Stati Uniti. Si pensi alla differenza tra un contratto italiano, tutto basato sulla legge esplicita, ed uno americano, che ridefinisce cose ovvie come cosa sia un dollaro o cose simili. In questa cultura si fanno affari solo con gli amici o gli amici degli amici, da cui l’importanza delle presentazioni, perché non si può o vuole rischiare di andare in tribunale, con tempi biblici e dalle conoscenze tecniche del commercio internazionale limitate. Ancora, il titolo vale molto, perché il capo prende tutte le decisioni importanti e c’è un forte senso confuciano della gerarchia. Per questo l’imprenditore ed il top management delle imprese che vogliano fare affari in Vietnam debbono incontrare e diventare amici delle loro controparti vietnamite. 3 In un simile scenario non deve stupire che lo stile italiano di sperare di vendere prodotti con viaggi improvvisati di un pomeriggio tra gli impegni in Cina e quelli in India, magari seguiti da qualche fax, non abbia mai successo. Anche la ricerca di un distributore è difficile perchè occorre stare loro vicino come ad un cliente finale. Solo nell’alta moda, per Gucci, Armani, Versace e pochi altri ci sono dei distributori locali2 che vendono qualcosa, gli altri sono spesso dei collezionisti di marchi che vendono solo quelli che li tengono stretti al guinzaglio. E si tratta comunque di nicchie, perché se i prezzi sono elevatissimi, più che a Singapore o Hong Kong, i volumi del super lusso sono limitati. In ogni caso la boutique di moda di maggior successo in Vietnam è quella di Louis Vuitton, perché sia a HCMC sia a Hanoi è gestita direttamente dalla casa madre. È l’unica dove si ha la certezza matematica di comprare solo prodotto genuino, legalmente importato e garantito in tutto il mondo. Per tutti i prodotti tecnici, in particolare le macchine, è necessaria una presenza in Vietnam, con almeno un ufficio di rappresentanza, ma meglio un piccolo magazzino e qualche ingegnere magari vietnamita ma versato nel prodotto italiano, che danno quella garanzia di servizio post vendita ed assistenza di cui l’azienda vietnamita ha bisogno e che non ha fiducia arrivi in tempo dall’Italia. Le aziende italiane che hanno successo in Vietnam dalla Danieli che ha venduto più di dieci acciaierie alla Tenova del gruppo Techint, sempre nelle acciaierie e metallurgia, dalla WAM della cinghie di trasporto delle polveri alla Valvitalia delle valvole per impianti petroliferi fino alla SACMI degli impianti per piastrelle, hanno tutte presenza fissa nel Paese o si basano sull’ appoggio di partner locali quali Franco Pacific o Viet-Y, società di ingegneria e montaggio gestite da francesi o italiani, che le rappresentano. Malgrado i vietnamiti abbiano dei pregiudizi fortemente positivi per l’Italia e i prodotti italiani, spesso (e si vede nella bilancia commerciale) acquistano tecnologia cinese, che è spesso a prezzi intorno alla metà o meno di quelli italiani e che per 2 I marchi presenti in Vietnam, tutti in licenza e molti offerti in boutiques multibrand quale “Milano”, dello stesso licenziatario di Gucci o l’elegante Runway, disegnato da un architetto di Milano, sono a HCMC: Bluegirl, Bluemarine, Bulgari, Dolce & Gabbana, Emporio Armani con annesso Caffè Armani, Ermenegildo Zegna, Fendi, Gucci, Just Cavalli, Parkerson, Moreschi, Roberto Cavalli, Salvatore Ferragamo, Sergio Rossi, Tod’s, Valentino e Versace considerati di serie A, e inoltre Diesel, Furla, Geox, Kappa e United Colors of Benetton. A breve apriranno La Perla e Tombolini. Ci sono inoltre negozi di mobili come Bellavita (Cassina, Frau, Minotti) o i-Italy un grande e ambizioso negozio di un gruppo di aziende bresciane che vende Castelli, Flos, Moroso, Valcucine e una quindicina di altri marchi e il monomarca Kartell. A Hanoi invece ci sono: Antonio Berardi, Bulgari, D&G, Ermenegildo Zegna, Gianni Versace, Gianfranco Ferre’, GF Ferre’, Giuseppe Zanotti, Gucci, Just Cavalli, Roberto Botticelli, Roberto Cavalli, Roberta Scarpa, Sergio Rossi, Salvatore Ferragamo, Valentino e Versace. 4 impianti importanti, è finanziata dal “sistema Paese” cinese. In alternativa i giapponesi e coreani sono più vicini e spingono di più ed infine americani, tedeschi e francesi fanno offerte più integrate di quelle di molti degli italiani. Per questo il gap tra esportazioni italiane (tecnologia/macchinari) e le importazioni (telefonini della Samsung, caffe robusta, pesce surgelato, abiti e scarpe) continua a crescere. Un tassello necessario: il sistema Paese Mentre le istituzioni italiane presenti in Vietnam, l’Ambasciata, l’ICE, la Camera di Commercio Italiana in Vietnam -‘Icham’, le rappresentanze delle due grandi banche, cooperano e scambiano informazioni, indirizzano le aziende verso la fonte di informazioni o servizi più adatta alle loro esigenze, poichè la cultura delle aziende italiane in Vietnam dà luogo a un ignorarsi reciproco, con poche eccezioni da parte di alcune delle aziende menzionate sopra3. Al contrario delle aziende del nord Europa, Francia inclusa, le iniziative comuni delle aziende ed il loro senso civico di collaborazione sono scarsi, con il risultato che continuamente si pone il quesito: la Camera di Commercio è un’associazione che si occupa solo dei suoi soci o è un istituzione che aiuta tutte le aziende italiane ad avere successo in Vietnam? E molte delle aziende non si iscrivono neppure. Non stupirà quindi che le aziende italiane che vengono in Vietnam in cerca di opportunità non si rivolgano alle istituzioni ma vengano “alla spicciolata”. O che fino a tempi recentissimi e grazie al lavoro congiunto delle istituzioni italiane in Vietnam, Ambasciata, ICE e Icham, le tante Regioni o Province e loro Camere di Commercio o Società per la Promozione dei Prodotti non coordinasser le missioni e lanciassero progetti anche simili o in conflitto tra loro4. Il brand “made in Italy” è secondo solo alla Coca Cola nelle ricerche Google a livello mondiale, ed in Vietnam una ricerca della prestigiosa università di Melbourne, la RMIT a Ho Chi Minh City, ha descritto come un nome che suona italiano è immediatamente percepito come sinonimo di alta qualtà, elegante design e di elevata tecnologia, eppure non si riesce a far decollare l’Albo dei Prodotti Italiani, a tutela del Made in Italy o almeno del Made by Italian Companies and Design. In ogni caso si tratta di un vantaggio competitivo di cui poche aziende italiane oggi si avvalgono. Conclusioni: chi manca? Il ricorso a manager asiatici che non abbiano un’esplicita missione di cooperazione non aiuta in questo senso 4 Unioncamere Emilia-Romagna, Toscana Promozione e Umbria Export hanno per prime mostrato come sia possibile collaborare con mutuo vantaggio 3 5 Visto il grado di successo delle aziende italiane in Vietnam e le difficoltà che le aziende del nostro Paese hanno in Europa è stupefacente vedere quanto poche abbiano provato ad investire in Vietnam (o nei Paesi vicini dell’ASEAN). Tutta l’area è in uno stadio dello sviluppo economico simile al dopoguerra italiano, tra gli anni ’50 e gli anni ’70, per reddito, cultura tradizionali ed altri fattori. Se molte delle imprese italiane sono rimaste nella nicchia di massima tecnologia o design più avanzato, perché lasciare ai cinesi o agli altri asiatici il mercato di massa che usa tecnologie un pò attempate ma ancora efficaci per quei Paesi? In Italia sarebbero fuori mercato ma in Asia, ancora per molti Paesi sono in uso parallelo alle nuove tacnologie. Perché perdere questa finestra di opportunità? Stiamo parlando non di delocalizzazione delle aziende e della loro produzione, anche se anche questa può essere una strategia talora inevitabile, bensì di produzione parallela a quella italiana e adatta ai mercati asiatici. I profitti tornerebbero in Italia e così l’esperienza di internazionalizzazione e la connessione con la nuova grande area economica del mondo, l’Asia orientale più Australia e India. In questi Paesi i materiali da costruzione e tutta l’industria delle costruzioni sono il motore della crescita interna, l’investimento in infrastrutture è altissimo ed è autoreferenziale, ovvero chi ha già esperienza di opere simili nello stesso Paese o in quelli vicini vince le gare molto di più del costruttore di Paesi percepiti come “lontani”, tanto sarebbe meglio per le aziende italiane incominciare a penetrare il mercato vietnamita come “subcontractor” molto tecnico dietro ad un leader tedesco, francese o coreano. È mai possibile che non ci sia ancora una sola impresa italiana di produzione di cucine componibili in Vietnam, che si avvia da essere uno dei Paesi produttori di mobili più importanti, visto che quelle locali sembrano non essere in grado di produrre per loro? * Membro della comunità “I talenti italiani all’estero” di Aspen Institute Italia, è Indochina Chief Representative, Corporate and Investment Banking Division di Intesa Sanpaolo, Vice Presidente di Eurocham Vietnam ed ex-Presidente Fondatore di Icham. 6