le aree naturali protette tra storia e filosofia di tutela

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Le aree naturali protette tra storia e filosofia di tutela
LE AREE NATURALI
PROTETTE TRA STORIA E
FILOSOFIA DI TUTELA
di Michele Migliozzi*
Un rapido excursus sulle differenze delle forme di vita animale e vegetale che l’autore sviluppa partendo dalle epoche primordiali della Bibbia ai giorni nostri. Attraverso tempi e
territori: la Grecia antica, Roma, la Persia, la Cina. Ed ancora l’età carolingia, le grandi
foreste europee. Importanti riflessioni emergono inoltre sul periodo a noi più vicino cioè i
secoli XIX e XX, determinati da approcci moderni all’ecologia. Durante il secolo XIX nel
Vecchio Continente la “filosofia ecologica” dominante consisteva nella salvaguardia di
panorami e paesaggi con romantiche estetiche soprattutto di pittori, poeti, letterati. Ma nel
secolo successivo nel moderno Novecento vengono considerate con attenzione, oltre agli
aspetti estetici anche quelli storici ed archeologici. Questo aspetto più identitario-territoriale, in coincidenza con il rafforzamento degli stati nazionali, farà si che verranno creati
i primi parchi nazionali intesi come aree sottoposte a pubblico controllo. Tuttavia la “realizzazione”di riserve in Europa e negli Stati Uniti seguiranno due visioni e metodi diversi.
Starting from primordial Biblical times up to present days , the author develops a quick
excursus on differences among forms of animal and vegetable life. Through times and
countries: ancient Greece, Rome, Persia, China. And then times, the large European
forests. Moreover important considerations come out on historical times nearer to our
present days, that is the 19th and 20th centuries, characterized by modern approaches
to ecology. During the 19th century in Europe the dominant “ecological philosophy”, lay
in landscapes protection considered by writers, painters and poets, mostly from an
aesthetic and romantic point of view. But in the following century, the modern twentieth
century, in addition to those aesthetic aspects, also historical and archaeological ones
are considered. This more territorial way of thinking, together with a reinforcement of
National Countries, will allow the creation of the first National Parks, considered as
areas under public control. Nevertheless Reserves in Europe and in the United States will
be realized according to two different visions and methods.
La biodiversità tra sacro e profano
L
’uomo utilizza da sempre il territorio per le attività vitali alla sua
sopravvivenza, così come da sempre singole componenti degli ecosistemi hanno via via assunto valori particolari nelle diverse culture. Fin dai primordi ha distinto luoghi dove raccogliere, cacciare, rifugiarsi, entrare in contatto con la divinità.
*
Giornalista, esperto in materia ambientale
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Tutte le culture antiche dell’intero Pianeta avevano instaurato un rapporto religioso con il mondo naturale in generale e con i singoli elementi
che lo compongono all’insegna di miti e simboli, utilizzando linguaggi
arcaici sintetici e accessibili – diversi a secondo delle comunità – con
significati e contenuti che nella sostanza possono essere sovrapponibili,
legati da un filo rosso che attraversa i Continenti. L’essere umano era in
forte simbiosi con la natura ritenuta magica, misteriosa, rappresentazione del divino nelle sue diverse espressioni: la terra, il cielo, gli animali, le
foreste, le rocce. “La nozione di spazio sacro implica l’idea della ripetizione della ierofania primordiale che ha consacrato quello spazio trasformandolo, singolarizzandolo, in breve isolandolo dallo spazio profano
circostante” (Eliade, 1948).
Già illo tempore si intuì che un intero territorio, o porzioni di esso,
secondo peculiarità simboliche e pratiche, spesso delimitato da rocce,
alberi, pietre/cippi che fungevano da recinto, doveva essere considerato
e di conseguenza utilizzato in modo diverso, perché in possesso di requisiti che lo rendevano particolare rispetto al tutto, e questo per la presenza di alcune varietà di alberi e animali, di luoghi selvaggi, di ‘atmosfere’.
Secondo alcuni autori l’idea di conservazione con l’attribuzione di significati specifici ad alcune prede, il cosiddetto concetto di risorsa e probabilmente anche del loro uso programmato, può risalire addirittura a
40.000 anni fa (Hunter, 1996).
Nella Genesi troviamo a galleggiare sul caos l’Arca di Noè, con il suo
prezioso carico di biodiversità animale e quindi di significati riconducibili alla conservazione; nell’intero testo biblico troviamo citate anche
numerose piante, circa 90, con i loro diversi e profondi significati, il linguaggio simbolico chiaramente travalica lo stesso valore botanico (Zoppi,
2008).
Nel Deuteronomio incontriamo un passaggio contenente un preciso
principio di gestione faunistica: “Qualora per caso ti capitasse davanti
per strada, il nido di un uccello su qualsiasi albero oppure per terra, e
contenga pulcini o uova e la madre li sta covando, non devi prendere la
madre da sopra i figli, dovrai mandar via la madre e dovrai prendere
allora i figli. Ciò affinché tu possa aver bene e si prolunghi la tua vita”. Si
allude senza dubbio all’opportunità di prelevare pulcini, e per la loro elevata mortalità e di conservare gli adulti. Qualcosa di similare lo ritroviamo nella letteratura indiana (300-230 a.C.), dove viene riportato un editto dell’imperatore Asoka (Editti del settimo pilastro) che mette sotto tutela integrale diverse specie, inoltre fa esplicito divieto di dar fuoco alla
foresta. Così vi si trova scritto: “Sono protetti tutti gli animali dotati di
quattro arti che non siano utili o commestibili”; “Le foreste sono protet-
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te e non possono essere incendiate per stanare e uccidere gli animali, o
senza motivi validi”; “Nessun animale deve essere utilizzato come alimento per altri animali”. I principi che traspaiono denotano una buona
conoscenza delle dinamiche naturali.
Alberi e Boschi sacri
Rimanendo in Oriente, siamo a conoscenza che in Persia e nella Cina
orientale, tra il 1000-1500 a.C. altri imperatori e sacerdoti avevano destinato intere aree, specialmente boschi, quali territori sacri quindi inviolabili dall’uomo. Si riteneva che in questi luoghi, caratterizzati da particolare bellezza e per la maestosità dei fenomeni naturali presenti, abitassero spiriti divini, tale concetto risulta presente quasi in tutte le religioni
primitive, sempre in quelle animiste.
L’albero manifesta una realtà extra-umana, è l’axis mundi, è simbolo
non oggetto di culto: “ l’albero è carico di forze sacre, ciò avviene perché
è verticale, cresce, perde le foglie e le ricupera, e di conseguenza si rigenera (muore e risuscita) innumerevoli volte” (Eliade, 1948).
Passando al mondo classico nella mitologia greca, tante divinità sono
associate agli alberi, alcuni frutti trovano spazio nei rapporti tra uomini
e déi. Parti ben delimitate di territorio venivano considerate da gruppi
sociali luoghi di culto ancor prima che si elevassero templi, inizialmente
recinti innalzati a protezione di alberi sacri dedicati agli déi. Nei poemi
di Omero ne incontriamo diversi. Il ruolo importante rivestito dagli alberi è riscontrabile tra i miti di fondazione, vedi l’ulivo per la nascita di
Atena e il fico di Marte per Roma.
Inoltre gruppi di alberi formano i “boschi sacri” presenti in tutte le
culture antiche in ogni dove Svezia (Uppsala), Italia, Grecia (Dodona e
Academo), India (Budda) viene alla luce, riceve l’illuminazione e affronta il trapasso, tre momenti importanti, tutti hanno come cornice un
“bosco sacro” .
I romani avevano in Nemi il bosco sacro, il Nemus Dianae, composto
anche da radure dove era possibile far pascolare gli armenti. Questo
luogo non poteva essere alterato, neppure minimamente: si rischiavano
punizioni esemplari se non addirittura la morte. Ai sacerdoti delle divinità silvane era affidato il compito di tutela.
Spostandoci verso nord incontriamo la cultura celtica, nella quale gli
alberi erano ritenuti sacri; la quercia in particolare, meglio se coperta di
vischio, veniva considerata la rappresentazione visibile della divinità,
con poteri terapeutici e le ghiande utilizzate per la fillomanzia. La consapevolezza dell’utilità e dell’importanza in senso lato delle piante portò
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all’emanazione di leggi speciali per la loro protezione e ad elaborare
norme innovative di tecnica forestale. Il “bosco sacro” era posizionato
poco distante dal villaggio ma lo si riteneva parte integrante di esso, con
attenzione e rispetto anche per sorgenti d’acqua, animali sacri, il cinghiale in particolare.
Le Riserve di caccia
In età carolingia (680-980 d.C.) in Europa fu creata una nuova forma
di area protetta: la “riserva di caccia”. Spazi piuttosto estesi dove veniva
praticata l’attività venatoria, arte simbolica e nobile, ma anche utile per
procacciarsi il cibo e prepararsi alla guerra. La caccia era riservata ad
imperatori, re, principi, feudatari, dignitari ed ospiti. Quasi sempre
oggetto di privilegio e dono tra le classi nobiliari, ne risultava escluso il
popolo, cui tutt’al più veniva concesso l’utilizzo di tagliole e similari sistemi artigianali, relativamente efficaci. Tali riserve ebbero poi la massima
diffusione durante tutto il 1600 allorché molte dinastie europee preservarono ampi e lussureggianti territori. Tra le riserve di caccia più famose,
quelle istituite dai Savoia in Piemonte e in Valle d’Aosta, ma anche il
Bosco di Carrega nei pressi di Parma, la riserva della Valle del Ticino dell’età viscontea, affidata ad un “Capitano della caccia”, con alle dipendenze numerosi uomini per far rispettare il privilegio ducale. Fuori Italia ricordiamo la maestosa Foresta di Biuliwjcha in Polonia. Trascorso
qualche secolo le aree sopramenzionate sono diventate, per lo più, parchi
o riserve naturali: selvaggina al riparo dei cacciatori e aperte a tutti, prodigi della democrazia. Diverse anche le “riserve di caccia sacre”; merita
la citazione quella di Ieyia in Rwanda, dove ogni anno si svolgeva la caccia rituale ad un solo elefante (Boscolo, 1997).
Il Giardino
Ancora nella categoria “delimitazione del territorio”, durante il periodo medievale, dobbiamo inserire in un contesto più ristretto, domestico il
“giardino” che, pur subendo negli anni modificazioni più o meno significative, rimane luogo di piacevolezza, di architetture vegetali, dove gode
l’occhio e l’olfatto, il cuore e la salute, ed è favorita la distensione psicofisica. Esempi sono i giardini presso i monasteri e le abbazie (il più famoso è quello dell’abbazia di San Gallo) dove troviamo erbe commestibili,
aromatiche, medicinali e piante da frutto. Si arriva successivamente al
“Parco trecentesco” evoluzione del giardino dove si riscontra una maggiore perizia tecnica rispetto alla domesticazione, disposizione e studio
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delle piante, in special modo di quelle utili alla cura delle malattie: il
cosiddetto “giardino dei semplici”. Nel medioevo inoltrato al giardino
verranno poi attribuite forti valenze simboliche, sentimentali, luogo di
madrigali e di poesie amorose.
Zone perimetrate a valenza naturalistica/Parchi ante litteram
Rientrano nella tipologia di zone perimetrate la Foresta Nera di
Sherwood a Nottingham, la Foresta di Fontainebleau nei pressi di Parigi, il Bosco della Fontana vicino Mantova. La protezione della natura,
almeno come concetto generale, ha origini lontane. Non è da pochi anni a
questa parte, come qualcuno crede, che l’uomo si è accorto di esercitare
con le proprie attività un impatto negativo sull’ambiente. Già nell’antica
Grecia si prendeva atto, ad esempio, dei danni procurati dal disboscamento. D’altro canto occorre ricordare che per centinaia di anni il rapporto uomo-ambiente in larga parte è stato di tipo utilitaristico, in special
modo nel periodo in cui è venuta meno o si è affievolita la concezione
sacrale della natura. Comunque possiamo far risalire al Medioevo le
prime norme e/o disposizioni di tutela di alcuni territori, certo con una
sensibilità propria di quel tempo, ovviamente diversa dall’attuale. A quei
tempi l’attenzione era rivolta a boschi e foreste contro l’eccessivo sfruttamento, nonché alla salvaguardia delle acque e della selvaggina. Esempi
in tal senso sono le azioni di tutela intraprese nel 1202 dal Marchese del
Monferrato Bonil’acio e dalle famiglie che gestivano il Bosco della Partecipanza di Trino Vercellese, ai giorni nostri parco regionale. Chi si distingue in modo particolare nell’attuare politiche volte all’uso controllato
delle risorse è la Repubblica di Venezia, con atti attraverso i quali decide
di preservare da attacchi sconsiderati la Foresta del Cansiglio e i Boschi
del Montello ma anche l’istituzione, nel 1545, del primo Orto botanico
europeo a Padova, luogo privilegiato di studio scientifico del mondo vegetale (Boscolo, 1997). La svolta vera e propria arriva nel XIX secolo: il
Regno delle due Sicilie nel 1826 decide di conservare i boschi di Montecalvo, San Vito e di Calvi; aldilà dell’oceano, in Arkansas, viene istituita,
nel 1832, la riserva delle Hot Springs; segue nel 1853 in Francia la Riserva reale di Fontainebleau, splendida area prevalentemente boscata, viene
preservata da tagli e distruzioni in quanto bene di grande e piacevole
valore estetico, ritratta da numerosi e famosi pittori nei suoi scorci di
particolare panoramicità e bellezza. In questo periodo storico si comincia, soprattutto per via dell’influenza del movimento romantico, a pensare o a ripensare la natura non soltanto come risorsa materiale, ma anche
come valore estetico: il paesaggio stimola la contemplazione ed è fonte d’iSILVÆ - Anno V n. 12 -
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spirazione per le arti. Assistiamo nelle grandi città europee ad un’ulteriore evoluzione del giardino in “parco pubblico cittadino”, si progettano spazi verdi, inseriti come parte integrante del contesto urbano, aperti alla fruizione di ogni ceto sociale.
I Parchi nazionali
Nella seconda parte dell’800 negli Stati Uniti d’America si apre un
dibattito sull’opportunità di tutelare le numerose “bellezze mozzafiato”
presenti sul vasto territorio federale. Il movimento d’opinione riceve
qualificati contributi da tre personaggi del calibro di: David Thoreau
(1818-1865) che, ispirato dall’idealismo tedesco vede la natura come
luogo ideale dove vivere senza le sovrastrutture proprie della civiltà e
insite nell’idea di progresso; John Muir (1838- 1914), ideologo della wilderness, esploratore della Yosemite Valley, a lui si deve l’istituzione del
parco omonimo; George Perkins Marsh (1801-1882), geologo, geografo e
politico, autore nel 1864 di un emblematico libro Man and Nature dove
addebita allo sfruttamento esagerato delle risorse naturali i dissesti che si
verificano sul territorio. Le idee propugnate da questi che possiamo definire i padri del pensiero ambientale conservazionista influiscono sulla
nascita dei primi parchi nazionali al mondo: in Canada il Glacier National Park nel 1866, negli Usa lo Yellowstone Park fu istituito con atto ufficiale del Congresso nel 1872 con la denominazione di “parco pubblico”,
la dicitura “parco nazionale” arriva un po’ di anni dopo nel 1883.
Yellowstone viene solitamente indicato come il primo parco moderno
dell’età industriale. La filosofia ispiratrice è quella di sottrarre territori
di oggettiva bellezza e ricchezza, piuttosto vasti, alla trasformazione e
perdita d’identità dovuta ad insediamenti impattanti, sia agricoli che
industriali, per offrire a due tipologie diverse di fruitori l’una cospicua,
il grande pubblico, l’altra esigua, gli studiosi. Ai primi era permesso
godere degli spettacoli di incanto offerti dalla natura, ai secondi era concessa la possibilità di avere materiale per le loro ricerche introvabile
altrove. Vanno ricordati tra i primi parchi della storia: il parco australiano oggi conosciuto come Royal National Park (1879); quello canadese
di Banff (1885); quello di Tongariro in Nuova Zelanda (1894); la riserva
di Sabie, successivamente Parco Nazionale Kruger in Sud Africa (1898).
Nel vecchio continente la filosofia per tutto il XIX, come già detto, era
quella di salvaguardare i panorami e i paesaggi, a perorare tale causa
romantici paladini per la maggior parte pittori e letterati, come William
Morris e John Ruskin. Ma con l’arrivo del nuovo secolo, il XX, si prendono in considerazione anche altre istanze oltre quelle di tipo estetico, si
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conviene che un dato territorio merita attenzione per gli aspetti naturalistici e geologici, ma anche storici e archeologici. E sono proprio le finalità
scientifiche che portano nel 1914 alla creazione di uno dei primi parchi
nazionali a livello europeo, quello dell’Engadina, in Svizzera. Segue due
anni dopo l’istituzione del Kredovaja Pad in Russia. Notevoli le differenze tra i parchi europei e americani: nel nuovo continente le azioni di conservazione vengono attuate su aree incontaminate, demaniali, scarsamente popolate, mentre nel vecchio continente le aree da salvaguardare
sono fortemente antropizzate, vi insistono attività di vario genere e sono
di proprietà privata. C’è dunque la necessità di coniugare la protezione
della natura con lo sviluppo socio-culturale ed economico delle comunità
umane. Matrimonio difficile da celebrare tanto che la Conferenza internazionale per i problemi della protezione della fauna e della flora tenutosi a Londra nel 1933 stabilirà che il “parco nazionale” è un’area sottoposta a pubblico controllo, flora e fauna vengono tutelate da norme rigide, vietata raccolta e caccia, è luogo destinato alla ricreazione pubblica.
Le misure adottate determinano l’allontanamento dell’uomo indigeno per
l’impossibilità di esercitare le attività tradizionali. Gli uomini ammessi o
vestono i panni dei visitatori, cittadini in larga parte, o le divise dei guardia parchi. Attorno alla metà del secolo scorso la concezione fortemente
restrittiva della difesa tout court della natura e del paesaggio viene sostituita un po’ alla volta da una visione che prevede un uso sì oculato ma
multiplo del territorio protetto, sono cioè consentite attività umane con la
caratteristica della compatibilità. L’aspetto economico viene preso in considerazione al pari o quasi delle esigenze che portarono inizialmente a
tutelare alcuni luoghi e cioè quelle di ordine estetico, scientifico, sociale e
culturale. Tale apertura è un passaggio importante che porta con sé un’idea di conservazione innovativa. L’uomo non viene espulso perché rispettando regole e vincoli può continuare a vivere e lavorare, di certo la sua
attività non deve essere invasiva e non può essere svolta ovunque, cioè
viene relegata in aree ben precise stabilite da uno studio analitico che stabilisce il tipo di protezione da attuare zona per zona secondo le peculiarità presenti. Questa protezione mirata è chiamata tecnicamente zonizzazione. Sempre nel dopoguerra si definiscono un paio di approcci rispetto
alla tematica in questione. Quello inglese che propone l’inserimento in un
progetto di protezione di un dato territorio, oltre il paesaggio, la natura
e i monumenti storici anche l’agricoltura tradizionale, quella praticata
fin dai tempi remoti. Dalla Francia, invece, arriva l’idea che il parco
nazionale debba essere organizzato con fasce diverse di tutela: un “centro pregiato” circondato tutt’intorno da zone via via meno importanti
sotto tutti gli aspetti: naturalistico, scientifico e culturale. Con questi ed
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altri apporti di tipo filosofico-gestionale il vecchio concetto della “protezione della natura” viene sostituito, non certo in modo repentino, con
quello di “conservazione della natura e delle sue risorse”. Questo è un
passaggio cruciale perché apre all’idea, ritenuta non praticabile all’interno delle aree protette, dello sviluppo in senso globale. Gli anni interessati da questo fermento rivoluzionario sono quelli che vanno dalla fine
della guerra agli Anni ‘60. Chiamata a gestire l’evoluzione, a mettere
ordine rispetto alle diverse tipologie delle aree protette sarà l’Union
International pour la Protection de la Nature (UIPN), successivamente
la denominazione si modificherà in Union International pour la Conservatione de la Natura (UICN), segno dei tempi. Dal 1961 pubblica ed
aggiorna per conto dell’ONU la Lista ufficiale dei parchi nazionali e
riserve equivalenti. Nel 1992 l’UICN così definisce l’area protetta: lembo
di territorio, più o meno esteso, dove trovano applicazione orientamenti,
indirizzi e regole per un uso dell’ambiente da parte dell’uomo che consenta di conservare e/o di sperimentare metodi, forme e tecnologie adatte a gestire in modo equilibrato con le altre specie viventi (vegetali e animali) le risorse del pianeta.
L’etica della conservazione
Il concetto moderno di conservazione dell’ambiente naturale, con
relativo valore etico, va ricercato negli scritti di tre autori principali,
tutti nordamericani: Muir, Pinchot e Leopold. Ecco in sintesi il loro pensiero.
John Muir (1838-1914) – Romantic-Trascendental Conservation Ethic:
l’ambiente naturale è un valore intrinseco perché l’uomo trae vantaggio
nel trovarsi in alcuni habitat incontaminati al cospetto di spettacoli primitivi e unici può avvertire la presenza e l’immanenza del Dio creatore.
Gifford Pinchot (1865-1946) – Resource Conservation Ethic: gli
ambienti naturali con le grandi risorse presenti possono essere fruiti da
un grande numero di persone e intere comunità, in un ampio lasso di
tempo. Le risorse naturali vanno fruite in modo sostenibile, sono una
proprietà comune. Tali principi “liberal” hanno fortemente influenzato
la regolamentazione federale Usa delle risorse ambientali.
Aldo Leopold (1886-1948) - Evolutionary-Ecological Land Ethic: la
natura è un sistema complesso, ogni componente è importante, non vi
sono gerarchie. L’uomo stesso, prodotto dell’evoluzione e della selezione
naturale ha lo stesso valore di tutte le altre specie, deve fruire dell’ambiente in modo responsabile, non deve assolutamente arrecare danni alle
altre specie e all’intero ecosistema.
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Aree protette: l’approccio americano
La prima area protetta “moderna” nata per la tutela delle risorse
naturali affidate alla massima autorità, lo stato nazionale, fu la riserva
dello Yosemite nel 1867 cui seguì poco dopo il Parco Nazionale di Yellowstone nel 1872. Tra le motivazioni: “per beneficio e godimento del popolo, allo scopo di proteggere per sempre questa eccezionale area naturale... a beneficio e per il godimento delle future generazioni”. Ma già nel
1880, sempre negli Usa, furono istituiti ben cinque parchi nazionali. Storicamente siamo nel periodo in cui si concluse la colonizzazione dell’Ovest, che vide la distruzione delle popolazioni native. Il ‘senso di colpa’ che
ne derivò unito all’oggettivo degrado degli habitat teatro della guerra,
che vide contrapposti i “bianchi” ai “rossi”, favorì l’idea di una sorta di
compensazione per i danni apportati che si tradusse in azioni mirate a
preservare almeno una piccola parte degli straordinari ambienti originari. Inizialmente i vincoli imposti furono molto restrittivi: divieto di caccia
e d’intervento sulle dinamiche naturali, impossibilità di costruire infrastrutture, ecc. Tale approccio totalizzante escludeva l’uomo dagli
ambienti tutelati, compresi in alcuni casi le stesse popolazioni indigene.
Quindi il parco nazionale veniva inteso come un “Santuario”, nato per la
protezione di habitat primari, per nulla o poco toccati dall’azione
umana, dove al massimo veniva tollerata la presenza di piccole comunità
radicate ai luoghi da tempi remoti.
Aree protette: l’approccio europeo
In Europa per vedere l’istituzione del primo Parco Nazionale si devono attendere i primi anni del XX secolo. Evidente il ritardo rispetto agli
Stati Uniti, al Canada e all’Australia. Le motivazioni vanno ricercate nell’assenza nel Vecchio Continente di territori vergini, di fenomeni naturali particolarmente spettacolari ma anche perché i popoli europei da secoli hanno convissuto a stretto contatto con la natura, incidendo anche
pesantemente su di essa con le proprie attività. Inoltre, non si registrò
come altrove un movimento forte composto da intellettuali e dall’opinione pubblica che sosteneva la necessità di conservare ambienti in modo
significativo. Il primo Parco Nazionale europeo è quello della “Brughiera di Linderburg” istituito nel 1909 in Germania, l’anno dopo in Svezia
ne furono creati sei, tra i più importanti: Abisco, Sarek e Stora Sjofalle.
Seguì nel 1914 quello dell’Engadina in Svizzera. Tutti inizialmente impostati sul “modello americano”. In breve tempo, però, s’iniziò per evidenti motivi a percorrere una via con connotazioni proprie, la via europea
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alla conservazione. Il contesto non consentiva drastiche proibizioni: caccia, pascolo, taglio di alberi per la legna o addirittura il divieto di transito, previsto dall’approccio americano, si dovette pertanto fare marcia
indietro. Emblematico il caso del Parco dell’Engadina il cui territorio si
presentava tutt’altro che integro a causa del lungo sfruttamento dei giacimenti di ferro, piombo ed altri minerali che tra l’altro aveva inciso
pesantemente sui boschi per la legna destinata all’alimentazione dei forni
di fusione. L’area protetta nacque per merito della Società Svizzera di
Scienze Naturali che acquistò l’intera zona. Gli scienziati decisero, di non
procedere alla riparazione dei guasti presenti per osservare scientificamente come la natura, senza alcun sostegno, provvede a rimarginare le
ferite subite. Assistiamo così al cambiamento delle finalità per le quali
sino ad allora si erano istituiti i parchi, l’obiettivo in questo caso è il recupero e la sperimentazione, anche se a livello gestionale si seguono ancora
i dettami nordamericani del Santuario (Canova, 2000).
Aree protette: verso un nuovo approccio
I principi di rigida tutela del “modello svizzero” che, escludeva addirittura interventi in caso di frane o slavine, non riscossero consenso in
Italia nel mondo della politica e della scienza, i quali, a quel tempo, s’interrogavano sulla necessità di realizzare i primi parchi della Penisola. La
decisione fu che il “modello italiano” di conservazione della natura doveva essere diverso, meno restrittivo, anche perché era necessario tenere
assolutamente conto della notevole presenza umana sui territori designati. Fu presa a riferimento una diversa visione che si veniva affermando in
Inghilterra e in Francia: il parco non doveva essere considerato un luogo
da lasciare in toto al suo destino, era possibile intervenire a sostegno della
natura quando necessario, potevano essere poste in essere azioni tendenti allo sviluppo socio-economico delle comunità residenti puntando in special modo sulle attività turistiche e ricreative. L’attenzione veniva posta,
quindi, non soltanto su animali, piante, monti e panorami ma anche sull’uomo. Tale concezione portò per un periodo i parchi italiani, come quelli inglesi e francesi, ad essere esclusi dalla lista internazionale dei parchi
nazionali.
I Parchi nazionali italiani
I primi parchi istituiti in Italia sono stati: nel 1922 il Parco Nazionale
del Gran Paradiso; nel 1923 il Parco Nazionale d’Abruzzo; nel 1934 il
Parco Nazionale del Circeo; nel 1935 il Parco Nazionale dello Stelvio.
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Dovranno trascorrere molti anni, troppi, per vedere affiancare, alle
quattro storiche aree protette, numerosi, meravigliosi e preziosi altri
parchi nazionali e regionali.
L’istituzione dei parchi storici italiani, avvenuta tra gli Anni Venti e
Trenta del secolo scorso, si deve soprattutto all’impegno di alcune associazioni protezionistiche (Pro Natura, Società Botanica, Pro Montibus ed
altre) e di singole personalità. Decisivo per il Parco Nazionale d’Abruzzo
fu l’impegno di Benedetto Croce.
Per quanto concerne l’aspetto legislativo volto alla “difesa delle bellezze naturali” ricordiamo la legge 1497 del 1939, redatta con il notevole
contributo di Luigi Parpaiolo, la legge 431 del 1985 (la cosiddetta legge
Galasso) e l’importantissima e sospirata legge quadro per le aree protette, la 394, del 1991.
Conclusioni
Constatato che attualmente i parchi a livello mondiale sono arrivati a
quota 100.000 e giunti al termine di questo rapido viaggio tra storia e filosofia delle aree protette, non ci resta che auspicare il passaggio successivo, realizzabile con il concorso di istituzioni e popolazioni dell’intero pianeta e riassumibile in uno slogan: “dal Parco Nazionale alla Nazione
Parco”.
E chi più di noi italiani dovrebbe battersi con vigore per conseguire
questo obiettivo, affinché la Penisola meriti ancora per il futuro l’appellativo di Belpaese.
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