Relazione Prof.ssa Elena Allegri - ordine assistenti sociali campania

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Relazione Prof.ssa Elena Allegri - ordine assistenti sociali campania
*** La Supervisione nel Servizio sociale.
Elena Allegri1
Nessun profeta ardisce più rivelarci il nostro domani, e questa, l’eclissi dei profeti, è una medicina amara ma necessaria.
Il domani dobbiamo costruircelo noi, alla cieca, a tentoni; costruirlo dalle radici, senza cedere alla tentazione di ricomporre i
cocci degli idoli frantumati, e senza costruircene di nuovi.
Primo LEVI, L’altrui mestiere, Torino, 1985, p. 247
L’intento di questo contributo è delineare alcuni aspetti teorici e metodologici della supervisione.
Cercheremo di rispondere ad alcune domande: che cosa è la Supervisione? Quale aiuto può
offrire oggi agli assistenti sociali nella attuale situazione di crisi ? Quali sono gli elementi che la
compongono e a quali condizioni può essere efficace? Quali caratteristiche dovrebbe avere il
supervisore?
1. La situazione attuale: stare a metà del guado oppure scegliere?2
Nell’attuale situazione di crisi, l’immagine che può rappresentare la posizione degli assistenti
sociali italiani è quella di un guado, ossia di un punto, all’interno di un torrente, che consente di
passare da una riva all’altra. La professione si trova in questo guado, e deve scegliere che fare:
attraversare e conquistare nuovi territori o arretrare su posizioni assunte in passato, ma in
condizioni peggiori? L’unica certezza è che non può stare ancor per molto in una posizione di
attesa e di impasse, pena la rarefazione e la scomparsa della professione stessa e del senso del
servizio sociale. Il rischio imminente, infatti, è di assistere ad uno svuotamento progressivo delle
competenze tipiche della professione, che può facilmente trasformarsi in mero esecutore di
incombenze burocratiche. Gli assistenti sociali lavorano nella quotidianità fronteggiando
l’aumento della domanda di tipo assistenziale e la diminuzione (se non l’azzeramento) delle
risorse, come è tipico delle situazioni di crisi sociale, al centro dei dilemmi che caratterizzano le
decisioni da assumere, consapevoli delle molte distorsioni organizzative all’interno delle quali
devono comunque operare, in situazioni nelle quali il ruolo professionale è sempre più snaturato.
Così, tra i professionisti circola la sensazione di agire in base a decisioni assunte solo da altri e
lo spirito di collaborazione tra i diversi ruoli e livelli nell’organizzazione decresce. La
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Dipartimento di Giurisprudenza e Scienze Politiche, Economiche e Sociali, Università del Piemonte Orientale
“Amedeo Avogadro”, Alessandria. Insegna Teorie, metodi e tecniche del Servizio sociale nel corso di laurea in
Servizio sociale, Asti, di cui è Presidente.
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Il primo paragrafo è tratto da: Allegri E., Tra disincanto e innovazione:la ricerca di un senso comune nel servizio
sociale, in Prospettive Sociali e Sanitarie, 9, 2012, pp.19-21.
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rappresentazione che ne emerge, in convegni e percorsi di formazione e di supervisione, è quella
di esecutori che percepiscono il proprio agire come prevalentemente centrato su una dimensione
eteronoma (Allegri, Garena, 2012). Aumenta anche la sensazione di solitudine dei responsabili di
servizio e dei dirigenti, sottoposti anch’essi a notevoli pressioni. Complessità (e confusione)
caratterizzano la situazione attuale, definibile come una crisi generale senza precedenti dal
secondo dopo guerra. E’ evidente a tutti che mancano risorse finanziare, umane, sociali, che le
scelte politiche appaiano quantomeno confuse, ed è dunque plausibile che la professione si trovi
in una situazione di spiazzamento di fronte alle richieste tentacolari che le vengono poste da più
fronti, ma questo non può costituire una giustificazione per l’impasse e per non riflettere
comunque sulla professione, sul suo ruolo e sulle responsabilità assunte, non assunte e che
intenderà assumere nel contesto in cui opera.
E’ opportuno, inoltre, considerare che tale situazione non è casuale. Lo sviluppo del Servizio
sociale italiano, inteso come disciplina, come professione, come meta – istituzione e come arte
(Canevini, Neve, 2005), è avvenuto in stretto collegamento con le trasformazioni di tipo sociale,
storico, economico e politico della società e delle organizzazioni dei sistemi di risposta ai bisogni
dei cittadini, ispirate dalle politiche sociali che hanno caratterizzato il sistema di welfare nel suo
divenire. Tali tensioni hanno determinato per la disciplina e per la comunità professionale
l’assunzione di una connotazione particolare, al centro di un crocevia tra diversi tipi di mandato:
sociale, professionale, istituzionale (Gui, 2008), al tempo stesso causa ed effetto di un faticoso
cammino di promozione della professione. Il servizio sociale ha interpretato il proprio compito
di mediare tra mandati, confini e territori subendo un forte impatto sul senso attribuibile ad un
ruolo unico e composito al tempo stesso, sulla continua costruzione di una identità mai
completamente definita, sulla difficile delimitazione di un oggetto specifico e autonomo di studio
e di ricerca, sul riconoscimento non ancora consolidato di una specifica comunità scientifica. Gli
assistenti sociali si trovano, quindi, in uno stato di compressione tra i diversi mandati e tra
diversi attori:
-
i cittadini, che sono anche utenti, ma possono essere considerati anche stakeholder, ossia
portatori di interessi dei gruppi sociali o delle associazioni di cui fanno parte e chiedono
un punto di equilibro tra universalismo e particolarismo negli interventi professionali;
-
l’organizzazione di appartenenza, che richiede efficienza nelle prestazioni, ma non riesce
a garantire le condizioni strutturali utili all’efficacia nel senso a questa attribuito dal
servizio sociale (ad esempio, rispetto alla relazione tra qualità e tempo disponibile per i
2
colloqui professionali, o rispetto alla relazione tra la logica dell’urgenza e la carenza di
progettazione delle azioni e dei progetti);
-
la società, che investe la professione di mandati ambigui (ad esempio, la relazione tra le
azioni di protezione dei minori e l’immagine degli assistenti sociali come ladri di
bambini).
Quelle citate sono alcune delle ragioni che stanno alla base della immagine pubblica negativa del
servizio sociale, una rappresentazione parziale, che non rende giustizia alla professione,
lasciando in ombra gli aspetti di promozione di legami sociali e di impegno nella comunità
locale, come richiesto dal mandato sociale (Allegri, 2006). Accanto a sperimentazioni
interessanti, per la verità sempre più rare, gli assistenti sociali appaiono disincantati e faticano a
descriversi e a proporsi come professione portatrice di conoscenze utili non solo per fronteggiare
i problemi, ma anche per costruire processi innovativi di risposta utili a tutti i cittadini.
Eppure, nei percorsi di supervisione e di ricerca-azione si riscontrano segnali importanti:
l’apparente quiescenza dei professionisti, che si manifesta attraverso un atteggiamento iniziale
disincantato, guardingo, si scioglie in pochi incontri per tramutarsi in un atteggiamento lucido e
consapevole, in capacità di pensiero riflessivo che genera critiche costruttive e autentico
confronto.
2. La Supervisione
L’etimologia della parola evoca la funzione di accompagnamento maieutico nell’analisi
riflessiva di un problema, di un progetto, di un intervento professionale, esercitata da un’autorità
riconosciuta. La tensione all’esercizio della complessità3, ossia la comprensione da parte del
professionista, che il proprio punto di vista soggettivo è uno dei tanti modi possibili di descrivere
e analizzare la situazione, ne costituisce la finalità principale.
Supervisione, termine mutuato dall’inglese supervision (sovrintendenza, vigilanza), indica il
processo di riflessione critica sugli aspetti metodologici, relazionali, emotivi ed organizzativi
dell’ intervento dell’assistente sociale, con la guida di un esperto, il supervisore, generalmente
consulente dell’organizzazione. In tal senso: «la supervisione è un sistema di pensiero-meta
3
Molti studi si sono occupati del concetto di complessità, cfr. fra gli altri G.BATESON, Verso un‘ecologia della
mente, (ed. or. Ballantine, New York, 1972, tr. It. Adelphi, Milano, 1976; E. MORIN, Il metodo. Ordine, disordine e
complessità, (ed. or. Seuil, Paris, 1975) tr. It. Feltrinelli, Milano, 1983.
Complessità non indica una misura della complicazione, ma, come sostengono F. PARDI e G. F. LANZARA “un
principio metodico secondo cui gli oggetti dipendono da altri oggetti, le relazioni da altre relazioni, i sistemi, infine,
da un osservatore che non occupa più un punto di vista privilegiato da cui si diramano univocamente ed
ordinatamente tutte le prospettive (..) Complessità è infatti un termine che sta ad indicare un tipo di analisi basata
sulla relazionalità e non più sulla pretesa di poter strappare a oggetti semplici e discreti il segreto contenuto di una
qualche forma più o meno indipendente ”, L’interpretazione della complessità. Metodo sistemico e scienze sociali,
Guida, Napoli, 1980, pag.87.
3
sull’azione professionale, uno spazio e un tempo di sospensione, dove ritrovare, attraverso la
riflessione guidata da un esperto, una distanza equilibrata dall’azione, per analizzare con
lucidità affettiva sia la dimensione emotiva, sia la dimensione metodologica dell’intervento, per
ricollocarla in una dimensione corretta, con spirito critico e di ricerca» (Allegri, 1997, p. 35).
L’espressione ‘lucidità affettiva’ indica la ricerca costante di un equilibrio consapevole tra
razionalità ed emozione, tra pensiero e azione, tra capacità progettuale e di intervento e capacità
riflessiva (Schön, 1993). La supervisione, quindi, sia in forma individuale sia in gruppo, trova
una appropriata collocazione nella creazione di un sistema riflessivo, capace di predisporre
risposte con carattere di processo alle domande che i professionisti si pongono rispetto al loro
lavoro e ai risultati ottenuti. Dall’analisi del contesto, il processo di supervisione tenta di
promuovere progressivamente le competenze cognitive ed emotive degli assistenti sociali per
finalizzarle alla qualità del processo di aiuto e del progetto (a livello micro, meso e macro) e alla
capacità di valutarne nel tempo i cambiamenti. Essa contempla funzioni preventive rispetto al
burn out e all’esaurimento delle motivazioni degli operatori sia rispetto agli interventi
professionali rivolti alla persona sia a prendere parte attiva nella vita organizzativa sia, ancora, a
promuovere la partecipazione nella comunità locale. Fin dalle origini della professione, la
supervisione è connotata come riflessione sull’operato e sostenuta da alcune funzioni specifiche:
di controllo amministrativo, di valutazione periodica del lavoro del professionista, di consulenza,
ed educativo- didattica per i nuovi assunti (Arndt, 1935; Austin, 1942; Hester, 1951), che si sono
trasformate nel tempo in ragione dei mutamenti avvenuti a livello organizzativo, professionale,
formativo e sociale. Riferibile a quattro attori fondamentali: gli assistenti sociali,
l’organizzazione, l’utente e il supervisore, la supervisione segue un percorso finalizzato a tappe,
e non accompagna tutto il ciclo professionale di un professionista. E’ importante che sia guidata
da un supervisore non imposto, ma riconosciuto da chi gli “si affida” come competente, dotato
della conoscenza e della padronanza di tecniche, di strumenti e di valori tipici della professione.
Infine, sebbene il processo di Supervisione scomponga e ricomponga il processo di aiuto o
progetti portati in esame, tuttavia non costituisce un processo decisionale, pertanto il supervisore
non ha la responsabilità delle decisioni relative al caso o all'èquipe o al progetto, che andranno
assunte nei luoghi e nei tempi organizzativi preposti.
3. Il Supervisore.
La ricerca di un supervisore è anche la ricerca di un’autorità “altra”, lontana dalla presunta
ottusità dell’organizzazione, un’autorità potente, capace, buona, possibilmente prestigiosa e
riparativa, di “aiuto a sopportare non solo i casi, gli utenti, ma anche i casi personali e di
4
équipe, di disadattamento lavorativo” (Olivetti Manoukian,1997, pag. 9). Il supervisore è
chiamato ad essere custode e garante del processo di supervisione, e viene investito, che lo
voglia o no, di immagini, di desideri, di aspirazioni che gli assistenti sociali proiettano sul suo
ruolo e sulla sua persona. Il termine proiettare è qui usato in senso letterale: come una
videocamera proietta su uno schermo le immagini registrate, che sono, certo, ciò che chi guarda
vede, ma che non appartengono realmente allo schermo, così il supervisore può essere oggetto di
proiezioni da parte degli operatori. La relazione di supervisione ne risulterà comunque
condizionata e il supervisore dovrebbe esserne consapevole per fronteggiare i rischi connessi. In
alcune esperienze di supervisione “avanzata”, ossia quando il gruppo o il singolo iniziano a
possedere il metodo proposto e ad avere ben chiare le finalità del lavoro attuato, capita di
osservare come la presenza del supervisore sia realmente garante dello spazio, del tempo e del
clima riservato alla supervisione, come se, per assurdo, il solo fatto di essere presente attivasse
l’attenzione e la motivazione necessaria affinchè l’incontro sia proficuo e stimoli le capacità di
riflessione e di confronto tra professionisti. E’ come guardare un quadro: si può guardare da soli,
anche senza avere alcuna cognizione relativa all' arte. Il guardare susciterà emozioni, darà un
senso all’opera osservata, ma quando si guarderà con una guida, con qualcuno che aiuti a
scoprire segni e codici di un linguaggio non conosciuto, si “vedranno” particolari nuovi, si
noteranno connessioni nascoste, si imparerà a guardare dalla giusta distanza per apprezzare una
visione d’insieme dell’opera, e soprattutto si apprenderà un metodo di osservazione più
complesso, applicabile anche nell’osservazione di altri quadri. Il fascino di quest’operazione
consiste anche nella possibilità di rivedere in modo più consapevole quadri già conosciuti. In
questo senso il supervisore stimola la capacità riflessiva e di pensiero critico che già esiste negli
assistenti sociali. Compito fondamentale del supervisore è quello di aiutare il professionista a
crescere:
- sul piano del collegamento teoria- pratica;
- sul piano dell’identità professionale;
- sul piano della rielaborazione dell’esperienza professionale;
- sul piano della capacità di lavorare in gruppo e, più in generale, di ricomporre differenze;
- sul piano relazionale: ossia sul riconoscimento e governo delle emozioni per fare un uso di sè
finalizzato alla professione;
- sul piano organizzativo- istituzionale, ossia sulla capacità di raggiungere gli obiettivi predefiniti
dall'ente, sulla capacità di incidere nelle decisioni macro di proporre e di negoziare con
l’organizzazione di appartenenza;
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- sul piano tecnico- metodologico: ossia sulla capacità di formulare ipotesi come guida
dell’azione professionale, che andranno sistematicamente riconsiderate.
Si tratta, dunque, di un compito complesso, che richiede il possesso di alcune caratteristiche
fondamentali, che possono essere in estrema sintesi identificate di seguito:
1. Il supervisore dovrebbe essere un assistente sociale;
2. il supervisore dovrebbe aver seguito percorsi formativi per diventare formatore e
supervisore;
3. Il supervisore dovrebbe possedere una capacità “psico- pedagogica” di trasmissione del
proprio sapere e aver sviluppato un’attitudine formativa;
4. Il supervisore dovrebbe aver approfondito i fondamenti teorici, metodologici e
deontologici del servizio sociale;
5. Il supervisore dovrebbe “conoscere se stesso” per mantenere la giusta distanza e la giusta
vicinanza nelle dinamiche emotive che si scatenano nel processo sia tra i professionisti,
sia tra i professionisti ed il supervisore, sia ancora nei confronti dell’organizzazione 4.
4. La collocazione del supervisore: esterna o interna all’organizzazione?
La questione della collocazione del supervisore rispetto all’ente, se sia cioè più vantaggioso, ai
fini del processo di supervisione, che il supervisore sia interno od esterno all’ente risulta
interessante e complessa. L’esperienza maturata all’interno di grandi enti negli anni Sessanta,
sembra aver dimostrato come l’attività di supervisione fosse orientata a garantire l’aderenza del
lavoro sociale agli obiettivi dell’ente. Pur salvaguardando le funzioni tipiche (amministrativa, di
valutazione, di insegnamento, di consulenza ), la supervisione attivata in quel periodo non
sembra aver sempre garantito agli operatori coinvolti una rielaborazione critica e riflessiva del
proprio intervento, soprattutto per quanto riguarda il piano emotivo. Poiché la supervisione era
condotta da dipendenti dell’ente, spesso con funzioni dirigenziali, non è stato possibile costruire
un contesto diverso, che consentisse la piena consapevolezza di sè e l’autoanalisi degli errori
commessi, in modo da rendere il professionista più
consapevole dei propri schemi di
riferimento, oltre che degli stessi risultati della propria azione professionale sia rispetto agli
obiettivi dell’ente, sia rispetto all’interesse dell’utente, sia rispetto a se stesso. Tutti coloro che
lavorano nelle professioni di aiuto sanno quanto sia importante tendere alla costruzione di un
contesto chiaro, con regole precise, all’interno del quale “l’altro” sappia dove si trovi e quali
4
Per approfondire il tema si veda E. ALLEGRI, Supervisione e lavoro sociale, Carocci, Roma, 1997 e v.
Supervisione, in Nuovo Dizionario di Servizio Sociale, diretto da A. M. Campanini, Carocci, Roma, 2013, in press.
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siano le regole del gioco in atto. In questo senso la collocazione del supervisore come consulente
esterno all’ente evidenzia una dimensione priva di controllo (non solo amministrativo), che può
favorire la collaborazione degli operatori e la loro partecipazione al progetto, probabilmente in
quanto confortati dall’avere uno spazio riservato e protetto, garantito dall’ente, concordato con i
responsabili del servizio, ai quali verranno riportati i risultati dell’esperienza. Attualmente la
collocazione del supervisore dipende in gran parte dal progetto complessivo di sviluppo che
l’organizzazione e gli operatori intendono assumere, all’interno del quale sarà prevista la la
formazione e la supervisione più utili, con funzioni, obiettivi, metodo e valutazione che
andrebbero concordati tra tutti gli attori interessati.
In questo senso la collocazione del supervisore come consulente esterno all’ente sembra
sottolineare una dimensione priva di valutazione, che può favorire la collaborazione degli
operatori e la loro partecipazione al progetto, probabilmente in quanto confortati dall’avere uno
spazio riservato e protetto, garantito dall’ente, concordato con i responsabili del servizio, ai
quali verranno riportati i risultati dell’esperienza. Naturalmente la valutazione è sempre presente
in attività di questo tipo, infatti il supervisore mentre conduce l’incontro sta in effetti osservando
e valutando i partecipanti: valuta come vengono presentati i casi o i progetti, quale linguaggio
viene utilizzato, se è presente o meno un pensiero progettuale o se esiste solo una richiesta di
sostegno, valuta quali siano i temi ricorrenti nel singolo e nel gruppo, valuta come il gruppo
collabora o meno con chi ha portato il materiale da discutere, osserva e valuta i progressi
compiuti da ognuno in itinere, ma la valutazione resta all’interno del contratto collaborativo
stipulato con i partecipanti e con l’ente. La dimensione valutativa è utile per una maggiore
consapevolezza dell’operatore sociale, ma va considerata in progress, nell’interesse dei
partecipanti , dell’ente, dell’utenza.
Se, al contrario, il supervisore è interno all’ente, la supervisione presenterà più facilmente
connotazioni di controllo qualità coerentemente allo spirito aziendale che i servizi sociali hanno
assunto nel tempo. Inoltre, come l’utilizzo della teoria non garantisce di per se il risultato del
processo di aiuto, così anche la necessità di rispondere a precisi standard di qualità non
garantisce tout court che l’intervento dell’ operatore sia rispondente agli standard di qualità
predefiniti. Il nodo cruciale sta nel “come” il processo di aiuto viene attuato, e questo percorso di
attuazione è irto di pericoli di collusione di collisione, risulta segmentato da molte variabili
intervenienti , tra le quali una delle più importanti, almeno rispetto al contesto organizzativo, è
l’assistente sociale, il suo stile di intervento, il significato che attribuisce al processo di aiuto, le
modalità professionali e personali che mette in atto in tale processo.
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Se risulta necessario e doveroso per l’utente, per gli operatori e per l’organizzazione attivare un
processo di valutazione, va però precisato che la valutazione non può essere compiuta solo in
base alla rilevazione delle rispondenza o meno a standard di qualità prefissati.
Si tratta di considerare come e perchè tali standard siano o non siano stati rispettati, e questo
presuppone, nel carattere di processo che assume la valutazione, una rielaborazione ad opera del
soggetto che ha attivato l’intervento.
Se questo avviene in un contesto gerarchico o di competizione, a volte stimolante, è possibile
trovare operatori attestati su posizioni “coperte”, che non si mettono in gioco.
Come può un operatore sociale parlare di qualche difficoltà avuta, magari sul piano emotivo, o di
un’abilità professionale nella quale si sente carente di fronte a chi sta ne sta valutando la
performance? Il supervisore può interpretare un ruolo di “specchio”, che permette al singolo
operatore o al gruppo di analizzare l’immagine riflessa dello stile di intervento: un collega o un
superiore è parte attiva nei giochi relazionali in atto nell’organizzazione ed è estremamente
improbabile che riesca ad assumere una posizione di osservatore esterno.
La funzione può essere quella di riesaminare l’azione professionale relativamente agli obiettivi
di progetto e agli obiettivi più generali dell’ente, ma difficilmente promuove l’autonomia di
riflessione e di azione dell’operatore e del gruppo. Il rischio, infatti, è di tacere le reali difficoltà,
di coprirle, di non elaborarle, permettendo così che continuino a incidere sul lavoro svolto.
Infine, se è vero che il compenso che il supervisore esterno riceve, come consulente, da parte
dell’organizzazione rende più interno anche il supervisore più esterno, il contratto di
collaborazione che dovrebbe essere stipulato prima dell’avvio del processo di supervisione, può
costituire, in un clima di reciproca fiducia, una garanzia del rispetto degli interessi dei vari
soggetti coinvolti. E’ un contratto che si articola su due dimensioni : quella metodologica e
quella relazionale, che spesso contiene e influenza la prima.
In conclusione, è opportuno evidenziare alcuni vantaggi rispetto alle due opportunità di
collocazione del supervisore (Piperno e Crescenzi, 1986; Allegri, 1997).
a) Vantaggi della collocazione esterna del supervisore :
- Il supervisore che lavora all’interno dell’ente diventa parte di un gioco in atto, nel quale
contribuisce a definire regole, ma dalle quali rischia di essere influenzato.
La presenza di una persona estranea, ai giochi relazionali e di potere presenti
nell’organizzazione, sembra garantire la possibilità di introdurre un punto di vista diverso,
un’angolazione particolare dalla quale osservare gli scambi comunicativi quotidiani tra i vari
soggetti, per restituire la possibilità di vedere con occhi diversi, anche da parte dell’operatore,
quanto sta accadendo.
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- La richiesta di supervisione può scaturire da un momento di crisi dell’operatore nei confronti
dell’ente. E’ improbabile, in tal caso, che l’operatore si rivolga con fiducia, nella sua richiesta di
aiuto,all’interno dell’organizzazione che vive come nemica, come ostacolo. Un supervisore
esterno potrebbe svolgere più facilmente quella funzione di mediazione del conflitto , almeno per
quanto riguarda la sofferenza dell’operatore, così necessaria per predisporre un’azione
valorizzante del ruolo e delle possibilità di confronto costruttivo con l’organizzazione.
L’azione di ri-contrattazione tra assistente sociale e organizzazione sarà diretta, senza mediazioni
del supervisore, anche se frutto dell’elaborazione effettuata in supervisione.
- Ai fini di un risultato positivo ogni supervisore deve essere “accettato” dal singolo o dal
gruppo: i meccanismi di accettazione sono complessi e dipendono da molte variabili che qui non
saranno trattate. La creazione di un clima di fiducia , di collaborazione, è alla base di qualunque
processo di supervisione. Quando ciò non accada, il vantaggio di avere un supervisore esterno
consente all’ente di non rinnovare il contratto al supervisore, mentre, quando il supervisore è
regolarmente assunto dall’ente, in caso di “non affinità” con il gruppo degli operatori, diventa
arduo trovare una soluzione a questo problema.
- Un supervisore esterno garantisce la possibilità di una visione “altra” delle situazioni esaminate
in supervisione: oltre che dalle sua abilità, e dal contesto, ciò è consentito anche dalla sua
situazione di esterno; un supervisore interno difficilmente riesce a restare slegato dal
coinvolgimento personale nei problemi istituzionali, che magari condizionano anche la sua
attività professionale. Difficilmente resterà neutrale in situazioni che assumono le caratteristiche
di rivendicazioni, e questa situazione emotiva può rendergli particolarmente difficile la funzione
di supporto al processo di consapevolezza, di proposizione di campi di azione e prospettive di
soluzione da offrire ai professionisti.
b) Vantaggi della collocazione interna del supervisore:
- La conoscenza diretta delle caratteristiche dell’ente, delle linee politiche che hanno guidato
l’attivazione dei servizi, degli obiettivi espliciti e impliciti, costituisce la “ricchezza” di partenza
per un supervisore interno all’ente. La conoscenza diretta della situazione può favorire, almeno
inizialmente, una comprensione più rapida dei problemi, ma non garantisce la possibilità di
suggerire soluzioni praticabili nell’immediato.
- Soprattutto se è una figura di “trasformazione”, all’interno del servizio, il supervisore interno
all’ente può avere più potere di persuasione rispetto ai livelli decisionali dell’organizzazione.
Può partecipare attivamente alla progettazione e all’attuazione di un processo evolutivo nella
realtà lavorativa.
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- Un altro vantaggio è la possibilità di costruire una rapporto duraturo e continuativo con gli
assistenti sociali: rispetto ai tempi di riflessione necessari per raggiungere un cambiamento
efficace, che sono solitamente lunghi e difficoltosi, la possibilità di contare su un periodo di
tempo consistente può essere garanzia di regolarità e costanza.
- Il carattere promozionale della supervisione, e la funzione propulsiva alla costruzione di una
identità di gruppo di lavoro e di servizio sembrano facilitati dalla presenza continua di un
supervisore all’interno dell’ente, anche se questa funzione è garantita ugualmente da un
supervisore esterno. Tuttavia, le recenti trasformazioni dei contratti di lavoro contribuiscono a
creare gruppi di lavoro misti, composti da operatori pubblici e privati, che trovano difficoltà di
integrazione.
5. Conclusioni
Consolidata da tempo come occasione preziosa di garanzia della qualità dei processi e degli
interventi di servizio sociale, la supervisione, come la formazione permanente, è investita dalla
attuale crisi sociale ed economica. Ciononostante, permangono esperienze e sperimentazioni di
grande interesse, e si evidenziano alcuni temi all’interno del dibattito attuale. Tra questi emerge
il tema relativo al rapporto tra supervisione e valutazione. Sono in aumento, infatti, le richieste di
organizzazioni che, a partire da un rinnovato interesse nei confronti della qualità dei propri
progetti e dei propri interventi, avanzano richieste di supervisione per riflettere intorno ai
risultati, ai processi del loro operato e alle possibili innovazioni.
Nelle logiche innovative è la professione ad essere chiamata a giocare un ruolo da protagonista,
nessuno lo farà al suo posto. Si tratta, in sintesi, di attivare quelle capacità generative,
immaginative, creative, che gli assistenti sociali hanno dimostrato di saper utilizzare in molte
occasioni; di partecipare attivamente ai processi di valutazione per la diffusione del sapere del
servizio sociale; di - tornare a lavorare nella comunità locale, e rafforzare le competenze utili al
passaggio dalla dimensione del caso alla dimensione del lavoro di territorio; di curare il rapporto
con gli amministratori locali, diventando loro insostituibili consulenti; di sviluppare una
mentalità di ricerca empirica specificamente dedicata al servizio sociale, orientata non solo alla
ricerca di buone pratiche, ma anche all’analisi comparativa di progetti simili attuati in territori
differenti, per rintracciare similitudini e differenze che possano suggerire protocolli operativi più
consolidati e riconosciuti, in primo luogo, dalla comunità scientifico-professionale del servizio
sociale. Il processo di supervisione può essere molto utile sia per sostenere i professionisti in tale
direzione. Si tratta, infine, di attraversare il guado.
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