la vendita di un arma di guerra

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la vendita di un arma di guerra
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ATTUALITÀ
DOMENICA, 27 NOVEMBRE 2016
INTERVISTA – DON PIER JABLOYAN, SALESIANO, IN VISITA ALL’ISTITUTO AGNELLI DI TORINO HA TESTIMONIATO IL DRAMMA DEI SIRIANI CHE VIVONO DA CINQUE ANNI SO
«La mia Aleppo
con 900 ragazzi
tra macerie
e speranze»
«Io sono un salesiano di Don
Bosco e sto dalla parte di
Gesù». Non vuole parlare di
politica, non vuole esprimere
giudizi di parte sul conflitto
che sta insanguinando Aleppo, troppo rischioso quando
può andarci di mezzo la vita e
la sicurezza delle centinaia di
ragazzi che ogni giorno frequentano l’oratorio salesiano
nella città siriana. Don Pier
Jabloyan, salesiano di Aleppo,
in Italia per qualche tempo, il
21 novembre ha trascorso la
giornata all’Istituto Agnelli di
Torino, per raccontare i dolori e le speranze della sua terra, il senso dell’opera di don
Bosco sotto le bombe. Lo abbiamo intervistato.
Com’è oggi la situazione
ad Aleppo?
È una situazione complessa,
non si può liquidare la guerra in Siria in due parole. Non
è una guerra di religione tra
sciiti e sunniti, anche se la
religione c’entra, non è una
guerra per motivi economici,
ma i motivi economici c’entrano, non è per il controllo
geopolitico, ma anche per
quello, secondo me, per capire la guerra sirana si deve
tenere conto di tutto questo... è una guerra mondiale,
che si svolge in un paese che
era bellissimo e che per me
ancora lo è.
Un paese che oggi vediamo allo stremo, ma che
non era povero.
Aleppo era una città industriale con più di 4 mila
fabbriche. Si diceva che ad
Aleppo puoi fabbricare tutto:
dai bottoni della camicia a
quelli dei computer; stavamo
bene... poi è arrivata la «primavera araba» e giorno dopo
giorno è sempre più inverno.
Aleppo aveva quattro milioni
e mezzo di abitanti e ora il
45% della città è distrutto.
E la gente?
Le persone scappano, noi
cerchiamo di dare una mano
a chi resta, ma è difficile. Per
chi è qui è scontato infilare
il caricabatterie del cellulare
in una presa e trovare corrente o aprire un rubinetto
e vedere scorrere l’acqua. Ad
Aleppo non è così: ci sono
le persone agli angoli delle
strade con dei generatori
che vendono per due euro la
settimana uno o due ampère
che servono per una o due
lampadine al massimo. L’acqua manca e la gente ricorre
a dei pozzi che non sono
sempre potabili, ma se uno ci
pensa è disumano che ci sia
qualcuno che chiude apposta l’erogazione dell’acqua a
migliaia di persone. Per non
parlare del gasolio, indispensabile per scaldarsi, che
ha raggiunto prezzi assurdi.
Mancanza di acqua, di luce e
di gas sono comunque ancora sopportabili con soluzioni
di fortuna, ma non la mancanza di sicurezza, è questo
che induce a scappare, perchè sai che nessun luogo è
sicuro. Milioni sono i rifugiati
e non bisogna cadere nell’errore di pensare che siano
‘turisti’, persone uscite dal
paese con leggerezza, sono
uomini e donne che non ce
la facevano più.
Restano ancora a fare
le spese dell’insicurezza
centinaia di persone,
adulti e bambini.
Abbiamo avuto dei ragazzi
feriti, altri sono morti, alla
fermata dell’autobus, in casa,
mentre camminavano per
strada. Venerdì un colpo di
mortaio ha raggiunto il giardino del nostro oratorio e
per fortuna anche questa volta il Signore ci ha protetto e
nessuno è stato colpito. Suor
Arcangela delle suore di San
Giuseppe dell’Apparizione,
infermiera in ospedale ogni
giorno accoglie bambini e
adulti feriti da colpi di mortaio che cadono a tutte le ore
e anche lei resta non per eroismo, ma per stare con chi
non può partire, per testimoniare la fiducia in una pace
che si attende nel dolore, ma
che si continua a sperare.
Speranza, parola che
contrasta con immagini
di morte e desolazione:
palazzi sventrati dove
restano a provocare lo
sguardo di chi li osserva
segni di una vita che lì
non può più continuare.
Armadi aperti, cassettiere che spuntano intatti
tra le macerie di case
senza più pareti nè tetti...
segni di una normalità
interrotta che proprio
nell’oratorio salesiano ai
L’Estate
ragazzi
all’oratorio
salesiano
di Aleppo
A sinistra,
don Pier
Jabloyan
confini con Aleppo Est, si
cerca di mantenere.
Abbiamo 900 ragazzi e la
nostra sfida con loro è essere
un oratorio salesiano come
quelli sparsi in ogni parte del
mondo per dare loro ancora
fiducia e speranza. Cerchiamo di fare con loro le cose
«normali»: quest’anno abbiamo anche noi parlato della
Misericordia, nonostante la
fatica di viverla in un contesto come quello della guerra.
Abbiamo mandato 5 giovani
alla Giornata mondiale della
gioventù e ne abbiamo organizzata insieme alle chiese locali una giornata per sentirci
«Era una città industriale
adesso è distrutta. In oratorio
regaliamo momenti di serenità»
comunque vicini al Papa che
ricorda spesso l’amata Siria.
Abbiamo fatto l’estate ragazzi
e i campi scuola portando i
ragazzi in una zona della Siria
più tranquilla, affrontando 9
ore di viaggio, proprio nei
giorni in cui Aleppo è stata
sotto assedio e per i ragazzi il ritorno nella loro città
ancora più distrutta è stato
davvero terribile. Cerchiamo
ogni giorno qualche pretesto
per fare un po’ di festa: un
compleanno, un bel voto a
scuola... qualunque cosa per
evitare lo scoraggiamento,
per mantenere vivo il cuore
dei ragazzi. Hanno bisogno
di fare festa perchè ormai
pensano che tutto il mondo è
contro di loro.
I Salesiani di Aleppo aiutano i ragazzi, sostengono anche le famiglie con
pacchi viveri, dando la
possibilità di pagare un
po’ di gasolio o di luce.
Piccole cose unite allo sforzo
di annunciare il Vangelo che
anche nel nostro contesto ci
dice di non rispondere con
odio e violenza. Abbiamo celebrato la Solennità di Cristo Re
dell’Universo e la tentazione
di invocare un Dio ‘forte’ capace di spazzare via tutto, l’abbiamo sperimentata... in realtà
Aleppo ci insegna invece ogni
giorno il senso dell’essere
cristiani, di essere testimoni
di un Dio che ha espresso la
sua potenza sulla croce. Crediamo e speriamo nella pace
per la nostra Aleppo, una
pace possibile anche grazie
alle preghiere che chiediamo a quanti seguono le nostre vicende. Da fuori non c’è
nulla che si può fare se non la
preghiera in cui noi crediamo
e per questo viviamo nella sofferenza e nella guerra, ma già
pensiamo ad un futuro in cui
tutto questo sarà finito.
Federica BELLO
[email protected]
ANALISI – L’ALLARME ONU: «ALEPPO EST POTREBBE ESSERE RASA AL SUOLO ENTRO NATALE». MOSCA E DAMASCO COLPISCONO OSPEDALI, CASE E SCUOLE. CONTINUA L’OF
In Siria i russi applicano il “modello Grozn
Le foto di Aleppo vista dall’alto sono
impietose. Il conflitto ha tagliato in due
la città: da una parte la vita, dall’altra
la morte, il terrore, i bombardamenti
sempre più pesanti e devastanti. Aleppo ovest sopravvive, quasi incredula,
mentre Aleppo est muore ogni giorno.
De Mistura, l’instancabile mediatore
dell’Onu, va più in là: «Quando noi
celebreremo il Natale, Aleppo est potrebbe essere completamente rasa al
suolo».
Come Hama, la città siriana parzialmente distrutta dall’esercito di Hafez
al Assad, padre di Bashar, 34 anni fa,
con oltre 40 mila vittime, per stroncare la rivolta dei Fratelli musulmani o
come Grozny, la capitale della Cecenia, interamente distrutta dai caccia e
dall’artiglieria di Putin per eliminare
miliziani indipendentisti e terroristi
islamici (l’Onu definì Grozny la città
più distrutta del mondo).
Ad Aleppo sarebbe in corso una sorta di
“cecenizzazione” del conflitto e per capire la tragedia aleppina si può risalire alla
carneficina di Grozny nel corso della seconda guerra cecena (1999-2000). Russi
e siriani stanno compiendo ad Aleppo le
stesse atrocità eseguite nella capitale cecena pur di eliminare la presenza dei ri-
Aleppo est
distrutta
da cinque anni
di guerra
belli asserragliati nei quartieri orientali.
Sullo stile di Grozny, Mosca e Damasco
attaccano in modo indiscriminato ospedali, ambulanze, scuole, case, condotte
idriche, magazzini di prodotti alimenta-
ri. I pochi medici rimasti camminano tra
le macerie delle strutture sanitarie mentre oltre 250 mila civili vivono da mesi
sotto le bombe, intrappolati nei rifugi o
nelle cantine.
A ovest un’altra vita, i rioni sono controllati dalle truppe del regime, c’è più
sicurezza e ‘normalità’ anche se i razzi
e i missili lanciati dagli insorti contro i
soldati di Assad piovono talvolta anche
in questo settore della città, dove vive
la maggioranza della popolazione, ma
qui almeno non mancano acqua, luce
e cibo, i negozi e le scuole sono aperti e
i trasporti pubblici funzionano.
A Mosul, invece, si stringe il cerchio e
anche qui, come ad Aleppo, si combatte nel settore est della città irachena,
dove la resistenza dei jihadisti è più forte del previsto e si avanza con l’incubo
di autobombe e kamikaze, sotto il tiro
incessante dei cecchini, mentre intere
famiglie cercano di fuggire dal fronte orientale. Tra gli eserciti assedianti risuona forte la voce dei curdi, dei
peshmerga che stanno dissanguando per
liberare la città e i villaggi della Piana
di Ninive dagli uomini neri del Califfo.
Combattenti fieri e tenaci, sognatori
dalle grandi ambizioni, traditi dai potenti, con un passato non privo di nefandezze, ma oggi comunque liberatori
dei cristiani dalla ferocia dei tagliagole
dell’Isis, i curdi annunciano ai grandi
del pianeta che non si ritireranno mai
dalle terre intorno a Mosul che stanno
sottraendo al cosiddetto Stato islamico:
«Vogliamo un Kurdistan multietnico e
multireligioso, dove il Mullah chiama
alla preghiera, dove risuonano le campane nelle chiese e gli Yazidi celebrano
i riti nei loro templi».
Il tono di Masud Barzani, presidente
del Kurdistan iracheno, è rassicurante
ma da Hassakè (Diocesi di Raqqa), città
nel nord-est siriano, l’arcivescovo sirocattolico Jacques Hindo denuncia l’occupazione di terre e case dei cristiani
proprio da parte dei curdi e l’aumento
di violenze e discriminazioni verso le
minoranze. I curdi, pur divisi tra loro
in partiti e milizie, non rinunceranno al
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DOMENICA, 27 NOVEMBRE 2016
AFGHANISTAN – DA UFFICIALE DELL’ESERCITO A UOMO DI PACE: I PERICOLI DEL FONDAMENTALISMO
CINQUE ANNI SOTTO LE BOMBE
In fuga da Kabul:
la storia di Farhad
La Cittadella lesionata
il minareto distrutto
C’è la mitica Cittadella, seriamente
danneggiata dai bombardamenti ma ancora
in piedi, c’è la famosa moschea omayyade,
lesionata dal conflitto, non c’è più il suo
minareto (XI secolo) distrutto nell’aprile 2013.
Anche il suq, il mercato cittadino, è stato
bersagliato più volte dalle cannonate.
Sono i monumenti più importanti di Aleppo,
una delle città più antiche
del mondo, sempre aperta
nella sua lunga storia alle fedi
religiose e alle etnie più diverse,
dove Oriente e Occidente si
incontravano e convivevano.
Patrimonio dell’Umanità
dell’Unesco, luogo simbolo
della guerra civile siriana che
infuria dal 2011 e che ha colpito gravemente
un patrimonio archeologico millenario.
Fortezza e residenza di sultani e governatori,
la vecchia Cittadella, adagiata sulla
collina, è una delle opere più significative
dell’architettura militare islamica del
Medioevo. Al suo interno conteneva il
palazzo del sovrano, una prigione, una
caserma, alcune moschee, suq e hammam,
cisterne per l’acqua e magazzini per cereali
e prodotti agricoli, tutto protetto da torri,
fossati e cinte murarie. Devastata da mongoli
e terremoti, ricostruita dai Mamelucchi, la
Cittadella araba cadde nelle mani dei sultani
ottomani nel 1516 e fece parte dell’Impero
della Mezzaluna fino alla Prima guerra
mondiale. Divenne poi la sede del comando
generale dei francesi che in base all’accordo
Sykes-Picot occuparono la Siria.
F.R.
LE. CONTINUA L’OFFENSIVA SU MOSUL
Grozny”
sogno dell’indipendenza del Kurdistan.
La fine dello Stato iracheno dà ossigeno alle rivendicazioni curde. I turchi, a
pochi chilometri da loro, sono avvisati,
come gli iracheni e
gli iraniani.
Da Baghdad il vescovo Louis Rapahael Sako, patriarca dei caldei cattolici d’Iraq, accusa il
governo sciita di Al
Abadi, filo iraniano, di islamizzare
radicalmente il Paese e cancellare la
presenza cristiana.
C’erano 50 mila
cristiani a Mosul, ma pochissimi torneranno dopo la sconfitta dell’Isis. Dopo
le battaglie di Mosul e Raqqa, il Vicino
Oriente si troverà nella stessa situazione di cent’anni fa. Bisognerà tracciare
le nuove frontiere e disegnare un’altra
regione.
L’arcivescovo
siro-cattolico Hindo:
in Iraq i curdi occupano
le terre dei cristiani
Filippo RE
«Sono nato a Kabul, sotto il
terrore talebano. A sei anni
sapevo montare un kalashnikov, a nove salivo armato
sul tetto per difendere la
mia casa. Violenza e paura,
il mio pane quotidiano: ho
visto donne lapidate, mani
e teste mozzate, cadaveri abbandonati per le strade della
città senza pietà. Sono nato
in guerra, ho visto l’islam
radicale in azione, ho conosciuto le contraddizioni dei
fondamentalisti e ho scelto la
pace».
Farhad Bitani, afghano, classe
1986, figlio di una ricca e potente famiglia di mujaheddin
- suo padre era uno degli uomini più fidati del presidente
Karzai - vive gli anni della sua
infanzia nel terrore della Kabul talebana, insieme ai suoi
quattro fratelli e alle due sorelle, andate spose giovanissime. Esule in Iran, torna in
Afghanistan nel 2001, perché
suo padre è chiamato a combattere a fianco dell’Alleanza del Nord contro il mullah
Omar. La vittoria dei mujaheddin spinge la sua famiglia verso i più alti gradi del potere
e della ricchezza, ma cresce
anche il rischio di attentati.
Il presidente Karzai decide
di inviare il generale Bitani
a Roma, il giovane Farhad si
iscrive all’Accademia militare
di Modena e poi alla scuola
di applicazione militare di
Torino.
Sopravvissuto a un attentato
nel 2011, Farhad oggi vive
e lavora sotto la Mole come
mediatore culturale, ma progetta di tornare un giorno in
Afghanistan. Intanto l’ex ufficiale dell’esercito afghano
ha raccontato la sua storia dalla guerra alla pace, dalle
bombe agli incontri con gli
studenti nelle scuole italiane
- nel libro «L’ultimo lenzuolo
bianco» (Ed. Guaraldi), diventato un caso editoriale. In
Afghanistan, è stato accusato
di apostasia per aver denunciato le atrocità del fondamentalismo. Lo abbiamo incontrato al Sermig, martedì
22 novembre, ospite dell’Università del dialogo per una
lezione su «Cambiare… è
possibile». In sala tanti ragazzi, nella migliore tradizione
dell’Arsenale, ognuno con
una domanda per Farhad
che ha avuto il coraggio di
cambiare vita: l’ex militare ha
rinnegato scelte radicali per
andare in missione al servizio
della verità.
Farhad, cosa vuol dire
crescere nella Kabul
talebana?
Tutti i bambini nascono con
un piccolo cuore «bianco».
Io però sono nato nel Paese e
nel momento sbagliato: l’Afghanistan del 1986. L’anno
segnava l’inizio di una guerra
civile molto più dura di quella che sta insanguinando oggi
la Siria. E il mio cuore, piano
piano, è diventato «nero».
Come tutti gli afghani, sono
stato anch’io un fondamenta-
Figlio di una
ricca e potente
famiglia di
mujaheddin,
ha visto l’orrore
talebano
lista. Testimone, e con me 30
milioni di afghani, di violenze
e ingiustizie atroci. Non provavo vergogna o pietà, due
sentimenti che allora non conoscevo. Quando mio padre
era prigioniero a Kandahar,
di nascosto da mia madre andavo allo stadio ad assistere
alle esecuzioni capitali. «Chi
partecipa a una lapidazione,
sconta parte dei suoi peccati», mi aveva insegnato il mullah nella scuola coranica. Ma
quando ho visto un marito
accompagnare alla morte la
moglie, ricoperta fino ai piedi dal burqa, con le sue due
bambine per mano, ho giurato a me stesso che non sarei
più tornato. Nelle orecchie,
le voci disperate della madre
e delle figlie. Nella testa, una
sola domanda: «Cosa avrei
fatto se quella donna fosse
stata mia madre?». Le grida e
le lacrime di quelle bambine
non le ho mai dimenticate.
In quel momento, nel mio
cuore, è tornato a splendere
un piccolo punto bianco.
La svolta nel 1999,
quando si rifugia con la
sua famiglia in Iran. Cosa
è cambiato?
Stavo crescendo e cominciavo a capire molte di quelle
contraddizioni del potere
che avrebbero poi portato a
una svolta. Sono cresciuto tra
i fondamentalisti e posso dire
che in pubblico predicano l’islam radicale, ma nel privato,
spesso, si comportano diversamente. Vivono nell’oro e
non seguono i precetti morali. Le regole valgono solo per
il popolo. Quali sono le prime due cose che fanno i fondamentalisti quando pren-
dono il potere? Chiudono
le scuole e limitano la libertà
delle donne. Educazione e
libertà sono due pilastri fondamentali per una società. E
i talebani lo sapevano bene.
Da bambino ho imparato
il Corano a memoria: non
potevo leggerlo, perché era
scritto in arabo e io, come tutti i bambini, parlavo la lingua
pasthun. Mi hanno insegnato
che i cristiani erano degli infedeli; poi, in Italia, leggendo
il Corano, ho scoperto che
Gesù è riconosciuto come un
profeta. Stesso discorso per la
guerra, che ha insanguinato
il mio Paese: non è una guerra di religione, ma di interessi
economici e politici.
Una lunga guerra che ha
causato milioni di morti.
Come vede il futuro
dell’Afghanistan?
Voi occidentali avete ricoperto d’oro i fondamentalisti
islamici: prima i mujaheddin
contro i sovietici, poi i talebani che facevano il gioco
del Pakistan alleato degli
americani, poi di nuovo i
mujaheddin contro i talebani.
Gli americani e il resto del
mondo dal 2001 hanno riversato sull’Afghanistan quasi
130 miliardi di dollari di aiuti
militari e umanitari, ma alla
popolazione non è arrivato
quasi nulla. Per non parlare
degli interessi economici: dal
traffico di droga (che vale
70 miliardi di dollari) alla
vendita di armi, gas e petrolio. Il popolo afghano, dopo
35 anni di guerra, è stanco
e vuole la pace. Soprattutto
i giovani. Speriamo che si
possa costruire un futuro migliore. Per questo, oggi, con
la mia Fondazione mando
a Kabul medici, insegnanti,
professionisti: non soldi, che
finirebbero nelle tasche dei
potenti, ma testimoni di pace.
Ai bambini e ai ragazzi insegniamo che il mondo non è
un nemico, che non bisogna
avere paura dell’altro, che la
diversità è una ricchezza per
tutti. La mia storia lo dimostra: ho lanciato il jihad contro me stesso, ho fatto i conti
con l’estremismo e ho scelto
una strada nuova, il dialogo
e la pace. Piccoli, grandi gesti
individuali che possono cambiare la Storia.
Cristina MAURO
[email protected]