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16/12/2015
Recensione di Esuli – Le guerre: L’esodo forzato di milioni di rifugiati | Cinemamente
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Pubblicato il 14/12/2015 da Anna Pennella in News, Primo Piano, Recensioni
Recensione di Esuli – Le guerre: L’esodo forzato di milioni di rifugiati
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Esuli – Le Guerre, la recensione del secondo capitolo della trilogia di documentari per raccontare i rifugiati del Terzo Millennio di Barbara Cupisti
(Madri; Vietato sognare; Fratelli e Sorelle, storie di carcere; Interferenze Rom), presentati in anteprima mondiale alla prima edizione del Festival
Internazionale del Documentario Visioni dal Mondo – Immagini dalla Realtà, tenutosi a Milano dall’11 al 13 dicembre 2015. La trilogia è divisa in tre
documentari, Esuli Le Guerre, Esuli – Tibet ed Esuli – L’ambiente, tutti e tre prodotti da Clipper Media e da Rai Cinema. Ogni documentario, della
durata di poco più di un’ora, indaga sulle ragioni dell’esilio di milioni persone, sulle condizioni che hanno lasciato queste persone prima di essere umiliate,
e sulle condizioni in cui si trovano attualmente, spesso vivendo in dei campi per rifugiati pericolosi, sprovvisti per anni degli strumenti di base per condurre
una vita normale, rimanendo nella costante speranza di poter, un giorno, far ritorno in patria.
Esuli Le Guerre
Il primo documentario si apre con un montaggio in cui si alterano scene della nascita di un bambino in ospedale a quelle dell’entrata nel mondo del campo
profughi più grande di oggi gestito da UNHCR: Dadaab, sito in Kenya ma distante soli 80 km circa dalla Somalia. Il campo ospita circa 480.000 persone
di cui più della metà sono bambini. Bambini a cui mancano il latte, i giocattoli, e a cui viene negata perfino la cittadinanza a una qualsiasi terra. Bambini
che hanno solo un certificato di nascita come prova della loro esistenza, ma che tuttavia rimangono pur sempre profughi del mondo. Da quando la guerra è
scoppiata nel 1990, sempre più persone della Somalia si sono rifugiate a Dadaab, alcune ci sono nate, altre sono lì da più di vent’anni perché la guerra in
Somalia è ancora in corso. Le immagini proseguono con camera a mano su questo ecosistema arido e sterile, dove sorgono sterminate tende firmate
UNHCR: sono le case di queste persone che sono dovute fuggire da casa per la guerra e a cui non hanno fatto ancora ritorno. La telecamera passa sui visi
di bambini denutriti, di mamme dai volti stanchi per non essere in grado di poter prevedere a una normale sussistenza per i loro figli, di padri che aiutano
l’organizzazione di questo immenso accampamento.
Nessuno di loro può uscire da là: la legge vieta agli abitanti perfino di abbeverarsi in un lago vicino, dove vanno tutti gli animali che si sono abituati a
vivere in terre così restie. La repubblica del Kenya ha rilasciato un tesserino ai profughi per confinarli unicamente nel campo. Senza di quello, i rifugiati
non avrebbero diritto nemmeno alla misera razione di cibo che viene somministrata a tutti quanti. Uno dei talking heads intervistati, afferma tuttavia che si
tratta dell’unico documento per potersi proteggere dai pirati notturni. La sicurezza infatti, è un problema così insormontabile da aver allontanato anche gli
aiuti umanitari dell’Onu e delle organizzazioni internazionali. Dopo quel famoso episodio nel quale vennero rapite due operatrici di Medici Senza
Frontiere da un gruppo di somali in Kenya, gli operatori hanno paura a farsi avanti.
Il campo è blindato da cancelli e da porte in acciaio dal quale è difficile vedere al di là, anzi è del tutto vietato da suv roboanti e persone armate di mitra
che si tengono vigili nella loro consueta tuta mimetica. Non lo fanno solo per controllare che nessuno si intrufoli clandestinamente, ma anche per intimorire
i rifugiati a non uscire da lì. Le persone non sorridono, sono in silenzio, consapevoli di aver impresso sulla fronte un’umiliazione pari solo a quella di
un’infanzia rubata. Il documentario passa poi dall’Africa alla Siria. E’ il 6 febbraio 2013 e una bambina sta cantando una canzone folkloristica quando una bomba caduta al
suolo la interrompe. Barbara Cupisti si sposta in un altro territorio di guerra, Aleppo. Anche in queste terre, da quando è iniziata la guerra civile nel 2011,
di speranze ce ne sono poche per i civili che sono stati costretti, almeno i sopravvissuti, a emigrare in Giordania o in Turchia, per chiedere il diritto d’asilo.
Alcune di queste persone si trovano a Zaatari, altre ad Akçakale (uno dei 15 campi per sfollati sito in Turchia). Nel 2012 c’erano più di 100.000 persone,
di cui la metà sempre bambini. Uno dei quadri più desolanti del mondo degli ultimi 18 anni.
Le immagini di panoramiche su Zaatari si alternano con ritratti intimi di famiglie che si raccontano, parlano con gli occhi preoccupati del viaggio
intrapreso per salvarsi. Ognuna di esse ringrazia Dio per essere ancora in vita, altri dicono che a volte avrebbero voluto morire ad Aleppo, perché la vita
nel campo ha tolto loro tutto: a chi il negozio, a chi l’università, a chi i parenti. Le inquadrature ricalcano uno stile televisivo fatto di molti primi piani
presi da angolature diverse di talking heads che forniscono dati sui campi, illustrano la vita che aspetta a chi va lì a rifugiarsi. Le persone intervistate sono
la forma più consistente del documentario, alcuni sono testimoni, altri sono esperti della Nazioni Unite, ma l’intervistatore non accenna mai a vedersi,
lasciando le persone libere di esprimersi. Come succede anche per l’ultimo territorio nel quale la regista ci vuole condurre: la Giordania dei
palestinesi, Wihdat. Dei palestinesi perché lo status di profughi per loro è diverso da quello di tutti gli altri profughi del mondo, è infatti uno status
ereditario. Ma anche perché dal 1948 il campo di Amman, forse il più vecchio campo profughi tra quelli menzionati sopra, conta oltre due milioni di
rifugiati palestinesi in Giordania.
L’ultima parte del documentario si concentra sull’uso di armi chimiche, utilizzate largamente – così come dichiarato dal segretario generale delle Nazioni
Unite Bah KiMoon in una conferenza tenutasi a New York il 16 settembre 2015 , nella zona di Ghūṭa a Damasco. L’episodio risale al 21 agosto 2013
ma ancora oggi il numero di vittime causato dall’attacco di armi con l’agente chimico sarin è indefinito, così come il responsabile.
Alla fine del 2012 in tutto il mondo vi erano 45,2 milioni di persone tra: rifugiati (15,4 milioni); sfollati interni (28,8 milioni); persone in attesa di una
risposta in merito alla loro domanda d’asilo (937.000); Il 46% di queste persone sono bambini e adolescenti al di sotto dei 18 anni d’età.
Anna Pennella
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Barbara Cupisti Esuli Le Guerre recensione
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