4. La stanza della domestica

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4. La stanza della domestica
americano o sudafricano della discriminazione contro i neri
sono un tropo ricorrente nella maggior parte delle narrazioni delle eritree. Attraverso queste immagini, esse danno
espressione al loro punto di vista sull’esperienza della discriminazione razziale, del servaggio e dell’apartheid che
hanno luogo, sebbene in forme differenti, nel colonialismo
italiano.
Nell’investigare gli intrecci tra razzismo ed eredità coloniale nei racconti delle intervistate, il lavoro domestico retribuito emerge come una di quelle situazioni in cui, dietro a
ciò che sembra essere la «normale» routine dal punto di vista
del gruppo dominante, le pratiche razziste hanno luogo quotidianamente. In tal senso per Philomena Essed secondo cui
«per mostrare il razzismo del sistema, dobbiamo analizzare
[anche] i significati ambigui, rendere manifeste le correnti
nascoste e in generale mettere in discussione ciò che sembra
normale e accettabile» (Essed, 1991, p. 10).
4. La stanza della domestica
Durante gli anni Sessanta e Settanta, la maggior parte
delle eritree erano assunte come domestiche nei quartieri più
esclusivi di Roma: nel centro storico o nelle aree periferiche
dei Parioli, dell’Eur, di Casal Palocco, per citarne alcune. La
struttura architettonica degli appartamenti in queste aree, e
ai Parioli in particolare, rifletteva una precisa concezione
della classe sociale. Queste famiglie dovevano avere del personale di servizio per le pulizie, per cucinare, servire a tavola
o prendersi cura dei bambini più piccoli3. Di conseguenza,
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Sulla relazione tra l’urbanistica per la classe alta urbanizzata e le condi-
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tutte le case erano fornite di una piccola ala per la servitù
che, secondo le prescrizioni borghesi, doveva minimizzare il
contatto tra la famiglia e chi lavora per loro. Il personale di
servizio, quindi, passava la giornata nelle aree meno confortevoli della casa: la cucina, un piccolo dormitorio e la lavanderia. Ancora oggi, la scarsità di spazio vitale e di spazio per
gli oggetti personali o per gli abiti è considerata uno degli
abusi più comuni a cui le lavoratrici domestiche sono esposte
(Wijers e Lin, 1997).
Quel che segue è la descrizione che Haddas fornisce della
sua camera da letto e del bagno che usava nella casa romana
in cui lavorava:
La mia camera era stretta come me, potevo entrare solo io, solo
io, pensa un po’. Perché era molto stretta, attaccata con la cucina.
SM: Aveva spazio per i vestiti, per le [sue] cose?
Sì, pochino. L’armadio piccolo, per me, questo c’era. Il bagno [facendo il gesto delle dimensioni:] piccolo così, rotondo così: entravo
con queste gambe lunghe e mi lavavo. La camera era stretta. Un
armadietto piccolo. La mia valigia la tenevo sull’armadio e basta.
Tanto non avevo molta roba né soldi per comprarla.
Haddas ricorda la stanza così piccola da permettere che
entrasse «solo il suo corpo». Piccolo era anche il bagno, così
piccolo che lei, una donna magra ma alta, trovava difficile
entrarvi. Infine, il fatto che dovesse collocare la propria valigia in cima all’armadio simboleggia come la scarsità di spazio
vitale in cui era costretta fosse in qualche modo connessa alla
mobilità propria della migrante, sempre pronta a spostarsi
verso altre destinazioni. Sottolinea anche il fatto che, per
zioni di lavoro delle lavoratrici domestiche si veda Gul Özyegin per il caso di
Istanbul (Özyegin, 2002).
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persone come Haddas, gli effetti personali fossero così pochi
da entrare addirittura in un armadio molto piccolo.
Luisa, arrivata a Roma nel 1978, ricorda la differenza che
esisteva tra l’abbondanza di spazio per la famiglia e le dimensioni della «stanza della servitù». Nelle sue parole, la segregazione dello spazio vitale delle lavoratrici, contrapposta
all’abbondanza dello spazio a disposizione dei membri della
famiglia, emerge come grande fonte di frustrazione:
[La cameretta] era due metri e mezzo, per un metro e ottanta circa. E in questa camera c’era un letto-armadio che dovevi tirarlo
per fare il letto. [...] E quante camere avevano gli altri? C’erano
proprio: lo studio, il salotto, il «doppio» soggiorno. [...] Poi c’era
la camera da letto della signora, la camera da letto del ragazzino,
lo studio suo… Tutte queste camere! […] [Però] i vestiti invernali,
i cappotti, venivano messi là dentro [nella cameretta]! Dico io, ci
sono tutte queste camere, appoggia un armadio da qualche [altra]
parte! No?!
Le descrizioni delle intervistate degli ambienti in cui abitavano richiamano ciò che Freud identifica come la differenza
tra heimlich e unheimlich, tra «accogliente» e «non accogliente»
(in Blunt e Dowlings, 2006, p. 26), nel senso che queste donne vivevano spesso per anni, se non per decenni, in piccoli
posti che esse chiamavano «casa» ma che non possedevano le
caratteristiche di ciò che dovrebbe essere tale.
Il confinamento era esteso a tutta l’attività di servizio che
aveva luogo nell’edificio. Ad esempio, queste palazzine avevano solitamente una scala secondaria che serviva l’ala di servizio degli appartamenti attraverso una piccola porta posta
vicino alla cucina e alla «stanza della servitù». Ancora Luisa
descrive la situazione:
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Si poteva entrare da due parti, perché c’era la scala di servizio che
era interna. C’erano tutte queste finestre che davano [su] – non era
proprio un cortile – un tipo di tubo su cui affacciavano tutti questi
bagni di servizio, le camere di servizio, gli sgabuzzini e l’ascensore
con la scala. Davano su questa cosa interna dove non entrava mai il
sole. Anche nella camera di servizio non entrava mai il sole.
In questa narrazione, la descrizione di questo piccolo cortile di servizio condensa l’esperienza della segregazione delle
lavoratrici domestiche: la difficoltà dell’usare le scale interne,
la mancanza di luce nel cortile e nelle stanze, nei bagni e negli sgabuzzini.
Certo, si potrebbe spiegare il confino vissuto dalle eritree
come derivante dall’organizzazione spaziale degli appartamenti, ossia come dovuto a condizionamenti esterni «inevitabili». In ogni caso, le intervistate sembrano usare tali descrizioni per caratterizzare la loro relazione con le famiglie per
cui lavoravano, per sottolinearne il carattere di sistemi di
controllo e sorveglianza razzializzati e di classe. Queste narrazioni si riferiscono a valori sociali e culturali che riproducono lo stesso sistema teso a separare «purezza» e «sporcizia»
tipico dei contesti coloniali. Là, infatti, per ridurre al minimo
il contatto tra famiglie europee e lavoratrici indigene, un
cordone sanitario relegava quest’ultima in specifici spazi
delle case coloniali. Le entrate dal retro, le sale, le stanze e le
scale erano dispositivi più o meno elaborati per rendere invisibile il personale di servizio e per proteggere le famiglie
bianche e i loro ospiti dalla prossimità sconveniente o indesiderata con la popolazione nativa. Si trattava di una delle questioni più discusse nelle città coloniali e negli spazi domestici
coloniali in cui la paura del contatto interraziale era esemplificata dall’idea diffusa che l’esser semplicemente toccati da
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«l’indigeno» potesse portare infezioni e contaminare il cibo
(Mills, 2005, p. 117). In altre parole, una forma di «abiezione» ereditata dalla mentalità coloniale trova la sua espressione contemporanea nelle norme dello spazio come sono state
descritte dalle intervistate. Ciò rende paradigmatica la posizione delle lavoratrici domestiche eritree riguardo ai principi
che regolano le società europee, dando voce a quei gruppi
sociali relegati nei lavori di più basso livello, esposti alla discriminazione al confino in luoghi nascosti.
5. Livree e grembiuli
Elisabeth O’Leary (1996) ha analizzato in modo attento la
rappresentazione del personale di servizio irlandese e afroamericano negli Stati Uniti del XIX secolo. Il suo studio inizia
con l’osservare i dipinti del periodo che raffigurano le famiglie
di classe alta nelle loro case monumentali. In questi dipinti, sostiene O’Leary, l’assenza o la presenza dei domestici è un segno significativo del loro ruolo non solo nel mantenimento
della casa – la servitù era indispensabile in case così grandi –
ma specialmente della loro funzione simbolica. Nel caso in cui
essa vi fosse rappresentata, era necessariamente rappresentata
in livrea. Essa simboleggiava fondamentalmente la trasformazione dei domestici in beni di lusso – oggetti di status con la
funzione principale di esprimere il potere e la posizione della
famiglia. In altre parole, i lavoratori erano sfoggiati nei dipinti
come «proprietà» che aumentavano lo stato sociale delle figure
principali. Al tempo stesso, poiché queste livree e grembiuli
sottolineavano lo status di queste famiglie, rimarcavano la posizione subordinata degli uomini e delle donne nere, immigrate e della classe lavoratrice.
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L’esempio degli Stati Uniti al tempo della schiavitù è solo
uno tra tanti4. L’obbligo per la servitù delle case di classe alta
di indossare la divisa era, ed è ancora, una pratica molto
diffusa nella maggior parte dei paesi. Queste non solo segnalano lo status della famiglia a chi non ne è membro, ma
amministrano anche la gerarchia interna tra i servitori a seconda del ruolo che svolgono all’interno della casa. Per queste ragioni, in Europa come nelle colonie, i cuochi, le bambinaie, coloro che si occupavano delle pulizie, gli attendenti, i
giardinieri o gli autisti indossavano abiti di fattezza e stile
differenti5. Le stesse persone, poi, potevano portare un abito
diverso a seconda del proposito e del contesto della mansione che stanno svolgendo.
Un esempio di ciò si trova nell’intervista con Haddas,
quando ricorda il suo primo lavoro in Italia:
[Per] quando sto con i bambini, mi hanno dato un grembiule
molto bello, celeste, che si abbottona tutto. Comunque io portavo
sempre un vestito bello. Loro ci tenevano proprio, sì. Quando
faccio la tavola […] a quell’ora avevo il grembiule bianco, davanti,
[mentre] il sotto rimaneva sempre azzurro.
Così, Haddas può portare due diversi set di abiti: il più
bello per quando è fuori casa, al fine di confermare lo status
della famiglia al mondo esterno; e la classica pettorina bianca legata alla vita quando serve a tavola. Nell’atteggiamento
di Haddas, ritroviamo inoltre un esempio di quello che Erving Goffman chiama «conversione», ossia quella situazione
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Per il contesto italiano, uno studio interessante sulla funzione simbolica
della servitù si trova nel saggio di Raffaella Sarti sul personale domestico
delle famiglie nobiliari a Bologna in età moderna (Sarti, 1999).
5
Per l’Indonesia si veda Elsbeth Locher-Scholten, cit., pp. 90-111.
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in cui «il detenuto cerca di comportarsi come il detenuto
perfetto [...] qualcuno il cui entusiasmo istituzionale è sempre a disposizione dei superiori» (Goffman, 1961, p. 63).
Haddas, infatti, sembra essere stata entusiasta nel soddisfare
le richieste relative al suo abbigliamento e sembra consapevole della funzione che le conferivano. Ciò va considerato
alla luce della gerarchia interna alla casa e, nello specifico,
della gerarchia stabilita tra Haddas e l’altra donna eritrea che
lavorava con lei e che era relegata, a differenza di Haddas, a
svolgere le mansioni più umili in cucina. In questo contesto,
Haddas tende a sottolineare come l’esperienza lavorativa le
avesse permesso di acquisire uno status più alto rispetto all’altra donna. Infine Haddas, assunta precedentemente come
operaia in una fabbrica di scarpe ad Asmara, vedeva probabilmente il proprio lavoro come bambinaia in una ricca famiglia
a Roma un segno di ascesa sociale.
Tuttavia, questa non è la reazione all’obbligo del grembiule avuta da tutte le donne eritree intervistate. Altre, provenienti probabilmente da classi sociali e background culturali diversi da quelli di Haddas, videro nel dress code la concretizzazione dell’ineguaglianza che vivevano in Italia. Mynia, ad esempio, arrivata a Roma nel 1975 per fuggire alla
persecuzione politica, trovava nell’obbligo di indossare
guanti bianchi per servire a tavola, una evidente discriminazione razziale:
[Dovevamo stare] con i guanti bianchi, specialmente quando si
serve a tavola. [...] [Ci] si metteva i guanti: questo è razzismo! Forse perché sono nera…
I guanti sono qui un segno di umiliazione, uno strumento
di controllo, per gestire e nascondere la pelle nera. Nella
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prescrizione di indossare i guanti al fine di coprire le mani –
nere – delle persone che servono il cibo, sembra operare la
contrapposizione tra femminilità pura e femminilità impura
analizzata nelle pagine precedenti. I corpi delle donne nere
sono ancora una volta superfici di «iscrizione» (Grosz, 1994),
che possono essere sezionate e disposte come se gli attributi
morali (buono/cattivo, pulito/sporco) potessero essere tradotti
in una serie di geometrie dell’apparenza corporea. Di conseguenza, l’obbligo a coprire parti del proprio corpo, come le
mani che servono il cibo, si riferisce alla necessità di evitare la
«contaminazione», nel senso discusso in riferimento alla teoria di Kristeva e Douglas.
In un brano dell’intervista con Zufan, troviamo illustrato il
modo in cui «strumenti» diversi – cappelli, grembiuli, nastri,
guanti di differenti colori e forme – venivano usati dai datori
italiani per «regolare» i corpi dei lavoratori domestici. Zufan
pone l’accento in particolare sul processo di «oggettivazione»,
insieme alla «mercificazione», che accompagna queste pratiche. Con le sue parole:
[Un giorno] «mi ha prestato». Sono andata lì, da questa sua amica
che mi ha preparato. [Indicando le parti del corpo:] il grembiule
prima, la camicia bianca, il grembiule bianco, un cappello qua,
quello bianco, qui i guanti. [...] Se fosse adesso io non ci andrei.
Sono venuta a casa tua e io non sono un «oggetto» che lo presti.
Però a quell’epoca non sapevo niente, avevo tanta paura e sono
andata.
Il fatto che si possa essere vestite come bambole, come un
pupazzo che può essere scambiato e «mandato» da qui a là, è
dovuto, per Zufan, alla mancanza di rispetto e di professionalità nella relazione di impiego. Le interviste con Zufan e
Mynia mostrano come la livrea non fosse intesa come una
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semplice protezione dalla polvere e dalla sporcizia, ma piuttosto come potente significante della loro inferiorità, separazione e devianza dalla norma «bianca». Infatti, come afferma
Nicole Constable (1997) per il caso delle domestiche filippine a Hong Kong, le lavoratrici vedono il dress code come uno
strumento nelle mani delle datrici di lavoro per amministrare, disciplinare e regolare il «pericolo» rappresentato da una
presenza fisica «indesiderata». Mentre nel caso delle filippine
a Taiwan il «pericolo» è costituito dalla minaccia sessuale, nel
caso delle eritree a Roma, il pericolo ha più a che vedere con
la paura del contatto interraziale e con lo stigma della «contaminazione» associato alla nerezza. Seguendo le riflessioni
di Nirmal Puwar (2004) si potrebbe dire che i corpi neri/migranti sono sempre categorizzati come «fuori posto» e per
questo devono essere regolamentati e disciplinati.
In conclusione, alcuni elementi fondamentali sembrano
stabilire una continuità tra i periodi coloniale e postcoloniale, e nel passaggio dalle «periferie» coloniali alla «metropoli». Ciò che emerge è la possibilità di una riedizione
nel presente delle forme di discriminazione e discorso razzista tipiche della schiavitù e dell’apartheid. Ciò emerge in
concomitanza della riproposizione di stereotipi degradanti
contro le persone nere che giocano un ruolo fondamentale
proprio nell’incontro fisico e incorporato tra lavoratrici
nere e italiane bianche.
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