Roma potenza marittima

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Roma potenza marittima
Civiltà del Mare
La Grande Storia della Marineria Italiana
A cura di
Francesco Malvasi
In collaborazione con
LEGA NAVALE ITALIANA
1897
CASA EDITRICE IN ROMA
Italia, 1861.
Franco Corbetta - Cartoteca della Società Geografica Italiana, Roma
Civiltà del Mare
La Grande Storia della Marineria Italiana
COMITATO SCIENTIFICO
GIOSUè ALLEGRINI
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Contrammiraglio (ris).
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Architetto. Ambientalista
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Storica.
Seconda Università degli Studi di Napoli
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Ammiraglio.
Già Vice Presidente Lega Navale Italiana
Prefazione e messaggio di apertura dell’Ammiraglio Giuseppe De Giorgi
Capo di Stato Maggiore della Marina Militare
Navi romane, particolare della Colonna Traiana - 113 d. C.
Roma, potenza marittima
Gabriella Amiotti
L’espansione di Roma nel Mediterraneo: il conflitto con Cartagine.
La rivalità fra Cartagine e Roma, dapprima alleate in funzione antigreca, ebbe origine quando, dopo la vittoria contro Pirro nel 275
a. C., Roma estese la sua influenza sulla Magna Grecia, quasi a contatto con la Sicilia.
Il settore occidentale del Mediterraneo era da secoli sotto il controllo punico e anche se Cartagine non aveva mai governato
completamente la Sicilia, vi aveva, comunque, esercitato la sua egemonia, tranne i brevi periodi in cui a Siracusa deteneva il potere
il tiranno Dionigi I (432-367 a. C.), che tentò di unire tutti i Greci di Occidente a difesa della propria civiltà contro “i barbari”
(Cartaginesi, Italici, Etruschi).
Nel 265 a. C. i mercenari campani di Messina, i Mamertini, temendo la vocazione espansionistica del nuovo tiranno di Siracusa,
Gerone II, fecero entrare i Cartaginesi per assicurarsi la loro protezione contro il comune e tradizionale nemico greco. I Mamertini,
tuttavia, in una situazione di grande confusione interna di Messina, forse per limitare i danni della presenza del presidio cartaginese
da loro stessi chiamato, richiesero l’aiuto romano (POLIBIO, Storie, I, 10, 1-2: “I Mamertini, in parte ricorrevano ai Cartaginesi e
mettevano se stessi e la rocca nelle loro mani, in parte mandavano ambasciatori ai Romani, chiedendo che li aiutassero, visto che
erano della stessa razza (ὀμοφύλοι)1.
L’intervento romano a favore dei Mamertini nel 264 a. C. rischiava di vanificare l’intesa diplomatica con Cartagine, sancita dai
trattati stipulati progressivamente nel 509 a. C., nel 348 a. C., nel 309 a. C, e da ultimo nel 274 a. C. che definivano le aree di
influenza nel Mediterraneo delle due superpotenze (BRIZZI, 2005, pp. 29-43).
A Roma, tuttavia, si temeva che se Cartagine avesse portato a compimento l’assoggettamento di tutta la Sicilia “sarebbe divenuta
un vicino troppo pericoloso e nella possibilità di minacciare ogni parte d’Italia (POLIBIO, Storie, 1, 10)”.
Da questa mentalità di tipo “difensivo” scaturì l’intervento da cui sarebbe derivato l’incipit per la conquista del Mediterraneo2.
è rilevante sottolineare che il senato dapprima non approvò l’iniziativa militare, ma su questa incertezza alla fine prevalse l’autorità
dei comizi, incitati dai consoli. Nell’intervento in Sicilia c’è da vedere, come si è detto, la volontà di agire in anticipo sull’avversario,
pur non avendo, al momento, la percezione delle dimensioni che il conflitto poteva assumere.
L’ampliamento dell’obiettivo dell’intervento romano dalla sicurezza dello Stretto al possesso della Sicilia, che implicava una guerra
di enorme portata con la più grande potenza navale del Mediterraneo occidentale, provocò, tuttavia, all’inizio, disorientamento e
difficoltà, ma nel 261 a. C. i Romani effettuarono, comunque, un altro passo verso il conflitto globale. Cartagine, anche se aveva
subito, inizialmente delle sconfitte, grazie al controllo assoluto del mare, poteva organizzare una guerra “di corsa” contro i litorali
d’Italia, che rischiava, però, di diventare estremamente rischiosa per la città punica, perché erano stabili le relazioni dei Romani
con i loro alleati nella penisola.
Il teatro del conflitto si spostò sul mare e Roma deliberò, allora, la costruzione della prima grande flotta da guerra e, nel giro di un
anno, furono pronte 100 quinqueremi e 20 triremi: “Per la prima volta i Romani si misero a costruire navi, cento quinqueremi e
venti triremi. Ma essendo i costruttori di navi del tutto inesperti nella fabbricazione di quinqueremi per il fatto che fino ad allora
nessuno aveva utilizzato tali navi, questo aspetto provocava loro notevoli difficoltà. Soprattutto da ciò si può comprendere il carattere
ambizioso e audace della condotta dei Romani che non avevano mai rivolto il loro pensiero al mare, ebbene, pensandovi, allora per
la prima volta vi si dedicarono con una tale audacia che, prima ancora di aver fatto esperienza in materia, si misero subito a
1
I Mamertini erano campani d’origine e, quindi, di ceppo osco e si ritenevano, perciò, affini ai Romani (PINZONE 1983, pp.89-137).
La bibliografia sulle guerre puniche è sterminata, ci limiteremo, perciò, a segnalare gli studi più recenti dove rintracciare, eventualmente, i riferimenti della bibliografia
precedente: LAZENBY, 1966; HEUSS, 1970; BAGNELL, 1999; ZIMMERMANN, 2005; LORETO, 2007.
2
combattere per mare con i Cartaginesi, che avevano ereditato dai loro antenati l’egemonia incontrastata sul mare (POLIBIO, Storie,
I, 20, 9-12)”3.
Il primo scontro navale nel 260 a. C. avvenne a Milazzo dove il console Gaio Duilio sconfisse i Cartaginesi, distruggendo un terzo
delle loro navi e catturando 7.000 prigionieri. Il combattimento non fu, in realtà, un combattimento navale in senso stretto, perché
i Romani escogitarono l’espediente dei corvi4, lunghe aste con le quali agganciavano le navi nemiche, creando delle passerelle che
trasformavano lo scontro in un duello corpo a corpo: “Osservando i corvi protesi sulla prua di ciascuna nave, per un po’ i Cartaginesi
restarono incerti, stupiti dal modo in cui gli attrezzi erano congegnati; tuttavia avendo una pessima opinione dei nemici, quelli che
navigavano davanti a tutti si gettarono audacemente all’attacco. Ma poiché ogni volta le navi che ingaggiavano lo scontro venivano
immobilizzate dai congegni e gli uomini saltavano subito dal corvo stesso e ingaggiavano lo scontro sui ponti delle navi, i Cartaginesi
in parte vennero trucidati, in parte si arresero, sbalorditi per quanto accadeva: la battaglia, infatti, diventava del tutto simile ai
combattimenti di terra (POLIBIO, Storie, 23, 5-6)”.
L’impressione fu straordinaria e Duilio ebbe l’onore di una colonna ornata di rostri nel foro (ILRP 319)5. Nonostante questo successo,
Roma non poteva ancora vantare una supremazia sul mare, perché il potere economico e militare di Cartagine era ancora molto
grande.
Si erano anche registrati due eventi bellici negativi ai danni di Roma: precedente alla vittoria di Milazzo nel 260 a.C. la cattura a
Lipari, con 17 navi, dell’altro console, Scipione Asina (POLIBIO, Storie, 21) e nel 259 a. C. la distruzione di un accampamento
romano nei pressi di Terme Imerese con la perdita di 4000 uomini (DIODORO XXIII, 9-14). Con uno sforzo economico e militare
Roma, tuttavia, nel 257 a. C. portò la flotta a 230 navi, mentre Cartagine si apprestava a metterne in mare 200, numero che probabilmente
corrispondeva al massimo della capacità dei suoi cantieri e della possibilità di arruolamento e di addestramento dei suoi equipaggi
(MONTEVECCHI, 1997, p. 470).
La flotta romana si concentrò a Messina da dove si diresse a sud a Ecnomo, nei pressi dell’attuale Licata, per imbarcare le truppe
di fanteria e dove avvenne lo scontro con i Cartaginesi. Non è chiaro dalle fonti, se fossero utilizzati ad Ecnomo i corvi o se la
veloce dinamica della battaglia può, invece, far pensare ad una concomitanza di speronamenti e di arrembaggi, condotti con navi
in formazione non serrata (MONTEVECCHI cit., p. 473)
In una battaglia che aveva visto impegnati circa 150.000 uomini e quasi 500 navi, Cartagine era stata sconfitta, la sua forza navale,
anche se non distrutta, era stata, comunque, dimezzata con la perdita, fra affondate e catturate, di oltre 90 navi e la rotta per l’Africa
era libera (POLIBIO, Storie, 26, 1-10).
I Romani riarmarono le navi catturate e ripararono quelle delle loro che erano state danneggiate, poi passarono il canale di Sicilia,
sbarcando al promontorio Ermeo (Capo Bon). Di lì procedettero verso sud, sbarcarono nei pressi dell’attuale Kebilia e, dopo un
iniziale successo, solo Attilio Regolo con 15.000 uomini e 40 navi rimase in Africa, mentre il resto delle forze romane fu richiamato
in patria dal senato. Regolo respinse le proposte di pace di Cartagine e nel 255 a. C. questo suo errore fu pagato con la distruzione
del suo esercito e la sua cattura, riscattata dalla fine eroica, probabilmente inventata dalla storiografia romana (POLIBIO, Storie, I, 29).
Una flotta romana, inviata in soccorso del resto dell’esercito, fu distrutta da una tempesta nei pressi di Camarina, dove perirono
60.000 uomini e si salvarono solo 80 navi (POLIBIO, Storie I, 37): “Attraversato lo stretto e avvicinatesi al territorio dei Camarinei,
incapparono in una tempesta così violenta e in una sciagura così grave che non si potrebbe descriverle in modo appropriato, data
l’eccezionalità dell’accaduto. Di 364 navi, infatti, avvenne che se ne salvassero solo 80 e che delle restanti, le une finissero sott’acqua,
3
Così narra POLIBIO, Storie, 21, 1-2: “Coloro che si curavano della costruzione della flotta erano, dunque, impegnati nella realizzazione delle navi, mentre quelli che avevano
raccolto gli equipaggi insegnavano loro, a terra, a manovrare i remi, in questo modo: fatti sedere gli uomini sui banchi sulla terra ferma nello stesso ordine in cui erano i banchi
sulle imbarcazioni vere e proprie e, posto nel mezzo di essi il capovoga, li abituavano a piegarsi tutti insieme all’indietro, richiamando a sé le braccia, e di nuovo a curvarsi in
avanti spingendole in fuori e a cominciare e smettere i movimenti ai comandi del capovoga”. La narrazione è parsa al limite del ridicolo al DE SANCTIS, III, 1967, p. 125 ma
può essere credibile se si pensa agli addestramenti nel canottaggio.
4
POLIBIO, Storie, 22, 2-10 dà una minuziosa descrizione. Sordi (1967, pp.260-268), tuttavia, ritiene che la descrizione polibiana conduca ad un “assurdo meccanico” e in base
anche al silenzio dell’elogio di Duilio (ILRP 319) attribuisce l’invenzione dei corvi come pontili di arrembaggio all’ammiraglio cartaginese, nell’intento di giustificare una
sconfitta altrimenti scandalosa con l’uso da parte romana di un’“arma segreta”.
5
ILRP = Inscriptiones Liberae Reipublicae, cioè le più antiche iscrizioni della Repubblica romana prima dell’avvento di Augusto.
6
Libia era nelle fonti che scrivevano in greco il nome dell’Africa, usato dalle fonti che scrivono in latino.
Rovine dell’antica città di Cartagine (collina della Byrsa)
le altre, fracassate dai flutti contro gli scogli e i promontori, riempissero la costa di corpi e di relitti del naufragio. Non è mai stato
dato di registrare una sciagura, che sia avvenuta in mare in un’unica occasione, più grave di questa. La causa di essa va attribuita
non tanto alla fortuna, quanto ai comandanti che non avevano dato ascolto ai piloti, i quali li avevano scongiurati di non navigare
lungo la costa esterna della Sicilia, quella rivolta verso il mare libico6, perché è piena di scogli e di difficile approdo”.
In definitiva, pur essendo stato raggiunto per Roma l’obiettivo impensato di sostenere un confronto sul mare con Cartagine, il
continuo allargamento della guerra dalla Sicilia all’Africa stessa, limitava i risultati conseguiti nei singoli combattimenti, a cui si
aggiungevano, come si è appena visto, i disastri provocati dalle tempeste: Nel 255 a. C. dopo dieci anni ed enormi esborsi economici,
apparve chiaro che il fine dello scontro non era rappresentato dal possesso della Sicilia, perché le risorse impiegate da entrambe le
parti richiedevano ormai una vittoria piena.
Nel 254 a. C. i Romani ricostruirono la flotta fino a 220 navi con le quali riuscirono sotto il comando di Aulo Atilio Calatino a far
capitolare Palermo, catturando 27.000 prigionieri (POLIBIO, Storie, I, 34).
La guerra si trascinò ancora con alterne vicende per anni, finché sotto la pressione degli alleati italici che subivano le devastazioni
cartaginesi lungo le loro coste, i Romani ricostruirono ancora una volta la loro flotta, ricorrendo a prestiti da privati: “L’impresa fu
essenzialmente una lotta per la vita. Nell’erario, infatti, non c’erano più risorse di quanto si erano proposti” (POLIBIO, Storie I, 59).
Nel 241 a. C. alle isole Egadi Gaio Lutazio Catulo con una flotta di 200 navi batté il comandante cartaginese Annone in uno scontro
in cui i Romani mostrarono un nuovo stile di combattimento: “I Romani, infatti, avevano cambiato il sistema di costruzione delle
loro navi e lasciato fuori tutto ciò che era pesante, ad eccezione dell’occorrente per la battaglia; gli equipaggi, ben addestrati, erano
loro di enorme utilità, e avevano come soldati di marina uomini scelti, i più duri ad arrendersi delle truppe di terra (POLIBIO I, 61, 3).
Cartagine fu costretta alla pace, sancita a queste condizioni: i Cartaginesi si ritirino da tutta la Sicilia e non facciano guerra a Gerone
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né impugnino le armi contro i Siracusani né contro gli alleati dei Siracusani. I Cartaginesi restituiscano ai Romani senza riscatto
tutti i prigionieri. I Cartaginesi versino ai Romani in vent’anni 2.200 talenti euboici d’argento (POLIBIO, Storie I, 61, 8-9).
Di lì a poco le condizioni furono inasprite, i Romani: “dimezzarono, infatti, il tempo a disposizione per pagare il tributo, cui
aggiunsero mille talenti, e imposero, inoltre, ai Cartaginesi di ritirarsi da tutte le isole che si trovano tra l’Italia e la Sicilia (POLIBIO,
Storie, I, 63, 3).
Questa pace non contiene clausole marittime relative all’interdizione o alla limitazione per la flotta cartaginese; comunque, dopo
la prima guerra punica, è Roma che è potenzialmente la forza navale più rilevante con una flotta di 220 quinqueremi cui si dovevano
aggiungere le navi leggere, mentre la dotazione di Cartagine comprendeva un centinaio di quinqueremi e una ventina di quadriremi
e di triremi (THIEL, 1946, pp. 347-348).
Si può affermare che con la conclusione della prima guerra punica si apre un nuovo periodo, quello del Mare nostrum, espressione,
comunque, che, come illustreremo, presso gli antichi non ebbe mai il significato che i moderni le attribuiscono.
Nel 218 a. C., allo scoppio della II guerra punica, Roma fu tentata di portare la guerra in Africa, ma abbandonò il progetto, perché
fu costretta a intervenire per bloccare l’offensiva terrestre di Annibale, che, superati i Pirenei e le Alpi, scese in Italia, dove si
svolsero le operazioni belliche.
Sebbene non ci fossero grandi scontri in mare, dove Roma potesse far valere la sua raggiunta superiorità navale, la flotta fu egualmente
impiegata per il trasporto delle truppe: il caso meglio conosciuto tramandato da LIVIO (Storie, XXVIII, 5) riguarda la flotta di Scipione
che comprendeva cinquanta navi da guerra, quinqueremi e quadriremi e quattrocento navi mercantili. La flotta, poi, assicurava la
sorveglianza delle coste contro possibili sorprese di squadre cartaginesi.
In effetti, anche se l’inferiorità navale di Cartagine era ormai scontata, fece, comunque, allarmare nel 210 a. C. la notizia che si
dirigeva verso la Sicilia una grande flotta cartaginese con l’intenzione di riconquistare l’isola: ma questa flotta non arrivò mai, per
la convincente ragione che non era mai esistita (LIVIO, Storie, XXXVII, 5; THIEL, 1946, p. 109).
A conclusione della II guerra punica, Roma, per avere il controllo completo del Mediterraneo occidentale, in ogni caso, pose fine
alla gloria navale di Cartagine, limitando la sua flotta ad una squadra di 10 triremi.
Roma, acquisito il dominio sul Mediterraneo occidentale, affrontò nuovamente e definitivamente Cartagine per eliminarne la
concorrenza commerciale e nel contempo per procurarsi nuovi territori. La III guerra punica combattuta completamente in Africa terminò
dopo tre anni (149-146 a. C.) di assedio con la capitolazione di Cartagine che con il suo territorio fu trasformata in colonia romana.
Annibale e Scipione - Heinrich Aldegrever - incisione, 1538
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Mitridate VI, re del Ponto - moneta - British Museum, Londra
La pirateria
Eliminata Cartagine come antagonista politico e commerciale, il pericolo che Roma dovette, già dopo la I guerra punica e,
successivamente, in più riprese, affrontare nel Mediterraneo, era rappresentato dalla pirateria.
Questa pratica costituiva un male “endemico” nel Mediterraneo (ROUGè 1975, p. 119) ed era già attiva in epoca micenea, come
testimonia nell’Odissea (IX vv. 252-255), la domanda di Polifemo ad Ulisse: “Straniero, chi sei? Andate in giro come commercianti
o rischiando la vita come pirati?”. La pirateria era esercitata sui litorali occidentali dell’Africa del Nord, sulla costa ligure, sul
litorale dalmata, sulla costa meridionale dell’Asia Minore, nelle isole dell’Egeo, a Creta, in Corsica e in Sardegna. Atene aveva
combattuto nell’ Egeo la pirateria nel corso del V sec. a. C. e nel III sec. a. C. la lotta era stata ripresa da Rodi e successivamente,
già dal II sec. a. C., da Roma7.
Vari gruppi operavano nel Tirreno (Etruschi, Sardi, Liguri) compresi tutti nel nome di Tirreni, mentre sulla costa Adriatica erano
attivi gli Illiri della Liburnia, dai quali i Romani adottarono, come diremo, la leggera e veloce nave, la Liburnia.
Né Tirreni, né Illiri eguagliarono, tuttavia, per grandezza, organizzazione e potenza distruttiva i pirati cilici che animarono l’ultimo
fosco atto della pirateria mediterranea. I pirati avevano il loro habitat ideale in Cilicia, regione nell’angolo sud est dell’Asia Minore,
con l’interno impervio a difesa di eventuali attacchi terrestri e con la costa, frastagliata di promontori a precipizio e fiordi, adatta
per assalti e per nascondigli.
A differenza della pirateria dei secoli precedenti, la pirateria cilicia non si limitava a saccheggiare le navi che transitavano davanti
alle loro coste, ma i pirati navigavano lungo tutti i litorali del Mediterraneo con le loro piccole e veloci imbarcazioni, a vela e a
remi: hemiolia e myoparones.
I pirati, inoltre, giocarono un ruolo politico importante quando si allearono contro Roma insieme a Mitridate VI, re del Ponto e a
Sertorio, fuoriuscito mariano, che aveva fondato in Andalusia un antistato (THIEL, cit. p. 269).
Il potere e l’audacia dei pirati li spinse ad azioni spericolate contro le coste italiane, dove si abbandonarono a saccheggi di villaggi
e al rapimento di uomini e donne, di rango elevato, con richieste di riscatto, che provocarono la reazione di Roma nel 102-100 a. C. con
la spedizione di M. Antonio e nel 78-74 a. C. di P. Servilio Isaurico (CASSIO DIONE XXXVI, 5). Questi interventi non furono,
tuttavia, sufficienti, perché, anzi proprio in quegli anni, i pirati riuscirono a dar vita ad una sorta di impero marittimo con buone
basi navali ben difese e con una flotta di più di mille unità, divise in squadre agli ordini di navarchi di valore.
Questa flotta divenne addirittura una vera flotta di guerra che comprendeva, oltre alle imbarcazioni leggere tradizionali, anche
grosse navi, triremi e diremi (APPIANO, Mitridatica, 52). Tra i personaggi illustri rapiti il più famoso fu certamente Caio Giulio
Cesare, la cui avventura ci è narrata da Plutarco nella Vita di Cesare, 1-2: “Cesare fu fatto prigioniero presso l’isola di Farmacussa8 dai
7
8
Cfr. ORMEROD, 1924 passim per i vari aspetti della pirateria del Mediterraneo antico.
Isola posta di fronte al promontorio Posidio, presso Mileto, oggi Farmakonisi.
Caio Giulio Cesare - Nicolas Coustou, 1696 circa - Louvre, Parigi
pirati che già a quei tempi dominavano il mare con grandi mezzi e
con un numero spropositato di imbarcazioni. Gli chiesero, innanzitutto,
di pagare un riscatto di venti talenti ed egli, deridendoli, quasi che non
sapessero chi avevano preso, promise che ne avrebbe pagati cinquanta;
poi mandò quelli che stavano con lui, chi in una città chi in un’altra,
a procurarsi il denaro e rimase con un amico e due servi tra quei
ferocissimi Cilici, comportandosi con tale altezzosità che ogni volta
che andava a riposare, mandava a ordinare loro di tacere. Per trentotto
giorni scherzò e si esercitò con loro in assoluta tranquillità, come se
quelli gli facessero non da custodi, ma da guardie del corpo; scriveva
poesie e discorsi e glieli faceva ascoltare e, se non glieli applaudivano,
li chiamava bruscamente illetterati e barbari e spesso, ridendo, minacciò
di impiccarli; anch’essi ne ridevano, attribuendo questa franchezza al
carattere semplice e incline allo scherzo. Ma quando giunse da Mileto
il prezzo del riscatto e lo versò e fu liberato, subito allestì delle navi
e dal porto di Mileto venne contro i pirati: li sorprese mentre ancora
erano all’ancora presso l’isola e ne catturò la maggior parte. Delle ricchezze fece bottino, gli uomini li mise in carcere a Pergamo
e andò direttamente dal governatore d’Asia, Iunco, in quanto a lui aspettava, in forza del suo ufficio, di punire i prigionieri: Ma
quello aveva messo l’occhio sulle ricchezze, che erano tante e diceva che avrebbe pensato ai prigionieri con calma; Cesare, allora,
lo lasciò perdere e tornò a Pergamo, dove, tratti fuori dal carcere i pirati, li crocefisse tutti, come aveva spesso loro predetto nell’isola
apparentemente scherzando”.
Nel 67 a. C., finalmente, Roma si decise a conferire un comando straordinario sul Mediterraneo fino a 50 miglia nell’entroterra a
Gn. Pompeo con la facoltà di scegliersi personalmente i suoi ufficiali e di allestire una flotta di 200 navi. Di fatto furono 500 le
navi che Pompeo equipaggiò alle sue condizioni, organizzando una flotta davvero imponente con la quale divise in 13 settori il
Mediterraneo, ciascuno con una propria flotta e un proprio comandante, permettendogli così di respingere i pirati nelle acque della
loro base principale di Coracesium in Cilicia e infliggere loro una terribile
disfatta nel 66 a. C.. Tutta la campagna era durata sei mesi dall’inverno
del 67 all’estate del 66 a. C. (PLUTARCO, Vita di Pompeo, 25-30).
La chiave del successo di Pompeo non fu la sua flotta, perché gli
ammiragli romani delle precedenti spedizioni avevano combattuto
con potenti navi, ma avevano fallito, piuttosto il grado e la perfezione
del suo progetto, perché la sua strategia non lasciava niente al caso e
abbracciava tutto il Mediterraneo.
Pompeo mentre estirpava la pirateria pose, inoltre, le basi per la rinascita
della flotta romana, fornendo lo schema della sua organizzazione.
Le squadre navali che aveva formato sarebbero state quelle destinate
a combattere nelle future guerre civili fino ad Azio e, alla loro
conclusione, avrebbero costituito il nucleo di una forza navale che
avrebbe trasformato il Mediterraneo in un “lago” romano (CASSON,
1976, p. 203).
Cesare e Pompeo - affresco di Taddeo di Bartolo, 1414
Palazzo Pubblico, Siena
Battaglia di Azio - Laureys a Castro, 1672 - National Maritime Museum, Greenwich (Londra)
Azio: ultimo atto
Nel I sec. a. C., nella Repubblica, lacerata da contrasti civili, il Mediterraneo fu teatro di un ultimo grande evento bellico sul mare
che vide contrapposti un cittadino romano, M. Antonio con la potente regina Cleopatra, discendente, in Egitto, della dinastia dei
Tolemei e Ottaviano, il figlio adottivo di C. Giulio Cesare, il futuro Augusto.
La battaglia navale ebbe luogo nel 31 a. C. presso Azio, piatto promontorio della Acarnania (in Epiro) e costituì l’epilogo non solo
dell’ultima guerra civile, ma anche dello scontro fra Oriente e Occidente, come emerge dai versi dell’Ode di Orazio (Odi I, 37) che
inneggia, dopo Azio, alla morte della fatale regina e alla vittoria della Respublica: “Ora si deve bere, battere il suolo senza ceppi ai
piedi; onorare gli dei con le vivande più sontuose: prima versare il cecubo degli avi fu sacrilegio, mentre la Regina tramava al
Campidoglio distruzioni e la morte all’impero”.
La ricostruzione della battaglia è problematica, perché non è stata tramandata in modo uniforme dalle fonti antiche (PLUTARCO,
Vita di Antonio, 68-72; CASSIO Dione, LI, 1-9; FLORO, II, 21) e ha, quindi, suggerito ipotesi interpretative differenti fra gli
studiosi moderni, fra i quali oggi prevale l’ipotesi del TARN (1931, pp. 173-199) secondo cui, dal momento che le forze navali dei
contendenti si equivalevano, la vittoria di Ottaviano fu dovuta più alla fuga di Cleopatra che all’abilità di Agrippa, il suo ammiraglio. Va rimarcato, comunque, l’impiego da parte di Ottaviano delle liburne, leggere e veloci rispetto alle imponenti, ingombranti
imbarcazioni di tipo ellenistico e di grande tonnellaggio, impiegate da M. Antonio e Cleopatra.
Per la seconda volta dopo la I guerra punica le sorti del mondo romano furono risolte sul mare e di ciò si ricordò nel suo programma
imperiale il futuro Augusto, quando organizzò il controllo del Mediterraneo, il “mare nostrum”.
Antonio e Cleopatra - Lawrence Alma-Tadema, 1885 - Collezione Privata
II Mare nostrum: da espressione geografica a concetto geopolitico nell’epoca della pax augustea
Mare nostrum era il nome del Mediterraneo nel mondo romano, di cui, come si è anticipato, è opportuno spiegare il significato,
richiamandone la genesi (AMIOTTI, 2008, pp. 28-31).
Il nome di Mediterraneo, oggi comunemente usato, è attestato per la prima volta ed ancora in forma aggettivale solo nel III sec. d. C.
da SOLINO III, 18; compare, invece, come nome proprio e con il significato attuale “in mezzo alle terre” in ISIDORO di Siviglia
(XIII, 16), che scrive nel VI sec. d. C.. Anche dopo questa epoca rimasero vitali le espressioni utilizzate nei secoli precedenti per
l’onomastica di questo mare nel lessico latino: “mare internum” con la variante di “mare intestinum” oltre a “nostrum mare” con
la variante “mare nostrum”, destinate ad avere fortuna anche in epoca medievale.
Per “mare nostrum” tutti conoscono la rivitalizzazione e l’impiego improprio che il regime fascista ne fece a fini propagandistici,
il secolo scorso.
Mussolini tenne delle conferenze di storia romana in molte università italiane: già nel discorso pronunciato a Trieste il 6 febbraio
1921 c’è un esplicito richiamo a Roma e al suo legame all’Europa e al Mediterraneo come “mare nostrum”. è destino che il
Mediterraneo torni nostro. è destino che Roma torni ad essere la città direttrice delle civiltà in tutto l’Occidente d’Europa (BIANCINI,
1940, p. 137). Nel ripercorrere la genesi dell’espressione “mare nostrum” è importante, innanzitutto, mettere in risalto che l’idea
sottesa alle espressioni latine “mare internum/mare intestinum” e “mare nostrum” trova perfetta corrispondenza nelle definizioni
greche: ἡ ἐντὸς θάλαττα, ἡ παρὰ ἡμῖν θάλαττα, ἡ κατὰ ἡμὰς θάλαττα.
La percezione unitaria del Mediterraneo e della sua individualità geografica, sconosciuta ad Omero ed Esiodo, si affermò solo
quando ne furono riconosciuti i contorni fino a Gibilterra, le mitiche Colonne d’Ercole: un risultato che si può datare tra la fine del
VII e l’inizio del VI a. C. e che è una conseguenza storica dei commerci e soprattutto della colonizzazione greca. Dal IV sec. a. C.
in avanti, quando la definitiva acquisizione scientifica della sfericità della terra stimolò il dibattito sulla pluralità dei mondi abitati,
espressioni come “il mare davanti a noi” o “il nostro mare” trascendono questa distinzione geografica e designano in una
prospettiva ellenocentrica “la nostra” ecumene rispetto ad altre possibili (PRONTERA, Periploi, 1992, p. 28). A questo proposito
è illuminante il celebre passo di Platone, Fedone 109, dove il filosofo, dopo aver affermato la sfericità della terra, sostiene che
“la terra è qualche cosa di molto grande per se stessa e noi dal Fasi9 alle Colonne d’Ercole abitiamo una piccola parte e abitiamo
intorno al nostro mare come formiche o rane attorno ad una palude”.
Il concetto di mare nostro, espresso dalle locuzioni greche, fa il suo ingresso nel mondo romano per la prima volta, in greco, con
POLIBIO III, 37: “Resta ora da guidare il lettore alla conoscenza dell’ecumene: Africa ed Asia considerati nel loro insieme
costituiscono la fascia meridionale del nostro mare da oriente a occidente”.
E, analogamente, ha una valenza geografica l’impiego dell’espressione del concetto di “mare nostrum” da parte di Giulio Cesare,
il primo in assoluto, per quanto ci è documentato dalle fonti, ad avere introdotto nella letteratura latina e soprattutto in lingua latina
l’espressione “nostrum mare”. Si tratta di un passo del De Bello Gallico V, 1 che riferisce un momento della campagna in Britannia
del 54 a. C. Cesare dà ordine di costruire delle navi nuove, fornendo forma e modello, che prevedevano una struttura “un po’ più
bassa” dice di quelle in uso nel nostro mare, perché aveva constatato, che per le frequenti mutazioni di maree le onde in quei paesi
sono meno grosse”.
Inequivocabilmente il mare nostro indica il Mediterraneo opposto all’Oceano, l’“altro mare” in cui Cesare si trovava per la seconda
campagna in Britannia. è probabile che sia stato proprio Cesare di cui è nota la cultura geografica, formata sull’autorità dei
Greci (CORDANO, 1992, p. 132), a modellare l’espressione “nostrum mare” sulle espressioni greche corrispondenti.
Dopo Cesare l’utilizzo dell’espressione “mare nostrum” diventa frequente nella letteratura latina sia in quella storica, sia in
quella letteraria.
9
Odierno Rion, in Asia Minore, considerato nel mondo antico confine fra Asia ed Europa in alternativa con il più famoso Tanais, odierno Don.
Impero romano - mappa di Abraham Ortelius, Theatrum Orbis Terrarum, 1592 circa
Dall’esame delle fonti latine e da quelle greche che scrivono di storia romana, come Polibio e, come diremo, Strabone, non ci sono
assolutamente spunti che autorizzino la lettura del concetto di “mare nostrum” in termini di legittimazione dell’illimitato potere
dei Romani sul Mediterraneo, quando ne divennero di fatto i padroni assoluti (GRASSO, 1907, p. 1224).
Solo indirettamente si può constatare che “mare nostrum” ha anche una valenza politica.
La politica marittima di Roma era stata innegabilmente coronata dal successo: il Mediterraneo era diventato un mare interno romano
o addirittura si poteva definire “un porto romano” (CICERONE, Sulle Province consolari, 31). La fortunata conclusione delle
guerre contro Cartagine aveva reso definitivamente i Romani padroni del Mediterraneo (MOLLAT du JOURDIN, 1993, p. 44) e
Plinio il Vecchio IV, 97 dice espressamente che “Pompeo aveva restituito il potere del mare al popolo romano dopo aver sconfitto
i pirati”. CICERONE (ad Attico X, 8, 4) attesta che era ben chiaro “il principio che chi possedeva il potere del mare possedeva
il potere dell’impero romano”. Nonostante la coscienza del potere marittimo, non fu creata nessuna definizione politica in modo
esplicito: l’interpretazione di “mare nostrum” in senso esasperatamente politico non è che un’arbitraria risemantizzazione del termine.
“Mare nostrum” indica innanzitutto lo spazio geografico del Mediterraneo, ma, certamente, è anche il mare dell’“orbis terrarum”
(o con un’espressione analoga a “mare nostrum”, l’“orbis noster” e come tale appartiene all’impero romano (NICOLET,
1992, pp. 19-30).
A partire dal I sec. a. C., quindi, ancora prima che fosse istituzionalmente fondato l’impero, i Romani, ormai vittoriosi percepivano
l’“orbis terrarum” come “orbis romanus” e, perciò, parallelamente all’idea di “mare mostrum” si sviluppò il concetto di “orbis
noster”. Ad un’unità culturale del binomio ecumene ἡμετέρα Θάλαττα della visione ellenocentrica di Platone, corrisponde un’unità
geopolitica incentrata sul rapporto “orbis romanus”-“mare nostrum”.
A questo proposito è particolarmente significativo il passo di Strabone II, 18, geografo della prima età imperiale che scrive in greco,
95
ma con una mentalità fortemente plasmata sui valori e sui modelli culturali romani.
Dopo aver premesso metodologicamente “che spettano al dominio della ricerca geografica non solamente le forme e le dimensioni
delle regioni, ma anche le loro situazioni economiche, politiche e culturali”, Strabone aggiunge “da questo punto di vista il litorale
interno (mediterraneo, cioè), offre più varietà di quello esterno (quello atlantico). Lo spazio conosciuto, temperato, popolato da
città e da razze ben governate, è anche molto più importante da questa parte che dall’altra. Ora noi desideriamo conoscere paesi nei
quali la tradizione si è rivelata più ricca di avvenimenti importanti, in regimi politici, in conoscenze tecniche, in breve in tutto
ciò che costituisce la saggezza”. Il geografo sottolinea che “il nostro interesse si rivolge verso le regioni con cui abbiamo stabilito
relazioni e commerci, vale a dire verso tutti i luoghi abitati o piuttosto verso tutti i paesi felicemente abitati” e, infine, conclude:
“Da questo punto di vista il “nostro mare” possiede una grande superiorità ed è dunque seguendolo che inizieremo il giro del mondo”.
Le considerazioni di Strabone sulla superiorità del “mare nostro” testimonia che, grazie alla pax romana, il Mediterraneo rappresenta
pur in una visione romanocentrica e di adesione ideologica totale al programma augusteo, un forte elemento di unità europea, non
solo climatico, ma anche etico e politico.
Il mondo diviso in sette zone climatiche, secondo il geografo Strabone - Christoph Cellarius, 1706 circa
96
Il controllo del “Mare nostrum”
ll controllo del Mediterraneo, dopo Azio, fu il primo obiettivo di Augusto, il quale per conservare i suoi risultati istituì una grande
e ben organizzata flotta che nei secoli i suoi successori mantennero e anche migliorarono, così come furono potenziate durante
l’impero anche le infrastrutture collegate.
Prima di tutto, Augusto, seguendo l’esempio indicato, come si è detto, da Pompeo Magno nella sua campagna contro i pirati, divise
il mare Mediterraneo in settori e li destinò a due flotte maggiori e ad un numero di flotte minori. Le due flotte maggiori erano stanziate
a Miseno e a Ravenna (TACITO, Annali, 4,5): “Due flotte, l’una presso il capo Miseno, l’altra vicino a Ravenna, presidiavano
l’Italia nell’uno e nell’altro mare; accanto poi alle spiagge della Gallia stavano le navi rostrate che, catturate nella battaglia di Azio,
Augusto con un forte equipaggio aveva mandato al Foro Giulio”.
La base di Miseno era localizzata sul promontorio della Campania a sud di Cuma, che si diceva avesse ricevuto il nome dal compagno
di Enea, che qui era stato sepolto (VIRGILIO, Eneide 6, 634; STRABONE 5, 245).
Augusto vi stabilì un porto (portus Misenus), progettato dal suo ammiraglio Agrippa e che rappresentò la base per la flotta romana
del mar Tirreno (TACITO, Annali 4,5; 6,50; 15, 51). Il compito principale era certamente il controllo dei mari occidentali, ma in
realtà aveva la responsabilità generale su tutte le acque sia di occidente che di oriente.
La flotta consisteva in 50 navi dei tipi più grandi, per la maggior parte triremi, alcune quadriremi e quinqueremi, una nave ammiraglia
a sei remi e in aggiunta un considerevole numero di imbarcazioni più piccole. L’equipaggio constava in tutto di circa 10.000 uomini
con a capo un comandante, il prefetto della flotta di Miseno che divenne uno dei più importanti ufficiali governativi dell’impero
romano con un controllo su una vastissima area (PITASSI, 2009, pp. 203-204). Nel 79 d. C. fu prefetto della flotta di Miseno Plinio
il Vecchio, dopo essere stato ufficiale di cavalleria nell’esercito e procuratore nella Gallia Narbonense, in Africa, nella Spagna
Tarraconense, aver percorso, cioè, i vari gradi della carriera militare e amministrativa (PLINIO il Giovane, Epistole 6, 16).
Per l’altra importante base navale fu scelta Ravenna, antichissima città della Gallia Cispadana, a 5 km a sud dalla quale nel 27 a. C.
Augusto fece costruire un grande porto, dove
fu stanziata la flotta militare (Classis Ravennatis)
per il pattugliamento dell’Adriatico e del
Mediterraneo orientale. Il porto fu realizzato
in un’ampia baia nei pressi della foce del
Padenna. Fu scavato, inoltre, un ampio canale,
parallelo al fiume (Fossa augusta) in modo
da realizzare un collegamento fluviale con la
laguna veneta e di qui al sistema portuale di
Aquileia, percorrendo una navigazione
endolagunare e attraverso canali artificiali.
Fu, quindi, possibile navigare in modo diretto
dal porto di Ravenna (odierna Classe, frazione
della città), per 250 km fino ad Aquileia
(PLINIO, Storia Naturale III, 127).
Capo Miseno - grotta-ninfeo scavata dagli antichi
Romani sul lato rivolto verso il golfo di Pozzuoli
97
Impero romano - principali porti militari e flotte nei primi due secoli
La flotta di stanza a Ravenna, composta essenzialmente da triremi, era meno importante di quella di Miseno, così come era inferiore
il suo prefetto (PITASSI cit, pp. 208-210).
Oltre a queste due basi principali, altre ne furono istituite sul mare e sui grandi fiumi di confine che non solo facevano parte del
sistema generale di difesa, ma servivano pure per il trasporto delle milizie e per la sicurezza della navigazione commerciale.
I Porti e il personale portuale
I grandi porti erano completamente o in parte dei porti artificiali, la cui costruzione corrispondeva in qualche misura alla descrizione
data da Vitruvio, De Architectura V, 12; alcuni di questi porti si inserivano in un ambiente naturale favorevole, altri, invece, erano
costruiti completamente ex novo. Si poteva trattare di porti a bacino multiplo oppure a bacino unico e potevano utilizzare l’imboccatura
di un fiume o essere ubicati direttamente sulla costa (REDDÉ, 1986, pp. 145-153).
Nel Mediterraneo il grande e famoso porto di Alessandria, rimase invariato dall’epoca ellenistica e continuava ad adempiere al
ruolo di “ridistribuzione” nell’area mediterranea dei prodotti d’Oriente, Arabia, Etiopia, che giungevano attraverso le vie carovaniere,
il Mar Rosso, nonché porto di importazione dei prodotti di cui aveva bisogno l’Egitto, come vino e olio (DE SALVO, 1992, p. 41).
Nella penisola italiana il grande traffico commerciale fu smaltito dal porto di Pozzuoli fino al I sec. d. C.. La città aveva, infatti, un
bel porto naturale in grado di accogliere grandi navi. Il porto più vicino a Roma era, invece, il porto di Ostia che la tradizione faceva
risalire al terzo re di Roma Anco Marzio, ma che in realtà era stato fondato tra il IV e il III secolo a. C., alla foce del Tevere non
come un porto, ma come colonia marittima a difesa del Tevere contro un eventuale nemico esterno. Il porto di Ostia era una rada
aperta, ostruita sovente dal limo trasportato dal fiume. Tutti i carichi diretti a Ostia-Roma dovevano essere trasferiti su navi più
piccole per risalire la costa, con conseguenti ritardi e, quindi, esborsi supplementari di danaro, per cui già all’epoca di Giulio Cesare
e poi nell’età di Augusto, si pensò di potenziare il porto fluviale, costruendo ex novo il porto di Ostia, nelle zone paludose a nord
del Tevere che fu realizzato da Claudio nel 42 a .C.. L’originario porto edificato sotto Claudio era di forma circolare, del diametro
di 130 acri (un chilometro) e comprendeva ad ovest un promontorio artificiale con un molo di 580 metri che chiudeva il porto
fronteggiando un altro molo pure di 580 metri ad est. Il canale d’entrata fra i due moli era diviso in due braccia da un’isola artificiale,
costruita con materiale di riporto e che, per ordine dell’imperatore, aveva per fondamenta la grande nave che Caligola aveva fatto
costruire per portare a Roma l’obelisco, attualmente in Piazza San Pietro. Sull’isola fu installato un faro che si elevava su quattro
piattaforme degradanti ed era modellato sul faro di Alessandria. 98
Vitruvio presenta De Architettura ad Augusto - incisione di Sébastien Leclerc, 1684
Purtroppo questo bacino non riparava sufficientemente dalle tempeste, come dimostrò il naufragio di navi nel 62 a. C. che spinse
Traiano tra il 101 e il 104 a. C. a costruire un bacino più arretrato di forma esagonale di 712 m. di diametro in comunicazione con
il porto di Claudio, che fungeva ormai da avamporto. Tutto intorno ai bacini c’erano portici e cantieri di costruzione navale: grazie
a queste strutture Roma ebbe un suo grande porto che oscurò la fama del porto di Pozzuoli (ROUGÉ, 1975 p. 181).
Sia nelle strutture portuali che sulle imbarcazioni prestava la sua attività un numero rilevante di persone, la cui identità ci è nota
dai testi epigrafici e dai documenti giuridici.
Ad Ostia e in generale in tutti i porti fornivano la loro opera ad. es. i fabri navales, ovvero carpentieri e con loro altri operai che si
occupavano di costruzioni navali, cioè gli stuppatores, cioè i calafatari, i velarii, ovvero i fabbricanti di vele. In tutti i grandi porti
c’era una flottiglia di battelli, i cui marinai avevano il compito di rimorchiare le navi fino al loro punto di ancoraggio e di portarle
in mare aperto a prendere il vento, o, ancora, a trasbordare le merci, quando le navi dovevano restare all’ancora in mezzo al porto.
Tutti questi lavoratori erano denominati in relazione ai battelli che utilizzavano: scapharii, lyntrarii, lenucularii.
A questi vanno aggiunti i saccarii e i baiuli, che portavano le merci sulle spalle, i phalancarii che portavano in aiuto delle specie
di barelle, infine gli urinatores adibiti a recuperare sul fondo del porto gli oggetti caduti.
Oltre a a questi lavoratori manuali, nei porti prestavano il loro servizio gli addetti alle misurazioni delle merci, i mensores per i
cereali e i mensores machinarii per tutte le altre merci, affiancati dai tabularii che tenevano il conto esatto delle merci misurate.
Nei porti piccoli questi operai erano lavoratori a titolo individuale e non organizzato, mentre nei grandi porti essi facevano parte di
grosse imprese private dirette da un imprenditore libero, che aveva alle sue dipendenze personale formato da liberti oppure da
schiavi.
Nei porti esisteva una capitaneria che dipendeva dalla città e che tutelava l’ordine del porto, fissava i luoghi di ancoraggio, registrava
le uscite e le entrate. C’era, inoltre, un personale preposto a riscuotere le tasse portuali e doganali e in particolare, c’era il funzionario,
che a nome dello stato, riscuoteva i portoria, variabili secondo le ragioni dell’impero (ROUGÉ, 1975 pp. 190-192).
99
Il porto di Ostia antica, Segmento IV, 5 della Tabula Peutingeriana.
Copia medievale del XII-XIII secolo di un originale romano di epoca imperiale del III-IV secolo d. C.
Le navi e il personale delle navi
Le navi da guerra erano così suddivise: le naves longae, raramente chiamate militares, ploia makrà, erano lunghe, terminanti in
punta per potere navigare con maggiore facilità, erano dotate di un rostrum e per questo motivo erano chiamate anche naves
rostratae. Al tempo dell’impero, come si deduce dalle iscrizioni, non dovevano superare i sei ordini di remi (hexeres). Oltre a queste,
infatti, sono ricordate navi con cinque ordini (quinqueremes o penteres), con tre (triremies o trieres), con due (liburnae). Erano
mosse per lo più a remi, anche se talvolta si adoperavano le vele e ciascuna di loro aveva un suo nome: ad es. Ops era una
quinqueremes, di stanza a Miseno, menzionata da CIL VI 3163, Libertas una quadriremes, della flotta di Miseno citata in CIL
3598 etc.. Le naves actuariae erano navi leggere impiegate in situazioni che richiedevano rapidità e velocità, cioè consegna di messaggi,
azioni di vedetta o trasporti di soldati o di cavalli. A questa categoria appartenevano le Liburnae o Naves Liburnicae. Il loro nome
deriva dal fatto che, come si è detto, erano le navi veloci usate dai pirati Liburni illirici. Erano in genere costruite con il legno di
pino e di abeti. Furono usate nella flotta romana dopo che Ottaviano ne aveva riconosciuta la praticità durante la battaglia di Azio
contro le ingombranti navi di Marco Antonio. Erano talora dotate di dieci file di remi per cui venivano chiamate deceres Liburnicae
(SVETONIO, Caligola, 37; ORAZIO, Satire, 1, 37; 30 e Epodi, 1,1).
Naves praetoriae erano dette le navi ammiraglie che di solito portavano come insegna una bandiera di colore rosso porpora (vexillum
purpureum) e di notte anche tre fanali (LIVIO, 29, 26; 37, 28; TACITO, Storie, 5, 22). Naves speculatoriae si chiamavano le vedette
che si spingevano a esplorare le mosse dei nemici.
Le navi per il commercio e il trasporto erano chiamate naves onerariae e mercatoriae, di forma quasi rotonda con ampio ventre.
Sono state divise dal DUVAL (1949, p. 121) in “simmetriche” e “asimmetriche”. Tra le simmetriche la più diffusa era chiamata
corbita, a un solo albero, il cui nome sembra derivare da corbis “paniere”, di cui riproduce, grosso modo, la forma. Diffusa in
tutto il Mediterraneo era adibita al trasporto di grano o di altre merci, quali vino, spezie, pietre. Numerose sembrano essere le navi
definite “asimmetriche”, come la Ponto (CASSON, 1975 p. 169, usata sia per trasporto di generi di lusso che di alimentari. Le
naves orariae erano una sorta di brigantini (PLINIO, Epistole, 10, 26) con cui non si poteva navigare in alto mare, le naves
tabellaraie, invece, fornite di piccole vele nella parte più alta dell’albero, erano destinate a portare lettere, dispacci e pacchetti da
porto a porto, poco distanti fra loro.
10
CIL = Corpus Inscriptionum Latinarum, Corpo delle Iscrizioni latine in più volumi, opera colossale iniziata dal TH. MOMMSEN.
Gli arsenali, infine, si chiamavano navalia e si articolavano nei cantieri propriamente detti e nei bacini di carenaggio. A Roma ce
n’erano due, vetera e nova (REDDÉ, 1986, p. 160).
La composizione dell’equipaggio navale d’epoca romana è conosciuta molto meglio rispetto a quella delle età precedenti, in
particolare dell’epoca ellenistica, di cui rappresenta l’evoluzione e il perfezionamento anche per le specializzazioni.
Oltre al νακλῆρος (cioè l’armatore), i testi giuridici e diverse epigrafi ci attestano un altro personaggio, molto discusso fra gli
storici, il magister navis che non deve essere confuso con il gubernator (il capitano della nave), perché è colui su cui ricade tutta
la responsabilità di carattere economico relativa alla nave: però, è difficile stabilire la gerarchia fra guberrnator e magister navis.
è probabile, comunque, che entrambi dipendessero dall’armatore della nave (DE SALVO, 1992, p. 47).
Sulle grandi navi svolgevano le loro attività tre categorie di marinai: i rematori (remiges), alla base della scala gerarchica che erano
impiegati nelle scialuppe, poi c’erano i “marinai mediani” (mesonautae), di cui non sono ancora ben chiare le funzioni e infine
l’“elite” dell’equipaggio, i marinai (nautae) cui toccava manovrare le ancore e le vele, al disopra dei quali c’era lo stato maggiore
formato dal gubernator, cioè il comandante, dal proreute e dal pausarius, ovvero il secondo e il maestro dell’equipaggio (ROUGÉ,
1975, pp. 192-193).
Il reclutamento dell’equipaggio dipendeva dalle necessità delle competenze e alcuni marinai potevano essere imbarcati per una
stagione, altri, invece, erano al servizio dell’armatore a tempo indeterminato ed è possibile che alcuni marinai fossero degli schiavi.
La marina romana era cosmopolita, composta da marinai di svariata provenienza: egiziani, fenici, greci. Dalle iscrizioni in cui con
l’età della morte è menzionato il numero degli anni di milizia possiamo evincere che per lo più si entrava in servizio dai 17 ai 23 anni.
La durata del servizio era la più lunga rispetto a tutti gli altri corpi della milizia romana, di 26 anni, prolungata fra il 145 e il 217 a. C.
a 28 anni. Il totale complessivo dei marinai sarebbe stato di circa 40-45.000 unità. Noi conosciamo i marinai che prestavano servizio
nella flotta romana molto meglio dei marinai dei secoli precedenti, perché gli archeologi hanno ritrovato numerose epigrafi,
soprattutto nelle zone attorno a Miseno e a Ravenna, dalle quali si apprendono i paesi di provenienza, la durata del servizio, notizie
sulla loro carriera. In particolare molti marinai erano, come si è accennato, egiziani e nelle sabbie dell’Egitto sono state rinvenute
molte delle lettere che essi scrivevano ai familiari, raccontando le loro esperienze. Fra queste c’è, databile al II secolo d. C., la
lettera di Apione (CASSON, 1975, pp. 208-210) un giovane nativo di un piccolo villaggio egiziano e assegnato alla flotta di stanza
a Miseno, il quale scrive al padre: “Quando arrivai a Miseno, ricevetti dal governo tre pezzi d’oro per le mie spese di viaggio. Sto
bene. Per favore scrivimi, papà, prima per dirmi che stai bene, secondo per dirmi che mia sorella e mio fratello stanno bene e terzo
perché io possa baciare la tua mano, perché mi hai dato una buona istruzione e quindi spero di ottenere una rapida promozione, se
gli dei lo vorranno. Baci a Capitone, a mio fratello, a mia sorella Serenilla e agli amici. Il mio nome ora è Antonio Massimo, la mia
nave Athenonice. Ciao”.
P.S. Sereno, il figlio di Agotenione, ti saluta così come Torbone, il figlio di Gallonio.
Questa lettera ci trasmette in modo palpitante un frammento della storia privata di un giovane marinaio, con i suoi affetti e le sue
gratificazioni professionali, testimonianza, attraverso i secoli, di un vissuto che si inserisce nel più vasto quadro della storia romana antica.
Il porto di Classe (Ravenna) - Mosaico della Basilica di Sant’Apollinare Nuovo, inizio VI secolo a. C.
Planisfero (particolare del mar Rosso in evidenza) - Pierre Desceliers, 1550 - British Library, Londra
L’organizzazione del commercio marittimo e i peripli del Mediterraneo
Accanto alla marineria militare, ebbe grande rilevanza nel Mediterraneo il trasporto commerciale per l’importante ruolo svolto nel
mondo romano dalle comunicazioni per via d’acqua.
Già dalla fine della Repubblica le principali rotte marittime avevano Roma come punto di riferimento economico e commerciale,
poiché Roma, progressivamente, sovrappose le proprie rotte a quelle precedenti sia nel Tirreno, in passato percorse da Etruschi,
Greci e Cartaginesi sia al di fuori del Mediterraneo verso il Mar Rosso e l’Oriente.
Le principali rotte marittime erano quelle di collegamento tra Roma e gli altri grandi centri del Mediterraneo: Antiochia, Cesarea,
Alessandria, Cadice, Tarragona, Narbona, Marsiglia, Arles con itinerari più o meno diretti, ai quali si collegavano le reti capillari
delle navigazioni locali. Naturalmente i percorsi subivano variazioni in base alle stagioni e alle esigenze commerciali. I tragitti
potevano anche essere condizionati da cause di altro genere, addirittura dalla necessità di evitare il cabotaggio e mantenere una
navigazione d’alto mare, come appare da TACITO, Annali 2, 78, 2.
Anche se le navigazioni d’alto mare erano più dirette e veloci, esse si effettuavano durante i mesi estivi, mentre le navigazioni sotto
costa erano normali durante l’inverno, pur tenendo conto dei condizionamenti naturali (venti, correnti, attraversamento degli stretti,
doppiaggio dei promontori).
Alcune aeree del Mediterraneo erano, comunque, pericolose in tutte le stagioni, come i fondali bassi delle Sirti, la costa rocciosa
dell’Eubea.
Dappertutto, tuttavia, potevano verificarsi circostanze metereologiche avverse, che erano ricorrenti come dimostrano le indagini
archeologiche sottomarine da cui sono stati portati alla luce giacimenti multipli e di epoche diverse, chiamati “cimiteri di relitti”
(GIANFROTTA; POMEY, 1989, pp. 54-58).
Si tratta, ad esempio, del caso del Grand-Conglouè, nei pressi di Marsiglia, dove naufragarono, a distanza di circa un secolo, due
navi da carico dell’età tardo repubblicana. Sempre al largo di Marsiglia, nell’isolotto di Planier, circondato da scogli semiaffioranti
ed esposti alla violenza dei venti, sono stati localizzati sette relitti antichi e molti altri moderni, alcuni dei quali distanti di pochi
metri l’uno dall’altro.
102
Marsiglia - Civitates Orbis Terrarum - Frans Hogenberg, 1575
L’archeologia subacquea ha restituito negli anni 50 del secolo scorso, grazie alla guida scientifica del Lamboglia il relitto di una
grande nave romana naufragata nel I sec. a. C. al largo di Albenga (Savona). La nave era lunga 35/40 metri, larga 10x12 metri e
aveva una portata di 450/600 tonnellate metriche, pari a circa 280 tonnellate registro e portava un carico di 10.000 anfore, visibili
oggi nel museo allestito nella cittadina ligure. (LAMBOGLIA, 1952, pp. 31-236).
Tra i vari itinerari di grandissima importanza per il volume degli affari, prioritario era il tragitto Alessandria-Roma e viceversa,
poiché era servito dalle numerose navi granarie, che con il vento favorevole, d’estate, si poteva compiere in nove giorni e in sei,
partendo dalla Sicilia (GIANFROTTA, 1989, p. 321).
In assenza di venti, il percorso doveva essere allungato, transitando lungo la costa meridionale di Creta o addirittura dirigendosi a
nord fino quasi a Rodi e poi rasentare la Grecia, puntando ad occidente. Un tragitto simile effettua la nave alessandrina, carica di
grano sulla quale è imbarcato S. Paolo prigioniero (Atti degli Apostoli, 27-28). Anche l’imperatore Vespasiano per andare ad Alessandria
dall’Italia, dovette raggiungere prima Rodi (GIUSEPPE FLAVIO, Guerra Giudaica, 7, 2, 1).
Altre principali rotte riguardavano il Mediterraneo Occidentale: importante era la rotta di collegamento con le province dell’Africa
nord occidentale, percorrendo il Tirreno in senso longitudinale oppure deviando verso la Sardegna per seguirne poi la costa orientale.
Divisa in vari rami e di grande rilevanza commerciale era la rotta che dalla penisola iberica poteva toccare la Sardegna meridionale
e raggiungere l’Italia, ma in alternativa la rotta poteva passare per le Baleari e, attraversando le Bocche di Bonifacio, dirigersi verso
l’Italia oppure, infine, procedere verso nord, seguendo la costa della Gallia, per poi ridiscendere toccando la Corsica occidentale e
attraversare il Tirreno all’altezza dell’arcipelago Toscano. Quest’ultima rotta poteva anche, con scali intermedi, seguire la costa
tirrenica dell’Italia ed era prevalentemente questa la “via del vino” (TCHERNIA, 1986, pp. 74-80).
La percorrevano navi, provenienti dalla Toscana, dal Lazio e dalla Campania, cariche di vino italico contenuto in anfore di forma
Dressel 1, destinato a rifornire i mercati gallici, che in epoca più antica erano stati raggiunti dal vino etrusco. L’enorme traffico
d’epoca romana si ricostruisce in base alle anfore Dressel ritrovate nei relitti della navi naufragate lungo le coste del Tirreno centro
settentrionale e della Francia e che costituiscono quasi dei “fossili guida” della via del vino. La diffusione di queste anfore relativa
alla loro distribuzione commerciale interessava non solo i litorali della Provenza, ma si inoltrava all’interno della Gallia lungo il
corso dei grandi fiumi (Garonna e complesso fluviale Rodano-Saona) fino a raggiungere con un ulteriore navigazione marittima la
103
parte Trasporto da una nave all’altra di un’anfora da riempire di vino da un otre - mosaico - Ostia, antico porto di Roma
meridionale dell’Inghilterra (TCHERNIA, 1986, p. 401-420).
Alcune di queste rotte con le distanze in stadi o in miglia fra i centri importanti del Mediterraneo, sono elencate nei peripli dei quali
sono superstiti, per l’epoca romana, solo lo Stadiasmus Maris Magni e L’Itinerarium Maritimum.
Lo Stadiasmus Maris magni che si può considerare il primo portolano vero e proprio tramandatoci dall’antichità, è conservato in
modo frammentario nel codice greco 4701 della Biblioteca Nazionale di Madrid. La datazione è dibattuta fra gli studiosi, perché
non ci sono nel testo riferimenti storici. Certamente lo Stadiasmus è posteriore ad Alessandro Magno e alla fondazione di Alessandria
da cui procede e probabilmente la sua matrice si può rintracciare nell’opera perduta Περὶ Λιμένων (Sui Porti) composta da Timostene
di Rodi, ammiraglio di Tolemeo II e non è un caso che Rodi abbia tanto rilievo nel portolano (BUNBURY, 1883, 1959, pp. 387-389).
La menzione di Caesarea Stratonis in Palestina, che fu fondata da Erode tra il 12 e 13 a. C., rappresenta il più tardivo e sicuro
terminus post quem per la redazione finale. La cronologia oscilla fra il I sec. a. C., il III d. C. e ultimamente il V sec. d. C. (PICARD,
1959, p. 377). Ad una datazione alta rimanda la singolare attenzione dello Stadiasmus a tutti i luoghi di culto pagani, mentre manca
ogni riferimento a culti cristiani, che era pressoché impossibile dopo Costantino, come dimostra la Tabula Peutingeriana. Ma soprattutto
ad una datazione alta del I sec. a. C. rimanda il par. 93 dello Stadiasmus: “Dopo aver doppiato il capo Kephala, entrerai nella Grande
Sirte e venendo dall’alto mare vedrai una terra piatta che ha davanti delle isolette. Avvicinati a queste, vedrai una città allungata
sulla riva e una spiaggia di duna bianca; anche tutta la citta è bianca. Non ha porto. Questa città si chiama Leptis”. L’affermazione
perentoria che la città non ha porto implica una datazione a prima del 60 a. C. terminus ante quem alla realizzazione del primo
porto artificiale alla foce dello uadi Lebdah.
Il codice dello Stadiasmus è costituito da tre diversi frammenti:
Un frammento molto dettagliato che descrive, partendo da Alessandria i porti lungo la costa africana fino ad Utica. Purtroppo sono
andate perse la fine della prima parte fino alle Colonne d’Ercole e l’inizio della seconda parte da Alessandria verso est.
Il secondo frammento riguarda la costa asiatica procedendo in modo sommario da Carne in Fenicia lungo la Siria e la Turchia fino
a Mileto, includendo isole di fronte e peleggi da alcune isole.
Un terzo frammento contiene una descrizione accurata delle isole di Cipro e di Creta, non possiamo sapere se in successione
originaria o perché selezionata da un contesto più ampio. Assente completamente la parte relativa all’Europa.
Lo Stadiasmus Maris Magni, pur nella sua frammentarietà, rappresenta, comunque, un documento prezioso che illustra la situazione
104
degli scali del Mediterraneo nel I sec. a. C..
L’itinerarium maritimum (raffazzonato nella composizione rispetto al precedente) è un itinerarium adnotatum11, rappresenta il
completamento per via mare dell’Itinerarium provinciarum Antoni Augusti terrestre e segnala, quindi, l’esigenza da parte romana
di raccordare gli itinerari stradali con la navigazione.
La sezione marittima, come quella terrestre è un assemblaggio, dallo stile asciutto, di dati di origine diversa, probabilmente operato
nell’età di Caracalla (III d. C.), con la deliberata intenzione di indicare “qua litora tenere nosse debeat, aut ambire, incipiens a Gadibus
vel extrema Africa perdocet feliciter”, sono segnalate, cioè, le coste che si devono raggiungere o superare con successo, iniziando
dall’Africa o dall’estrema parte dell’Africa (Itinerarium Antonini 487, 1).
In particolare è descritto il periplo dalla Grecia all’Africa Proconsolare e Bizacena (Tunisia) attraverso la Sicilia con le distanze
computate in stadi.
Sono, poi, segnalate con le distanze in stadi le rotte fra porti all’interno del Mediterraneo: ad es., dal Porto di Roma a Cartagine, da
Cagliari a Cartagine, da Ancona a Zara, da Aternum (Pescara) a Salona in Dalmazia, da Brindisi/Otranto ad Aulona (Vallona) in
Epiro, da Gessoriacum in Gallia Belgica (zona di Calais) al portus Ritupium, alla foce del Tamigi in Britannia.
Viene indicata, con distanze in miglia la rotta di cabotaggio dal
Porto di Roma ad Arles, sul Rodano nella quale c’è la distinzione
delle soste in portus, positio e plagia (porti e attracchi).
Sono riportate, inoltre, le rotte, in stadi, fra isole nel Mare Oceano
(Gallia-Britannia) e nel Mediterraneo (soprattutto nell’Egeo), con
annotazioni mitologiche (per es. le Isole Strofadi nello Ionio sono
caratterizzate da questo commento: “qui dimoravano le Arpie”;
di Itaca si ricorda che fu patria di Ulisse, di Delo, che fu l’isola
dove nacquero Apollo e Diana etc.).
L’ultima sezione, infine, è occupata da una descrizione geografica
con ampie lacune ed omissioni, di intere regioni dotate di porti
importanti (per esempio, Costantinopoli, Alessandria d’Egitto,
Ravenna, Aquileia).
Le rotte al di là del Mediterraneo
Grande importanza ebbero anche le rotte nell’Atlantico e nella
Manica, che erano in rapporto con le rotte mediterranee sia
attraverso lo stretto di Gibilterra, sia attraverso le valli della Loira
e della Garonna, come si è accennato, sia attraverso l’asse
Rodano-Reno (CASSON, 1994, pp. 141-151).
All’altra estremità del mondo antico il mondo romano vide lo
sviluppo delle relazioni dirette tra l’Impero e i paesi dell’Oriente e
anche dell’Estremo Oriente.
Apollo e Diana - incisione di Albrecht Dürer, 1504-1505
National Gallery, Londra
11
Sono così chiamati gli Itinerari che riportano solo gli elenchi delle distanze, a differenza degli itineraria picta che danno anche una rappresentazione del territorio: distinzione
che compare in Vegezio. Renato, autore di un’Epitome Rei Militaris (IV secolo d. C.)
Questo commercio fu categoricamente condannato da Plinio il Vecchio, moralista e tradizionalista, con l’accusa di essere esclusivamente
un commercio di importazione di lusso, destabilizzante della bilancia commerciale dell’Impero e di essere anche la causa della
decadenza economica: “Non c’è anno in cui l’India succhi meno di cinquanta milioni di sesterzi dal nostro impero in cambio di
mercanzie che da noi si vendono a cento volte il loro prezzo (Storia Naturale 6, 101)” e ancora; “più fortunato è il mare d’Arabia,
da questo gli Arabi traggono le perle che esportano e secondo la valutazione più bassa ogni anno gli Indiani, i Seri e gli abitanti
della penisola d’Arabia tolgono al nostro impero cento milioni di sesterzi, tanto ci costano il lusso e le donne (Storia Naturale 12, 84)”.
Si trattava, certo, di un commercio di importazione, ma anche di esportazione come indica il Periplo del Mare Eritreo, ovvero
dell’area marina che comprendeva per gli antichi, non solo il Mar Rosso, ma anche il Golfo Persico e l’Oceano Indiano. Nel Periplo,
scritto dopo la metà del I sec. d. C., mirabilmente tradotto e commentato dal CASSON (1989), alla cui autorità risalgono le nostre
annotazioni, sono segnalate diverse rotte: una di cabotaggio, ma anche le traversate dirette, grazie alla conoscenza dei monsoni dal
sud dell’India, dalla costa di Malabar alla costa africana. Dalla costa di Malabar questo commercio raggiungeva attraverso il Palghat
la costa orientale dove si trovava l’emporium che serviva da tappa ai naviganti verso la Malesia e la Cina, non lontano da Pondichery,
Periplus Maris Erythraei - Abraham Ortelius, 1597
la celebre Arikamedu (WHEEIER, 1960, pp. 145-219).
Il Periplo fu scritto per capitani di mare, ma anche per i mercanti e, per quanto da un punto di vista letterario non abbia meriti maggiori
di una pubblicazione dell’Istituto Idrografico (CASSON, 1975, p. 225), nei suoi 66 paragrafi ci sono preziosissime informazioni:
relativamente alla costa africana, tra gli articoli più importanti che un mercante può ottenere ci sono gusci di tartaruga, avorio
e incenso barattati con vestiti di poco prezzo, cianfrusaglie varie. Ci sono istruzioni nei riguardi di indigeni eventualmente poco
socievoli: “è saggio avere con sé un po’ di vino e grano, non per scopi commerciali, ma per ottenere il favore dei selvaggi”.
In un porto situato sul litorale arabico del Mar Rosso l’autore del Periplo individua le tracce dell’estensione della potenza di Roma,
“perché l’ufficiale di un presidio militare lo tassa di un quarto del valore di tutta la merce introdotta. In una città d’oriente si deve
dare la mancia, cosa abituale in Oriente”.
La descrizione della navigazione lungo la costa dall’Indo a Broach era particolarmente rischiosa e l’autore ne elenca i pericoli con
dettagli molto coloriti (CASSON, 1975, p. 227). In particolare, la difficoltà maggiore era costituita da scogli, banchi di sabbia
e dall’escursione della marea. Lo stile commerciale, sobrio e essenziale, diventa vivace allorché narra di un porto dove “con la
luna nuova, specialmente quando la marea viene di notte, la forza del mare che sospinge è così potente che, se approfittando della
bassa marea, avete già iniziato ad entrare nel porto, dalla foce del fiume sentite il rumore come di un esercito in lontananza e subito
dopo il mare stesso si riversa sui bassi fondali con un ruggito”.
La meta finale è la costa del Malabar che era la più importante area commerciale, perché era ricca di gemme e di pepe e in un porto,
dove ora si trova Cranganore, le navi mercantili gettavano l’ancora giungendo, dopo aver attraversato direttamente l’Oceano “per
le enormi quantità di pepe e di malabathrum12. Questa località importa prima di tutto una grande quantità di monete, ma anche
topazi, piccoli indumenti finemente cuciti, lini ricamati, antimonio, corallo, vetro greggio, rame stagno, un po’ di vino, realgar e
orpimento13 e abbastanza grano per gli equipaggi delle navi, dato che i mercanti locali non esercitano tale commercio14. Esporta,
invece, unicamente pepe, prodotto in gran quantità solo in un distretto chiamato Cottonara. Esporta anche buone quantità di perle
pregiate, avorio, seta, spiganardo del Gange, malabathrum dalle località dell’entroterra, pietre trasparenti di tutti i tipi, diamanti,
zaffiri e gusci di tartaruga.
I prodotti erano per lo più pagati con “una grande quantità di monete”. E, in effetti, l’archeologia ha dimostrato che un notevole
numero di monete romane (del tempo d’Augusto e di Nerone) sono state trovate nell’estremità meridionale dell’India ed inoltre
dagli scavi sono stati messi in luce, vicino a Pondicherry, i resti di una stazione commerciale occidentale che fu attiva dalla metà
del I sec. d. C. ad almeno alla fine del II sec. d. C.. L’autore del Periplo conosce, inoltre, una terra dove “c’è una grande città
nell’entroterra chiamata Thina, da cui arrivano seta grezza, filati di seta e tessuti. Ma questa terra di Thina non è facile da raggiungere;
pochissimi uomini e, raramente, arrivano da questa località”.
Il Periplo del Mare Eritreo ci attesta l’incredibile espansione commerciale di Roma in Africa, Arabia, India e nell’Estremo Oriente.
I prodotti che giungevano da queste lontane terre erano: l’incenso dall’Arabia, l’avorio dall’Africa, il pepe dall’India e la seta dalla
Cina (per lo più con il tramite dell’India). Il primo prodotto era di prima necessità, gli altri rari e di lusso, richiesti e pagati a caro
prezzo dai ricchi romani per migliorare la loro qualità di vita. Merci che anche dopo la caduta dell’impero romano muoveranno
i mercanti verso l’Oriente.
12
Una specie di cannella.
Pigmenti rossi e gialli.
14
Perché trattavano solo riso.
13
Roma - Civitates Orbis Terrarum - Braun Hogemberg, Colonia 1572
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(dal Liber secretorum di Marino Sanuto) - British Library, Londra