tutto su PIER PAOLO PASOLINI

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tutto su PIER PAOLO PASOLINI
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INDICE
1. Cenni di biografia
2. La figura di Pier Paolo Pasolini
3. Pasolini poeta
4. Pasolini narratore 1946-1961
5. Pasolini narratore 1962-1975
6. Pasolini autore di teatro
7. Pasolini regista cinematografico
8. Pasolini critico
9. Filmografia di Pasolini
10.Articoli vari su Pasolini
11.Cronologia processi giudiziari contro Pasolini
12.Articoli vari sull’omicidio di Pasolini
13.Tutto su processo e sentenze sull’omicidio
pag. 2 -12
pag. 13-14
pag. 15-17
pag. 18-20
pag. 21-25
pag. 26-29
pag. 30-38
pag. 39-47
pag. 51-83
pag. 84-98
pag. 99-114
pag. 115-135
pag. 136-191
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PIER PAOLO PASOLINI - Biografia
Pier Paolo Pasolini nacque a Bologna il 5 Marzo del 1922.
Il padre, Carlo Alberto Pasolini, essendo un tenente di fanteria, fece trascorrere l'infanzia al
primogenito Pier Paolo cambiando spesso residenza e fermandosi in varie cittadine del Veneto e
dell'Emilia, da Bologna a Parma, Belluno, Cremona....
La madre, Susanna Colussi, era una maestra elementare originaria di Casarsa, Friuli.
Pier Paolo Pasolini vide sempre in questa unione un incrocio derivato dall'unità d'Italia stessa.
Il tenente Pasolini discendeva da un'antica famiglia nobile della Romagna, al contrario la madre
Susanna proveniva da una famiglia di contadini friulani che con il tempo si erano innalzati ad una
condizioni di piccola-borghesia.
A Belluno, nel 1925, nacque il secondogenito Guido.
Pier Paolo crescerà legato moltissimo alla madre Susanna, che ricorderà sempre come una donna
idealista e sognatrice, al contrario i rapporti col padre andranno a peggiorare col tempo.
Sarà il forte legame con la madre, ma anche gli studi di filologia romanza, a spingerlo nella ricerca
di una poetica in dialetto friulano.
Dopo aver frequentato la scuola elementare ottenne il passaggio dalle elementari al Ginnasio, che
frequentò a Conegliano.
Durante gli anni del liceo Pasolini creò un gruppo letterario per la discussioni sulla poesia, ne fecero
parte Luciano Serra, Ermes Parini, Franco Farolfi e Fabio Mauri.
A 17 anni, conclusi gli studi liceali, si iscrisse alla facoltà di Lettere dell'Università di Bologna.
In questi anni Pasolini scrisse poesie sia in friulano che in Italiano, che raccolse in un primo
volume: “Poesie a Casarsa”.
Collaborò a “Il Setaccio”, un periodico Bolognese della Gil, e partecipò anche alla redazione della
rivista “Stroligut” con altri letterati friulani.
Con loro creò l'Academiuta di lenga furlana.
Infatti il dialetto rappresentava l'opposizione al fascismo che pretendeva l'omologazione, una unica
lingua nazionale, dai dialetti regionali ad un unico italiano.
Anche la sinistra prediligeva l'uso della lingua italiana e l'uso dialettale era diventata una
prerogativa clericale.
Per queste motivazioni Pasolini tentò di portare anche a sinistra l'uso dialettale all'interno della
cultura.
Pasolini venne arruolato a Livorno nel 1943 ma nel settembre dello stesso anno disobbedì all'ordine
di consegnare le armi ai tedeschi e fuggì.
Dopo alcuni spostamenti si recò Versutta con la famiglia, piccola frazione di Casarsa, luogo poco
esposto ai bombardamenti tedeschi.
Lì iniziò l'insegnamento al Ginnasio.
Nel 1945 il fratello Guido pasolini venne massacrato nelle malghe di Porzus.
Guido si era rifiutato di restare nascosto a Versutta e aveva intrapreso la lotta partigiana nella
divisione Osoppo.
Quando nacquero dei conflitti intestini tra i vari gruppi della resistenza friulana la situazione
degenerò, un gruppo di Garibaldini catturarono il gruppo degli Osoppo e li passarono alle armi.
Guido riuscì a fuggire e a rifugiarsi da una contadina, ma quando i garibaldini lo trovarono lo
trascinarono fuori e lo massacrarono.
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Pasolini metterà in versi nel Corus in morte di Guido, che appariranno nello Stroligut dell'agosto
1945:
La livertat, l'Itaia
e quissa diu cual distin disperat
a ti volevin
dopu tant vivut e patit
ta quistu silensiu
Cuant qe i traditours ta li Baitis
a bagnavin di sanc zenerous la neif,
"Sçampa - a ti an dita - no sta torna' lassu'"
I ti podevis salvati,
ma tu
i no ti às lassat bessòi
i tu cumpains a muri'.
"Sçampa, torna indavour"
I te podevis salvati
ma tu
i ti soso tornat lassu',
çaminant.
To mari, to pari, to fradi
lontans
cun dut il to passat e la to vita infinida,
in qel di' a no savevin
qe alc di pi' grant di lour
al ti clamava
cu'l to cour innosent
Dopo la morte di Guido, che ebbe effetti devastanti per la famiglia Pasolini, Pier Paolo si
legò ancor più alla madre che era distrutta DAL DOLORE.
Pasolini si laureò nel 1945, con la tesi “Antologia della lirica Pascoliana (introduzione e
commenti)”.
Trovò lavoro come insegnante in una scuola media di Valvassone, in provincia di Udine
Nel 1947 diede la propria adesione al Pci e iniziò a collaborare al settimanale del partito, “Lotta e
Lavoro”.
Aderire al Pci significò per Pasolini condividere il suo ideale con le stesse persone, lo stesso partito
friulano che in passato provocò tanto doloro alla sua famiglia con la morte del fratello Guido.
Fu quasi un atto di coraggio.
Pasolini divenne segretario della sezione di SanGiovanni di Casarsa ma non venne visto di buon
occhio nel partito, per il suo eccessivo interesse per la cultura borghese e per le suo opere poetiche
dialettali e spesso senza un soggetto politico.
Il 15 Ottobre 1949 iniziò la lunga e denigrante trafila giudiziaria che umiliò il poeta per tutta la vita.
Infatti venne segnalato ai Carabinieri di Cordovado per corruzione di minorenne.Il periodo era
aspro, segnato da controversie tra sinistra e Dc, e la posizione di Pasolini venne più volte criticata
sia dalla destra che dalla sinistra.
Dopo la denuncia, prima ancora del processo, Pasolini fu espulso dal Pci.
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In pochi giorni perse il lavoro da insegnante, fu espulso dal partito e si trovò in una situazione tesa
con la madre.
Decise di fuggire da Casarsa e si trasfeì a Roma con la madre
primi anni trascorsi a Roma furono difficili per Pier Paolo Pasolini, si ritrovò in povertà e
solitudine, una situazione drammatica che racconterà lui stesso:
"Nei primi mesi del '50 ero a Roma, con mia madre: mio padre sarebbe venuto anche lui, quasi due
anni dopo, e da Piazza Costaguti saremmo andati a abitare a Ponte Mammolo; già nel '50 avevo
cominciato a scrivere le prime pagine di Ragazzi di vita. Ero disoccupato, ridotto in condizioni di
vera disperazione: avrei potuto anche morirne. Poi con l'aiuto del poeta in dialetto abruzzese Vittori
Clemente trovai un posto di insegnante in una scuola privata di Ciampino, a venticinque mila lire al
mese". ( "Profilo autobiografico" in Ritratti su misura di scrittori italiani, a cura di E.F. Accrocca,
Venezia 1960. )
Per superare le difficoltà economiche cercò lavoro nel campo del cinema, ottenendo la parte di
generico a Cinecittà, correggendo bozze e vendendo i suoi libri nelle bancarelle rionali.
Con l'aiuto del poeta abruzzese Vittori Clemente trovò lavoro come insegnante in una scuola di
Ciampino.
L'impatto con la realtà delle borgate romane portò Pasolini a mitizzare la vita rurale delle campagne
friulane.
Roma divenne per Pasolini il centro della storia, il mito del sottoproletariato urbano lo spunto per
una crescita lenta e dolorosa.
Pasolini preparò le antologie sulla poesia dialettale; collaborò a "Paragone", una rivista di Anna
Banti e Roberto Longhi. Proprio su "Paragone" pubblicò la prima versione del primo capitolo di
Ragazzi di vita.
Angioletti lo chiamò a far parte della sezione letteraria del giornale radio, accanto a Carlo Emilio
Gadda, Leone Piccioni e Giulio Cartaneo.
Superò così gli anni difficili della sua vita romana.
Nel 1954 Pasolini abbandonò l'insegnamento e si stabilì a Monteverde Vecchio,un quartiere
piccolo-borghese di Roma.
Pubblicò il suo primo importante volume di poesie dialettali: La meglio gioventù.
Nel 1955 venne pubblicato da Garzanti il romanzo Ragazzi di vita, che ebbe un vasto successo, sia
di critica che di lettori. Il giudizio della cultura ufficiale del Pci fu in gran parte negativo. Il libro
venne definito intriso di "gusto morboso, dello sporco, dell'abietto, dello scomposto, del torbido".
La Presidenza del Consiglio, tramite il ministro degli Interni Tambroni, promosse un'azione
giudiziaria contro Pasolini e Livio Garzanti.
Il processo li vide assolti in quanto "il fatto non costituisce reato".
Il libro, che era stato ritirato dalle librerie per un anno, venne dissequestrato.
Pasolini divenne uno dei bersagli preferiti dai giornali di cronaca nera: venne accusato di reati al
limite del grottesco: favoreggiamento per rissa e furto; rapina a mano armata ai danni di un bar
limitrofo a un distributore di benzina a San Felice Circeo.
Nel 1957 Pasolini, insieme a Sergio Citti, collaborò al film di Fellini, Le notti di Cabiria,
stendendone i dialoghi nella parlata romanesca.
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Firmò le sceneggiature insieme a Bolognini, Rosi, Vancini e Lizzani, col quale esordì come attore
nel film Il gobbo del 1960.
In quegli anni Pasolini collaborò alla rivista "Officina" accanto a Leonetti, Roversi, Fortini,
Romanò, Scalia.
Nel 1957 pubblicò le raccolte di poesie Le ceneri di Gramsci da Garzanti e l'anno successivo, il
1958, da Longanesi, L'usignolo della Chiesa cattolica.
Nel 1960 Garzanti pubblicò la raccolta di saggi “Passione e ideologia", e nel 1961 un altro volume
di versi La religione del mio tempo.
Nel 1961 Pasolini realizzò il suo primo film da regista e soggettista, Accattone.
Il film venne vietato ai minori di diciotto anni e suscitò non poche polemiche alla XXII Mostra del
cinema di Venezia.
Del 1962 è Mamma Roma.
Nel 1963 l'episodio La ricotta diretto da Pasolini e inserito nel film RoGoPaG, venne sequestrato e
Pasolini fu imputato per reato di vilipendio alla religione dello Stato.
Nel 1964 diresse l Vangelo secondo Matteo; nel 1965 Uccellacci e Uccellini; nel 1967 Edipo re; nel
1968 Teorema; nel 1969 Porcile; nel 1970 Medea; tra il 1970 e il 1974 la trilogia della vita, ovvero
Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle mille e una notte; il suo ultimo film fu Salò o le
120 giornate di Sodoma del 1975.
Il cinema lo portò a intraprendere numerosi viaggi all'estero: nel 1961, con Elsa Morante e Moravia,
andò in India; nel 1962 in Sudan e Kenia; nel 1963 in Ghana, Nigeria, Guinea, Israele e Giordania,
dove girerà un importante documentario dal titolo Sopralluoghi in Palestina.
Nel 1966, in occasione della presentazione di Accattone e Mamma Roma al festival di New York,
compì il suo primo viaggio negli Stati Uniti; rimase molto colpito da quel paese e soprattutto da
New York.
Confessò a Oriana Fallaci:
"Non mi era mai successo di innamorarmi così di un paese. Fuorché in Africa, forse. Ma in Africa
vorrei andare e restare, per non ammazzarmi. Sì, l'Africa è come una droga che prendi per non
ammazzarti. New York invece è una guerra che affronti per ammazzarti".
(Oriana Fallaci, Lettera a Pier Paolo Pasolini, in "Europeo", 14 novembre 1975)
Nel 1968 Pasolini andò di nuovo in India per girare un documentario.
Nel 1970 tornò in Africa: in Uganda e Tanzania realizzò il documentario Appunti per un'Orestiade
africana.
Nel 1972, presso Garzanti, pubblicò i suoi interventi critici, soprattutto di critica cinematografica,
nel volume Empirismo eretico.
Negli anni della contestazione studentesca Pasolini assunse una posizione originale rispetto al resto
della cultura di sinistra.
Seppure accettando e appoggiando le motivazioni ideologiche degli studenti, ritenne che questi
fossero antropologicamente dei borghesi, e in quanto tali destinati a fallire nel loro tentativo
rivoluzionario.
Nel 1968 Pasolini ritirò dalla competizione del Premio Strega il suo romanzo Teorema e accettò di
partecipare alla XXIX Mostra del cinema di Venezia solo dopo che, come gli fu garantito, non ci
sarebbero state votazioni e premiazioni.
Infatti Pasolini fu tra i maggiori sostenitori dell'Associazione Autori Cinematografici che si batté
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per ottenere l'autogestione della mostra.
Il 4 settembre il film Teorema venne proiettato per la critica in un clima arroventato.
Pasolini intervenne alla proiezione del film per ribadire che il film era presente alla Mostra solo per
volontà del produttore, ma in quanto autore pregò i critici di abbandonare la sala.
Ciò non avvenne.
Il regista si rifiutò allora di partecipare alla tradizionale conferenza stampa, e invitò i giornalisti nel
giardino di un albergo per parlare non del film, ma della situazione della Biennale.
Nel 1972 Pasolini decidette di collaborare con i giovani di Lotta Continua, ed insieme ad alcuni di
loro, tra cui Bonfanti e Fofi, firmò il documentario 12 dicembre, sulla strage di piazza Fontana a
Milano.
Nel 1973 cominciò la sua collaborazione al "Corriere della Sera", con interventi critici sui problemi
del paese.
Nel 1970 Pasolini acquistò quel che resta di un castello medievale nei pressi di Viterbo.
Lo ristrutturò e qui cominciò la stesura della sua opera che restò incompiuta, Petrolio.
Nel 1975, presso Garzanti, pubblicò la raccolta di interventi critici, Scritti corsari, e ripropose le
poesia friulana con il titolo di La nuova gioventù.
La mattina del 2 Novembre 1975, sul litorale romano di Ostia, in un campo incolto in via
dell'idroscalo, una donna, Maria Teresa Lollobrigida, scoprì il cadavere di un uomo.
Fu Ninetto Davoli a riconoscere il corpo di Pier Paolo Pasolini.
"Quando il suo corpo venne ritrovato, Pasolini giaceva disteso bocconi, un braccio sanguinante
scostato e l'altro nascosto dal corpo.
..
I capelli impastati di sangue gli ricadevano sulla fronte, escoriata e lacerata. La faccia deformata dal
gonfiore era nera di lividi, di ferite. Nero livide e rosse di sangue anche le braccia, le mani. Le dita
della mano sinistra fratturate e tagliate. La mascella sinistra fratturata. Il naso appiattito deviato
verso destra. Le orecchie tagliate a metà, e quella sinistra divelta, strappata via. Ferite sulle spalle,
sul torace, sui lombi, con il segni dei pneumatici della sua macchina sotto cui era stato schiacciato.
Un'orribile lacerazione tra il collo e la nuca. Dieci costole fratturate, fratturato lo sterno. Il fegato
lacerato in due punti. Il cuore scoppiato".
(Dalla "Perizia compiuta sul cadavere di Pasolini", "Corriere della Sera" del 2 novembre 1977.)
Nella notte i carabinieri fermarono un giovane, Giuseppe Pelosi, detto "Pino la rana" alla guida di
una Giulietta 2000 che risulterà di proprietà di Pasolini.
Il ragazzo, interrogato dai carabinieri, e di fronte all'evidenza dei fatti, confessò l'omicidio.
Raccontò di aver incontrato Pasolini presso la Stazione Termini, e dopo una cena in un ristorante, di
aver raggiunto il luogo del ritrovamento del cadavere; lì, secondo la versione di Pelosi, Pasolini
avrebbe tentato un approccio sessuale e vistosi respinto avrebbe reagito violentemente; questo
avrebbe scatenato la reazione del ragazzo.
Il processo portò alla luce retroscena inquietanti.
Si ipotizzò da diverse parti il concorso di altri nell'omicidio.
Non si ebbe mai chiarezza su questo punto.
Pino Pelosi venne condannato, unico colpevole, per la morte di Pasolini.
Pasolini è sepolto a Casarsa, nel suo mai dimenticato Friuli.
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Nome: Pier Paolo Pasolini
Data e luogo di nascita: 5 Marzo 1922, Bologna, Italia
Data e luogo di morte: 2 Novembre 1975, Ostia, Italia
I primi contatti di Pier Paolo Pasolini (1922-1976) con il mondo del cinema avvengono a Roma, nel
1950, quando scrive sceneggiature per Mauro Bolognini e Mario Soldati. Il primo film da regista,
Accattone lo realizza nel 1961 descrivendo una borgata romana, un luogo emarginato ma
incontaminato, in cui vivono personaggi che proprio perché dimenticati da tutti conservano una
serie di qualità - grazia interiore, schiettezza di modi, capacità poetica di sognare il futuro - che il
mondo del benessere ha perduto per sempre. Pasolini segue in particolare il protagonista, si
concentra su ogni sua espressione, mette in evidenza tutta la sua rozzezza. La sua tecnica non è però
quella del Neorealismo*; il suo cinema, infatti, in questa prima fase che appare come la trascrizione
in immagini dei suoi primi romanzi, guarda più ai suoi referenti figurativi e culturali, da Masaccio a
Piero della Francesca fino al Pontormo, che non alla tradizione cinematografica. Ecco perché i suoi
primi piani cercano le rughe del volto, le pieghe scure sulla fronte del protagonista; ecco perché le
sue figure sono tendenzialmente statiche e il loro movimento è affidato più alla musica di Bach che
agli spostamenti della macchina da presa. Il film, come molti altri di Pasolini, si chiude con una
morte che arriva come una forma di liberazione da una vita sempre uguale a se stessa.
Morirà anche il protagonista di Mamma Roma (1962), un altro sottoproletario per il quale la madre
sognava un futuro piccolo-borghese; morirà sulla croce - per indigestione - il protagonista de La
ricotta (1963), mentre interpreta, nel film che si gira all’interno del film, la parte del ladrone
accanto al Cristo; moriranno su un mucchio di rifiuti i due burattini (Totò e Ninetto Davoli) di Che
cosa sono le nuvole (1967), nell’istante stesso in cui cercano di evadere dal palcoscenico, spaziosimbolo della loro costrizione. E in fondo si tratta sempre dello stesso personaggio: un
sottoproletario che, nel primo caso, soccombe di fronte alla società del benessere, nel secondo
perisce realmente e per quello che è (un povero disperato che non ha di che mangiare), in contrasto
con la finzione cinematografica che si concentra sulla morte di Cristo, nell’ultimo infine viene
sconfitto nel momento in cui esce dalla metaforica condizione di emarginazione, pur se confortato
dalla visione delle nuvole, inedita per i burattini.
Con una morte si chiudeva anche Uccellacci e uccellini (1966), sebbene non vedesse coinvolti i
protagonisti principali - un padre e un figlio che girano per il mondo animati da grandi ideali - ma
un insopportabile “corvo marxista”, metafora di un momento difficile della sinistra italiana che,
dopo la morte di Togliatti, avvenuta nel 1964 e che chiudeva un’epoca e una strategia politica, si
trovava in pieno periodo di riflessione. Negli stessi anni, sugli stessi presupposti, nascevano anche I
sovversivi di Paolo e Vittorio Taviani, Prima della rivoluzione di Bernardo Bertolucci,
Condizionamenti sociali, vicende di , I pugni in tasca di Marco Bellocchio e, con una coscienza già
proiettata verso il ‘68, La Cina è vicina di Marco Ferreri.
Fu proprio il periodo della contestazione giovanile a determinare una pausa nella produzione di
Pasolini che gli servirà per elaborare una nuova teoria del linguaggio cinematografico. Tale teoria
propugnava innanzitutto la fine dello schema naturalistico che aveva caratterizzato il cinema
italiano dal dopoguerra in poi, a vantaggio di una scrittura filmica che mettesse in mostra la
presenza della macchina da presa, che rendesse visibile l’operazione tecnica che genera l’immagine.
Questa “presenza” della macchina da presa e del regista che la muove avrebbe caratterizzato il
cinema immaginato da P. in senso poetico, la cui “metrica” era fornita dal “verso” del pianosequenza.
Pasolini condensa il frutto di queste intuizioni in Teorema (1968) e Porcile (1969), in cui raggiunge
notevoli risultati dal punto di vista figurativo per costruire due difficili metafore della realtà
offuscata ormai da un cieco pessimismo: l’Italia gli appare dominata da un nuovo potere che tende
ad omologare tutte le classi sociali al modello piccolo-borghese. La realtà contadina e
precapitalistica che egli aveva mitizzata - conosciuta dapprima nelle forme del paesaggio friulano e
ravvisata poi nei modi di vita delle borgate romane - è ormai scompara; per trovare spazi
“immacolati” bisogna volgere lo sguardo verso il Terzo Mondo, verso quelle direzioni che già
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indicavano i cartelli stradali del finale di Uccellacci e uccellini: Istanbul Km. 4.253, Cuba Km.
13.257.
Tradotto nelle cifre del suo cinema, tutto questo significa sconfitta, incapacità di comprendere il
presente e le sue novità: Edipo re (1967) e Medea (1970) sono l’espressione della crisi di una
personalità che, accantonato lo spirito rivoluzionario, cerca di fuggire dalla realtà spinto da un
sentimento tragico della vita.
Da questi territori lontani Pasolini combatte le sue ultime battaglie contro i tabù sessuali, armato
unicamente delle leggi della natura che, nella sua visione, raggiungono la purezza solo se liberate
dai vincoli educativi e religiosi e dopo aver dato sfogo ai piaceri del sesso. Sono gli argomenti che
ispirano la cosiddetta “trilogia della vita”: Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972), Il
fiore delle mille e una notte (1974).
Ma sarà una battaglia tragica che Pasolini si accorge di aver perso già nel momento in cui prende
atto che anche le cose a lui più care, il mondo che più amava, è compromesso con la società
borghese sempre più imperante: una visione senza futuro che, venata da violenza e sangue,
rappresenterà in Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), il suo ultimo film considerato da molti
come un vero e proprio testamento.
Il film uscirà dopo la sua morte, avvenuta la notte fra il 1 e il 2 novembre del 1975.
L'OMICIDIO E LE PRIME INDAGINI
Pier Paolo Pasolini fu ucciso nella notte fra l'1 e il 2 novembre 1975, sul lungomare di Ostia. Il
corpo fu ritrovato la mattina successiva, su una strada accidentata che portava ad un campo di calcio
amatoriale. Fu chiaro da subito che il regista-poeta era stato vittima di un'aggressione
particolarmente brutale: il corpo presentava ferite gravissime alla testa e al torace, ed inoltre erano
evidenti i segni del passaggio di un auto; si scoprirà poi, tramite l'autopsia, che la morte era
sopraggiunta per la rottura del cuore, in seguito al passaggio dell'autovettura sul torace, ma che le
percosse subite avevano già provocato un'emorragia cerebrale. Inoltre, disseminati nell'area, si
trovarono resti degli attrezzi usati per il pestaggio, o almeno di alcuni di questi (un paletto ed una
tavoletta di legno, macchiati di sangue), e così pure si trovò la camicia dello scrittore (anch'essa
imbrattata di sangue), ciocche di capelli eccetera: alcuni di questi reperti erano a 90 metri al corpo,
e testimoniavano il disperato tentativo di fuga di Pasolini dal luogo dove aveva avuto inizio
l'aggressione.
All'una e trenta di quella notte, quindi prima del rinvenimento del cadavere, i carabinieri avevano
fermato il diciassettenne Giuseppe "Pino" Pelosi, contestandogli il furto dell'auto a cui era alla
guida, un'Alfa 2000 risultata poi dello scrittore. Giunto in caserma, Pelosi ammise il furto, e chiese
notizie di un anello di sua proprietà, che risulterà poi rinvenuto vicino al corpo di Pasolini. Si tratta
della prima svolta nelle indagini: è la "firma" del delitto. Un primo segno di chiarezza in
un'inchiesta che per molti altri aspetti, purtroppo, resterà comunque intorbidita dalla povertà delle
indagini, probabilmente segnate dalla convinzione, maturata con eccessiva fretta, che si trattasse di
un caso "già risolto". L'avere a disposizione un cadavere ed un reo confesso viene purtroppo spesso
considerato sufficiente a chiudere un'indagine; ma in questo caso, come vedremo in seguito, a
questa considerazione se ne aggiunge un'altra ben più grave: gli inquirenti presero le deposizioni del
giovane omicida senza fare nulla per scalfirne la reticenza o le contraddittorietà.
Le dichiarazioni di Pelosi andarono affinandosi col tempo, nel tentativo di rafforzare sempre
maggiormente la tesi secondo cui il ragazzo avrebbe agito per legittima difesa. Per dovere di
cronaca riportiamo a grandi linee la versione dell'imputato nella sua veste definitiva; nel capitolo
successivo vedremo di fare emergere le contraddizioni e le gravi lacune nelle indagini.
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Il ragazzo viene avvicinato da Pasolini nella tarda serata ed accetta di salire in auto con lo scrittore.
Entrano assieme in un ristorante; poco dopo mezzanotte escono e si dirigono verso il luogo della
tragedia. Appartati sul lungomare, secondo la versione dell'omicida sarebbe nata una discussione fra
i due: Pelosi avrebbe sulle prime accettato e poi rifiutato di avere un rapporto sessuale con lo
scrittore, e sarebbe sceso dall'auto, seguito da Pasolini che lo avrebbe minacciato e successivamente
colpito con un bastone. A questo punto scatta la reazione del ragazzo che, affermò, non avrebbe
investito volontariamente il corpo dello scrittore, ormai agonizzante.
Appena giunto in carcere Pelosi, in quel momento ufficialmente accusato SOLO di furto d'auto (il
cadavere non era ancora stato ritrovato), si vantò però con un compagno di cella di aver ucciso
Pasolini, dimostrando piena consapevolezza non solo del reato compiuto, ma anche dell'identità
della vittima. Ad onor del vero questa circostanza, comunque dubbia, potrebbe essere spiegata con
un altro episodio: quando ancora nel commissariato a Pelosi viene contestato il furto, un
funzionario, dopo aver verificato la targa dell'auto, gli si sarebbe avvicinato dicendogli "l'hai fatta
grossa; hai rubato l'auto ad una persona famosa: Pasolini". Questo episodio sembrerebbe avvalorare
la tesi che Pelosi abbia saputo l'identità della vittima solo successivamente... Ma, viceversa, risulta
inspiegabile che proprio nel primo interrogatorio del 2 novembre Pelosi si riferisse a Pasolini
chiamandolo più volte per nome ("Paolo", "il Paolo"), dimostrando una conoscenza che, forse, non
era neppure nata quella notte ma prima; negli interrogatori successivi, invece, Pelosi parlò di
Pasolini con molto più distacco ("l'uomo", "l'individuo"), ribadendo più volte di non averlo mai
visto prima e di non essere stato a conoscenza della sua identità fino a quando non gli fu
comunicata. La lunga lista di contraddizioni, che gli inquirenti non cercheranno di smontare,
comincia qui ma si arricchirà di altri e più inquietanti episodi, che vediamo ora di analizzare.
LA VICENDA PROCESSUALE E L'ATTEGGIAMENTO DEI MEDIA
Il percorso processuale della vicenda fu relativamente veloce. La sentenza di primo grado è del 26
aprile 1976; quella d'appello del 4 dicembre 1976; la Cassazione si esprimerà in modo definitivo il
26 aprile 1979. In tutte queste sentenze la responsabilità di Pelosi quale autore materiale del delitto
emerge chiara ed inequivocabile, rigettando la linea della legittima o sproporzionata difesa e
dimostrando che Pasolini non fu (MAI ed in NESSUNA MISURA) "aggressore", ma "aggredito".
Nella prima sentenza Pelosi fu condannato per aver commesso l'omicidio "con il concorso di
ignoti". La corte d'Appello lo riconoscerà invece unico colpevole. La successiva sentenza della
Cassazione (pur essendo, per il suo carattere definitivo, quella più importante dal punto di vista
giuridico) è irrilevante sotto questi aspetti, essendo limitata alla valutazione di diritto e non di
merito.
Come in troppe vicende che hanno segnato la storia dell'Italia in quegli anni, di cui in parte ci siamo
già occupati, le sentenze lasciano molte e fondamentali zone d'ombra, non chiarendo il movente del
delitto, l'eventuale partecipazione di altre persone, l'ipotizzata esistenza di uno o più mandanti
(nell'ipotesi in cui l'omicidio sia stato eseguito su commissione).
Cominciamo ad analizzare sommariamente gli aspetti oscuri della vicenda. Una delle motivazioni
che, secondo la parte civile, avrebbe rafforzato la teoria della pluralità di aggressori era questa:
Pasolini era un uomo robusto ed in perfetta forma fisica, e difficilmente sarebbe stato sopraffatto da
un solo aggressore, specie se di costituzione esile come era Pelosi; quest'ultimo, inoltre, quando
venne fermato dai carabinieri, presentava solo un piccolo taglio sulla fronte (peraltro forse
attribuibile proprio al momento dell'arresto) e macchie di sangue della vittima solo sull'orlo dei
pantaloni: esisteva dunque una sproporzione troppo evidente fra le ferite dei due contendenti,
nell'ipotesi di una semplice rissa fra due persone degenerata in tragedia.
In realtà Pasolini era robusto, sì, ma non era un colosso (59 Kg. di peso per 167 cm. di altezza), ma
soprattutto era persona estremamente mite, che rifuggiva dalla violenza fisica. Lui stesso diceva di
sé (citazione dall'arringa dell'avvocato Guido Calvi in occasione del processo di primo grado): "In
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tutta la mia vita non ho mai esercitato un atto di violenza, né fisica, né morale. Non perché io sia
fanaticamente per la nonviolenza. La quale, se è una forma di auto-costrizione ideologica, è anche
essa violenza. Non ho mai esercitato nella mia vita alcuna violen 848f51i za, né fisica né morale,
semplicemente perché mi sono affidato alla mia natura, cioè alla mia cultura...". Dacia Maraini,
nella sua postfazione a "Io, angelo nero", scritto proprio da Pino Pelosi, scrisse: "Pasolini non
avrebbe mai fatto del male a nessuno, mai avrebbe minacciato e violentato. Lui semmai cercava
qualcuno che, in un gioco erotico, lo malmenasse un poco. Era questo il suo segreto.". Al contrario,
Pelosi aveva una personalità aggressiva ed incline a scatti di violenza, una personalità che avrebbe
dimostrato anche successivamente (un'aggressione in carcere ad un altro recluso ed una alla sua
compagna, come testimonia sempre Dacia Maraini in quella postfazione).
Fermo restando che la sproporzione tra le gravissime ferite di Pasolini e quelle, pressochè
insignificanti, di Pelosi può essere sicuramente spiegata con la partecipazione di altre persone al
pestaggio, non è da escludere che un soggetto violento come Pelosi potesse aggredire e sopraffare
velocemente un uomo mite come Pasolini, che avrebbe tentato una fuga senza opporre una
resistenza attiva, solo per vedersi raggiunto e picchiato ancora più selvaggiamente, fino a cadere
pressochè esanime.
Ma altri dubbi circa la versione di Pelosi quale unico aggressore vengono alimentati da un
particolare solo in apparenza secondario. La zona in cui Pasolini fu massacrato era sterrata e
fangosa, ma Pelosi, che pure dichiarò più volte di essere caduto a terra durante la colluttazione, al
momento dell'arresto non presentava particolari tracce di fango sugli indumenti; la scusa addotta a
tale proposito dal ragazzo (si sarebbe fermato ad una fontanella per lavarsi, prima di essere fermato
dai carabinieri) appare debole e non sorretta da quanto riscontrato nell'auto di Pasolini o sui vestiti
dell'omicida al momento dell'arresto.
Se già questi elementi fanno dubitare che Pelosi fosse da solo su luogo dell'omicidio, è però un'altra
questione, ancora più importante, a restare irrisolta: una spiegazione razionale a quel massacro.
Questo è il vero punto debole della sentenza d'appello, che non riesce a spiegare perché Pelosi
avrebbe dovuto colpire fino alla morte Pasolini. Solo un raptus di violenza brutale?
A tale proposito, torniamo all'atteggiamento di Pelosi di fronte agli inquirenti, alla sua reticenza ed
alla sua abilità di confondere le acque a proprio vantaggio. Una reticenza ed un'abilità per certi versi
comprensibili. Pelosi, ragazzo incolto ma astuto, capì fin dall'inizio che, essendo minorenne ed
immaturo, aveva tutta la convenienza di addossarsi il delitto come unico responsabile. Questo
spiega il suo silenzio di allora, ma anche quello degli anni successivi: se avesse voluto parlare
successivamente in quanti gli avrebbero creduto, dopo le menzogne passate? E quanto avrebbe
rischiato se avesse rivelato di aver compiuto il delitto con la partecipazione di altri (oppure da solo,
ma rispondendo ad ordini altrui e con la copertura di ignoti)? Ma tutte queste considerazioni
spiegano la reticenza di Pelosi, NON CERTO l'arrendevolezza con cui la Magistratura la accetta!...
E questo ci porta ad altre domande.
Perché non vennero svolte indagini più approfondite tra i "ragazzi di vita" romani?
Perché non si tentò di approfondire il rapporto tra l'estrema destra romana e la malavita comune,
che sicuramente aveva un ruolo determinante nella gestione della prostituzione giovanile?
Perché, dopo le rivelazioni de "L'Europeo" (su cui ci soffermeremo fra poco) non si cercò di
approfondire le testimonianze dei residenti nelle baracche che sorgevano attorno allo spiazzo dove
fu ucciso Pasolini? Alcuni di questi, reticenti di fronte ai Magistrati, sotto anonimato parlarono
ESPRESSAMENTE coi giornalisti di un pestaggio eseguito DA PIU' PERSONE...
Purtroppo non esiste risposta a queste domande: gli inquirenti, come già detto convinti di trovarsi di
fronte ad un caso già chiaro e con un solo reo confesso, non provarono ad esplorare possibili
alternative. Alternative che forse avrebbero portato a considerare Pelosi NON l'attore protagonista
dell'omicidio, ma un mero strumento; lo strumento che doveva portare NON SOLO alla morte di
Pasolini, ma ad una morte consumatasi "nel disonore". L'ipotesi che qualcuno volesse dare una
lezione a Pasolini resta infatti più che plausibile. Una lezione che forse non doveva culminare
nell'omicidio, ma in cui ai picchiatori scappò di mano la situazione. E seguendo questa
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supposizione è facile capire i tre motivi per cui è stato "scelto" Pelosi (da solo o col concorso di
altri): perché era facile per lui avvicinare il regista; perché era facilmente manipolabile e gestibile
nella fase successiva; perché, vista la sua minore età, gli si poteva promettere, se non l'impunità,
una pena lieve. In tale modo si rafforza la convinzione che Pasolini dovesse essere NON SOLO
ucciso, ma ucciso in modo che la sua memoria (e conseguentemente la sua opera) venisse
compromessa. O, in alternativa, che si sia sfruttata l'occasione della sua morte per innescare quel
processo denigratorio.
Su CHI abbia potuto ordinare l'azione non è possibile esprimere certezze, ma sicuramente può
venirci in aiuto questo estratto dalla prefazione di Giorgio Galli al volume AA. VV. "Omicidio nella
persona di Pasolini Pier Paolo" (Kaos Edizioni, Milano 1992): "Se si parte dall'ipotesi che Pasolini,
nonostante la sua cautela, abbia potuto essere attirato in un agguato, si riduce l'importanza della
presenza attiva di più persone. Qualcuno poteva essere sul luogo per aiutare Pelosi (tesi del
Tribunale), oppure questi ha agito fulmineamente da solo (tesi della Corte d'Appello), magari
controllato sul posto da qualcuno non attivo ma pronto a intervenire in caso di necessità. Questa
ipotesi richiede una spiegazione su chi e perché abbia contattato Pelosi a quello scopo. Sul "chi"
non occorre affaticare la fantasia: le cronache di quegli anni sono gremite di poteri occulti, di
servizi deviati, del crimine organizzato che fornisce strutture e operatori per azioni di finta
destabilizzazione e di autentica stabilizzazione politica. Non vi è che l'imbarazzo della scelta. Pelosi
è stato uno strumento. Ora può continuare la sua vita di emarginato senza gloria, perché, se volesse
raccontare qualcosa, sa quel che gli costerebbe e che nessuno gli crederebbe. Quale era l'obiettivo
dell'agguato? Personalmente ritengo probabile una delle "causali" suggerite dal Tribunale: si voleva
"dare una lezione" a Pasolini, ma non per uno "sgarbo", bensì per quello che egli rappresentava nel
momento politico, così come, un paio d'anni prima per la stessa ragione, si era voluta dare una
"lezione" all'attrice Franca Rame."
Ma nel "caso Pasolini" il giudizio sull'operato della magistratura purtroppo non è l'unico giudizio
negativo: anche i media trattarono la vicenda in modo a dir poco deplorevole. L'attenzione dei
media si indirizzò morbosamente sul contesto degradato in cui era maturato l'omicidio, più che sul
fatto in sé. I riflettori furono da subito puntati sui risvolti sessuali della vicenda, che solleticarono
gli istinti, a metà fra il perbenismo ed il pruriginoso, dell'opinione pubblica. A questa
banalizzazione e distorsione dell'omicidio contribuì il clima dell'epoca, in cui i pregiudizi verso gli
omosessuali erano ancora più radicati e violenti di quanto non siano oggi.
Le cronache si interessarono più all'inclinazione sessuale di Pasolini che ad altro, e sulle pagine di
molti quotidiani la prima versione di Pino Pelosi fu presto spacciata come una verità acclarata: la
storia di un "povero ragazzo" vittima delle attenzioni di un "vecchio sporcaccione"; un ragazzo che
per denaro inizialmente cede alle avances dello scrittore, ma poi cerca di negarsi e, di fronte
all'aggressione di Pasolini, si difende innescando una colluttazione finita in tragedia. E
l'atteggiamento della stampa ricalcò, come detto in precedenza, l'approccio degli investigatori, che
indagarono più nel passato della vittima che in quello dell'assassino, cercando qualche elemento che
consolidasse in loro le convinzioni intimamente già maturate.
E' comunque vero che non tutta la carta stampata si distinse per questo atteggiamento superficiale.
Anche sul caso Pasolini vennero condotte delle "controinchieste"; come accennato in precedenza,
queste trovarono la loro punta di diamante in alcuni articoli di Oriana Fallaci e di altri giornalisti su
"L'Europeo". La controinchiesta, che tende a dimostrare la teoria del complotto ai danni del regista,
è oggettivamente suggestiva e solleva molte delle questioni qui trattate finora ed altre ancora,
basandosi su testimonianze di persone reticenti di fronte alle Autorità, per paura di conseguenze
personali, ma disposte a parlare sotto anonimato con i giornalisti.
La controinchiesta purtroppo si basa, non certo per colpa degli autori, su testimonianze
contraddittorie ed inaffidabili, segnate come sono a tratti dalla reticenza e dalla paura, ed in altri
momenti contraddistinte da un'ansia esibizionistica che giunse anche ad autoaccuse. Ma ancora una
volta è da sottolineare che la Magistratura si disinteressò di queste piste alternative, o le valutò con
superficialità. E' vero che i giornalisti de "L'Europeo" non rivelarono le proprie fonti ai Magistrati,
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tutelandone l'anonimato, ma già il fatto che la stampa abbia tentato di andare più in profondità della
Magistratura appare a dir poco sconcertante.
Per chiudere le considerazioni circa le indagini ed i dubbi emersi nelle controinchieste, consiglio la
visione del bel film di Marco Tullio Giordana, "Pasolini, un delitto italiano" del 1995.
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LA FIGURA DI PASOLINI
Pier Paolo Pasolini nasce nel 1922 a Bologna. A 17 anni si iscrive all'università, facoltà di lettere.
Nel 1945 l'uccisione del fratello Guido, partigiano, lo segna profondamente.
Successivamente si stabilisce in Friuli, dove comincia a lavorare come insegnate in una scuola
media e si avvicina al PCI. Il rapporto con le gerarchie del partito sarà però controverso e segnato
purtroppo da incomprensioni e contrasti, dovuti in parte all'inclinazione sessuale dello scrittore ed
in parte ad un atteggiamento di Pasolini che alcuni reputeranno a volte "eccessivo" o "troppo
borghese".
Nel 1949 viene denunciato per corruzione di minorenne: è solo la prima di una lunga sequenza di
traversie giudiziarie che, con l'aumentare della sua notorietà, si intensificheranno assumendo i
contorni di una vera e propria persecuzione (una persecuzione che da giudiziaria diventerà anche
mediatica, culminando nelle rituali contestazioni che gruppi dell'estrema destra insceneranno in
occasione delle proiezioni dei suoi films). Poco tempo dopo si trasferisce a Roma, insieme alla
madre.
Nel 1955 viene pubblicato il romanzo "Ragazzi di vita". Anche qui, nonostante un buon successo di
critica e di pubblico, Pasolini non sarà risparmiato da feroci attacchi, anche da sinistra. Nel 1957
pubblica la raccolta di poesie "Le ceneri di Gramsci".
Nel campo del cinema, dopo aver collaborato a "Le notti di Cabiria" di Fellini, l'esordio come
regista e soggettista è del 1961 con "Accattone". Da questo momento l'esperienza cinematografica
assorbirà notevolmente le sue energie: nel 1962 dirige "Mamma Roma", nel 1963 "La ricotta"
(episodio inserito in un film girato da più autori), nel 1964 "Il Vangelo secondo Matteo", nel 1965
"Uccellacci e uccellini", e così via, fino ad arrivare al suo ultimo film del 1975, "Salò o le 120
giornate di Sodoma".
Tutto questo per fermarsi a cenni rigorosamente biografici. Ma accostarsi alla figura di Pasolini
vuol dire innanzitutto, sempre citando Giorgio Galli, trovarsi di fronte ad "una delle personalità più
emblematiche e positive della ricca cultura italiana della seconda metà del Secolo". Artista
poliedrico, testimone scomodo del suo tempo, intellettuale libero ed indipendente... Pur essendo in
linea di principio contrario alle etichette (la vita di un uomo, specie quella di un artista come
Pasolini, difficilmente può essere racchiusa e limitata in poche parole), devo dire che queste
definizioni trovate in rete sono tutte calzanti.
Togliatti ha rivolto ai dirigenti dei settori culturali e stampa del partito l'invito ad andare cauti con il
considerare Pasolini un fiancheggiatore del partito e nel prenderne le difese. L'iniziativa di Togliatti
che riscontra molte contrarietà, parte da due considerazioni. Togliatti non ritiene, a suo giudizio
personale, Pasolini un grande scrittore, ed anzi il suo giudizio in proposito è piuttosto duro. Infine,
egli giudica una cattiva propaganda per il PCI, specialmente per la base, il considerare Pasolini un
comunista, dopo che l'attenzione del pubblico, più che sui romanzi dello scrittore, è polarizzata su
talune scabrose situazioni in cui egli si è venuto a trovare fino a provocare l'intervento del
magistrato...". Ad onor del vero si deve aggiungere che a contrastare queste critiche molti esponenti
del PCI si distinsero al contrario in apprezzamenti verso la figura e l'opera di Pasolini.
Come già detto, sarebbe presuntuoso e fuori luogo pretendere di dettagliare in modo esauriente la
figura e l'opera di Pasolini in questa sede. Ma voglio chiudere questo articolo ricordando quanto
attuale fosse il suo impegno contro l'omologazione culturale, che oggi pare sempre più evidente, ma
i cui segni Pasolini vedeva già all'epoca.
Da un articolo dello scrittore, pubblicato il 9 dicembre 1973: "Non c'è dubbio (lo si vede dai
risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al
mondo. Il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogan mussoliniani fanno ridere: come (con
dolore) l'aratro rispetto a un trattore. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente in
grado nemmeno di scalfire l'anima del popolo italiano; il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi
di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione) non solo l'ha scalfita, ma l'ha
lacerata, violata, bruttata per sempre...".
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O ancora (da Vie Nuove n. 36, 6 settembre 1962): "L'Italia sta marcendo in un benessere che è
egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo: prestarsi in qualche
modo a contribuire a questa marcescenza è, ora, il fascismo.".
Credo si tratti di parole che facevano paura all'epoca, ma il loro contenuto profetico e terribilmente
attuale lo possiamo constatare proprio oggi. Pasolini parlava di un fascismo "in giacca e cravatta",
forse più pericoloso di quello "con fez e manganello". Un fascismo strisciante che si insinua nella
società al fine di plasmarla per il futuro: Pasolini lo capiva già allora, e gettò il suo allarme,
pressochè inascoltato. Ma gli effetti di quella subdola opera di rimodellazione della società italiana
(e, direi, della coscienza dell'italiano medio) sono oggi sotto gli occhi di tutti... Ed è per questo che
non dobbiamo dimenticare quelle parole, come non dobbiamo dimenticare il resto di quanto ci ha
potuto trasmettere ed insegnare Pasolini nella sua breve esistenza.
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PASOLINI POETA
Sento il dovere di indicare ai lettori la "diversità" di questa prima puntata, che tratta delle poesie,
rispetto a tutte le altre, in cui faccio quasi sempre l'esame accurato delle opere.
Per le poesie invece ciò non accade, per una causa molto pratica. Quando l'Amministratore di
Homolaicus, professor Enrico Galavotti, mi chiese di pubblicare qualcosa su Pasolini nel suo sito,
io avevo già letto i due volumi dei "Meridiani" riguardanti le opere di poesia del nostro, e non
avevo preso appunti in vista del presente saggio bensì esclusivamente per un fine di conoscenza
personale. Successivamente ho letto e appuntato, in vista del saggio e dei destinatari, e non solo per
la
mia
formazione
culturale.
Potrei ora rileggere tutte le poesie, è vero, e fare anche per questa prima puntata ciò che ho fatto per
le successive. Ma ci sono due motivi contrari a ciò: 1) non mi va di rileggere per il momento le
poesie di Pasolini; 2) questa puntata è forse quella che preferisco, proprio perché non risente affatto
di un tono didattico e presenta le mie prime impressioni personali in seguito alla rilettura (la prima
lettura la feci tanti anni fa, sui testi monografici) di questo Autore straordinario.
Difficili, le poesie di Pasolini. Pretendono un’attenzione non superficiale, perché devono arrivare,
trasformandolo, al cuore di un lettore affezionato. Se si è prevenuti verso l’uomo che le ha scritte,
non si andrà in profondità nella lettura dei suoi versi, anzi ci si fermerà alla delusione data dal non
aver compreso o, peggio ancora, dal pregiudizio di essere al cospetto di un insensato che si
contraddice spesso.
Fu precoce, come tutti i geni, grazie all’influenza della madre, che era maestra; ma anche in virtù di
una innata sensibilità che lo voleva “diverso” sin dal ventre materno, prima di ogni scelta.
Le prime poesie che pubblicò erano, nel 1942, in dialetto friulano. Amante del dialetto, fu sempre
un sostenitore della cultura localistica, ma si sarebbe presto reso conto che essa era destinata a
perdere con l’avanzare di una per lui orribile lingua italiana “media”.
Personalmente, non ho potuto gustare i versi nel dialetto della sua regione, e allora mi sono servito
della traduzione in italiano fatta da lui stesso.
Le poesie friulane della sua giovinezza convergono nell’opera La meglio gioventù, pubblicata nel
1954 (come ho detto sopra, c’è anche la versione italiana).
Giacché il mio non pretende di essere un lavoro critico, mi soffermerò su ciò che ha provocato in
me forte impressione. Spero che le mie considerazioni servano anche ad altri.
Cosa ho notato innanzi tutto? La presenza di angeli, demoni (del Diavolo, in particolare), di Dio
stesso, in un poeta che diceva di essere ateo. Si sa, i poeti hanno licenza di mentire. Ma quando ha
mentito lui? Quando diceva di essere ateo oppure quando parlava degli esseri spirituali che
visitavano la sua anima?
Lascio questa domanda senza risposta, perché suggerisca a tutti la via della congettura, sempre
provvisoria: il solo domandare continuo sviluppa in sé il cambiamento (progressivo) di cui parlavo
all’inizio di questo capitolo.
In una poesia, in particolare, scrive:
“Chi sente la voce degli Angeli? […] Chi sente il canto degli Angeli? […] Chi crede negli Angeli?”
L’ambiguità da parte sua è d’obbligo e apre ad ogni interpretazione, che nasce in ultima analisi
dalle credenze del lettore.
Un’altra evidenza che notiamo è l’identificazione del poeta con Cristo, sino a volerne condividere
lo stesso destino di martirio, soprattutto dopo la morte del fratello Guido, giustiziato da partigiani
comunisti italiani e slavi. Nonostante ciò, Pasolini sarebbe rimasto sempre comunista, sia pure
atipico, anche dopo essere stato espulso dal partito per lo scandalo che egli diede in quanto
omosessuale.
E qui veniamo al nocciolo della mia analisi appassionata. Io mi sono fatto l’idea che il poeta di
Casarsa usò la sua diversità sessuale come mezzo per arrivare a un fine di darsi e dare conoscenza;
inoltre – penso – non sarebbe stato così tanto amato dai lettori futuri se fosse stato eterosessuale.
Ci sono due versi che mi fanno molto riflettere:
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“Ma… hai forse ingannato / lo stesso Tentatore?”
E’ il Diavolo a fargli questa domanda. Questi due versi mi ricordano le tre tentazioni di Satana
perpetrate invano per convincere Cristo a passare dalla sua parte. Pasolini, non solo, come Cristo,
non cede e rimane fedele alla sua purezza, ma “usa” la diversità sessuale per un fine puro, in ultima
analisi:
“Tanto peccai quanto più puro / e intrepido giocai la partita.”
“Per redimerci Cristo / non è stato innocente, ma diverso.”
Chi saprà non scandalizzarsi di fronte a questa diversità, è già sulla buona strada per comprendere
qualcosa di più su questo nostro religioso ateo!
E qui un’altra considerazione: il suo rapporto con la Chiesa.
Parla di S. Paolo come del vero fondatore della Chiesa:
“Oh dolore, proprio dentro, nel fondo più mio del mio cuore, di sapere che San Paolo è stata la
grande disgrazia di questo piccolo mondo.”
Cosa rimprovera all’apostolo dei gentili? Di aver fondato una chiesa anziché una religione. Pasolini,
che già non sopporta le istituzioni laiche (pur ritenendole necessarie), e non le sopporta in quanto
pretendono obbedienza e messa a tacere, a volte, dell’amore, non ha scrupoli nel considerare la
religione istituita come il vero disastro di questo mondo, perché è fatale che l’istituzione religiosa
scenda a compromessi con il potere politico laico, che si serve di essa per il controllo delle masse.
Torneremo a parlare di ciò nei prossimi capitoli, anche perché proprio nel nostro tempo la Chiesa
sta portando avanti una strategia di ingerenza sempre più forte negli affari dello Stato,
compromettendo alcuni importanti diritti di laicità, e ottenendo dallo Stato dei privilegi fiscali e
finanziari.
Cosa è religione per Pasolini? E’ legame disinteressato tra gli uomini. E’ amore, in ultima analisi.
Chi è Dio per lui? O, meglio, cosa è Dio? E’ innanzi tutto la Realtà. Ha un amore viscerale,
sensuale per tutto ciò che lo circonda. Nelle sue poesie si emoziona per eventi apparentemente
banali, come il canto di vari tipi di uccelli o la bellezza caduca dei fiori. La Realtà è per lui una
teofania, manifestazione divina: tutto è sacro, quindi. E cosa è l’Irrealtà? E’ il Nemico da
combattere, sperando alla fine di vincerlo:
“Il futuro dell’uomo! Nessuno sapeva più nulla della pietà, / della speranza: sapevano […] /
solamente il futuro”
L’Irrealtà è data dalla nostra società, quindi, ma Pasolini sapeva che potevano esserci delle
eccezioni. Prima sperava che fossero tali alcuni sottoproletari sensibili e ingenui, ma in seguito alla
mutazione antropologica che trasformò tutti in piccoli borghesi, la disperata speranza del poeta si
rivolse ai giovani colti e sensibili, affinché comprendessero la necessità di una svolta nella loro vita
e fossero, al tempo stesso, obbedienti e disobbedienti. Obbedienti sui valori tradizionali della
cultura e degli affetti, ma disobbedienti nei confronti di chi minacciava la loro indipendenza e li
voleva sottomessi ai poteri costituiti.
Tutto ciò con molta ironia, perché mai prendersi sul serio, noi e lui, consci che la realtà è
ambivalente, e l’altra faccia della medaglia dell’indipendenza morale e culturale, è il rischio della
superbia spirituale.
Fermo adesso l’attenzione su questi altri due versi:
“Ma guai a chi muore amato dagli uomini, / vuol dire che non ha amato la Verità!”
Sono parole terribili, che potrebbero celare persino della misantropia (e superbia), ma è proprio
così? Egli in realtà aveva un carattere dolce e mansueto, non odiava gli uomini; odiava certo la
borghesia e quindi rimase scosso quando avvertì l’imborghesimento universale, che spazzò via
l’autenticità della cultura popolare sottoproletaria. Se rileggiamo gli epigrammi ne La religione del
mio tempo (1961) dedicata a Elsa Morante, ci rendiamo conto di un individuo che, come lui stesso
dice, è “umiliato e offeso”, ma non certo in grado di odiare il genere umano: il suo rancore (voglio
congetturare) è “strumentale” come la sua omosessualità. Non appartiene tanto alla persona di
Pasolini, quanto serve ad indicare una strada di opposizione ai lettori ideali, affinché essi,
guardando al suo esempio, non solo rinuncino a scendere a compromessi con il potere che li
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circonda (Mammona!) ma abbiano anche l’energia (trasmessa dallo stesso Autore, attraverso la sua
testimonianza esistenziale, cioè nell’opera artistica e nell’impegno socio-politico) per starsene gai in
un Grande Rifiuto, che non trascura però la Realtà:
“Il Barocco / ridiscende a dare irrealtà agli uomini: / e la sola realtà è la solitudine. […] / Non
sapete? Proprio / insieme al Barocco del Neo-Capitalismo / incomincia la Nuova Preistoria.”
Dunque: la Storia è quella dei valori della tradizione umanistica (cui appartenne anche Pasolini,
ovviamente) ma non solo: è anche la cultura popolare e dialettale. Con l’avvento del neocapitalismo
e l’imborghesimento di tutti, cessa la Storia e comincia una Nuova Preistoria, con i falsi valori del
consumismo. L’impegno di Pasolini si spiega così, secondo me: egli vuole preservare dalla nefanda
mutazione culturale un numero quanto più alto possibile dei suoi lettori, mantenendoli nella Storia e
quindi nella vera vita. Non fu l’unico certo, ma fu quello che si spese di più, sino al sacrificio del
suo corpo; altri hanno fatto la loro “parte”, come – per citarne alcuni – Morante, Moravia,
Bertolucci, Calvino, Volponi…
Sono sicuro che, se fosse stato per lui, se si fosse disinteressato di noialtri suoi posteri, avrebbe
condotto una vita eternamente giovane, viaggiando di qua e di là… Infatti dice di sé stesso, in un
autoironico “coccodrillo”:
“Appartenne a una delle ultime generazioni così fortunate. / E’ stato veramente un idiota a
sacrificare al lavoro / tante di quelle notti, a non aver passato la vita intera / in Marocco, in Sicilia, o
magari solo in Maremma.”
Ecco la parola chiave. La parola del linguaggio religioso: “sacrificio”. Pasolini si è sacrificato per
noi. La sua vulnerabilità è solo apparente, una sua maschera necessaria non a lui ma a noi, che
attraverso un processo di immedesimazione diventiamo consapevoli della “nostra” vulnerabilità
reale, affinché la trasformiamo alchemicamente in forza, progressivamente, passando da una
iniziale incoscienza, sino ad arrivare a una lucida consapevolezza. Così nessuno sguardo per quanto
ammaliante ci sedurrà (riportandoci indietro), non quello dei potenti, né quello di donne stupende, e
nemmeno quello di madri vili:
“Madri vili, poverine, preoccupate / che i figli conoscano la viltà / per chiedere un posto, per essere
pratici, / per non offendere anime privilegiate, / per difendersi da ogni pietà.”
Così diverse queste madri dalla sua, Susanna Colussi, coraggiosa pur nel silenzio, alla quale dedicò
la sua poesia forse più conosciuta, in cui tra le altre parole nate dalla commozione (non
irragionevole, però), dice:
“Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore, / ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore. /
Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere: / è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.”
Un amore “insostituibile” (come rivela subito dopo), che gli impediva di amare altre donne, che
pure si innamoravano disperatamente di lui. Destino bizzarro, il suo, che amò angosciatamente colei
che l’aveva messo al mondo! [contra v. PASOLINI E IL CINEMA, quando parlo del film Edipo re;
presento infatti una interpretazione completamente diversa, conseguente all'avanzamento nella
lettura delle sue opere].
Di altri temi che lo riguardano, come per esempio il rapporto col padre, avrò occasione di parlare
nei capitoli successivi, in cui analizzerò ulteriori aspetti del suo “impegno” poliedrico,
approfondendo, se è il caso, anche i temi qui trattati
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PASOLINI NARRATORE 1946-1961
E’ più amato e famoso come poeta (il maggiore poeta civile italiano contemporaneo, secondo
Moravia), piuttosto che come narratore di romanzi e racconti. Ai suoi sono preferiti i romanzi e i
racconti di un Moravia o un Calvino, solo per fare due nomi. Eppure anche la sua opera narrativa è
un tassello indispensabile nella costruzione di quel mosaico che doveva essere la sua testimonianza
globale.
Pur essendo conscio sin da piccolissimo della propria diversità sessuale, ebbe le prime esperienze
omosessuali solo nel '44, a ventidue anni. Cominciò quindi a tenere una sorta di diario in cui
confessava dolorosamente l'omoerotia, che non riuscì ad accettare mai del tutto, perché sentiva che
veniva da fuori, cioè non era connaturale con la sua anima. Più tardi inizia a scrivere due romanzi,
Atti impuri e Amado mio, nei quali "oggettiva" l'esperienza sessuale diversa, servendosi di due
personaggi: Paolo (protagonista di Atti impuri, nel quale si riconosce pienamente) e Desiderio
(protagonista invece di Amado mio, riflesso della parte oscura di sé - o, meglio, di tutti - una sorta di
dandy frivolo e gaudente, a tratti geloso ed anche vendicativo).
Paolo (il cui carattere mansueto corrisponde alla psiche dell'Autore) dice di sé:
"la recente perdita della verginità di adolescente [...] mi aveva tolto molto del mio candore e della
mia aspirazione alla bontà."
E agli angeli che lo tormentano dichiara:
"Dio [...] se proprio mi vuole, si faccia temere in me, non nei suoi innocenti [...]. Tutto questo è
stato scritto ad ogni modo a un solo fine: quello di ottenere un'autorizzazione. Io chiedevo a Dio di
autorizzarmi a peccare!"
Quanto a Desiderio, Pasolini scrive nella prefazione ai due romanzi, che era costretto a immergerlo
"in un diluente «cattivo», vuol dire che ero obbligato a farlo e che era sotto questa luce che io
dovevo apparire ai lettori di questo libro"
Perché essere considerato peggiore di quel che era? Usava se stesso, la propria reputazione, per
indurre il lettore a un "viaggio" nell'inconscio pieno di peccati, da illuminare appunto con la luce
della coscienza, contro ogni dannosa rimozione. In quest'ottica possono essere spiegate anche le
descrizioni minuziose di perversioni ed incesti, nel suo ultimo romanzo, incompiuto, Petrolio.
Al 1951 risale un progetto su un poema sul mare, in cui avrebbe dovuto mescolare una storia
cosmologica del mare con vicende della propria infanzia. Scrisse qualche decina di pagine, in due
opere incomplete, Coleo di Samo e Operetta marina. Riferiscono Walter Siti e Silvia De Laude
nella notizia sui testi:
"da bambino Pasolini aveva chiamato "teta veleta" i suoi primi turbamenti sessuali; "Thetys", gli
aveva detto Contini, in greco significa sesso; ed era, per di più, il nome dato dai geologi al mare
triassico da cui si era formato il Mediterraneo. A tutto questo si aggiungeva l'identificazione fra
l'emozione erotica e l'emozione legata, da bambino, alle fantasticherie marine."
In realtà Contini aveva sbagliato perché "Thetys" in greco non significa "sesso".
Dice l'Autore friulano: "Noi veniamo dal mare, non dal cielo."
Nell'Operetta marina spiega meglio che il cielo ci chiederebbe di sopprimere il "nostro vizio" e il
nostro passato, mentre il mare ci permette non solo di "essere sempre, beatamente,
indifferenziatamente noi stessi" ma di "essere anche quello che siamo stati, di effetto in causa,
dunque, nel pieno, continuo calore della vita..."
"questo mare appena creato non dalla volontà di Dio e non poetizzato dalla violentissima paratassi
dei versetti biblici, ma da una meccanica che supera ogni espressione"
Quello che conta non è tanto la cosa in sé (il mare) quanto l'espressione stessa, quindi la storia
stratificata delle varie espressioni che "creano", in questo caso, la "vera storia del Mare".
Nell'Operetta marina, apprendiamo, tra l'altro, nelle notizie sulla sua infanzia, che a causa della
frequentazione con due ragazzette:
"i miei compagni si erano fatti una mia immagine di impube Don Giovanni"
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Sono, d'altra parte, anche le letture che egli fa, a dargli una idea di necessità della propria diversità
(mentre gli altri suoi compagni seguiranno per lo più la via di una esistenza normale), da vivere per
dare e darsi conoscenza:
"si vede che come nella materia tutti gli squilibri sono compensati, così nelle cose dello spirito,
forse, esiste un tale equilibrio per cui una cosa non pensata o mal pensata, poniamo, da una gran
quantità di spiriti, deve essere pensata e sofferta da una minoranza, ma con tanta intensità e fedeltà
da compensare la sproporzione."
Così scrive infatti all'amico Franco Farolfi, in una lettera del 1943. Raccogliendo tutti questi indizi,
possiamo congetturare che il suo impegno culturale ed esistenziale nasce come "destino" se
intendiamo dare a questo termine il senso di "destinazione" da parte della cultura (come
stratificazione delle espressioni) che lo ha preceduto, conoscendo la quale egli si immette sulla sua
via personale e atipica rispetto a una normalità, che pure poteva vivere fisicamente ma alla quale
"deve" rinunciare. Certamente questa mia congettura non coincide a pieno con altre espressioni che
Pasolini riferisce sulla sua diversità, come qualcosa di predestinato, ma è possibile una sintesi se
pensiamo che il destino non è coattivo, ma è come se lo fosse, in un animo generoso come quello di
lui, che non poteva sottrarsi a questo suo "cammino" per sé e per gli altri.
Nel '49 fugge a Roma con la madre, dopo che è stato denunciato per corruzione di minorenni e atti
osceni in luogo pubblico, ed espulso anche dal partito comunista. Di questo che fu il dramma della
sua vita, c'è una trasfigurazione in un romanzo incompiuto di qualche anno dopo, dal titolo Il
disprezzo della provincia. Qui non parla direttamente della sua disavventura, ma si sdoppia in due
personaggi, entrambi letterati, ed anche impegnati in politica (uno come militante, l'altro
simpatizzante). Essi, in quanto intellettuali liberi, sono osteggiati da tutti gli altri, che hanno
preferito, per convenienza, sottomettersi a un qualsivoglia potere. Quando uno dei due cade per un
fattaccio non ben precisato nel romanzo, è costretto, proprio come Pasolini, a fuggire via. Il vizio,
tollerato e nascosto in tutta omertà solo se commesso da parte degli "integrati" (alla società di
provincia, apparentemente pulita), è invece motivo di scandalo quando a cadere è uno che non si è
piegato dinanzi ai potenti. I due intellettuali protagonisti sono consapevoli di rappresentare nei
confronti del loro ambiente, ciò che erano gli ebrei durante la cattività babilonese: degli intoccabili.
Ragazzi di vita esce da Garzanti nel maggio 1955. L'autore è affascinato dalla vita dei borgatari
romani, conosce molti sottoproletari che vivono di espedienti, spesso fanno i ladri o si
prostituiscono. Nel romanzo narra le vicende del Riccetto e dei suoi compari, delle loro giornate
gaie e lontanissime dalla morale borghese, almeno fino a quando il Riccetto non si fidanza e trova
lavoro. Mentre da adolescente è persino capace di rischiare la vita tuffandosi in acqua per salvare
una rondine in difficoltà, alla fine del romanzo, ormai uomo e reso disincantato dall'esperienza, e da
tre anni di carcere, non si butta nel fiume per salvare un ragazzino che muore affogato. Un
sottoproletariato allegro, dalla battuta salace, nell'alterità rispetto a un potere civile e religioso ad
esso estraneo, quel potere che non garantisce equamente un posto di lavoro a tutti e quindi costringe
indirettamente al crimine.
Il romanzo successivo sui borgatari esce nel 1959: Una vita violenta. Narra le vicende di Tommaso,
giovane ladruncolo romano, che passa da una ingenua fede di estrema destra, a motivo del culto
virile per Mussolini, che pure non gli impedisce, a volte, di guadagnarsi la pagnotta andando con i
"frosci", alla scoperta, nuova per lui, di uomini disinteressati, militanti comunisti; conosce questi
ultimi al sanatorio, dove è stato ricoverato per una forma non grave di tubercolosi, che però si
aggrava repentinamente quando, per salvare una prostituta dalla inondazione che devasta le
baracche, si dà il colpo di grazia: la mattina seguente sbocca sangue, lo ricoverano in ospedale ma,
essendo ormai segnato, decide di voler morire a casa sua (non alle baracche, perché già da tempo si
era trasferito alle case INA, vivendo un'altra scoperta: quella della superiore, a suo modo di vedere,
mentalità degli studentelli piccolo-borghesi). Dopo una gioventù spesa in rapine, violenze varie e
marchette, muore riscattato, al punto che i compagni comunisti intitolano a suo nome la sezione di
Pietralata.
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Sono gli anni '50, ancora, e Pasolini abiurerà in seguito a questo "ridicolo decennio", ridicolo per le
speranze da lui stesso vissute in ordine a un riscatto collettivo dei sottoproletari all'ombra di una
bandiera rossa, che invece negli anni successivi, con la mutazione antropologica degli italiani, i
quali diventeranno tutti dei piccoli borghesi incapaci di qualunque azione disinteressata e attaccati
al solo benessere materiale, sarà uno strumento retorico, usato a fini propagandistici da una sinistra
che, accettando il consumismo, rinnegherà il pensiero autentico dei propri padri fondatori, quale fu,
primo fra tutti, l'amato (da Pasolini) Gramsci.
C'era ancora (ma per poco tempo) un mondo incontaminato, nel mondo del neocapitalismo
incipiente: l'oriente, con la sua civiltà non fondata sulla volontà di potenza, come invece qui da noi
occidentali; la civiltà indiana, soprattutto, all'insegna della rassegnazione. Appartiene al 1960 un
viaggio del nostro con Moravia ed Elsa Morante, in India appunto, il cui resoconto Pasolini (anche
Moravia ne scriverà uno suo: Un'idea dell'India) pubblica a puntate sul "Giorno", e
successivamente, nel 1962, nel volume L'odore dell'India. A causa della miseria, gli indiani poveri,
cioè la maggioranza, non possono essere felici, eppure c'è in loro una forma di gioia, "quasi allegria:
è tenerezza, è umiltà verso il mondo, è amore...
Un'India, quella che conoscono i nostri tre simpatici visitatori, quasi del tutto priva di volgarità, un
popolo educato, mite persino alle fermate degli autobus, con ragazzini calmi anche quando
chiedono l'elemosina (Pasolini aiuta uno di loro a trovare una sistemazione presso un religioso
cattolico che non cercherà di indurre il ragazzo a convertirsi al cattolicesimo: la libertà religiosa
degli indiani è proverbiale, e solo i musulmani hanno un carattere più austero a causa delle certezze
date dal Corano). Durante questo viaggio il nostro conosce pure Madre Teresa di Calcutta, che gli
appare un esempio di vera bontà, cioè bontà senza sentimentalismi, pazientemente pratica.
Si è detto: Pasolini anche autore di racconti. Inizialmente non può non scrivere della sua iniziazione
alla omosessualità, quasi fosse una necessità non puramente corporale, ma altruistica. In un primo
racconto l'Arcangelo dice al Santo per convincerlo a rinunciare alla sua purezza:
"Solo dopo il peccato e la vergogna ti potrai sentire veramente umile: solo allora ti sentirai di terra,
e inutile, e triste e stretto agli altri uomini quasi ti affratellasse ad essi l'omertà di una medesima
colpa."
In altri racconti descrive le condizioni di miseria disumana in cui vivono i sottoproletari nei tuguri
sparsi nella periferia romana, quasi campi di concentramento. In altri parla dei diletti viaggi nel
Meridione d'Italia, dove si imbatte in giovani colti che sono la sua speranza, e in altri, fascisti, che
pur simpatici quando si tratta di mangiare insieme o bere del vino, però gli provocano dolore al
pensiero di quanto siano compromessi con il potere clerico-fascista, che ovviamente lo odia e
provoca quegli stessi giovani a una sorta di linciaggio verso di lui. In altri ancora descrive le cene o
gli incontri con gli amici letterati, insieme a lui "anime belle", disinteressate e anche sfruttate da
editori e produttori cinematografici non sempre propensi a pagare il compenso come da contratto.
Scopriamo in altri racconti ancora, un Pasolini superstizioso, che crede all'oroscopo da rotocalco e
alla jella.
C'è il dolore infine per l'immagine distorta che danno di lui i rotocalchi, ma non solo di lui, pure di
registi meno scandalosi come Fellini.
Voglio concludere questa "puntata" del mio saggio, ricordando la stima che aveva Pasolini per
Moravia, tanto che in un racconto scrisse:
"L'intelligenza è bontà e la bontà è intelligenza; se, per lui, posso parafrasare Keats."
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PASOLINI NARRATORE 1962-1975
Questa seconda fase dell'esperienza narrativa di Pasolini, che va dal 1962 alla morte, è per noi che
leggiamo ormai nel XXI secolo, quella più interessante, in quanto mostra l'evoluzione del suo
pensiero di fronte alla mutazione antropologica degli italiani a causa del consumismo
neocapitalistico. Ma nel 1962, quando pubblica il romanzo Il sogno di una cosa, la "mutazione" non
è ancora certa - nemmeno agli occhi più prevedenti di lui - e hanno ancora senso, come scrive in
quarta di copertina, "le ragioni [...] di una partecipazione diretta e tenace ad una realtà in cui gli
istinti lirici iniziali si sono venuti via via concentrando in un incontrastato impegno morale."
Il titolo prende spunto da una frase di Marx, posta in epigrafe al romanzo:
"Il nostro motto dev'essere dunque: riforma della coscienza non per mezzo di dogmi, ma mediante
l'analisi della coscienza non chiara a se stessa, o si presenti sotto forma religiosa o politica. Apparirà
allora che il mondo ha da lungo tempo il sogno di una cosa... K. Marx, da una lettera a Ruge, da
Kreutznach (settembre 1843)"
E' chiaro quindi che il "sogno di una cosa" altro non è che l'avvento di un mondo finalmente giusto,
sognato (anche) dai tre protagonisti del romanzo pasoliniano, costretti ad emigrare, nel 1948,
all'estero, due di loro in Jugoslavia e uno in Svizzera, perché in Italia c'è disoccupazione. All'estero
però vengono sfruttati nel lavoro, trattati male e soffrono pure la fame, così ritornano nel Friuli,
dove partecipano a una manifestazione comunista per l'applicazione corretta del lodo De Gasperi,
affinché i proprietari di terre aiutino i mezzadri ed i braccianti, cedendo ai primi parte dei profitti e
assumendo i secondi come manodopera, in riparazione dei danni subiti durante la guerra.
Ovviamente in aiuto dei proprietari, scendono in campo polizia ed esercito, per disperdere i
manifestanti che vorrebbero occupare (e in qualche caso riescono) le case dei padroni.
Ci sono pure le vicende sentimentali, di uno dei tre in particolare, il Nini, che in una famiglia di
contadini che stanno piuttosto bene grazie all'alleanza con i preti, conosce una ragazza timida e
ingenua, Cecilia, che alla fine si farà suora, perché intanto il Nini, consapevole della sua estraneità a
quel mondo clericale, che vede di malocchio i comunisti come lui pur trattandolo apparentemente
con simpatia, sposa una ragazza più emancipata, dopo averla messa incinta.
Il romanzo termina con la morte di Eligio, ammalatosi per il duro lavoro alle cave, e visitato in
ospedale dai due amici, il Nini appunto e Milio.
Altri materiali non furono pubblicati, ma si conservano ugualmente e sono stati inseriti dai curatori
dell'edizione "I Meridiani" in una apposita Appendice a "Il sogno di una cosa". In particolare vi si
narra la storia di un prete atipico, il giovane Don Paolo, che non è un fariseo e porta avanti un
discorso autentico (di matrice esistenzialista) con la sua coscienza e con i paesani. Fonda pure un
doposcuola - e qui ricalca l'esperienza analoga di Pasolini e la madre in Friuli - insegnando ai
ragazzini senza osservare alla lettera i metodi pedagogici, anche quelli moderni, che vedono la
realtà con un occhio troppo razionale, e non tengono conto della componente irrazionale che è in
noi, che deve essere conosciuta attraverso un esame attento (quindi amoroso) della Realtà, che non
è mai statica ma muta continuamente, secondo i giochi imprevedibili della Provvidenza. C'è pure il
turbamento omoerotico del giovane prete a metterlo in cattiva luce dinanzi ai suoi superiori (essi sì,
farisei), e il dialogo (da loro poi vietato) con un giovane comunista, che ha le idee fin troppo chiare
sulla società. Il sacerdote morirà ucciso dai colpi di mitra dei poliziotti, per coprire un manifestante
durante le famose dimostrazioni contro i padroni, di cui abbiamo già parlato.
C'è un personaggio inquietante, Aspreno, che non compare nella redazione definitiva del romanzo
e, a mio modo di vedere, rappresenta la parte oscura di ogni uomo. Infatti è un giovane aristocratico
che viene da Roma per visitare la cugina friulana: a causa del complesso edipico non risolto, odia il
padre ed è incapace di amare, perché la sua maledizione è di provare solo desiderio sessuale: nelle
donne vede, in fondo, quella madre da lui più volte uccisa metaforicamente, in questi suoi rapporti
disperati e privi di sentimento autentico. E' intelligente ma disprezza la cultura, perciò è privo di
senso critico, sa giudicare anche con acume, ma non spiegare gli eventi. Ammira superficialmente il
marxismo, pronto a convertirvisi con la ragione e non col cuore, perché il suo cuore è pieno solo di
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sé, costretto a divertirsi per non annoiarsi. Il guaio è che viene pure assecondato dalla compagnia
dei giovani friulani, che vedono in lui un uomo superiore, che può permettersi anche di corteggiare
le ragazze fidanzate. Ma in fondo è scontento di sé e verrà messo in crisi dalle parole di Don Paolo
che lo esorta a mettere Dio al posto della sua coscienza macchiata, per cui, nel viaggio di ritorno a
Roma, "il treno correva verso Dio"
Infine c'è il personaggio di Renata o Pina L. (maschilizzata in Renato, nel romanzo definitivo, senza
riferimento a quanto segue), giovane insegnante innamorata di Don Paolo, che invece è attratto da
un ragazzino; ella, per il comunismo, ha tradito la Chiesa, almeno agli occhi dei clericali, e viene
duramente contestata e offesa, per una sua frase, quando ha scritto in un giornale murale: "Verrà il
vero Cristo, operaio, a insegnarti ad avere veri sogni"
Questo è il dramma, secondo Pasolini: molti poveri, invece di sognare i veri sogni della cultura e
dell'amore, sognano di diventare come i padroni.
Al 1965 appartiene il composito Alì dagli occhi azzurri. Scrivono i curatori del Pasolini narratore
nella collana "I Meridiani", che stiamo seguendo con paziente e gioiosa curiosità:
"Sono racconti, relitti di romanzi, versi in italiano e in romanesco, rielaborazioni di sceneggiature
ed esperimenti di prosimetron, che Pasolini scrive fra il '50 e il '65."
Non appena giunto a Roma con la madre, fuggitivi dal Friuli, mentre cerca lavoro, ha in cuore la
conoscenza dell'ambiente borgataro, cinico, violento, ma al tempo stesso simpatico, conoscenza che
è soprattutto fondata sul linguaggio. La sessualità è ancora allegramente esibita, da parte dei giovani
sottoproletari, non ancora "mutati" antropologicamente. Essi sono peccatori (riguardo ai furti e alle
violenze) per la loro inconsapevolezza morale, che li rende sì colpevoli, ma in fondo vittime della
società borghese (cui sono estranei per il legame a una loro civiltà arcaica). Non mancano le
denunce sociali del nostro, come nel caso della macellazione clandestina a Roma, posta in essere
dagli stessi mercanti.
Le sceneggiature ridotte a racconti sono quelle di alcuni suoi film (Accattone, Mamma Roma,
episodio La ricotta nel film di più registi RoGoPaG) e de La notte brava di Bolognini. Avrebbe
voluto intervenire maggiormente sui testi, per motivi estetici, ma non lo fece, perché "altro" era il
suo fine: quello, appunto, di aiutare il lettore (e lo spettatore cinematografico) a sottrarsi alla cultura
media borghese e avere un rapporto autentico, non mistificato, con la Realtà: un rapporto che dà una
felicità inspiegabile e apparentemente irrazionale agli occhi di chi non lo prova.
Il titolo della raccolta prende il nome dal racconto, fattogli da Sartre, della storia di Alì dagli occhi
azzurri, un personaggio simbolico e quindi anche plurimo, che si mette alla guida degli immigrati
che un giorno invaderanno l'Occidente, con la violenza e con il diritto di insegnare a noi occidentali
la gioia di vivere. Una profezia che voleva evidentemente avvertirci di come il mondo sia "uno",
pur nelle differenze territoriali, e che gli sfruttati del Terzo mondo, prima o poi avanzeranno oltre i
nostri confini, cosa che si è avverata già, in modi a volte simili (si pensi alle violenze commesse da
e contro extracomunitari) e a volte con l'amorevole scambio culturale tra noi e loro, certo da
preferire allo scontro. La nostra società evidentemente ha subìto la mutazione antropologica nel
senso di imborghesimento totale, che però non si è avuta sempre (fortunatamente) nei modi terribili
che presagiva Pasolini, ma con una complessità che lascia spazio (almeno per i non intolleranti)
all'interessante scambio multiculturale. Non dobbiamo essere moralisti nei confronti degli immigrati
e di tutti i "diversi" perché, ci ricorda l'Autore: "Il moralismo è l'alibi per il lupo che sopprime
l'agnello." D'altra parte, come scrive invece Oriana Fallaci (peraltro amica di Pasolini) nelle sue
opere, non dobbiamo rinunciare alla nostra identità di cristiani e occidentali. Bisogna trovare un
giusto equilibrio tra il rispetto di sé e il rispetto del diverso da sé.
Nel 1968 pubblica il romanzo Teorema ed esce contemporaneamente l'omonimo film da lui stesso
diretto. In una famiglia milanese della ricca borghesia industriale, arriva un giovane ospite,
borghese anche lui, ma così bello e dolcemente paterno/materno, da apparire come estraneo ad ogni
classificazione sociale. La sua sola presenza mette in crisi tutti i componenti della famiglia, che gli
chiedono tacitamente di essere posseduti sessualmente: lui lo fa comprensivo e lievemente ironico.
Anche la serva Emilia, che pur appartiene a una classe sociale inferiore, cioè contadina, è sconvolta
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dall'aspetto inconsueto del giovane, al punto da tentare persino il suicidio e lui la salva e poi la
possiede, come è (tacito) desiderio di lei.
Improvvisamente l'ospite deve lasciare la villa. La sua partenza provoca nei componenti della
famiglia e nella serva una svolta esistenziale che mette fine al loro destino di "normalità".
La serva Emilia lascia la villa e si ritira in campagna dove diventa una santa, si ciba solo di ortiche,
opera guarigioni ed esperisce la levitazione. Finirà per farsi seppellire viva da una scavatrice, ed
anche da morta opererà una guarigione miracolosa, perché dalle sue lacrime sgorgherà uno zampillo
d'acqua; un umile operaio risanerà una ferita sanguinante bagnando la sua mano in quella pozza
d'acqua. Emilia è l'unica che ha tratto una lezione salvifica per sé e per gli altri (per i quali si
sacrifica) dalla conoscenza dell'ospite misterioso.
I quattro componenti della famiglia, invece, non sopportano l'assenza del giovane. Tre si perdono in
esperienze inautentiche, surrogato di quell'unica esperienza vera che è stata data dall'incontro con
lui: Odetta (la figlia) si immobilizza in un letto di clinica psichiatrica; Pietro (il figlio) diventa un
artista protestatario e ribelle in apparenza, perché in realtà è un pittore disgustato di sé e delle sue
opere nate per caso; Lucia (la madre) abborda per strada ragazzi che le ricordano quell'Adorabile,
ma i suoi rapporti sessuali con loro sono deludenti, pur lasciandole un sentimento di tenerezza
materna.
Per Paolo (il padre) il discorso è un po' diverso. Egli dona la fabbrica agli operai e si spoglia dei
suoi abiti nella stazione della città, di fronte a una folla allarmata; a mio parere la sua salvezza c'è
ma è di secondo grado, rispetto a quella completa di Emilia. E' spinto sulla via del deserto, in cui la
realtà è completamente priva di tutto ciò che non è necessario, mantenendo la sola sua essenza
originaria, che è l'unicità: il deserto è uguale in ogni sua parte, unico, appunto. Il romanzo termina
con l'urlo, al tempo stesso terribile e gioioso, pieno di speranza e disperazione da parte di Paolo, un
urlo "destinato a durare oltre ogni possibile fine."
E' come se Paolo avesse sì scommesso su Dio (che gli si è rivelato prima attraverso il giovane
ospite e poi attraverso il deserto), Dio come vita essenziale, ma non ha certezza, non sa soprattutto
se Lui lo ama davvero: perciò quest'urlo è (anche) una richiesta di attenzione. Emilia, invece, più
buona in fondo, non pensa nemmeno alla salvezza, si dona completamente al prossimo, vivendo nel
suo stesso corpo (come Pasolini), l'ardore della "caritas", fino al sacrificio di sé. Non è un caso che
nel film la vecchietta che accompagna Emilia alla buca dove si farà seppellire viva, è interpretata
proprio dalla madre di Pasolini.
Già alla fine degli anni '50 ebbe l'idea di scrivere, come imitazione moderna della Divina
Commedia, un viaggio all'inferno da parte di una prostituta romana accompagnata da Dante, me ne
risultarono solo pochi frammenti.
Il progetto si sarebbe realizzato, sia pur diversificato nel titolo (La Divina Mimesis) e nei
protagonisti: il viaggiatore è il Pasolini degli anni '60 accompagnato da se stesso più giovane di un
decennio. L'opera, incompiuta, sarà consegnata all'editore Einaudi nel '75 e uscirà pochi giorni dopo
la sua morte.
E' dal '63 che vede esaurite le possibilità dell'impegno civile come l'ha concepito nei due decenni
precedenti; si rende conto che l'imborghesimento mondiale è inevitabile, sia che assuma la veste
neocapitalistica sia quella comunista. Non può sapere quale dei due "paradisi" progettati (il
comunista o il neocapitalistico) vincerà ma sa già che c'è poca differenza culturale tra loro: è la
stessa cultura di massa da lui odiata. Allora, per continuare ad esprimersi, deve per forza usare uno
stile diverso (che sarà quello delle ultime poesie e di Petrolio), uno stile che delude continuamente,
pretende, da lui così sensato, l'arbitrario e la dissimulazione della speranza, altrimenti "ridicola" e
inefficace se rivelata manifestamente (ma rimane sempre la stessa speranza partigiana di una
rigenerazione del mondo).
L'inferno che visita è per noi italiani quello nascente neocapitalistico (che poi risulterà vincente sul
comunismo). La figura più consueta di dannato è il conformista moralista: conformista perché teme
la grandezza e si rifugia nell'anonimato della "normalità"; moralista perché non smette di giudicare
l'altro come suo nemico, anche se gli somiglia, anzi... soprattutto quando gli somiglia:
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"Odiamo il conformismo degli altri perché è questo che ci trattiene dall'interessarci al nostro.
Ognuno di noi odia nell'altro come in un lager il proprio destino. Non sopportiamo che gli altri
abbiano una vita e delle abitudini sotto un altro cielo. Vorremmo sempre che qualcosa di esterno,
come per esempio un terremoto, un bombardamento, una rivoluzione, rompesse le abitudini dei
milioni di piccoli borghesi che ci circondano. Per questo è stato Hitler il nostro vero, assoluto eroe."
Le eccezioni, quindi, sono date solo dai poeti, che non appartengono ad alcuna classe sociale, e
ricchi o poveri che siano, soffrono sempre perché non vedono realizzato nel mondo l'amore
disinteressato per la vita: tutto invece è oggetto di consumo, mera merce. Nell'Irrealtà il poeta è
l'unico a testimoniare la Realtà con "l'altezza del suo stile, la purezza della sua parola."
A chi si riferisce quando parla di "poeti"? Non certo agli "uomini di cultura, abituati a starsene zitti
nei momenti di pericolo, e a parlare, soltanto a parlare, nei momenti di relativa tranquillità."
Verso questi ultimi manifesta una profonda avversione, perché essi avevano gli strumenti culturali
per diventare veri poeti (nell'animo), e vi hanno rinunciato per viltà, diventando incapaci di
autentica indignazione verso la meschinità e la volgarità imperanti: indignazione che è l'esatto
contrario del moralismo.
Il romanzo incompiuto Petrolio è l'ultima sua avventura narrativa, scritto tra il '72 e il '75, anno
della morte. In forma di appunti, narra le vicende di un ingegnere piemontese, cattolico moderato,
abbastanza colto ma non al punto di fare "dello stato schizoide [in cui vive l'uomo contemporaneo,
aggiungo io] uno stato naturale e dell'ambiguità un modo di essere."
Il suo nome è Carlo, come si chiamava il padre di Pasolini, ufficiale dell'esercito al tempo del
fascismo e fascista convinto, che ebbe verso la sua famiglia un atteggiamento autoritario e
terrorizzante. Ma questo Carlo di Petrolio non somiglia per niente al padre dell'autore. Qui si
manifesta l'arbitrarietà ludica, anche nella scelta dei nomi e delle associazioni di idee.
Questo ingegnere piemontese, destinato a diventare un uomo di potere nell'ENI di Mattei e
soprattutto dopo la morte misteriosa di quest'ultimo, ha una doppia vita, tanto che Pasolini lo
sdoppia in due personaggi distinti: Carlo I, l'uomo di potere represso e sublimato; Carlo II, che
invece vive esperienze sessuali perverse (dall'incesto alla pedofilia) sino a quando non scopre
l'omoerotia, facendo l'amore, uno alla volta, con un gruppo di venti ragazzi del popolo, dopo che si
è trasformato in donna. Ma Carlo II scompare, e Carlo I si ritrova nella necessità, anch'egli
trasformato in donna, con organi genitali femminili e seno, di fare l'amore con uomini, ma non ha il
coraggio perverso del suo "doppio" né può essere attratto dai ragazzi del popolo, che non capisce a
causa del suo sentimento medio-borghese. Allora si invaghisce, fatalmente, di un giovane del
popolo, sì, ma fascista e "uomo d'onore", in quanto mafioso siciliano.
Le descrizioni che son date di tutti i rapporti sessuali hanno, secondo la mia interpretazione, la
necessità di indurre il lettore a una analisi sincera del proprio inconscio. Infatti l'autore scriverà a
Moravia, consegnandogli in lettura il manoscritto:
"Questo romanzo non serve più molto alla mia vita (come sono i romanzi o le poesie che si scrivono
da giovani), non è un proclama, ehi, uomini! io esisto, ma il preambolo di un testamento, la
testimonianza di quel poco di sapere che uno ha accumulato, ed è completamente diverso da quello
che si aspettava!"
Questo "sapere" prezioso comprende altri fatti:
a) la mutazione antropologica degli italiani, a causa della nuova cultura di massa fondata sulla
ricerca del benessere e sul consumo di beni superflui, con l'abbandono dei valori culturali che
facevano del popolo un ceto distinto e contrario alla borghesia:
"[...] è atroce vivere e conoscere un mondo dove gli occhi non sanno più dare uno sguardo non dico
di amore, ma neppure di curiosità o simpatia. Benché io [cioè Pasolini] sia ormai 'contento del
deserto', provo, a pensarci uno di quegli spasimi che solitamente impediscono di esprimersi o di
parlare civilmente: soltanto chi ama, soffre nel vedere che le persone amate cambiano. Chi non ama
non se ne accorge neppure. Ai politici non gliene importa niente dei poveri; agli intellettuali non
gliene importa niente dei giovani. E quindi non solo non soffrono a causa del loro cambiamento,
ma, appunto, non se ne accorgono nemmeno."
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L'imborghesimento generale del mondo, impedisce quindi la realizzazione del sogno gramsciano
(fatto proprio da Pasolini nel tempo dei progetti giovanili) della fondazione di una repubblica
italiana nazional-popolare, con l'alleanza tra popolo (operai e contadini) e intellettuali. Un sogno
frantumato. Ma è la Realtà che è superiore anche alla testa di Pasolini o di Gramsci, ed Essa segue
le sue vie, come risultato di una lotta tra pulsione di salvezza e rigenerazione del mondo e pulsione
di autodistruzione. Entrambi gli esiti sono possibili, dipende tutto dalla volontà di vita dell'uomo. La
speranza è che, prima che finisca la risorsa che dà il nome al romanzo, cioè il petrolio, gli uomini
sappiano davvero darsi "un meraviglioso impulso alle ricerche scientifiche e all'organizzazione
economica" per far riprendere il corso della storia.
b) il racconto delle strategie politiche dell'Italia tra la fine degli anni '60 e i primi anni '70, quando si
fa dell'anticomunismo e dell'antifascismo, degli alibi per nascondere la vera natura del nuovo potere
neocapitalistico, assolutamente privo di valori che non siano quelli del profitto (quindi anche la
Chiesa non è che un alleato politico e un potere finanziario, e i suoi dogmi e la sua morale non
hanno reale presa sui cittadini, se non nominalmente, cioè ipocritamente); le stragi, attribuite agli
anarchici o ai comunisti o ai fascisti, a seconda della convenienza del momento, rappresentano la
dolorosa (soprattutto per i familiari delle vittime) memoria storica dell'Italia di quegli anni.
Tanti altri sono i contenuti eccezionali di Petrolio: descriverli tutti richiederebbe un saggio a parte.
E' più opportuno, adesso, un caloroso invito alla lettura diretta del romanzo stesso.
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PASOLINI AUTORE DI TEATRO
Premetto che non tratterò in questo capitolo le originali innovazioni pasoliniane nel campo teatrale,
cioè il suo modo di intendere il teatro. Ne parlerò in seguito, in una prossima puntata su Pasolini
critico. Tuttavia è bene, prima di addentrarci nelle singole opere, dare alcuni chiarimenti di carattere
generale:
a) i suoi personaggi sono il riflesso di sé, per cui il vero protagonista è sempre lui; il riferimento
autobiografico è molto più forte che in altri drammaturghi, ma si tratta non di autobiografia
dell'uomo bensì del personaggio multiforme che vuole rappresentare, con tutte le pulsioni possibili
tra Cielo e Inferno;
b) l'esigenza dei contenuti (cioè delle novità espressive che ha da rivelare) è tale che non gli
permette di affrontare (per mancanza di tempo) le esigenze formali e strutturali richieste da un'opera
teatrale (le tecniche tradizionali e contemporanee sono da lui rifiutate, secondo alcuni un po'
aprioristicamente, senza vera conoscenza); è quindi, il suo, un teatro fatto da un non teatrante:
"Pasolini non è un uomo di teatro [...] è un poeta che scrive testi teatrali"
Il primo dramma lo scrive a quindici anni, nel 1938, col titolo La sua gloria. Qui illustra, per
partecipare a un concorso di scrittura drammatica, un episodio del Risorgimento.
Segue, nel 1942, Edipo all'alba, decisamente più interessante, in quanto tratta del tema dell'incesto:
Ismene prova un amore illecito per il fratello Eteocle, e per questo cerca una punizione dopo aver
confessato il desiderio incestuoso. Così si farà uccidere dal padre Edipo, mentre i tebani, che hanno
ascoltato la sua confessione, la condannano anche dopo morta, come "peccatrice, / insensata a
turbarci / con voce vergognosa."
Al 1944 risalgono I Turcs tal Friul, un dramma in cui rievoca lo scampato pericolo di Casarsa nel
1499, a seguito della invasione dei Turchi in quelle zone. E' evidente il nesso Turchi-nazisti, per cui
l'intento dell'Autore è polemico nei confronti dell'occupazione da parte delle truppe tedesche
durante la seconda guerra mondiale.
Ne I fanciulli e gli elfi (1944-5), interpreta lui stesso il ruolo di un Orco mangiabambini,
provocando i timori dell'amica Pina Kalz, cui sono affidate le musiche, la quale era preoccupata che
gli spettatori scoprissero la "simpatia per i ragazzi" da parte del giovane autore.
La poesia o la gioia (1947) tratta di un personaggio (fratello del protagonista, in cui invece si
identifica Pasolini), che rispecchia totalmente la psicologia del padre Carlo, fascista convinto, cioè
in buona fede, destinato a scontare il suo peccato di inconsapevolezza con l'alcolismo e la paranoia:
"Quello che in Caserma era un uomo veramente ottimo [...] in famiglia era tremendo."
Un pesciolino (1957) è un breve monologo: la protagonista è una zitella fuori di testa, che nella sua
"diversità" ha maggiore intuito della paura che hanno gli uomini di tutto ciò che provoca scandalo.
Vivo e Coscienza (1963) afferma l'inconciliabilità pratica tra vita e coscienza, con la speranza che:
"Verrà un giorno [...] in cui la Vita sarà Coscienza e la Coscienza Vita."
Italie magique, scritto per l'interpetazione di Laura Betti, tra il '64 e il '65, racconta con ironia
brechtiana l'assurda storia d'Italia dalla seconda guerra mondiale all'avvento del neocapitalismo, che
dà a tutti l'alienante "convinzione che l'io sia sempre più mio, mentre è di Mammona."
Di fondamentale importanza, per capire la reazione psicologica e artistica di Pasolini al mondo
reazionario cattolico, è il dramma Nel '46!, il cui protagonista è un prete professore in una scuola
media parificata, che prova dei turbamenti nei confronti di una sua alunna; così affronta un percorso
di autoanalisi che lo porterà a distaccarsi dalle voci interiori che lo vorrebbero vile e represso, per
abbracciare una più autentica coscienza democratica: il destino di chi non è insincero con le sue
pulsioni, è quello di essere emarginato dalla società repressiva:
"MADRE: Non importa a una madre / che il figlio sia ridicolo, / ella sa soltanto / che il mondo gli è
nemico! [...] GIOVANNI: Egli [cioè lui stesso, il protagonista] amò una fanciulla / credendolo
peccato: / tuttavia, l'amò. / Perciò è condannato."
Il 1966 è un anno decisivo, perché ha inizio la stesura delle sue famose sei tragedie, stesura che
continuerà, con le immancabili limature, sino al 1974. Scrive il cugino Nico Naldini:
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"Alla fine di marzo [del 1966], mentre sta cenando in un ristorante romano con Dacia Maraini e
Moravia, ha un grave malore, un'emorragia d'ulcera. E' costretto a letto immobile per un mese. [...]
Durante la convalescenza rilegge i Dialoghi di Platone che, come la lettura del Vangelo di qualche
anno prima, gli infondono un «aumento di vitalità» e imboccando un nuovo percorso stilistico
matura l'idea di scrivere attraverso i personaggi: un teatro in versi «molto simili alla prosa»."
Lo definisce lui stesso "teatro di parola", perché scrive in poesia, cioè in un linguaggio altamente
espressivo, che giustifica l'altisonante dizione da parte degli attori, che altrimenti gli sembrerebbero
ridicolmente retorici se dovessero dire le stesse cose nel linguaggio della prosa, usato invece nel
teatro tradizionale. Quest'ultimo è da lui disprezzato, insieme al teatro d'avanguardia, follemente
provocatorio con la sua bizzarra gestualità. Cosa cerca Pasolini col "suo" teatro? Vuole mettersi in
contatto diretto e dialogico (di qui i dibattiti dopo le rappresentazioni) con un pubblico non di
massa, ma avente una cultura almeno potenzialmente pari alla sua: i pochi intellettuali anche non
ufficiali, ma sinceramente appassionati alla cultura, sparsi per tutta l'Italia, e appartenenti ad ogni
classe sociale.
In Orgia (1966-70), l'unica tragedia che abbia messo in scena lui stesso (a Torino, con Laura Betti),
rappresenta il divario tra "diversità" e società:
"voglio che la società non abbia un atteggiamento razzistico verso gli esclusi. [...] Se c'è qualcuno
che è diverso, qualunque diversità sia, ha diritto di esserlo, e la società non deve avere un
atteggiamento razzistico contro questa diversità. Deve capirla, discuterla, analizzarla, ma non avere
un atteggiamento razzistico di rifiuto e di esclusione."
Protagonista è un uomo della media borghesia, nato o diventato nell'infanzia "diverso", che non ha
mai voluto analizzare la sua diversità, ma l'ha rimossa accettando la repressione da parte del potere.
Ha voluto anche lui la sua fetta di potere. Ma intanto la diversità l'ha vissuta in maniera sadomasochistica nei rapporti con la moglie. Col consenso di lei, la sevizia, progettando (forse solo
come fantasia sessuale) pure di ucciderla insieme ai figli e, prima ancora, di farla possedere da un
gruppo di uomini. La donna, che ha perduto la dedizione verso le norme sociali, renderà effettivo il
progetto del marito, uccidendo con un coltello i figli e andando a buttarsi nel fiume con i loro corpi.
L'uomo, rimasto solo, si porta in casa una ragazza, e comincia a seviziarla come faceva con la
moglie, però senza il suo consenso. Mentre la picchia, ha un malore e sviene. La ragazza riesce a
liberarsi e fugge, lasciando i suoi abiti lì per terra. Rinvenendo, lui guarda quegli indumenti, che
dicono in fondo che sono voluti dal mondo del potere, affinché gli uomini vivano la loro diversità in
segreto, ipocritamente, senza farne parola all'esterno. Perché gli uomini non si ribellano alla logica
ipocrita e repressiva del potere? Sono rassegnati alla caducità della vita e si godono l'esistenza, in
una vita da porci. L'alternativa è il suicidio, come ha fatto la moglie del protagonista. Eppure, c'è
una terza alternativa (rivoluzionaria!): il martirio attraverso una protesta esistenziale contro la
normalità coattiva. Prende a truccarsi e vestirsi con quegli indumenti e si impicca, proprio per farsi
trovare morto vestito da donna da vicini di casa, poliziotti ed infermieri:
"si troveranno davanti un fenomeno espressivo / indubbiamente nuovo, così nuovo da dare un
grande scandalo / e da smerdare, praticamente, ogni loro amore."
Pilade (1966-70) narra vicende create da Pasolini ispirandosi ai miti greci, ma il testo va
interpretato in chiave moderna. I due amici Oreste e Pilade rappresentano il primo il difensore della
Ragione (che porta inizialmente a un potere democratico ma in ultima analisi borghese), il secondo
la lotta a difesa degli sfruttati (la lotta comunista). Elettra invece fa le parti dell'amore per l'autorità
tradizionale (la tirannia). Oreste, per sconfiggere l'esercito di Pilade, si allea strategicamente con
Elettra (e si ha quindi l'aberrante totalitarismo nazista, con le sue stragi di corpi). Ma la vittoria
finale sarà ancora una volta del "solo" Oreste, con la Nuova Rivoluzione di tutta la città (non solo
dei borghesi quindi), che culmina nel benessere generale. Pilade ed Elettra restano soli,
disperatamente alleati e sconfitti; Pilade ha comunque, alla fine, maturato la consapevolezza della
sua colpa, che è stata quella di desiderare il potere prendendo il posto di Oreste.
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Lascio nel dubbio la mia interpretazione, perché le dichiarazioni stesse di Pasolini su come
interpretare quest'opera, sono contraddittorie tra loro, pur essendovi una certezza, che è quella della
ferocia di ogni potere, sia di destra che di sinistra.
Affabulazione (1966-70) è la storia del rapporto conflittuale tra un padre medio-borghese col figlio.
Ci ricorda ovviamente il conflitto tra l'autore e suo padre Carlo, amato/odiato. L'omosessualità di
Pasolini, che secondo la psicanalisi potrebbe essere spiegata dal complesso edipico irrisolto, è
invece, a mio modo di vedere, una strategia per denunciare, all'opposto, l'attrazione che hanno i
padri verso quei figli diversi da loro, non in quanto omosessuali, ma perché realmente
"indipendenti" da ogni volontà sadica o masochistica. Infatti la tragedia tratta della metamorfosi di
un borghese industriale del milanese, il quale, dopo un sogno misterioso che non riesce a ricordare,
smette la sua maschera di uomo potente silente e ironico, per diventare un nevrotico in cerca di Dio.
Cosa ha sognato in effetti? Di essere posseduto dal figlio. Egli si sente come un bambino nei
confronti di questo figlio, desidera vederne il membro, persino essere ucciso da lui. Ne invidia la
spensierata giovinezza, che lui ha perduto, anzi non ha mai vissuto a causa del conformismo
borghese. La società iniqua ha bisogno di padri e figli che si odiano a vicenda; la società viene
contraddetta solo da padri che riconoscono di essere bambini di fronte a figli che non li odiano. Il
protagonista di questa tragedia finirà però per uccidere il figlio (come farebbe una donna impazzita
per un amore non corrisposto) e si farà vent'anni di galera, dopo i quali diventerà un barbone,
assistito dallo spirito del figlio morto, che continuerà a non odiarlo.
Porcile (1967-72) ispirò allo stesso Pasolini l'omonimo film. Protagonista è Julian, il
venticinquenne figlio di un industriale tedesco. E' un giovane che non si ribella al padre ma
nemmeno gli obbedisce; rifugge dall'impegno politico, anche se la sua amica del cuore Ida (che lo
ama) vorrebbe che la seguisse nei cortei dei contestatori. Ha invece una sola passione segreta:
l'attrazione sessuale verso i maiali. Cosa nasconde questa attrazione? Una vocazione al martirio
(così gli fa capire infatti lo spirito di Spinoza, il filosofo del "Deus sive Natura"). Spinoza gli
compare per esortarlo non a vivere secondo la ragione, che vorrebbe Julian impegnato nel mondo,
lottando magari per il progresso, bensì a continuare a realizzare il suo affetto mostruoso. Pur non
rivelando il contenuto di questo affetto, Julian aveva già detto a Ida, che lui ne era deformato ma
non degradato, in quanto il suo animo restava puro e gioioso. E' evidente l'analogia tra Julian e
Pasolini. Anche Pasolini non veniva degradato dal suo amore omosessuale e si manteneva puro
quanto più si degradava apparentemente agli occhi di chi non era capace di comprenderlo. Non
voglio certo dire che i "ragazzi di vita" fossero dei maiali (lo sono molto di più il padre e la madre
di Julian, ricchi borghesi), ma dei maiali avevano certamente l'inconsapevolezza che sarebbe stata
causa della successiva (reale) degradazione anche dei loro corpi a seguito della mutazione
antropologica; inoltre un ragazzo di vita sarebbe stato deputato a realizzare il destino di martirio di
Pasolini, proprio come Julian verrà divorato dai porci.
Calderón (1967-73) è molto liberamente ispirato a La vita è sogno di Calderón de la Barca. Se fosse
possibile passare da una vita all'altra come si passa da un sogno all'altro, senza ricordare nulla del
sogno cioè della vita precedente, vivendo quindi sempre situazioni sociali diverse, cosa rimarrebbe
uguale in tutti questi sogni? Ci troviamo sempre nella Spagna franchista del 1967. Rosaura è prima
ricca aristocratica, poi prostituta sottoproletaria, quindi moglie piccolo-borghese. Due cose restano
identiche nelle sue vite: il rapporto con il potere (incarnato in Basilio, in successione padre, dio che
gioca col destino di lei e marito conformista) che le impedisce di vivere come vorrebbe la seconda
cosa sempre uguale, cioè il suo amore nei confronti del rivoluzionario anticonformista, che si
incarna invece nel primo sogno in Sigismondo, esiliato dal regime franchista perché traditore della
sua classe sociale, che è quella dei ricchi, in nome di una vita ribelle (le dirà che in realtà è lui suo
padre, che l'aveva concepita violentando la madre non sopportando di vederla ideologicamente
mutata, non più rivoluzionaria come quando erano ragazzini e fidanzati, ma ormai nobile
filofranchista); nel secondo sogno in Pablito, adolescente borghese anche lui ribelle alla sua classe
d'origine: lo scoprirà essere suo figlio, che riteneva morto e invece era stato dato in adozione, dalla
sorella e dalla madre, a una ricca famiglia in cambio di soldi; nel terzo sogno in Enrique, giovane
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universitario contestatore ricercato dalla polizia (un amore impedito dal marito Basilio, che lo farà
cinicamente arrestare). Ma tutti questi sono sogni, anche se possono diventare realtà d'eccezione,
perché ci può sempre essere il caso di una donna impedita dal Potere a vivere un amore diverso. La
realtà vera (cioè l'incubo) che vive Rosaura è invece quella di trovarsi in un lager (che potrebbe
riferirsi alla nuova condizione di mutazione antropologica causata dal benessere neocapitalistico sin
dalla fine degli anni '60): gli uomini sono ridotti a cose, a uso e consumo dei loro aguzzini, in una
bizzarra complicità tra vittime e carnefici, in un mondo (il nostro) in cui non c'è più un solo
innocente e siamo tutti pronti a tradirci a vicenda per fare il gioco dei potenti. Ma Rosaura ha
ancora il coraggio di sognare qualcosa di alternativo e liberante: l'arrivo di operai comunisti che
affranchino tutti dal lager e ci trattino come fratelli. Però il Potere, sempre nell'incarnazione del
perfido Basilio, la deride perché dice che la sua è un'illusione, che questo sogno, davvero è
destinato a non avverarsi mai. Pessimismo strategico da parte dell'Autore? Speriamo che sia così,
che abbia voluto spronarci con il pungolo della disperazione.
Bestia da stile (1966-74) è l'ultima tragedia, delle sei, che analizziamo. Forse ci può dare delle
indicazioni per risolvere sia pure in modo congetturale il dubbio con cui ho terminato l'analisi di
Calderón: cioè del pessimismo pasoliniano circa una possibile rivoluzione comunista. In questa
sesta tragedia, dietro la vicenda di un poeta cecoslovacco, Jan, si nascondono le vicende
autobiografiche di Pasolini stesso, dalla giovinezza (con il suo amore per il Friuli e il mondo
contadino) all'impegno intellettuale e artistico sulla scia di un realismo che valorizzava la lingua
popolare, sino alla delusione dovuta all'imborghesimento di tutti e tutto, con il benessere
consumistico. C'è pure, da parte di Jan-Pasolini, la rinuncia al potere politico, nonostante il suo
successo letterario potesse consentirgli di essere eletto, magari in Parlamento, dai tanti ammiratori.
A un certo momento, negli anni della contestazione, cioè alla fine degli anni '60, Jan, poeta
comunista, viene contestato da giovani che nemmeno lo hanno compreso: essi teppisticamente
bruciano la sua immagine, reagendo alla occupazione sovietica della Cecoslovacchia. Similmente
accadde all'Autore con i contestatori italiani. Come Jan, Pasolini capisce, nell'epoca del
neocapitalismo, che occorre un nuovo impegno, la Rivoluzione di una Nuova Destra sublime. Ma
lui ormai ha adempiuto il suo compito ed è vicino al tragico congedo dal mondo (con l'assassinio
nel '75). Insomma, si rivolge ai giovani della generazione successiva affinché, dopo averlo
compreso, continuino sulla via del sogno rivoluzionario, superando l'ortodossia comunista. Perché
la chiama Nuova Destra? Destra perché difende i valori della Tradizione, sposandoli con la difesa
dei più deboli e dei poveri. Io ci vedo un eclettismo politico che va oltre, almeno qui in Italia, la
distinzione tra gli schieramenti politici esistenti, e che giustificherebbe anche la simpatia di Pasolini
per Pannella e i radicali. E' un fardello che l'ultimo Pasolini non poteva portare, in quanto nessuno
lo avrebbe compreso allora e la sua figura pubblica sarebbe risultata ingiustamente ma
inevitabilmente distorta, più di quanto non l'abbiano distorta i rotocalchi. E poi, se si deve accettare
la tesi di Giuseppe Zigaina, doveva morire ammazzato, appunto perché la generazione successiva lo
comprendesse e amasse, salvando la sua memoria e se stessa. Questa Nuova Destra (che
evidentemente accetta il Potere), non è però né clericale né volgare, e nemmeno pretende che tutti
siano dogmaticamente d'accordo sulle stesse cose. Del resto, gli intellettuali dopo Pasolini non se ne
sono stati con le mani in mano, e (solo per fare un nome) Gianni Vattimo, ad esempio, ha già
indicato una via possibile (in particolare nell'impegno artistico da lui studiato come filosofo
estetico) con l'esigenza di "liberazione del simbolico", in cui le "maledizioni" delle nostre pulsioni
irrazionali e arbitrarie trovano un adeguato canale di sfogo convertendosi in "benedizioni" per sé e
la società. (Ce ne accorgiamo, ad esempio, nel mondo dei blog, in cui accanto ad alcuni diari on line
decisamente volgari e da cultura di massa, si affacciano oasi di disinteressato impegno culturale
autentico e, pur nella sua ingenuità, appassionato).
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PASOLINI E IL CINEMA
Sono arrivato al cinema dopo i quarant'anni, e questo fatto è stato fondamentale: ho girato il mio
primo film semplicemente per esprimermi in una tecnica differente, tecnica di cui ignoravo tutto e
che ho appreso con questo primo film. E per ciascun altro film, ho dovuto imparare una tecnica
differente e adatta."
Fare film gli permetteva di raggiungere un pubblico molto più vasto dei pochi lettori di narrativa e
poesia. Usava preferenzialmente attori non professionisti, soprattutto sottoproletari, affinché
interpretassero se stessi. Tuttavia si rivolse anche ad attori professionisti eccezionalmente bravi,
sublimi anche come persone. A lui si deve il merito di aver scoperto il Totò autentico, non quello
dei film da consumo di massa, ma il Totò dolce, intelligente ed impegnato in una comicità d'alto
livello culturale. Rifuggiva dal naturalismo, essendo per lui il cinema una ricostruzione del mondo
attraverso il montaggio. Si ispirava ai registi Dreyer, Chaplin e Mizoguchi. Aveva un modo di
ricostruire le scene che risentiva della sua formazione e passione pittorica.
Colgo l'occasione per lanciare un appello: come è stata fatta la raccolta di tutti gli scritti nella
collana "I Meridiani" Mondadori, sarebbe opportuno distribuire una raccolta completa di tutte le
opere audiovisive (film, documentari, interviste televisive). Tale mancanza ha fatto sì che questa
"puntata" del mio saggio si basasse (quasi) sulla sola lettura delle sceneggiature. Pasolini, in fase di
montaggio delle immagini, modificava il copione. Il materiale filmico attualmente in vendita copre
solo una parte delle sue opere.
4.2. I suoi film
Accattone (1961) nasce in un momento di sconforto, cioè durante il governo Tambroni appoggiato
dai missini (quindi Pasolini scrive la sceneggiatura già nel 1960): il film risente del clima politico di
spostamento a destra, che fortunatamente ebbe breve vita. Il protagonista è Vittorio, detto
Accattone, giovane sottoproletario romano che ha lasciato moglie e prole per vivere con
Maddalena, da lui sfruttata come prostituta. Maddalena però finisce in carcere per calunnia e
Accattone si ritrova senza soldi e affamato. Cerca allora aiuto dalla moglie, ma questa e la famiglia
di lei lo cacciano via. Allora, dopo aver conosciuto una ragazza timida e innocente di nome Stella,
tenta di prostituirla ma non ci riesce perché con tutta la buona volontà, è troppo brava ragazza per
assecondare il primo (e ultimo) cliente. Intanto in carcere Maddalena viene a sapere dell'altra che
l'ha rimpiazzata e denuncia Accattone per istigazione alla prostituzione (non sua, di cui tace, ma di
"una povera ragazza"); la polizia comincia a tenerlo sotto controllo. Lui si innamora davvero di
Stella, prova a lavorare ma non ce la fa fisicamente, non essendovi abituato. L'ultima risorsa è il
furto. Ma la sua prima (ed ultima) esperienza di ladro finisce tragicamente con la morte, mentre
cerca di sfuggire agli agenti che lo inseguono. Il mondo sottoproletario romano, ancora
autenticamente legato a una cultura distinta da quella della classe dominante borghese, è visto
dall'autore in tutta la sua crudezza e crudeltà, determinate socialmente dalla ingiustizia distributiva
(col tacito patto tra borghesi, polizia e Chiesa). Non c'è da stupirsi quindi che "il 28 ottobre [1961...]
al cinema Barberini di Roma, alcuni dimostranti delle «Formazioni nazionali giovanili Nuova
Europa» lanciarono volantini, bottiglie di inchiostro e ortaggi contro lo schermo. La sera, al cinema
Quattro Fontane, Pasolini venne affrontato da un gruppo di giovani fascisti, che gli gridarono «in
nome della gioventù italiana, fai schifo!» e lo schiaffeggiarono."
Mamma Roma (1962), interpretata da Anna Magnani, è la storia di una prostituta che riesce ad
affrancarsi dal suo protettore Carmine e decide di cambiare vita. Porta a Roma con sé il figlio
sedicenne Ettore, che ha sempre ignorato l'attività della madre. Tenta di fare una vita piccoloborghese, tenendo un banco di frutta nel mercato di Cecafumo. Vive totalmente nella dedizione
verso Ettore; dopo aver cercato invano di mandarlo a scuola, essendo negato agli studi, con un
sotterfugio riesce a fargli avere un posto di lavoro come cameriere in un ristorante famoso. Però
Carmine torna e minacciandola di rivelare tutto al figlio, la costringe nuovamente a prostituirsi.
Ettore viene a sapere il mestiere segreto notturno della madre da Bruna, una ragazza madre
sempliciotta di cui si approfittano molti ragazzi del quartiere e che lui ha amato; disperato, lascia il
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lavoro e si dà a piccoli furti, fino a quando non verrà arrestato e messo in prigione, dove
febbricitante, legato a un tavolaccio a causa della sua inquietudine, muore chiamando la madre. Il
fatto di questa morte assurda è reale: il diciottenne Marcello Elisei era morto proprio così a Regina
Coeli, e quando Pasolini lo seppe si indignò nei confronti del direttore del carcere, dei secondini e,
in ultima analisi, dei governanti che permettevano simili atrocità.
Il personaggio di Mamma Roma è uno dei più riusciti dell'autore: è una donna che cerca di capire
chi è responsabile di tutto il male che accade ai poveri cristi come lei. E' dubbiosa tra una
responsabilità individuale, per cui ciascuno è colpevole per ciò che è e fa, ed una responsabilità
sociale, per la quale è la società che crea le condizioni del male. Infatti la sceneggiatura termina col
suo grido (dopo che ha saputo della morte del figlio): "I responsabili! I responsabili! I responsabili!"
Nel film il grido fu eliminato.
Il padre selvaggio (1962) è sotto forma di trattamento (con alcuni dialoghi e scene), ma non reso
completa sceneggiatura né girato. La vicenda si svolge nel Congo durante la guerra civile
immediatamente successiva all'indipendenza ottenuta nel 1960. In un clima di lotte tribali, che
fanno alla fin dei conti gli interessi delle multinazionali neocolonialiste, le quali intendono dividere
gli animi e non farli crescere in una reale democrazia, un ragazzo intelligente e sensibile (un po'
tenebroso, per la verità) di nome Davidson, è alle prese con un nuovo insegnante (che somiglia al
Pasolini degli anni '40, idealista ed educatore disinteressato). Questi è diverso dai suoi predecessori,
che per interessi coloniali inculcavano negli alunni neri una cultura nozionistica e non critica. Il
giovane insegnante invece vuole renderli liberi, facendogli conoscere la politica e soprattutto i libri
di narrativa e poesia, occidentali e africani. Davidson si appassiona un po' alla nuova cultura (reale)
ma tornato al villaggio ripiomba nelle crudeltà e irrazionalità in cui è stato educato dal padre
selvaggio e finisce per partecipare a un massacro di soldati dell'ONU suoi ex amici. Nuovamente a
scuola, si chiude in un silenzio disperato e da psicosi, per un conflitto interiore rimosso da cui però
esce maturato grazie al professore che gli mette dinanzi la dura realtà. Diventerà un poeta, guarendo
se stesso, anche se prima ha un ultimo raptus durante il quale ferisce l'insegnante. E' evidente il
messaggio pasoliniano: solo attraverso la cultura, con una conoscenza storica e artistica, grazie alla
ragione (non borghese, che è una ragione malata e classista, ma una ragione che scende a dar luce a
tutti i moti dell'animo) possiamo sottrarci al regresso dell'irrazionale o del caos o della follia,
facendo di questi ultimi contenuto di espressione:
"Esprimersi significa guarire. Non importa se l'espressione è confusa, e se la speranza in fondo
all'espressione è solo il «sogno di una cosa», come dice Marx."
La ricotta (1962-3) è un episodio del film RoGoPaG (dalle iniziali dei suoi registi: Rossellini,
Godard, Pasolini e Gregoretti). Durante la lavorazione di un film sulla Passione di Cristo, diretto da
un regista (marxista privilegiato in quanto intellettuale) interpretato da Orson Welles, la comparsa
Stracci soffre la fame, dopo aver regalato il suo cestino alla famiglia sottoproletaria, e perduto un
secondo cestino da lui sottratto con l'inganno ma divorato dal cane di un'attrice; dopo aver venduto
il cane a un giornalista venuto per intervistare il regista, con le mille lire appena intascate corre a
comprarsi della ricotta, ma lo chiamano per inchiodarlo sulla croce dove interpreta il ladrone buono.
La fame aumenta sempre più. Le riprese vengono sospese perché le nuvole hanno coperto il sole e
quando riesce finalmente a mangiare, non divora solo la ricotta ma gran quantità di altre vivande
offertegli da amici divertiti dalla sua ingordigia. Chiamato di nuovo sulla scena della crocifissione,
soffre adesso di una pericolosa indigestione, che lo porterà a morire veramente sulla croce,
deludendo regista e produttore che si aspettavano la sua unica battuta, con cui doveva pregare Cristo
di ricordarsi di lui quando sarebbe andato nel regno dei cieli. L'episodio fu sequestrato e incriminato
per vilipendio della religione di Stato: Pasolini, inizialmente condannato a quattro mesi di
reclusione con la condizionale, fu assolto in appello, poi la Cassazione annullò la sentenza di
appello, pur dichiarando il reato "estinto per amnistia". Un altro capitolo assurdo nella storia della
giustizia italiana e in quella personale dell'autore.
La rabbia (1962-3) è un film di montaggio di immagini tratte da cinegiornali e documentari, con
commento in prosa e in versi, a rappresentare gli avvenimenti decisivi della storia dalla fine della
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seconda guerra mondiale sino alla morte di Marilyn Monroe, suicida a Hollywood il 4 agosto 1962.
Alla parte pasoliniana segue quella di Giovanni Guareschi, che non piacque assolutamente a
Pasolini per la sua mediocrità e il suo qualunquismo. Infatti il film fu un fiasco e determinò una
controversia tra Guareschi, che accusava il nostro di essere un marxista conformista, e Pasolini che
gli rinfacciava la sua facile demagogia. In effetti tutta la lotta politica e ideologica di Pasolini era
rivolta contro il conformismo, sia di destra che di sinistra, con i suoi effetti di colonialismo, fame,
razzismo e infine neocapitalismo con la cultura di massa e la televisione in particolare, a provocare
la "morte dell'anima". Anche la cultura, non superficiale, fondata sul formalismo e priva di anima,
fatta per accontentare il gusto estetico degli sfruttatori, è un prodotto di rinuncia all'impegno reale.
Il mondo sembra votato alla distruzione e Marylin Monroe, forse, col suo suicidio ha indicato una
strada possibile per controbattere all'alienazione massmediatica, che ha reso volgare la sua bellezza,
prima umile e quindi autentica. Oppure saranno i voli cosmici a rendere fratelli gli uomini, donando
loro l'unica rivoluzione ormai praticabile, che è quella del rinnovamento dello spirito, attraverso
l'abbandono della violenza e della guerra. Dobbiamo comprendere che l'autore non aveva il dono
della prescienza; tentava, con l'ausilio della ragione, analisi di previsione su più strade (di qui la sua
voluta ambiguità politica, tra marxismo e simpatie per i radicali italiani, in particolare Pannella:
tuttavia non smise mai di dichiararsi marxista). Altri vedono in lui contraddizioni insanabili, che
invece una "ontologia dell'attualità" potrebbe chiarire, nel senso che non si dà verità se non nella
storia, a seconda dell'epoca in cui si opera e si vive, e le verità, inoltre, sono plurali e prospettiche,
come le previsioni sul futuro: la perentorietà di talune affermazioni del nostro nascono da una
esigenza di persuasione nei confronti di un lettore o spettatore che deve maturare.
Comizi d'amore (1963) è un film-inchiesta sulla sessualità degli italiani, con interviste a persone di
ogni età e cultura appartenenti a classi sociali diverse, intercalate da interviste a gente della cultura e
dello spettacolo. L'immagine che se ne trae è quella di una Italia divisa in due, non ancora unificata
dal consumismo: nei settentrionali c'è più apertura mentale anche se non manca una certa
confusione rispetto al sesso; nei meridionali invece permane l'idea della donna che deve arrivare
vergine al matrimonio e del cornuto che deve lavare col sangue l'offesa al suo onore. La gente dello
spettacolo ha col sesso un rapporto improntato al godimento (più o meno nascosto) e al successo,
mentre gli uomini di cultura (intellettuali e poeti) sono gli unici in fondo ad avere risolto la
scissione tra carne e spirito, grazie alla loro consapevolezza. Infatti, è proprio in nome della
conquista di una maggiore consapevolezza che Pasolini termina il film augurando a una giovane
coppia che sta per sposarsi: "Al vostro amore si aggiunga la coscienza del vostro amore."
Il Vangelo secondo Matteo (1963-4) riproduce fedelmente il testo sacro di duemila anni fa.
L'occasione nasce dall'entusiasmo suscitato dal cattolicesimo progressista di papa Giovanni XXIII,
che favorì il dialogo tra credenti e non credenti, tra cristiani e marxisti. Il regista andò
personalmente in Palestina per conoscere i luoghi in cui visse e operò Cristo (da questa esperienza il
documentario Sopraluoghi in Palestina). Il paesaggio gli sembrò totalmente mutato, modernizzato,
inadeguato alle scene del Vangelo, che fu girato quindi nell'Italia meridionale (tra gli altri posti, nei
mitici Sassi di Matera). Si servì della consulenza di sacerdoti cattolici della Pro Civitate Christiana
di Assisi, in particolare di don Andrea Carraro. Scrisse su "Il Giorno" del 6 marzo 1963,
nell'articolo intitolato Una carica di vitalità:
"la figura di Cristo dovrebbe avere, alla fine, la stessa violenza di una resistenza: qualcosa che
contraddica radicalmente la vita come si sta configurando all'uomo moderno, la sua grigia orgia di
cinismo, ironia, brutalità pratica, compromesso, conformismo, glorificazione della propria identità
nei connotati della massa, odio per ogni diversità, rancore teologico senza religione."
Uccellacci e uccellini (1965-6) è una favola ideo-comica che vede due protagonisti in Totò e
Ninetto Davoli. Il primo episodio, tagliato poi nel film, rappresenta la crisi del razionalismo di
fronte alla realtà più assoluta del Terzo Mondo ancorato al mito e alla religione (quindi
all'irrazionale). Un domatore di circo tenta invano di civilizzare un'aquila (che rappresenta
l'irrazionalismo terzomondista) ma finisce per convertirsi lui alla visione più ampia e libera che gli
insegna tacitamente l'animale, sino a volare via come se fosse lui stesso aquila. Il film come è in
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realtà, narra metaforicamente di due eventi importanti in quegli anni: 1) il rapporto della religione
nei confronti della lotta di classe (e qui vediamo Totò e Ninetto che impersonano due umili fraticelli
mandati da San Francesco a portare la novella evangelica a falchi (i prepotenti) e a passeri (gli
umili); dopo varie difficoltà la predicazione viene recepita, ma non messa in pratica, perché i due
frati vedono la loro gioia iniziale per il successo avuto annullarsi di fronte all'episodio di un falco
che uccide un passero: tornano dal santo, che dice loro di riprendere la predicazione e non cessarla
mai); 2) l'altro evento rappresentato è la crisi del marxismo (il marxismo della Resistenza e degli
anni Cinquanta), che non può far fronte alle novità del mondo, soprattutto all'omologazione del
linguaggio. Tutti devono per forza parlare allo stesso modo per non essere esclusi dalla società, e
quindi si comportano tutti come consumatori di prodotti (inutili) che gli tolgono l'anima. E' il corvo
(che simboleggia Pasolini stesso) a voler portare alla coscienza di due popolani, Totò e Ninetto,
padre e figlio, la crudeltà del nuovo mondo universalmente imborghesito; inoltre c'è il problema
dell'esplosione demografica e della fame nelle aree sottosviluppate. Cosa deve fare un marxista?
Rinnovarsi, fare della non-violenza (come volevano Gandhi e papa Giovanni XXIII) lo strumento
migliore per rispondere all'altrui violenza; capire inoltre l'urgenza di una risacralizzazione del
mondo (attraverso la cultura non superficiale e il mito), contro la volgarità desacralizzante del
neocapitalismo. I due uomini, scocciati dalla "predica" di questo mite corvo, lo divorano dopo
averlo arrostito:
"Il corvo «doveva essere mangiato», alla fine: questa era l'intuizione e il piano inderogabile della
mia favola. Doveva essere mangiato, perché, da parte sua, aveva finito il suo mandato, concluso il
suo compito, era, cioè, come si dice, superato; e poi perché, da parte dei suoi due assassini, doveva
esserci l'«assimilazione» di quanto di buono - di quel minimo di utile - che egli poteva, durante il
suo mandato, aver dato all'umanità [...]."
Viene da pensare che Pasolini, scrivendo queste righe, prevedesse, almeno come possibilità, la sua
fine cruenta.
La terra vista dalla luna (1966) è il terzo episodio del film di più registi Le streghe. Attori
protagonisti sono Totò (Ciancicato, il padre), Ninetto Davoli (Baciù, il figlio) e Silvana Mangano
(Assurda, la nuova moglie di Ciancicato). Subito dopo la tumulazione del cadavere della prima
moglie, Ciancicato, d'accordo col figlio, comincia la ricerca affannosa di una sostituta, una Donna
Ideale; dopo vari tentativi, la trova in Assurda, una bellissima sordomuta, che sposerà e si rivelerà
perfetta donna di casa. Ma i due, diabolicamente, non si accontentano della situazione economica e,
per reperire i soldi necessari per una nuova casa, convincono Assurda a fingere una minaccia di
suicidio, a causa della miseria, da sopra il Colosseo, al fine di far accorrere gente; così Ciancicato,
con l'aiuto del figlio e di alcuni compari, organizza una colletta tra la folla, impietosendola con il
racconto delle sventure di povertà della moglie. Succede però l'imprevisto: Assurda, mentre
rappresenta a gesti il simulato dolore, scivola su una buccia di banana e muore cadendo.
Nuovamente al cimitero, per seppellire anche quest'altra moglie, i due sono disperati. Tuttavia, al
loro ritorno a casa, troveranno il fantasma di Assurda. Superato il terrore iniziale, convinti dai gesti
di quella che spiega che lei è in tutto e per tutto come era da viva, buona moglie madre e casalinga,
ritornano felici. L'episodio termina con queste parole scritte su un cartello: "Morale: essere vivi o
essere morti è la stessa cosa" come a dire che chi sceglie di dare preminenza alla vita materiale
rispetto a quella spirituale, è come se fosse morto.
Che cosa sono le nuvole? (1967) è il terzo episodio del film di più registi Capriccio all'italiana.
Totò e Ninetto impersonano rispettivamente Jago e Otello. E' una rivisitazione in chiave
tragicomica dell'Otello di Shakespeare, interpretato in una finzione da teatro di burattini. Alla fine il
pubblico, indignato dalla cattiveria di Jago e dalla dissennatezza di Otello, impedisce a quest'ultimo
di strozzare Desdemona (Laura Betti); poi uccide sia Jago che Otello, consola Desdemona e porta in
trionfo l'altro personaggio, Cassio (Franco Franchi), bello e innocente. I due uccisi vengono portati
via nel "mondo esterno", nel dolore generale di tutti gli altri burattini. L'immondezzaro (interpretato
da Domenico Modugno) li trasporta a una discarica, cantando la famosa canzone scritta da Pasolini
che ha lo stesso titolo dell'episodio. Qui i due si accorgeranno, vedendo le nuvole, della bellezza del
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creato. Morale (non detta) della favola è secondo me che non bastano le parole per guarire da un
folle amore (cui si riferisce la canzone) ma occorre una esperienza di "morte", il passaggio forse
doloroso da una vita a un'altra, una totale conversione dell'anima.
Edipo re (1967) è la storia di Edipo, tratta dalle tragedie di Sofocle. Nonostante i riferimenti
autobiografici, nel film, ai luoghi di infanzia dell'autore, dobbiamo concludere inaspettatamente che
il complesso edipico non appartenesse, almeno nella maturità, alla persona Pasolini ma al
personaggio che lui interpretava. E' come se prendesse su di sé mali e complessi non attribuibili
tanto a lui (che evidentemente li aveva superati con un lungo lavoro introspettivo, anche grazie al
coraggio della sua indipendenza), ma a noialtri; e lo facesse per stimolarci a diventare consapevoli
di quei mali e complessi per superarli. Sono costretto a contraddirmi (rispetto alle idee che mi ero
fatto prima) alla luce di queste parole illuminanti:
"Non ho mai sognato di fare l'amore con mia madre. Neanche sognato. Se mai potrei rimandare i
due o tre lettori, che mi son rimasti fedeli, ad alcuni versi dell'Usignolo della Chiesa Cattolica,
...il sogno in cui mia madre / s'infila i miei calzoni.
Ho piuttosto sognato, se mai, di fare l'amore con mio padre (contro il comò della nostra povera
camera di fratelli ragazzi), e forse anche, credo, con mio fratello; e con molte donne di pietra."
Cosa si evince da tutto ciò? Millenni di violenze (soprattutto sulle donne) hanno creato, per
contrasto, nell'inconscio degli uomini una femminilizzazione (Pasolini che fa l'amore in sogno con i
componenti maschi della sua famiglia; cfr. anche PASOLINI AUTORE DI TEATRO, quando parlo
della tragedia Affabulazione) mentre le donne si sono via via mascolinizzate (Pasolini che sogna la
madre che s'infila i suoi calzoni; le donne di pietra).
E' questo passato violento che ci fa nascere già in una condizione di colpa, con un destino assurdo
come quello di Edipo, e un "destino oltre il destino" che ci chiede di porre rimedio, ognuno come
può, a un male di cui ignoriamo la nostra responsabilità.
Appunti per un film sull'India (1967-8) è un breve filmato in cui l'autore presenta la sua idea di un
film sull'India e intervista vari personaggi per capire come farlo: vuole trattare dei temi della fame,
della sovrappopolazione e della religione, destinata forse ad essere distrutta dall'industrializzazione
o forse no se gli indiani sapranno mantenersi a livello della loro millenaria cultura. Nel finale dice
che l'India dà tutto; e si chiede: "Ma che cosa?" Azzardo una risposta affermando che l'India può
insegnare a noi occidentali a rinunciare alla prepotenza, alla volontà di potenza. Il film, che doveva
narrare le vicende della famiglia di un maharaja, non fu realizzato.
Teorema (1968) è la versione cinematografica del romanzo omonimo (v. PASOLINI
NARRATORE 1962-1975). Al solito l'autore e regista ebbe guai giudiziari che si risolsero con
l'assoluzione.
La sequenza del fiore di carta (1967-9) è il breve episodio pasoliniano del film Amore e rabbia
girato da più registi separatamente. Si ispira al racconto evangelico del fico maledetto e fatto di
colpo seccare da Gesù perché non aveva frutti (v. Matteo 21,18-22). Il protagonista è un
sottoproletario di nome Riccetto colto in una sua innocente passeggiata per le strade di Roma. Dio
gli parla ma lui non vuole ascoltarlo. Dio parla lo stesso e gli dice che non può rimanere
inconsapevole di fronte ai mali del mondo, alle guerre e alle ingiustizie. Allora, giacché Riccetto
continua ad ignorarlo, lo fa morire proprio come Gesù ha fatto col fico.
Porcile (1968-9) è un film con due episodi ("Orgia" e "Porcile") che si intersecano, mentre nella
sceneggiatura sono nettamente distinti. Il primo parla di un emarginato al tempo del Medioevo, che
vaga per la campagna cibandosi di bisce, vermi, erbacce e radici, fino a quando non si imbatte in un
soldato, lo uccide e dopo averne staccato la testa e averla buttata nella bocca di un vulcano, si ciba
della sua carne; altri si aggregano a lui e formano una piccola tribù di cannibali, con relativa prole.
Il Re della zona (non precisata) manda i soldati per catturare la banda servendosi di un'esca umana
(un ragazzo e una ragazza completamente nudi). I colpevoli vengono quindi processati e condannati
a morte: la società dei normali vuole presto dimenticare questa vicenda angosciante per l'ordine
sociale, considerata la sua carica di contestazione globale sul piano esistenziale.
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Il secondo episodio è invece la trasposizione cinematografica della tragedia omonima (v.
PASOLINI AUTORE DI TEATRO, quando parlo di Porcile).
Appunti per un'Orestiade africana (1968-9) è un filmato interpretato dall'autore per raccogliere idee
(intervistando degli studenti africani) per un futuro film - che non girò - in cui avrebbe dovuto
ambientare in un'Africa degli anni '60 le tragedie eschilee del ciclo di Oreste, che peraltro tradusse
in italiano.
L'ingresso della democrazia formale nel Continente nero, al posto delle vecchie istituzioni tribali
tiranniche e irrazionali, viene da lui visto come un dono della Ragione, che inoltre trasforma
l'irrazionalità da distruttiva a fonte di "liberazione del simbolico" attraverso poesia, fantasia e
sentimento. L'irrazionalità, che è retaggio del nostro passato animale e preistorico, non va rinnegata,
ma deve convivere con la ragione. Le tradizioni culturali arcaiche, pur nate in un clima di
ingiustizia e arbitrio, dovranno rimanere nella memoria degli africani, a difenderne la specifica
identità contro ogni tentativo di omologazione da parte dell'Occidente.
Medea (1969), interpretata dalla eccelsa Maria Callas, intima amica del nostro, riprende l'omonima
tragedia di Euripide. Giasone deve conquistare il Vello d'oro, la mitica pelle di caprone simbolo
dell'assolutezza e della perennità del regno umano. Organizza una spedizione, detta degli Argonauti,
e giunge nella Colchide dove si trova il Vello. Aiutato da Medea, la figlia del re, che per amore di
lui tradisce la sua essenza magico-religiosa arcaica, sottrae il Vello e torna con i compagni e con la
donna in patria. Qui però ha altri guai e devono fuggire a Corinto, dove vivranno con i due figli che
sono intanto nati. Ma l'ambizioso Giasone vuole sposare Glauce, la figlia di Creonte re di Corinto, e
quindi ripudia Medea. Quest'ultima per vendetta, ucciderà Glauce fingendo di regalarle una veste di
nozze in realtà intrisa di un veleno scorticante, e i due figli, pugnalati, con i cui cadaveri brucerà
nella casa sotto gli occhi impotenti di un Giasone a cui non resta ormai più niente al mondo. Medea
rappresenta la civiltà religiosa arcaica, mentre Giasone l'ateo successo mondano. Sono due mondi
incompatibili, che possono stare insieme solo per atto di amore, di vero amore, a cui verrà meno
Giasone a causa della sua ambizione, scatenando così la terribile regressione di Medea al suo
passato arcaico e sanguinario (che non ha mai superato, in realtà).
San Paolo (progetto, tra il 1968 e il 1974, per un film non girato) traspone la vicenda della
predicazione dell'Apostolo dei gentili nel XX secolo, a cominciare dalla Parigi degli anni 1938-44,
durante l'occupazione nazista: Paolo è un collaborazionista appartenente alla ricca borghesia
reazionaria, fanatico e ingenuamente crudele, con una punta di disperazione nell'animo, che lo
porterà a convertirsi sulla strada di Barcellona, chiamato da Gesù; si farà cristiano e apostolo,
laddove i cristiani equivalgono ai partigiani della Resistenza. Le parole del santo sono le stesse delle
sue Lettere. L'attualizzazione della vicenda vuole significare che Paolo è a noi contemporaneo, sia
come santo (e qui il giudizio di Pasolini è positivo, in quanto il nascente cristianesimo distrugge la
società schiavista romana) sia come organizzatore di chiese (e qui il giudizio, invece, è negativo,
perché la religione istituita è fatale che scenda a compromessi con il potere e diventi ipocrita). Dice
Paolo:
"Il nostro è un movimento organizzato... Partito, Chiesa... chiamalo come vuoi. Si sono stabilite
delle istituzioni anche fra noi, che contro le istituzioni abbiamo lottato e lottiamo. L'opposizione è
un limbo. Ma in questo limbo già si prefigurano le norme che faranno della nostra opposizione una
forza che prende il potere: e come tale sarà un bene di tutti. Dobbiamo difendere questo futuro bene
di tutti, accettando, sì, anche di essere diplomatici, abili, ufficiali. Accettando di tacere su cose che
si dovrebbero dire, di non fare cose che si dovrebbero fare, o di fare cose che non si dovrebbero
fare. Non dire, accennare, alludere. Essere furbi. Essere ipocriti. Fingere di non vedere le vecchie
abitudini che risorgono in noi e nei nostri seguaci - il vecchio ineliminabile uomo, meschino,
mediocre, rassegnato al meno peggio, bisognoso di affermazioni, e di convenzioni rassicuranti.
Perché noi non siamo una redenzione, ma una promessa di redenzione. Noi stiamo fondando una
Chiesa."
E' stato Satana a imitare la voce di Dio e a mandare Paolo a fondare la Chiesa. Prova di ciò sono
tutti i delitti che durante la storia ha commesso questa istituzione: papi criminali, compromessi col
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potere, soprusi, violenze, repressioni, ignoranza, dogmi, e da ultimo il delitto più grave, cioè
l'accettazione passiva del potere consumistico irreligioso che non sa che farsene di religione e
morale e riduce la Chiesa a folclore, rispettandola solo come alleato politico e potere finanziario. Il
messaggio autenticamente religioso (di santità) di Paolo non viene accettato da nessuno, in fondo, e
chi lo accetta o è un santo pure lui o è un ipocrita che lo accetta solo apparentemente; gli
intellettuali, sia di destra che di sinistra, col loro razionalismo, non hanno capito niente di religione,
ignorando che la vera sapienza viene da Dio, data in premio a chi vive concretamente d'amore. Il
Paolo pasoliniano è destinato ad essere ucciso da un sicario nella New York neocapitalistica, che
rappresenta la versione contemporanea dell'originario potere imperiale romano dell'epoca in cui
visse il santo. Il potere non cambia mai essenza, è sempre spietato, qualunque nome esso si dia, e
finisce sempre con l'uccidere in mille modi coloro che si oppongono ad esso.
"Trilogia della vita": Il Decameron (1970-1), I racconti di Canterbury (1971-2) e Il Fiore delle
Mille e una notte (1973-4). Elogio della vitalità del sesso, gioioso e liberatorio, specie se visto con
l'occhio rivolto al passato, quando la sessualità veniva repressa dal potere e quindi poteva essere
realmente goduta come vitale scandalo, leggerezza e felicità. I popolani (ed anche alcuni borghesi)
di Boccaccio o di Geoffrey Chaucer (autore dei Racconti di Canterbury) e alcuni principi e
principesse arabi rappresentano un modello di comportamento che, più della cultura o della politica,
ha del rivoluzionario, in quanto esso contraddice l'ipocrisia della classe dominante. Quando però
Pasolini si accorge che i suoi tre film vengono strumentalizzati e imitati in versioni pornografiche,
capisce che tutto è finito anche nel mondo del sesso, capisce che il sesso è divenuto un obbligo
sociale voluto dal potere neocapitalistico che non sa più cosa farsene di Chiesa e moralità. Il regista
così smette di fare film sul sesso liberatorio e girerà Salò, sul sesso come rapporto sadomasochistico
tra vittime e carnefici, entrambi colpevoli.
Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) è la trasposizione al tempo della Repubblica di Salò della
vicenda narrata da Sade nel suo famoso romanzo, in cui parla di quattro potenti (un duca, un
banchiere, un presidente di tribunale e un monsignore) che riducono a cose dei giovani prigionieri
maschi e femmine, seviziandoli per eccitarsi. Questo ultimo film girato da Pasolini vuole dire due
cose: 1) il sesso è divenuto obbligo sociale (imposto dal consumismo) e quindi non è più gioioso e
liberatorio, ma triste e cattivo; 2) il sesso è metafora del rapporto tra potenti (carnefici) e sfruttati
(vittime): è chiaro che né i carnefici né le vittime sono innocenti, perché appartengono alla stessa
educazione all'avere, al possedere e al distruggere, non quindi all'amare e all'essere. Infatti le
vittime nel film, salvo rare eccezioni, non hanno scrupoli nel tradirsi a vicenda per evitare le
punizioni, regolamentate dai quattro perversi. Queste alcune "perle" dalla trascrizione delle battute
dei quattro privilegiati:
"Tutto è buono quando è eccessivo."
"Non c'è nulla di più contagioso del male..."
"In tutto il mondo non c'è voluttà che lusinghi più i sensi che il privilegio sociale..."
A questo fascismo crudele e volgare, Pasolini non può che contrapporre i versi di Ezra Pound dai
Cantos (canto 99°):
"La parola paterna è compassione; / filiale, devozione; / la fraterna, mutualità. / Del tosatel la parola
è rispetto."
Porno-Teo-Kolossal (solo progettato a livello di trattamento tra il 1967 e il 1975, ma mai
sceneggiato né girato) avrebbe dovuto essere l'ultimo film di Pasolini, che poi si sarebbe occupato
solo della scrittura del romanzo Petrolio. Ma non fece in tempo a realizzarlo, dopo Salò, perché
morì ammazzato. Il protagonista, Epifanio (Eduardo De Filippo), è un moderno Re Magio, cioè uno
che si intende di calcoli astronomici legati ad eventi della storia. Egli vive a Napoli con la sua
famiglia, proprio quando si annuncia la venuta del Messia per portare felicità e pace nel mondo.
Trovata conferma della notizia nei suoi calcoli astronomici, si mette in viaggio col servo romano
disincantato Nunzio (Ninetto Davoli), seguendo la Stella Cometa che indica la direzione del nord.
Arrivano a Sodoma, una città rappresentata dalla Roma degli anni cinquanta. Questa città incarna
l'Utopia della mitezza: tutto scorre tranquillo e non ci sono violenze, anche se c'è già una prima
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assurdità: i cittadini sono quasi tutti omosessuali, e i pochi eterosessuali vengono tollerati ma in
realtà relegati a un solo quartiere. Un solo giorno all'anno, durante la Festa della Fecondazione,
maschi e femmine si uniscono per dar vita a nuovi figli. Per il resto dell'anno, solo rapporti
omosessuali (eccetto la minoranza di eterosessuali). Fatto sta che l'ordine viene violato da un
ragazzino e una ragazzina che, prima omosessuali, scoprono ora misteriosamente l'attrazione l'uno
per l'altra e si uniscono nel loro amore proibito. Scoperti, vengono arrestati e processati: saranno
condannati a una pena non mortale ma comunque esemplare: lei dovrà essere posseduta dalle tre
lesbiche più calorose della città; mentre lui dai tre giovani più superdotati. In seguito nella casa di
Lot avvengono cose che contraddicono la mitezza della città: un gruppo di teppisti omosessuali
pretende di sodomizzare degli ospiti dell'eterosessuale Lot. Questi si oppone, offrendo le sue figlie
alle lesbiche. Nascono tafferugli. La Cometa si sposta ed Epifanio e Nunzio fuggono via, seguiti da
Lot e le figlie, mentre Sodoma brucia distrutta dai fulmini mandati in punizione da Dio. In treno, le
tre ragazze ubriache si approfittano del padre Lot, altrettanto ubriaco, mentre lui ripete loro di non
voltarsi indietro.
All'arrivo a Gomorra (una Milano della metà degli anni settanta), in stazione un gruppo di teppisti
costringe le tre a voltarsi per possederle in quella maniera, e le ragazze sono trasformate in statue di
sale. Gomorra rappresenta l'Utopia della violenza e dell'erotismo eterosessuale estremo: le donne
vengono violentate per strada. Le situazioni di violenza costringono i cittadini a girare armati, e un
napoletano offre in vendita delle armi anche ai nostri due protagonisti. In città non si ammette
alcuna diversità, specie quella omosessuale, repressa nel sangue. Anche qui avviene
misteriosamente una trasgressione: un operaio è attratto improvvisamente da uno studentello; i due
si appartano nel bagno di un cinema ma scoperti vengono arrestati e condannati a una morte
orrenda: il ragazzo ad essere seppellito vivo, l'uomo invece viene legato a una corda appesa a un
elicottero, ucciso con un colpo di pistola alla gola e poi elevato sulla folla in modo che essa venga
bagnata dal suo sangue. Dio si adira e colpisce la città con la peste, che fa morire tutti, tranne
Epifanio e Nunzio che fuggono via seguendo la Cometa che si sposta ancora verso nord.
Giunti a Numanzia (Parigi), sono fermati dall'esercito tecnoclericofascista che assedia la città,
governata da un socialismo democratico. I fascisti destinano i fermati a campi di concentramento,
ma i due vengono salvati da un napoletano, cuoco del Capo militare, che li sceglie come sguatteri.
La Cometa si sposta verso il centro della città. I due, per seguirla, fuggono ed entrano a Numanzia,
dove vengono arrestati dalle truppe resistenti. Mentre sono chiusi in prigione, un poeta propone il
suicidio collettivo di tutti i cittadini per non finire schiavi dei fascisti. Dopo un referendum che
mette ai voti la proposta, tutti si uccidono tranne - paradossalmente - il poeta, che non ne ha il
coraggio, ed Epifanio e Nunzio rinchiusi in prigione. I tre vengono accolti dai fascisti. Il poeta
diventa amico del Capo di questi ultimi, mentre Epifanio e Nunzio sono promossi a camerieri.
Accade però l'imprevisto: il poeta litiga col Capo fascista per una questione di puntiglio e viene
giustiziato.
La Cometa ora si sposta verso oriente. I due personaggi prendono l'aereo diretti a Ur (il luogo dove
finalmente dovrebbero trovare il Messia). Qui però vengono depredati (dal solito napoletano furbo)
del dono per il Bambino (un presepio di valore) e alla fine scoprono che è passato troppo tempo: la
spelonca in cui è nato Cristo è vuota e il Messia è già morto e dimenticato. Epifanio, stremato e
deluso, muore. Un angelo si separa dal corpo di Nunzio e porta con sé l'anima del defunto in cielo,
ma qui non trovano nemmeno il Paradiso. I due guardano la Terra sotto di loro ed Epifanio
comprende che "è stata una illusione quella che l'ha guidato attraverso il mondo - ma è stata
quell'illusione che, del mondo, gli ha fatto conoscere la realtà..." La realtà non è riducibile ad alcuna
ideologia né politica né religiosa, ma è caotica, assurda e imprevedibile. Dalla Terra provengono
ora canti rivoluzionari. Epifanio fa:
"«Maaaaaa... e mo'?». Nunzio si è, chissà perché, un po' racconsolato: «Embè, sor Epifà» risponde.
«Nun esiste la fine. Aspettamo. Qualche cosa succederà»."
4.3. Altre opere per il cinema
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Compose commenti per diversi documentari girati da altri registi. Qui ricordiamo solo il finale di
Caschi d'oro (1960) di Mario Gallo, in cui rivolgendosi ai giovani figli dei ricchi, dice:
"Ah, ma è inutile parlarvi. La vostra vita, che voi credete così realistica, è una continua fuga dalla
realtà, che è coscienza e luce di pensiero, e non avido conformismo. E' inutile parlarvi, tanto è
chiaro che non mi risponderete mai."
Nel 1974, nello Yemen per girare Il Fiore delle Mille e una notte, gira pure un documentario in
forma di appello all'UNESCO, Le mura di Sana'a, per la salvaguardia dell'antica città. In Italia,
dice, si può fare ben poco ormai: i paesaggi architettonici del passato sono irrimediabilmente
rovinati dalle strutture moderne, ma nel Terzo mondo c'è ancora possibilità di impedire lo scempio
urbanistico voluto sia da agenti neocapitalistici sia da quelli comunisti sulla base di una falsa idea di
benessere; la tutela del patrimonio artistico, invece, è una risorsa non solo come rispetto della
cultura del passato ma anche in vista di profitti turistici. L'UNESCO nel 1984 dichiarò Sana'a
"patrimonio dell'umanità" e negli anni successivi, col contributo del Fondo Pasolini di Roma, lanciò
una campagna internazionale per la conservazione e il restauro della città.
Pasolini si impegnò anche come sceneggiatore per film di altri registi:
La donna del fiume (1954) di Mario Soldati; Le notti di Cabiria (1957) di Federico Fellini, che gli
chiese di scrivere i dialoghi in dialetto romano e le parti che trattano della malavita; Viaggio con
Anita (1957-8), trattamento per Federico Fellini, ma il film lo fece solo nel '78 Mario Monicelli
aggiornando il materiale pasoliniano; La notte brava (1959) di Mauro Bolognini; Puzza di funerale
(1959), ma il titolo del film fu poi Morte di un amico diretto da Franco Rossi (Pasolini ritirò la sua
firma dalla sceneggiatura, a causa delle modifiche che vi apportarono, e mantenne solo quella per il
soggetto); La nebbiosa (1959-60), collaborazione alla sceneggiatura, da cui solo nel '63 i registi
Gian Rocco e Pino Serpi ricavarono il film violento Milano nera; Il bell'Antonio (1960),
sceneggiatura tratta dall'omonimo romanzo di Vitaliano Brancati, per il regista Mauro Bolognini;
La dolce vita (1960), alcuni episodi rielaborati da Pasolini su richiesta del regista Fellini, che poi
però non ne fece granché uso nel suo famoso film; La giornata balorda (1960) di Mauro Bolognini;
Ostia (1970) di Sergio Citti; L'histoire du soldat (1973), un film che avrebbe dovuto dirigere Giulio
Paradisi, ma poi rimase irrealizzato, con una sceneggiatura scritta a più mani (Pasolini, Sergio Citti
e Giulio Paradisi), avente come tema la "mutazione antropologica" degli italiani ad opera della
televisione; Storie scellerate (1973) di Sergio Citti.
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PASOLINI CRITICO
Lingua
Sulle questioni linguistiche scrive soprattutto in Empirismo eretico (1964-72), ma anche in saggi
sparsi.
La sua tesi è che sino all'avvento del neocapitalismo, cioè sino ai primi anni '60, in Italia non
esisteva una lingua nazionale, unica per tutte le classi sociali, ma un "italiano medio" come lingua
della sola classe dominante borghese, che si ispirava evidentemente alla lingua letteraria. Il popolo,
da parte sua, aveva tanti linguaggi particolari, quante erano le realtà locali in cui si esprimeva. Dagli
anni '60 in poi, come elemento unificatore di tutte le classi sociali, attraverso i mass-media,
soprattutto la televisione, si fa strada una vera e propria lingua nazionale basata sul frasario
tecnologico, anti-espressivo e quindi solo comunicativo cioè strumentale. Si tratta di una
"comunicazione segnaletica" che trasforma antropologicamente gli uomini in automi, a causa di
desideri inautentici inculcati loro dal potere consumistico ai fini della produzione.
Le realtà dialettali sono divenute delle "sopravvivenze" da tutelare come le opere d'arte in un
museo. Non sono più il linguaggio vivo e colorito del popolo. La cultura tecnica ha inoltre
soppiantato quella umanistica, non consona alla logica del consumo di beni superflui. Mentre in
passato alla guida della lingua era la letteratura (sia pure fatta da borghesi), adesso sono le aziende.
Tutto questo egli lo vede sul nascere, mentre noi ci siamo già dentro.
Cosa possono fare i letterati? Pasolini li invita a non rimuovere la questione, ad appropriarsi del
nuovo linguaggio tecnologico per far valere, magari (osservo io) attraverso un uso ironicodistorcente di esso, il fine dell'espressività cioè della libertà contro la meccanizzazione dell'uomo.
Infatti il nuovo sistema sociale e linguistico è comunicativo sì, ma non razionale, quindi è
pericolosamente irrazionale. Riporta gli individui a condizioni preistoriche, improntate a licenza e
caos, in cui i rapporti umani diventano mercificati (ad esempio, si cambia partner come se fosse
un'automobile).
E' il fallimento del sogno degli intellettuali marxisti che con e dopo la Resistenza hanno combattuto
perché in Italia si potesse creare una lingua nazionale "attraverso un democratico arricchimento
linguistico, ottenuto con contributi paritetici da tutti i livelli culturali, regionali e classisti."
Verrà criticato sia da sinistra che da destra. Da sinistra gli verrà detto (soprattutto da Moravia) che
ha contrabbandato per analisi oggettive le sue nuove esigenze di poetica; la neoavanguardia
rivendicherà di essere stata lei stessa la scopritrice della lingua nazionale tecnocratica; i linguisti lo
accuseranno, al solito, di superficialità. I conservatori, dal canto loro, di aver trascurato la letteratura
in nome della propria "infatuazione tecnocratica", cioè l'esatto contrario della verità: Pasolini non
"amava" la lingua tecnocratica, si limitava a vederla nascere e anzi prevedeva che essa, attraverso
l'industria culturale, avrebbe reso marginali la cultura umanistica e le tradizioni, che lui in realtà
amava.
Letteratura
Nella sua critica letteraria, si pone subito contro la resistenza solo passiva al fascismo da parte dei
poeti ermetici; quindi dopo la guerra approderà al marxismo come ideologia che consente un
approccio attivo alla realtà, al fine di (tentare di) trasformarla. Tuttavia egli resta sopra ogni
ideologia, anche quella marxista, perché la realtà è così complessa e imprevedibile che è appunto
irriducibile a qualsiasi gabbia ideologica. Maestri di riferimento sono Gramsci e Contini. Nella
critica militante degli ultimi anni giocherà la sua partita più essenziale, a mio parere: il tentativo, nel
tempo della fredda comunicatività propria dell'era consumistica, di promuovere l'uomo espressivo
come "oltreuomo" (cioè non più sopravvivenza dell'era umanistica e contadina ma fine evolutivo
dell'essere umano che ha l'umiltà e il coraggio di affrontare la crisi a cui, in modi diversi, la realtà
stessa lo sollecita). L'evoluzione quindi non la promuove certo la neoavanguardia, solo a parole
antiborghese, ma in realtà composta da letterati che hanno comportamenti borghesi: così gli
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avanguardisti, distruggendo il linguaggio, distruggono se stessi divenendo insignificanti, chiusi nei
loro gruppi.
Anche gli estremisti di sinistra vengono da lui visti come apparentemente rivoluzionari, ma in realtà
assetati di potere e avversi all'individuo problematico e veramente rivoluzionario: così i diversi sono
"scandalo per gli integrati, stoltezza per i dissenzienti".
Quanto al lavoro dei critici letterari integrati che scrivono sui giornali nel tempo dell'industria
culturale, dice:
"[...] i libri di cui si parla sono scelti casualmente - come appunto dei prodotti - un po' secondo le
regole del lancio industriale, un po' secondo le regole del sottogoverno. Affastellati tutti insieme, e
scelti senza il minimo rigore, tutto interessa in essi fuori che il loro valore e la loro autenticità.
Interessa ciò che essi socialmente rappresentano, ecco tutto. Di un libro si parla perché la moda, la
casa editrice, il direttore del giornale, la comune posizione letteraria o ideologica (ma in un senso
puramente pratico e personale) vogliono che se ne parli. Verso un libro non si sente più non solo
amore (l'amore disinteressato per la poesia), ma neppure interesse culturale."
In cosa consiste invece una vera critica militante? Descrivere secondo una visuale, insieme
oggettiva e soggettiva, razionale e irrazionale, le descrizioni della realtà date dalle opere letterarie
(di qui il titolo del suo saggio Descrizioni di descrizioni).
Veniamo ora all'analisi di ciò che Pasolini pensava di autori a lui (salvo eccezioni) contemporanei,
qui di seguito indicati in ordine alfabetico.
Anna BANTI: il suo amore per lo stile, ne fa un prodotto che l'industria culturale non può lanciare
al consumo né mistificare: l'unica protesta contro l'industrializzazione dello stile... è lo stile.
Giorgio BASSANI: aveva il rimpianto per l'occasione perduta della Grazia, quindi viveva nell'attesa
della ripresentazione (non certa) della Grazia stessa; escluso e perseguitato al tempo del fascismo in
quanto ebreo, si limitò in principio a una protesta di tipo ermetico per approdare, dopo la guerra, al
realismo.
Dario BELLEZZA: moralista verso se stesso per l'omosessualità vissuta con senso di colpa, quindi
autolesionista, e pure poeta (il migliore della generazione successiva a quella di Pasolini) e
intellettuale coraggioso.
Attilio BERTOLUCCI: amante dei piccoli piaceri della vita borghese, il suo epicureismo nasce
dalla coscienza di qualcosa che è peggiore della morte stessa, come se dopo la morte ci fosse
un'altra morte; così Bertolucci si "vendica" gustandosi i momenti di riposo dall'attività di poeta
amabile proprio perché condivide un dolore che gli è estraneo, forse (congetturo) il dolore dei non
poeti o non ancora poeti: condivisione come dovere e atto di amore.
Italo CALVINO: strano rapporto, di amicizia ma anche di contesa; in Descrizioni di descrizioni
Pasolini cita una sua frase che lo ha impressionato e vale la pena riportare integralmente:
"L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che
abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo
riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il
secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e
cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio."
Giorgio CAPRONI: ha un atteggiamento vitale e patetico di fronte al mondo, nel quale vive, come
uno dei letterati più liberi del novecento, sia pure pervaso da una forza illogica.
Giosue CARDUCCI: fintamente vitale, in realtà coltivava sentimenti inautentici e retorici; la sua
cultura era provinciale ed accademica.
Carlo CASSOLA: come conservatore e conformista, difende la normalità; esaltando la gretta
provincia (che lo protegge con la sua reticenza), ha mancato nell'opera fondamentale dell'uomo, che
è quella dell'autochiarificazione, che lo avrebbe portato, se l'avesse affrontata, a riconoscere anche
in sé le origini della sua nevrosi, e cioè il complesso edipico, con la conseguente tentazione
omosessuale, che lui non riconosce finendo per cristallizzare le figure femminili, in una
eterosessualità convenzionale.
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Giovanni COMISSO: nel romanzo I due compagni narra il destino diverso di due giovani artisti
amici, che dopo la prima guerra mondiale faranno scelte di vita di segno contrario (uno si
imborghesirà, l’altro, più geniale ma anche più fragile, finirà in manicomio): secondo Pasolini, essi
rappresentano in realtà due aspetti di un unico personaggio (l’autore stesso), lacerato da un conflitto
interiore.
Gabriele D'ANNUNZIO: attratto dai corpi atletici di giovani maschi, fu conquistato dal virilismo
fascista (anche per lui si può parlare di omosessualità inconscia).
DANTE: nella Commedia mantiene rigorosamente l'equidistanza tra sé e gli infiniti aspetti
particolari del suo mondo; i sentimenti che prova Dante nei confronti dei personaggi dell'opera non
sono suoi in quanto uomo ma in quanto personaggio. Il suo plurilinguismo comprende tutto,
dall'alto al basso della società del Trecento, attraverso una mimesi linguistica che lo rende l'unico
poeta realistico italiano (gli altri si pongono sulla linea petrarchesca dell'unilinguismo selettivo e
accademico - ideologicamente reazionario, a difesa della classe dominante -; oppure sulla linea
pseudo-dantesca plurilinguistica, affetta da iperstilismo, non avente una visione ideologica ma
pratica della realtà, con rischio quindi di evasione estetica; oppure, infine, sulla linea del realismo
minore, che riproduce l'esistenza quotidiana e sensuale).
Massimo FERRETTI: odiando la letteratura, perché essa col suo prestigio e l'erudizione
onnisciente, manda avanti l'atroce macchina del mondo, afferma la possibilità di una lingua non
letteraria, ma - osserva Pasolini - Ferretti, nella sua distruzione del mondo (cioè delle istituzioni),
non elimina la parte più arcaica e atrocemente reale del mondo stesso, e quindi la sua stessa (di
Ferretti) psicologia piccolo-borghese.
Carlo Emilio GADDA: barocco realistico e dantesco plurilinguismo. La società, oltraggiando il
letterato libero (come appunto Gadda) lo martirizza, non perdonandogli il fatto che egli la pone di
fronte alla cattiveria che la contraddistingue.
Francesco LEONETTI: scrittore orgoglioso e al tempo stesso pronto al sacrificio per il recupero
dell'autenticità, pronto (ma per questo anche criticato dal nostro) ad ogni nuova esperienza letteraria
e politica (il marxismo-leninismo). Come fa Leonetti - osserva Pasolini - col suo candore e il
linguaggio del letterato colto, a fare esperienza totale, di vita, del pragmatismo proprio dei gruppi
estremisti di sinistra, il cui linguaggio si pone agli antipodi di quello colto ed espressivo?
Giacomo LEOPARDI: è repressiva l'opera di alcuni biografi del poeta recanatese, i quali tacciono
dei suoi difetti (narcisismo, egocentrismo, megalomania, impotenza, inibizioni linguistiche, manie e
allergie). Dare di un poeta l'immagine di perfezione morale equivale a disconoscere la complessità
della realtà umana, che ha pure i suoi aspetti demoniaci.
Mario LUZI: poeta autenticamente religioso, anche se Pasolini, essendo ateo, non ne condivide la
posizione.
Alessandro MANZONI: tutti i rapporti tra i personaggi dei Promessi sposi sono contraddistinti da
una strana intensità omoerotica di fraternità oppure odio, che del resto ritroviamo in tutti i grandi
romanzieri. Anche per lui la diagnosi è di omosessualità latente.
Dacia MARAINI: pur essendo amica, la critica per il suo femminismo che non tiene conto della
realtà mutata italiana, la quale non vede più la donna sottomessa all'uomo (se non in casi
eccezionali), ma sono proprio le ragazze, secondo Pasolini, a farsi garanti della trasmissione ai
maschi dei falsi valori consumistici, mentre in passato, prima della mutazione antropologica, i
ragazzi stavano tra loro e si iniziavano ai valori popolari estranei a quelli della classe dominante
borghese.
Eugenio MONTALE: nel 1971 ci fu una polemica tra Pasolini e Montale. Secondo il nostro,
Montale nega l'idea di "tempo" e quindi di "progresso" e in linea con la scienza contemporanea dice
che tutto è fermo o ritorna; per questo è contrario al marxismo in quanto ideologia fondata sull'idea
di "progresso". Pasolini accusa Montale, a causa del suo pessimismo metafisico, di accettare il
potere borghese come fatto naturale, e lo è infatti; fatto sta però che anche l'ideologia liberaleborghese si fonda sull'illusione del tempo come progresso. Perciò, in ultima analisi, lo accusa di
malafede, perché non usa lo stesso metro per l'illusione marxista e per quella borghese.
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Elsa MORANTE: la scrittrice era molto amata da Pasolini, per il suo coraggio, l'umile amore,
l'adorabile ingenuità.
Alberto MORAVIA: il primo giudizio, del '47, non è tanto buono: lo vede come scrittore semplice e
meccanicamente facile; poi diventerà suo amico e ne apprezzerà l'impegno letterario come irrisione
della realtà borghese, che è bizzarra e meschina al tempo stesso; sarà tuttavia sempre una irrisione
non crudele ma basata su una compassione canzonatoria; linguisticamente Moravia è per una lotta
contro le frasi fatte, che nascono da sentimenti inautentici e costringono gli esseri umani a una vita
alienata.
Ottiero OTTIERI: autoironico nel parlare della sua depressione, con proprietà di termini tecnici
propri della psicoanalisi, dalla lettura piacevole e chiara, a metà tra l'improvvisazione più folle e lo
speciale spirito ludico della conversazione mondana. Se avesse avuto meno timore del giudizio
degli altri, si sarebbe adempiuto perfettamente.
Alessandro PANAGULIS: il rivoluzionario greco (contro il regime dei colonnelli) è stato
trasformato in poeta autentico dalla esperienza della tortura sopportata con coraggio.
Giovanni PASCOLI: oggetto della sua tesi di laurea, Pasolini ne era colpito per la solitudine
interiore a contatto col mistero della realtà, mistero tradotto e rivelato dalla poesia; stilisticamente
complesso, perché da una parte ha uno stile "fisso", dall'altra sperimenta le tendenze stilistiche più
disparate, grazie alle quali si pone come il diretto antenato dei poeti del novecento italiano.
Sandro PENNA: molto amato da Pasolini perché poeta coraggioso, grato alla vita; solo
apparentemente amorale, un autoescluso dalla vita normale, un santo anarchico (la santità del nulla),
precursore di ogni contestazione passiva e assoluta (non ha considerato nemmeno esistente l'abietto
potere fascista, e quindi non poteva inventare un peggiore insulto contro di esso).
Ezra POUND: aderì al fascismo piuttosto che al comunismo per motivi folli e irrazionali, perché il
fascismo faceva dichiarazioni di idealismo e difesa del mondo antico, in cui egli si rifugiava contro
l'alienante mondo industriale: di qui l'elogio della società contadina, greco-antica o cinese del
confucianesimo, o appunto dell'Italia fascista.
Leonardo SCIASCIA: il suo notevole successo non lo ha portato ad avere una autorità, poiché egli è
un uomo solo, che giudica l'ambiente in cui vive (la Sicilia e i siciliani) non sulla base del
moralismo cattolico ma sulla base di una morale più arcaica, che è quella dell'onore, per cui se è
vero che il "buono" è colui che non accetta l'ingiustizia dei cattivi, il "cattivo" altri però non è che
un buono a cui non è saltata in mente l'idea dell'ingiustizia del potere, invece accettato, per cui il
mondo è contraddistinto da una gerarchia piramidale in cui ognuno ha il suo posto; chi ne è fuori, il
"buono", giudica e a volte lotta contro di essa, ma senza moralismo e probabilmente senza speranza
di vittoria, perché la mafia è praticamente imbattibile, oltre che inesprimibile, rappresentando "ab
aeterno" il fondo irrazionale della mentalità di ogni siciliano.
Enzo SICILIANO: scrittore profondamente sincero (riconoscendo pulsioni anche imbarazzanti nella
sua psiche trasfigurandoli nei suoi personaggi); come critico si pone a metà strada tra anima e storia
(la quale ultima richiede impegno e quindi anche integrazione), sempre però in uno status di
contraddizione o opposizione.
Mario SOLDATI: rinunciando a qualsiasi autorità paterna verso il lettore, vuole esserne fratello,
con l'ironia di chi scherza sulla propria voluta mancanza di autorità.
Johan August STRINDBERG: a causa di una educazione repressiva, omosessuale inconscio, che
amava fisicamente le donne per poi fuggirle sistematicamente.
Giuseppe UNGARETTI: poeta profondamente religioso, alla ricerca di Dio come ricerca
dell'Essenziale, a motivo del quale Ungaretti domanda a Dio di liberarlo dai desideri illusori, cioè i
desideri senza amore.
Paolo VOLPONI: uno degli amici più vicini, sarà amato da Pasolini anche per la sua ricerca di un
umanesimo industriale, cioè di una industria a misura d'uomo, che tenesse in considerazione la
salvaguardia dell'ambiente, soprattutto contro il rischio di una guerra nucleare. Nel poeta e scrittore
urbinate Pasolini nota due tendenze opposte, specie nel romanzo Corporale: la tendenza al ritiro dal
mondo, all'eremo urbinate; la tendenza opposta alla contestazione attiva, politicamente impegnata,
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contro il sistema del mondo alienato. Volponi, in quanto uomo buono, ama anche i personaggi
cattivi, essendo loro grato di farsi garanti (al pari dei personaggi buoni) della continuità e
inesauribile possibilità conoscitiva del mondo.
Andrea ZANZOTTO: psicologicamente isolato, per scelta e destino: poeta che intervalla (ne La
beltà) parole comiche a parole sublimi, giungendo così all'abolizione di ogni possibile delimitazione
di campo semantico, con l'esito di una ambiguità totale. Egli vede la "normalità" come momento
negativo dell'uomo, mentre la "malattia" o "devianza" è positiva in quanto permette di esplorare
l'infinito.
Dialetto
Ha cominciato col scrivere poesie in dialetto, ha finito col scrivere poesie in dialetto. In mezzo a
questi due uguali, si è occupato, come critico, anche del dialetto altrui: sia letteratura dialettale che
poesia popolare. Mentre la letteratura dialettale (si tratta soprattutto di poesie) vien fatta da
individui colti appartenenti alla classe dominante (cioè la borghesia), per quanto concerne la poesia
popolare il discorso è più complesso, e Pasolini individua l'autore in un soggetto della classe
inferiore che è però in rapporto conoscitivo col mondo socialmente più alto, portando nel basso le
istituzioni linguistiche proprie di quel mondo, in una conciliazione tra cultura della classe
dominante e cultura del popolo. E la poesia popolare è non-realistica e conservatrice (mai un poeta
popolare sperimenterebbe contro le istituzioni linguistiche, e ciò per una questione di onore): gli
eventi descritti son sempre astratti, stereotipi che non descrivono davvero la realtà, ma la
trasformano spesso in una fissità magica o leggendaria.
Cosa chiede invece ai poeti dialettali? Di non avere del popolo una idea sentimentalistica e quindi
irreale, di conoscerlo oggettivamente e quindi gramscianamente, portando ad esso i sentimenti
profondi che ci hanno rivelato i poeti in lingua: di qui l'impegno dell'Academiuta da lui fondata
insieme ad altri giovani friulani nel '45, di tradurre in dialetto i classici. Insomma, lotta contro la
retorica, la superficialità, il conformismo, la connivenza col mondo del potere.
Quando si stabilisce a Roma, è naturale che si innamori del dialetto romanesco, di quello
sottoproletario molto più che di quello degli ambienti colti. Legge il Belli, che considera capace di
acuta riflessione sull'ambiente romano: la plebe ottocentesca descritta realisticamente nel suo
esibizionismo e sensualità; dopo il Belli nessun dialettale romano è stato realistico come lui.
La parentesi delle speranze degli anni '50 (poi deluse), quando Pasolini auspicava una cultura
nazional-popolare (voluta da Gramsci), in cui il dialetto doveva farsi apportatore di novità
linguistiche, attraverso la mediazione di intellettuali impegnati, cede il posto all'avvento del
neocapitalismo, che distrugge la cultura dialettale. Ciò provoca sofferenza anche fisica nel nostro
poeta, perché la perdita del dialetto corrisponde alla perdita della realtà, soppiantata dalla irrealtà
del potere consumistico. C'è stato un momento di un ritorno della speranza (anche per quanto
concerne una rinascita del dialetto), ma si è trattato dei pochi mesi della recessione economica per
la crisi del petrolio nel '74. Pasolini spera per pochi mesi che il popolo, rivivendo la povertà, possa
riassumere i gesti amabili e simpatici del suo passato. Non è stato così, non sarà così, anche se la
storia è imprevedibile. Il dialetto però è ormai sopravvivenza da museo. Anche la poesia popolare è
morta. Tuttavia rimane l'immensa mole di ciò che è stato scritto nel passato e tramandato, e non è
poco per dare comunque senso a una vita.
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Teatro
Non andava quasi mai a teatro, non gli piaceva il teatro italiano, sia quello accademico che quello
d'avanguardia o antiborghese. Non gli piaceva per una questione linguistica. Gli attori usavano,
secondo lui, un italiano medio inesistente nella realtà, così anche le idee e i sentimenti espressi
apparivano inautentici. Faceva eccezione per il teatro dialettale di Eduardo De Filippo (più che
dialetto napoletano, un italiano medio parlato effettivamente dai napoletani: quindi ancora una volta
si evidenzia la preferenza di Pasolini per il realismo) e per i momenti migliori di Franca Valeri e
ovviamente per quella esplosione di vitalità che era l'amica Laura Betti, col suo plurilinguismo, in
cui coesistevano forme espressionistiche, caricaturali e convenzionali, una sorta di nipotina di
Gadda.
Nel 1968 pubblica il Manifesto per un nuovo teatro. Qui teorizza il proprio teatro, quello delle
opere che abbiamo già analizzato nella puntata dedicata appunto al Pasolini autore di teatro.
Si tratta, come già sappiamo, di "teatro di Parola", in quanto non sono tanto la scenografia o i
costumi a contare, ma le idee (poetiche in senso lato) espresse da attori colti. Perché l'attore deve
avere la stessa cultura dell'autore? Perché deve capire il testo per interpretarlo bene. Anche gli
spettatori devono avere una cultura analoga (appassionata, reale, anche se magari da parte loro, un
po' ingenua e provinciale). Così dopo la visione (mai spettacolo, ma assimilazione culturale, "rito
culturale") ci sarà il dibattito anche acceso, ma sempre democratico.
Gli spettatori apparterranno ai "gruppi avanzati della borghesia" (intellettuali quindi, con un reale
interesse per la cultura: poche migliaia in tutta Italia).
Anche se inevitabilmente la lingua è quella convenzionale, non sarà mai al livello di estetismo sia
del teatro borghese accademico ("teatro della Chiacchiera" secondo Moravia) sia del teatro
antiborghese d'avanguardia (che distrugge la lingua, prediligendo la gestualità e l'urlo, ma finisce
per fare gli interessi della stessa borghesia che intende scandalizzare: si risolve cioè in una
operazione fine a se stessa, che anzi richiede un pubblico borghese da provocare). Fa eccezione
Carmelo Bene, che dissacra la parola teatrale tradizionale; ma gli altri interpreti e registi sono dei
conformisti. Essi preferiscono che il teatro sia uno spettacolo, e non, come vorrebbe invece Pasolini,
un rito culturale per la conoscenza del senso di un'opera e dei significati delle parole usate in essa.
Cinema
Pasolini è stato anche un semiologo dilettante che si è occupato del linguaggio cinematografico,
oltre ad essere un recensore di film propri e altrui.
Per lui il cinema riproduce la realtà, perché le sequenze cinematografiche scelgono alcuni tra gli
infiniti oggetti (anche eventi e persone o animali) della realtà, pure quando devono evocare
situazioni del passato.
Il cinema è soggettivo (quando l'autore sceglie le immagini secondo la sua personale visione
ideologica e poetica della realtà) o oggettivo (quando l'autore prende le immagini dalla realtà così
come sono, senza l'intervento della propria ideologia, oppure si tratta di immagini divenute
convenzionali perché rivestite di un determinato significato sulla base di una tradizione
cinematografica precedente). E' possibile distinguere inoltre tra cinema classico o narrativo, in cui
non si "sente" la macchina da presa, e cinema di poesia, in cui invece i molteplici movimenti della
macchina da presa indicano che il vero protagonista del film è lo stile.
La sua idea del cinema come lingua, non convince i semiologi di professione, come Umberto Eco.
Quest'ultimo afferma che è ingenuo pensare che i segni elementari del linguaggio cinematografico
siano gli oggetti reali riprodotti sullo schermo; aggiunge che la semiologia intende ridurre i
fenomeni naturali a fenomeni di cultura, e non ricondurre i fatti di cultura a fenomeni di natura.
Pasolini controbatte che una auspicabile "semiologia generale della Realtà" (che comprenderebbe in
sé anche la lingua cinematografica) non porterebbe alla naturalizzazione dei codici della cultura,
ma, al contrario, avrebbe come fine quello di culturizzare la natura, facendo dell'intero vivere un
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parlare: la Realtà è Linguaggio. E' chiaro poi che la lingua cinematografica non esiste in concreto
ma solo in astratto: sono i film-paroles ad esistere e da essi si deduce la lingua del cinema.
C'è poi il nesso montaggio-morte. Come nel montaggio vengono scelte determinate sequenze e
messe insieme secondo una logica, così la nostra stessa esistenza avrà un senso morale solo dopo la
morte, perché fino alla morte ci potrà sempre essere una nuova azione o omissione che sconvolge
l'intera logica sospettata in quella esistenza. Con la morte vengono a cadere nel vuoto gli
innumerevoli atti non significativi della vita e da parte di chi rimane c'è la memoria delle poche
azioni o parole che hanno dato un senso a quella vita ormai finita.
Partendo anche da questa premessa, Giuseppe Zigaina dirà che l'assassinio di Pasolini (da lui stesso
voluto, anzi progettato) in un certo qual modo modifica tutto il suo passato, dandogli un nuovo, e
definitivo, senso.
Il regista, come ogni autore o artista, è un martire che cerca con la sua opera di scandalizzare i
destinatari, godendo del piacere/dolore del martirio (anche solo culturale o simbolico) cui è
sottoposto per aver violato il codice consolidato. Del resto, i cosiddetti "classici" (come Dante o
Petrarca) sono stati al loro tempo degli innovatori che hanno sfidato il codice linguistico della
società medievale, ponendo le basi per un nuovo codice (sono gli epigoni a imitare i modelli degli
innovatori vincenti, scandalizzandosi poi se c'è una successiva trasgressione). Solo una minoranza
di lettori o spettatori saprà godere del piacere dello scandalo dato dall'autore, il quale non difende
altro che una assoluta libertà di espressione.
Ma non bisogna trasgredire troppo il codice, come ad esempio fa la neoavanguardia. Ciò è
controproducente, perché causa un rimpianto del codice attaccato. L'autore deve restare sempre
"sulla linea del fuoco" e lì combattere per una innovazione che possa modificare il codice stesso.
Mentre sino all'inizio degli anni '70 il Potere era ancora legato alle istituzioni tradizionali come
Chiesa, Patria, Famiglia, in seguito il nuovo Potere fondato sul consumo di beni superflui ha preteso
di distruggere ogni tradizione ed ogni espressività, divenendo più tollerante anche per quanto
concerne la moralità dei film. E' un Potere che vuole che i cittadini siano avidi consumatori e non
lettori critici o spettatori dei film di registi liberi e impegnati. E' un Potere che guarda con occhio
benevolo persino ai film pornografici e invece stigmatizza le opere d'arte in cui l'elemento erotico
ha sempre un senso culturale e politico.
Questi i registi che ha recensito, dando i seguenti giudizi, che sintetizzo:
Marco BELLOCCHIO: giovane regista accomunato dal nostro a Bertolucci; tra Bellocchio e
Pasolini vi fu una corrispondenza epistolare sul film I pugni in tasca del promettente regista. In
questo film un adolescente in crisi uccide i familiari, per l’eredità ma anche perché li considera
inferiori al suo ideale estetico, e pure perché cerca irrazionalmente emozioni forti. Pasolini gli
scrive che se il suo fine era quello di scandalizzare la borghesia, deve però essere cosciente che essa
è vaccinata contro ogni tipo di scandalo, e semmai lo scandalo dà piacere/dolore solo all’autore e ai
suoi simili. Bellocchio gli risponde che il suo fine principale non era quello di scandalizzare, ma
descrivere obiettivamente la realtà sociale che determina la scelta delinquenziale del protagonista.
Ingmar BERGMAN: un grande che manca di cultura vera e propria: la sua cultura infatti è
specialistica cioè audiovisiva, e inoltre è teatrale (conosce soprattutto Strindberg, con i suoi influssi
di teosofia ed esoterismo).
Bernardo BERTOLUCCI: di Ultimo tango a Parigi non gli piace il personaggio di Brando (retorico
e irreale), mentre quello di Maria Schneider è vero e poetico, come poetici sono tutti i rapporti
sessuali rappresentati.
Liliana CAVANI: di lei recensisce Milapera, un film sulla iniziazione di un ragazzo che cerca un
maestro che gli insegni a rinunciare al mondo per valorizzare misticamente il Sè. Il San Francesco,
invece, non, gli piace, lo considera un prodotto tipicamente televisivo, adatto a un pubblico
borghese conformista e volgare, che vuole restare sempre uguale a se stesso, incapace di
riconoscere il vero “sacro”.
Sergio CITTI: grande amico di Pasolini; era un filosofo proveniente da ambienti sottoproletari;
aveva letto solo Epicuro. Il suo assoluto pessimismo gli permetteva di godere ciò che di bello la vita
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gli offriva; in Ostia rappresenta la donna come essere demoniaco, non sulla base di una ideologia o
una cultura misogina, ma per una sua personale ossessione; in Storie scellerate manifesta un senso
della morte del tutto laico, al contrario di quello pasoliniano che si basa sul mistero anche religioso.
Sergej Michailovič EJZENŠTEIN: regista dal grande talento, non amato però da Pasolini a causa
del suo servilismo propagandistico nei confronti del regime sovietico.
Federico FELLINI: il suo eccesso di amore per la realtà lo porta a trasfigurare la realtà stessa; i
personaggi dei suoi film sono spesso degli stravaganti, che contraddicono l'apparente razionalità
della realtà, che è insieme dolce e orribile. Il suo è un "realismo creaturale", non fondato cioè su
un'unica assoluta ideologia. L'irrazionalismo cattolico lo rende barocco e decadente (Pasolini
profetizza che il neodecadentismo felliniano avrebbe preceduto un periodo di neodecadentismo
letterario): per lui la società è immodificabile, non si possono evitare le sue brutture, tuttavia ogni
cosa o persona è come pervasa dalla Grazia. Come fa Fellini a vedere purezza e vitalismo anche
nella massa piccolo-borghese, cioè nel ceto medio, che a Pasolini invece appare tremendamente
conformista e razzista? Ciò può accadere proprio per quell'eccesso di amore irrazionale di cui sopra
si è detto.
Marco FERRERI: de La grande abbuffata, film nel quale quattro uomini medio-borghesi intendono
suicidarsi con una smisurata ingestione di cibi raffinati, si domanda se la finalità del regista è quella
di denunciare l'assoluta mancanza di logica nella realtà, che sarebbe quindi del tutto arbitraria, non
dialettica, tale da produrre ripetizioni e non evoluzioni: l'uomo di fronte all'assurdo quindi non può
che attuare una contestazione assoluta.
Pietro GERMI: difendendo qualunquisticamente la morale corrente e avendo un atteggiamento
vitalistico e privilegiando la salute sessuale, questo regista, agli occhi del nostro critico, rimuove
nella zona dell'inconscio la propria omoerotia, perché chi enfatizza la virilità spesso cela pulsioni
omosessuali.
Jean-Luc GODARD: è, inconsapevolmente, un codificatore di linguaggio cinematografico, perché
metà mondo del cinema segue il suo stile, ma egli si difende da ciò, dall'inconsapevole moralismo
tipicamente francese che lo contraddistingue, se ne difende appunto con rabbia ingenua, volendo
essere rispetto agli altri uomini, fratello e non padre.
Alexander KLUGE: Gli artisti sotto la tenda del circo: perplessi, film che denuncia la tragedia
della vita, che è nel farsi delle cose nella nostra testa senza che si giunga ad una conclusione.
Stanley KRAMER: L'ultima spiaggia, che descrive una fantastorica fine del mondo nel 1964, a
causa di una guerra atomica, ammonisce gli uomini con la frase: "Fratelli, siete ancora in tempo."
Ma giacché Kramer lascia intendere che l'autodistruzione avviene a causa della follia degli uomini,
che senso ha, dice Pasolini, ammonire dei folli? Insomma, il film è illogico per questo. Inoltre dà un
senso di angoscia il comprendere che l'umanità muore senza essere mai realmente vissuta: è la fine
di una società già finita, quella che viene descritta in questo film, come se si passasse da un nulla
all'altro, e ciò è terribile.
Roberto ROSSELLINI: grande neorealista, denuncia i mali della società, ma mancando di una
cultura solida, dopo che è caduto l'impeto neorealista e ne sono venute meno le ragioni, si è
espresso solo attraverso la sua sensualità, il talento e la magia, ma ciò non è servito a niente.
François TRUFFAUT: de La nuite amèricaine afferma che il vero protagonista è il ritmo voluto
dall'autore, ritmo al quale si adeguano le stesse caratteristiche psicologiche dei personaggi (e non
viceversa).
Paul VECCHIALI: le protagoniste di Femmes femmes sono due attrici di teatro che vorrebbero fare
del cinema, ma finiscono per diventare delle fallite: la loro grandezza sta nel mantenere un contegno
artistico anche nel proprio degrado sociale.
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Arte
Sul Pasolini critico d'arte mi limito a dei cenni perché manco delle sia pur minime cognizioni in
questo campo.
Egli comunque non si considerava un critico d'arte. Nel '65 dice a un dibattito tenuto a Brescia in
occasione di una mostra su Romanino: "Io di critica d'arte veramente ho delle antiche velleità, ma
nessuna reale competenza [...]."
Allievo di Roberto Longhi, suo professore all'università, amò visceralmente l'arte pittorica, cui si
ispirò per le scenografie dei suoi film. Comprese nell'intimo i pittori a lui contemporanei e "fratelli"
nell'impegno artistico e, in senso lato, politico, come ad esempio Renato Guttuso, Carlo Levi e
Giuseppe Zigaina.
Sin dall'inizio, quando scrive su mostre friulane, ciò che lo colpisce non è solo la tecnica ma anche
la vita morale di un pittore, cioè i suoi sentimenti, la purezza, i travagli interiori, e naturalmente
l'amore per la realtà, per cui un artista la rappresenta tanto meglio quanto più vibrante è la pietà
nella compartecipazione ad essa. Ciò che conta in un pittore è il fatto che al peso reale delle cose
egli non sovrapponga un peso artefatto del colore: l'estetismo non è che fuga dalla realtà e quindi
paura.
Infine, lui che si rammaricava di non saper fare della musica, scrisse che quest'ultima "praticamente
non ha contenuto. O, se ce l'ha, esso è dentro l'ascoltatore. [...] Nella musica abbiamo le vere parole
della poesia; cioè parole tutte parole e nulla significato."
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PASOLINI E LA RELIGIONE
Credente sino all'età di quattordici anni, poi smette tutta una volta di avere fede nel Dio persona e di
partecipare ai riti religiosi. Del resto, la sua famiglia non era particolarmente religiosa: suo padre
Carlo era un credente convenzionale, la madre viveva una sorta di religiosità naturale di origini
contadine.
La figura di sacerdote che ispira alcuni suoi scritti giovanili, è quella di un uomo coraggioso perché
lotta dalla parte dei poveri, eppure debole interiormente, come è umano che sia, in quanto c'è
sempre il conflitto tra carne e spirito, che ogni divieto esterno, sociale, rende ancora più traumatico.
Sono le norme sessuofobiche di diritto canonico a creare i presupposti di una psicologia ipocrita in
molti sacerdoti.
Sin da giovane pensava che fosse assurda l'obbligatorietà dell'insegnamento religioso nelle scuole,
perché la religione deve essere una conquista dello spirito individuale, non una imposizione
dall'alto. Si appassiona di politica proprio sulla base di un movente religioso, il suo mistico bisogno
di valicare i limiti tra sé e gli "altri", in particolare i più umili, prima i contadini friulani, poi i
sottoproletari romani. Diventa marxista partendo da un cristianesimo che valorizza la figura umana
e rivoluzionaria di Gesù (non crede che Cristo sia il figlio di Dio). Un borghese non potrebbe
diversamente tradire la sua classe e rinunciare ai suoi privilegi, se non per una istanza etica, per un
sentimento populistico (nel senso migliore del termine, cioè come amore verso il popolo).
Va in chiesa ma non per pregare o partecipare ai riti, ma solo per raccogliersi religiosamente
davanti alle bellezze artistiche. Si ritiene ateo e anticlericale, contrario alla Chiesa-istituzione,
rovina del mondo, da quando S. Paolo per eccesso di zelo creò le gerarchie ecclesiastiche,
rinunciando a fondare una autentica religione, che Pasolini identifica invece in un legame
disinteressato tra uomini che si rifanno a una figura mitica (Gesù nel caso del cristianesimo), la
dedizione alla quale li fa bene operare.
La Chiesa-istituzione ha strumentalizzato a fini di potere e controllo delle masse la rassegnazione
evangelica, originariamente positiva perché rovesciò l'impero romano basato sullo schiavismo. Il
clero mantiene il popolo in una rassegnazione che invece è passività e ignoranza. Già una
istituzione laica, come un partito politico, chiede ai suoi iscritti la rinuncia a molti moti del cuore,
rinuncia necessaria per una politica di tipo machiavellico: ciò è aberrante se lo chiede la Chiesa, il
cui dogmatismo teorico si converte in un pragmatismo meschino (alleanza con politici e
corruzione): la Speranza e la Fede, senza la Carità, sono mostruose.
C'è stato un momento nella storia della Chiesa in cui essa poteva rigenerarsi, quando Papa Giovanni
ha portato una ventata di novità, ponendo le premesse di un dialogo (sollecitato anche dal nostro col
suo film sul Vangelo di Matteo) tra laici e credenti, ma tutto si è vanificato con l'avvento del nuovo
Potere consumistico, che ha segnato la fine della religione, soppiantata dalla ossessione per i beni
superflui.
Paolo VI sarà consapevole di ciò, della fine della religione, ma non ha altro rimedio da consigliare
che quello irrazionale della preghiera. Invece, secondo Pasolini, la Chiesa dovrebbe rinunciare al
potere e diventare guida dell'opposizione a questo tipo di società disumana che è la società dei
consumi superflui. Dovrebbe ritornare alle origini, al tempo della predicazione di Cristo e dei suoi
discepoli. Dovrebbe rinunciare alla sua cultura assolutista e abbracciare la cultura libera e
antiautoritaria, in continuo divenire, contraddittoria, collettiva e scandalosa. Dovrebbe rifiutare il
Concordato tra Stato e Chiesa. Ma è chiaro che non farà nessuna di queste cose per non perdere
soldi e potere. C'è chi, all'interno della Chiesa, cerca di porsi realmente questi problemi e dare
analoghe soluzioni, come Dom Giovanni Franzoni, che viene sospeso dal Vaticano a divinis.
Vede di buon occhio movimenti di cattolici progressisti come quello di don Milani, ma è
consapevole che la Chiesa-istituzione ha sempre inglobato in sé ogni tentativo di innovazione,
riducendola a micro-istituzione tollerata nell'ambito della più grande e potente Istituzione vaticana.
Si direbbe che i santi son fatti apposta per essere venerati da un popolo immaturo, che non pensa
nemmeno lontanamente ad imitarli.
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Quanto al tema della immaturità, La sequenza del fiore di carta (1967-9) è il breve episodio
pasoliniano del film Amore e rabbia girato da più registi separatamente. Si ispira al racconto
evangelico del fico maledetto e fatto di colpo seccare da Gesù perché non aveva frutti (v. Matteo
21,18-22). Il protagonista è un sottoproletario di nome Riccetto colto in una sua innocente
passeggiata per le strade di Roma. Dio gli parla ma lui non vuole ascoltarlo. Dio parla lo stesso e gli
dice che non può rimanere inconsapevole di fronte ai mali del mondo, alle guerre e alle ingiustizie.
Allora, giacché Riccetto continua ad ignorarlo, lo fa morire proprio come Gesù ha fatto col fico.
Odia ogni tipo di dogmatismo, anche quello laico dei marxisti moralisti. Se sul piano teorico si è
rigidi e si hanno delle regole fisse da seguire, poi nella pratica ci si concede ogni arbitrio e cinismo;
diversamente, una fede incerta e storicizzata, permette a un uomo di cercare liberamente di
esprimersi mantenendo la buona fede, in avversione ad ogni tatticismo e cinismo. Del resto, Gesù
perdona i peccati inevitabili, che provengono dall'inconscio, anzi non solo inevitabili ma anche
necessari per la maturazione: ciò che non perdona è la malafede, e così ai farisei non perdona.
A chi gli oppone che marxismo e cristianesimo sono incompatibili, ricorda che il marxismo non
deve essere una ideologia fissata una volta per tutte, ma duttile, che tenga conto dei progressi della
scienza, che ha demolito nel '900 l'ateismo che necessariamente derivava dalla visione materialistica
del positivismo ottocentesco. Adesso la scienza non può dire se Dio esiste o no. Tutto è in forse.
Marx era geniale in economia politica ma di religione non aveva compreso che essa può essere una
forza liberante, e non solo l'oppio dei popoli di cui lui parlava.
La censura vaticana sui suoi e altrui film lo indigna enormemente, come una illecita intromissione
della Chiesa nelle decisioni degli organi dello Stato. Ormai la religione egli la vede come un corpo
morto istituzionale, un complesso di riti non sentiti interiormente e vissuti invece sul piano
consumistico dai cittadini: il Natale come operazione-panettoni e la Pasqua come operazionecolombe. Ogni spirito autenticamente religioso, come il suo, non può che cercare fuori della Chiesa
ufficiale la luce della giustizia e della vera umanità.
Quando nel '63 viene denunciato per l'episodio La ricotta nel film RoGoPaG (dalle iniziali dei suoi
registi: Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti), l''episodio viene sequestrato e incriminato per
vilipendio della religione di Stato: Pasolini, inizialmente condannato a quattro mesi di reclusione
con la condizionale, è assolto in appello, poi la Cassazione annulla la sentenza di appello, pur
dichiarando il reato "estinto per amnistia". Un altro capitolo assurdo nella storia della giustizia
italiana e in quella personale dell'autore.
Dei guai li avrà anche per un altro film, Teorema, dove rappresenta un giovane dio che sconvolge
l'esistenza di una famiglia borghese. Al di là delle scene erotiche del film, crediamo che la
sessuofobia clericale, che ha origine in San Paolo, non ammette che un dio possa far l'amore...
Tra la fine degli anni '60 e l'inizio dei '70 il revival spiritualistico negli Stati Uniti, tipo la
scientologia e nuove forme di contestazione anarchica e anticonsumistica, lo lasciano perplesso, in
quanto le ritiene forme anch'esse integrate dall'onnivoro neocapitalismo, e che quindi fanno in
ultima analisi il gioco della reazione di destra.
San Paolo (progetto, tra il 1968 e il 1974, per un film non girato) traspone la vicenda della
predicazione dell'Apostolo dei gentili nel XX secolo, a cominciare dalla Parigi degli anni 1938-44,
durante l'occupazione nazista: Paolo è un collaborazionista appartenente alla ricca borghesia
reazionaria, fanatico e ingenuamente crudele, con una punta di disperazione nell'animo, che lo
porterà a convertirsi sulla strada di Barcellona, chiamato da Gesù; si farà cristiano e apostolo,
laddove i cristiani equivalgono ai partigiani della Resistenza. Le parole del santo sono le stesse delle
sue Lettere. L'attualizzazione della vicenda vuole significare che Paolo è a noi contemporaneo, sia
come santo (e qui il giudizio di Pasolini è positivo, in quanto il nascente cristianesimo distrugge la
società schiavista romana) sia come organizzatore di chiese (e qui il giudizio, invece, è negativo,
perché la religione istituita è fatale che scenda a compromessi con il potere e diventi ipocrita). Dice
Paolo:
"Il nostro è un movimento organizzato... Partito, Chiesa... chiamalo come vuoi. Si sono stabilite
delle istituzioni anche fra noi, che contro le istituzioni abbiamo lottato e lottiamo. L'opposizione è
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un limbo. Ma in questo limbo già si prefigurano le norme che faranno della nostra opposizione una
forza che prende il potere: e come tale sarà un bene di tutti. Dobbiamo difendere questo futuro bene
di tutti, accettando, sì, anche di essere diplomatici, abili, ufficiali. Accettando di tacere su cose che
si dovrebbero dire, di non fare cose che si dovrebbero fare, o di fare cose che non si dovrebbero
fare. Non dire, accennare, alludere. Essere furbi. Essere ipocriti. Fingere di non vedere le vecchie
abitudini che risorgono in noi e nei nostri seguaci - il vecchio ineliminabile uomo, meschino,
mediocre, rassegnato al meno peggio, bisognoso di affermazioni, e di convenzioni rassicuranti.
Perché noi non siamo una redenzione, ma una promessa di redenzione. Noi stiamo fondando una
Chiesa."
E' stato Satana a imitare la voce di Dio e a mandare Paolo a fondare la Chiesa. Prova di ciò sono
tutti i delitti che durante la storia ha commesso questa istituzione: papi criminali, compromessi col
potere, soprusi, violenze, repressioni, ignoranza, dogmi, e da ultimo il delitto più grave, cioè
l'accettazione passiva del potere consumistico irreligioso che non sa che farsene di religione e
morale e riduce la Chiesa a folclore, rispettandola solo come alleato politico e potere finanziario. Il
messaggio autenticamente religioso (di santità) di Paolo non viene accettato da nessuno, in fondo, e
chi lo accetta o è un santo pure lui o è un ipocrita che lo accetta solo apparentemente; gli
intellettuali, sia di destra che di sinistra, col loro razionalismo, non hanno capito niente di religione,
ignorando che la vera sapienza viene da Dio, data in premio a chi vive concretamente d'amore. Il
Paolo pasoliniano è destinato ad essere ucciso da un sicario nella New York neocapitalistica, che
rappresenta la versione contemporanea dell'originario potere imperiale romano dell'epoca in cui
visse il santo. Il potere non cambia mai essenza, è sempre spietato, qualunque nome esso si dia, e
finisce sempre con l'uccidere in mille modi coloro che si oppongono ad esso.
In un quasi-testamento spirituale, pubblicato postumo, scrive:
"Ogni religione formale, nel senso che la sua istituzione è diventata ufficiale, non solo non è
necessaria per migliorare il mondo, ma addirittura lo peggiora."
"Per la prima volta in questi ultimi mesi [del 1975] ho in qualche modo concepito un'idea, sia pure
immanentistica e scientifica di Dio. [...] la realtà è un linguaggio! Bisogna fare la semiologia della
realtà, altro che quella del cinema! Ma se la realtà parla, chi è che parla e con chi parla? La realtà
parla con se stessa: è un sistema di segni attraverso cui la realtà parla con la realtà. Tutto ciò non è
spinoziano? Questa idea della realtà non assomiglia a quella di Dio?"
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FILMOGRAFIA
ACCATTONE, 1961
Articolo di Angela Molteni
La drammaticità e la tragicità della "storia" che Pasolini narra nel film è sottolineata, fin
dall'apparire dei titoli di testa, dalla musica della Passione secondo Matteo di Johann Sebastian
Bach, quasi ad accostare la squallida povertà, morale e materiale, della vita del sottoproletario
urbano alle terribili sofferenze del Cristo condannato a morte. Accattone è il personaggio centrale
delle vicende narrate, un "povero Cristo", emarginato da una società di benpensanti borghesi quale
quella che Pasolini sfidava e criticava senza indulgenze. Non a caso, quella stessa società che
perseguitò letteralmente il poeta-regista poiché questi osava dichiarare implicitamente - nel film,
come nelle opere letterarie - la propria solidarietà, la propria simpatia per i piccoli delinquenti, per i
sottoproletari romani, per la vita dei "diversi", dei "relitti" umani. Accattone è, appunto, la realistica
rappresentazione di un povero essere umano, frustrato e senza speranza nel futuro, senza volontà di
riscatto, così come sono i suoi compagni di strada. La società "normale", quella borghese (alla quale
- è da tener presente - anche Pasolini apparteneva; ed è anche da questa appartenenza che traggono
origine i motivi persecutori, anzi, i linciaggi esercitati nei suoi confronti) è rappresentata nel film
soltanto attraverso la presenza di alcuni funzionari e agenti di polizia. Ed è chiaro come la pensi
Pasolini nei confronti di questi ultimi: riserva loro modi autoritari, sbrigativi, repressivi, punitivi,
antipatici; nelle mani del poliziotto in borghese al quale è assegnato il compito di spiare le mosse di
Accattone per coglierlo in flagrante vi è un foglio, "Candido", un periodico della destra neofascista.
Non vi sono altre raffigurazioni di questa società, "altra" rispetto al mondo vissuto da Accattone e
dai suoi compagni, e ciò rafforza il concetto di separazione, di indifferenza, di non considerazione,
di non riconoscimento reciproco: mondi diversi e che si ignorano vicendevolmente. Nel film ho
trovato descritta, più in generale, un'umanità senza lavoro, priva di futuro, che vive alla giornata di
espedienti, di miseri lavori, duri e malpagati ("...poi, quando uno c'ha bisogno... basta ch' è
lavoro..." "Te pagano bene?" "Tanto pe' non mori' de fame", è il dialogo, essenziale, tra Accattone e
Stella. E quando anche questi mancano, la vita quotidiana è fatta di "stravaccamenti" intorno al
tavolino di un baretto, di piccoli furti, di ricettazione, o di un "artigianale" quanto subito abortito
sfruttamento della prostituzione. Così è fatta la vita quotidiana di Accattone, così è quella dei
sottoproletari confinati nelle periferie delle grandi città, ci dice Pasolini. Se aggiungessimo le
tossicodipendenze, lo scenario sarebbe esattamente quello dei nostri giorni... L'attualità, la
"modernità" di Pasolini è qui, in questa denuncia di condizioni di isolamento, di "non esistenza", di
disperazione e di emarginazione: le stesse di oggi. Condizioni che fanno sì che le vittime affidino le
loro vite, il loro futuro - inesistente - ai propri carnefici. O, in altre parole, che - qui e ora - il
sottoproletariato urbano in una città come Roma voti in massa per la destra, per esempio. Oppure,
per fare un altro esempio, che i supersfruttati operai del celebratissimo Nordest suppongano che la
soluzione di tutti i problemi stia nel neoliberismo e nel cosiddetto "mercato". Vi sono nel film rari
momenti di amara ironia, come nell'episodio della "spaghettata" di Accattone e dei suoi amici nella
baracca di un altro disperato loro pari ("Sbrigatevi a butta' giù 'sta pasta sennò famo la fine de quelli
de Norimberga") e di sana filosofia popolare ("A 'sto mondo, più bene fai, più calci in faccia
ricevi"). Ma un elemento che certamente non è secondario, un elemento attraverso il quale Pasolini
costruisce e rafforza i messaggi che intende trasmettere con le sue figurazioni, è costituito dalla
musica e... dai silenzi. Nella sequenza del "sogno" di Accattone, quella che personalmente ho più
apprezzato, la suggestione maggiore è proprio dovuta al silenzio, all'assenza assoluta di suoni che
non siano lo scambio di pochissime parole tra Accattone, coloro che seguono il suo funerale, il
becchino, e il respiro, quasi un lamento, di Accattone che sogna. Geniale. Trasmette fino in fondo
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l'angosciante sensazione della morte pre-sentita, lo struggimento di non poter neppure contare su
una fossa esposta al sole... Definitiva e terribile conferma dello spregio che lo circonda in vita e in
morte. Agli stornelli o a spezzoni di canzoni popolari con testi "rivisitati" sono affidati momenti di
aperto sarcasmo o di ironia di Accattone e della combriccola cui spesso si accompagna. Nel
momento più tragico, quello della morte, insieme alle ultime parole di Accattone ("Ah, mo' sto
bbene"), viene riproposto Bach. Il "Corale" della Passione secondo Matteo, che nel film è eseguito
da soli strumenti, contiene un testo che mi piace riportare, poiché mi pare l'esatto coronamento della
frase del protagonista: "Siamo seduti in lacrime / e ti chiamiamo nella tomba: / dormi tranquillo,
dormi in pace! / Riposate, stanche membra! / Dormi tranquillo, dormi in pace!"
MAMMA ROMA
Roma, anni Sessanta. Durante un grottesco banchetto di nozze del suo giovane protettore Carmine,
la prostituta Roma Garofolo, detta Mamma Roma, proclama, in mezzo a parole di scherno sulla
sorte della sposa, l'intenzione di tagliare presto i ponti con la prostituzione e di occuparsi
unicamente dell'avvenire del figlioletto Ettore, avuto da un marito delinquente e sparito dalla
circolazione. Passa qualche anno, in cui scopriamo che il povero Ettore è vissuto a Guidonia a
pensione, è rimasto analfabeta, non ha imparato alcun mestiere, ed è diventato nel frattempo un
adolescerte dalla costituzione gracilissima. Mamma Roma, messi da parte un po' di soldi, ha
comperato una casa di nuova costruzione, lontana dallo squallore di Casal Bertone dove è sempre
vissuta, e ha preso la licenza per un banco di frutta al mercato, con l'intenzione di dare inizio a una
nuova vita insieme a Ettore. L'unica ambizione di Roma è inserire suo figlio in quella che lei reputa
la società "perbene", la piccola borghesia romana, inseguendo un sogno di rispettabilità che per lei,
nata e vissuta nel fango e nell'umiliazione, è assolutamente irraggiungibile. Infatti, la sua illusione
di iniziare una nuova vita è subito infranta dal "destino", personificato nella figura di Carmine: per
esaudire una sua ricattatoria richiesta di denaro, Roma dovrà rimandare il trasloco con Ettore e
battere il marciapiede di sera ancora per qualche tempo. Sul motivo della canzonetta "Violino
tzigano" ha inizio la "nuova vita" di Ettore e di Mamma Roma nel quartiere-condominio dell'Inacase, nei pressi di Cinecittà. Di lì a poco la vita di Ettore riprende gli stessi ritmi e le stesse abitudini
del paese: incontra un gruppo di ragazzi e comincia a frequentarli, con il plauso di Mamma Roma
che spera che questi siano figli di buona famiglia. Ma l'ambiente di Cecafumo è in realtà lo stesso di
Casal Bertone, e quei ragazzi sono semplici perdigiorno che si riuniscono in bande simili a quelle
che Ettore ha lasciato a Guidonia. Attraverso i suoi nuovi amici Ettore conosce una ragazza, Bruna,
ventiquattrenne, che ha un figlio di due anni e che è un fragile impasto di ingenuità e malizia, ma
soprattutto è lo spasso sessuale di tutti i ragazzi del quartiere. Ettore, dopo essere stato iniziato da
Bruna alla sessualità, in qualche modo se ne innamora, e comincia a vendere gli oggetti di casa (tra
cui anche il disco di "Violino tzigano") per poterle fare dei regali. Mamma Roma intanto si rivolge
ad un sacerdote per cercare di far avere a Ettore un posto di cameriere in una trattoria di un
"devoto" frequentatore della parrocchia. Il sacerdote delude le aspettative di Roma, e le promette
tutt'al più un posto di manovale, posto che Roma sdegnosamente rifiuta. La storia d'amore tra Ettore
e Bruna, osteggiata da Mamma Roma, nel frattempo finisce male: Ettore è picchiato dai suoi
compagni nel sole dell'arida campagna romana zeppa di ruderi, perché vorrebbe tenersi Bruna "tutta
per sé". Bruna assiste a quell'umiliazione e al pestaggioe dopo una ribellione poco convinta saluta
Ettore e va via inseme a quei ragazzi, presumibilmente a fare l'amore. Roma decide di avere ad ogni
costo il posto di cameriere per Ettore, e per farlo organizza un ricatto al padrone della trattoria. Si
accorda con la prostituta Biancofiore, e con il suo protettore Zaccaria, che finge di esserne un
violento fratello: Roma e Zaccaria dovranno cogliere in flagrante l'uomo, nel frattempo adescato da
Biancofiore, in modo da poterlo ricattare per estorcergli il posto da cameriere per Ettore. A bordo di
una motocicletta nuova di zecca che Mamma Roma gli ha comperato, Ettore comincia a lavorare
nella trattoria trasteverina di quel malcapitato. Ma ancora una volta Carmine torna da Roma a
chiedere denaro, e la costringe a prostituirsi minacciandola di raccontare a Ettore ciò che è stata.
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Disperata, Mamma Roma torna in strada, stavolta assalita dall'angoscia e vinta dalla disperazione.
Cosi, Ettore viene a sapere da Bruna che Roma è una prostituta, e il suo dissimulato amore (la sua
frase ricorrente è «e che mme frega a me de mi madre»), si trasforma in un rancore rabbioso. Dopo
aver picchiato Bruna, Ettore si licenzia dalla trattoria, e comincia a commettere furtarelli assieme
alla "banda" degli amici, rifiutando i soldi che sua madre tenta disperatamente di dargli. Ettore,
cagionevole di salute, è preso dalla febbre alta, ma per spavalderia di fronte agli amici e con una
rabbia ormai rimasta il suo unico sentimento, decide comunque di effettuare un furto in un ospedale
(il Sant'Eugenio). Ma i suoi movimenti sono lenti, e il malato derubato lo scopre e lo denuncia.
Ettore viene portato in carcere, e mentre è in cella delira dalla febbre. A un tratto viene preso dal
panico, è colto da una crisi di nervi e cerca di uscire, con l'unico risultato di essere legato, al reparto
neurologico del carcere, a un letto di contenzione. Mentre Mamma Roma a casa si dispera, Ettore
muore senza cure legato al suo lettuccio. Quando due poliziotti in borghese le annunciano, al
mercato, che Ettore è morto, Mamma Roma, con una corsa che ricorda una celebre sequenza di
Roma Città aperta, corre verso casa e cerca di suicidarsi lanciandosi dalla finestra. Viene salvata
dagli altri "mercatari", e lasciata alla sua terrena disperazione, con lo sguardo perso in una Roma
lontana e assassina che le fa da controcampo.
LA RICOTTA
“Non è difficile predire a questo mio racconto una critica dettata dalla pura malafede. Coloro che si
sentiranno colpiti infatti cercheranno di far credere che l’oggetto della mia polemica sono la storia e
quei testi di cui essi ipocritamente si ritengono i difensori. Niente affatto: a scanso di equivoci di
ogni genere, voglio dichiarare che la storia della Passione è la più grande che io conosca, e che i
testi che la raccontano sono i più sublimi che siano mai stati scritti”, è una premessa che Pasolini
stesso fa al suo film La ricotta.
Un altro film fuori dagli schemi di una rappresentazione tradizionale e di una iconografia asservita.
Un altro lavoro, dopo Accattone e Mamma Roma, nel quale il fine primo dell’autore è quello di
trasmettere messaggi politico-sociali; nel quale non sono da sottovalutare tuttavia alcuni elementi
che cercherò qui di seguito di mettere in luce.
Vi sono alcuni segni “forti” della grande ricchezza culturale di Pier Paolo Pasolini:
– le citazioni figurative (l’accostamento alla pala d’altare del Pontormo);
– i richiami che ha inserito nel film (alcune sequenze accelerate sia nelle immagini sia nella musica
ricordano il film muto e in particolare il primo Chaplin, amatissimo da Pasolini);
– l’utilizzo sempre sapiente della musica: un Dies Irae arcaico, un “Sempre libera degg’io” dalla
Traviata di Verdi – titolo oltremodo significativo se solo si consideri l’effettivo grado di libertà dei
figuranti e di Stracci, il protagonista che recita la parte del Ladrone buono (e ancor più significativo
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se si fa attenzione alla trasformazione subita da quest’ultimo brano: una grottesca, quasi parossistica
accelerazione che trascina la musica in un irrefrenabile “zumpa-pa-zumpa-pa” che si avvita su se
stesso...).
È il terzo film di Pasolini e in esso, ancora una volta, il registra privilegia una storia che fa capo agli
strati più umili ed emarginati della società – tutte le comparse, i generici, i figuranti del “film nel
film” la cui storia viene narrata (e che rappresenta la Passione di Cristo) sono dei sottoproletari, dei
“morti di fame” in senso letterale, come ci dirà lo stesso Pasolini attraverso l’“enorme mangiata” di
ricotta rappresentata quasi a conclusione del film e della vita stessa di Stracci. Ma, per la prima
volta nel cinema pasoliniano, compare anche la borghesia, nei panni rozzi e volgari del produttore e
del suo entourage. E viene anche “messa in scena” l’“integrazione sociale” cui sembra essere
pervenuto il regista “marxista” (interpretato da Orson Welles).
La pellicola fu sequestrata con l’imputazione di “vilipendio alla religione di Stato” (1963): nelle
numerose pagine in cui il presente commento è inserito se ne parla molto ampiamente. Quindi non
mi soffermo più di tanto sul processo che ne seguì e nel quale, tra l’altro, il Procuratore della
Repubblica Di Gennaro presentò ai “cattolici benpensanti” il film come “il cavallo di Troia della
rivoluzione proletaria nella città di Dio”.
Sull’onda delle vicissitudini giudiziarie, al film saranno apportati alcuni tagli: le tre ripetizioni de
“la corona!”, lo spogliarello della generica Maddalena, la risata del generico Cristo; si sostituisce
l’ordine “via i crocefissi!” con “fare l’altra scena!”, l’espressione “cornuti” con “che peccato”, la
frase finale “povero Stracci, crepare è stato il suo solo modo di fare la rivoluzione” con “povero
Stracci! crepare, non aveva altro modo di ricordarci che anche lui era vivo”!
Soltanto nel maggio 1964 la Corte d’appello di Roma, accogliendo il ricorso di Pasolini, assolverà il
regista perché “il fatto non costituisce reato”.
Le critiche e le motivazioni della persecuzione giudiziaria, come Pasolini stesso aveva previsto,
erano dettate dalla malafede.
Pasolini aveva diretto, in effetti, attraverso questo film, un attacco frontale nei confronti della
borghesia e questo era il motivo vero che scatenò ancora una volta la canea nei suoi confronti.
Il senso di questo attacco è contenuto essenzialmente nelle parole qui sotto riportate, pronunciate
dal regista-Orson Welles e dirette al giornalista che gli chiede una intervista:
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“Che cosa vuole esprimere con questa sua nuova opera?”
“Il mio intimo, profondo, arcaico cattolicesimo.”
“Che cosa ne pensa della società italiana?”
“Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa.”
“Che cosa ne pensa della morte?”
“Come marxista è un fatto che non prendo in considerazione”
“Qual è la sua opinione sul nostro grande regista Federico Fellini?”
“Egli danza... egli danza...”
Il regista-Orson Welles, dopo aver letto una poesia (“Io sono una forza del passato...), tenendo tra le
mani il libro Mamma Roma, dice infine al giornalista (mentre quest’ultimo idiotamente ride):
“Lei non ha capito niente perché lei è un uomo medio: un uomo medio è un mostro, un pericoloso
delinquente, conformista, razzista, schiavista, qualunquista. Lei non esiste... Il capitale non
considera esistente la manodopera se non quando serve la produzione... e il produttore del mio film
è anche il padrone del suo giornale... Addio.”
In un breve scitto del 1961, infine, Pasolini così si espresse:
“Nulla muore mai in una vita. Tutto sopravvive. Noi, insieme, viviamo e sopravviviamo. Così
anche ogni cultura è sempre intessuta di sopravvivenze. Nel caso che stiamo ora esaminando [La
ricotta] ciò che sopravvive sono quei famosi duemila anni di “imitatio Christi”, quell’irrazionalismo
religioso. Non hanno più senso, appartengono a un altro mondo, negato, rifiutato, superato: eppure
sopravvivono. Sono elementi storicamente morti ma umanamente vivi che ci compongono. Mi
sembra che sia ingenuo, superficiale, fazioso negarne o ignorarne l’esistenza. Io, per me, sono
anticlericale (non ho mica paura a dirlo!), ma so che in me ci sono duemila anni di cristianesimo: io
coi miei avi ho costruito le chiese romaniche, e poi le chiese gotiche, e poi le chiese barocche: esse
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sono il mio patrimonio, nel contenuto e nello stile. Sarei folle se negassi tale forza potente che è in
me: se lasciassi ai preti il monopolio del Bene”.
NULLA MUORE MAI IN UNA VITA: è una frase che può essere convintamente e
affettuosamente rivolta proprio a Pier Paolo Pasolini.
LA RABBIA 1963
ARTICOLO di Angela Molteni
Nei primi mesi del 1963 Pasolini, accettando una proposta del produttore Gastone Ferranti, iniziò a
selezionare brani da vecchi cinegiornali e documentari. Parte di questi materiali gli servirono per
realizzare una sorta di “saggio-documentario” sul tema: “Perché la nostra vita è dominata dalla
scontentezza, dall’angoscia, dalla paura della guerra, dalla guerra?”.
Pasolini, nel film La rabbia, precisa subito, sulle note dell’Adagio di Albinoni e tramite la “voce
narrante” di Renato Guttuso, che risponde a tali domande “senza seguire alcun filo cronologico e
forse neppure logico”, esponendo soltanto le sue ragioni politiche e il suo sentimento poetico. Gli
avvenimenti cui fa cenno nel film sono in parte sottolineati anche da suoi testi poetici letti da
Giorgio Bassani.
Vi è una particolare attenzione ai problemi degli “uomini di colore”, cioè a quei popoli in
prevalenza del Terzo Mondo assoggettati al colonialismo, che proprio in quegli anni – anche
attraverso rivolte inizialmente contrastate con violenza da quegli stessi poteri coloniali –
intendevano conquistare la propria libertà (“gente di colore... / è nella speranza che la gente non ha
colore... / è nella vittoria che la gente non ha colore...).
Scorrono così le immagini della crisi d’Algeria e della rivolta di quel popolo contro il tronfio
dominio francese (“Una crisi che ricrea la morte vuole vittime la cui vittoria è certa”, commenta
Pasolini); delle ribellioni delle genti del Congo, dei cubani che riscattano la loro terra da una sorta
di colonialismo statunitense e la liberano dalla dittatura di Batista. In quest’ultimo “affresco”,
sottolineato da canzoni di lotta cubane, e mentre scorrono immagini di guerra, di morte, di
disperazione, il Poeta suggerisce: “... forse solo una canzone poté dire che cos’era il combattere a
Cuba... / ... forse solo una canzone poté dire che cos’era il morire a Cuba” e ribadisce: “... gente di
colore / è nella vittoria che la gente non ha colore”.
Ma è messa in risalto, già all’inizio del film, anche la rivolta d’Ungheria del 1956 contro la
repressione dei carri armati sovietici, simboli di quella nomenklatura grigia e ottusa che finirà per
portare allo sfacelo tutte le grandi speranze della Rivoluzione.
Il film prosegue mettendo in luce altre storture dei Paesi capitalistici: la guerra tra Israele ed Egitto;
l’India e la rilevanza della figura di Gandhi contro un potere che letteralmente affama il popolo; il
franchismo, cioè il fascismo spagnolo e le sue squallide autocelebrazioni. Non manca l’accenno
critico al simbolo stesso del capitalismo di casa nostra: la Fiat (“comprare un operaio non costa
nulla...”).
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Dall’incoronazione di Elisabetta II in Inghilterra (“una cerimonia vecchia di 2000 anni”), Pasolini
trae spunto per denunciare l’imborghesimento già ampiamente in atto nelle classi sfruttate di quel
Paese (quale sarà il futuro di una classe operaia che “oggi sciopera per l’ora del tè”?); mentre dalla
Convention del Partito repubblicano per le primarie (da cui uscirà la candidatura a Presidente di
Eisenhower) ricava alcune considerazioni sul sistema americano (“quando sarà inarrestabile il ciclo
della produzione e del consumo, allora la nostra Storia sarà finita...”). Seguono spezzoni di altri
cinegiornali: una esplosione atomica; Pasolini la chiama “questo irriconoscibile sole” e aggiunge
che poi, dopo, “sarà preistoria”.
“Il sentimento della libertà ha le sue origini in visi simili”, dice il Poeta, e mostra volti sorridenti di
gente comune in Unione Sovietica (“mio padre ha combattuto contro lo zar e il capitalismo [...]”
Chi ieri era servo della gleba, oggi è “il primo figlio istruito di una generazione che non ha avuto
nulla, se non calli nelle mani e pallottole nel petto”). Più avanti, Pasolini aggiungerà: “La
Rivoluzione vuole una sola guerra: quella dentro gli spiriti, che abbandonano al passato le vecchie,
sanguinanti strade della Terra”.
Pasolini definisce il pianto dei bambini del Terzo Mondo, che patiscono la fame “un singhizzo che
squassa il mondo”. E la guerra, altro motivo di sofferenze soprattutto per quei bambini, “un terrore
che non vuole finire nell’animo del mondo”.
Le pessime condizioni degli sfruttati (la classe che dà infinito valore alle sue mille lire”) sono
denunciate da Pasolini con brani tratti da documentari sulla tragedia di lavoratori morti in miniera.
Un raggio di speranza pare accendersi nel seguire l’impresa spaziale di Juri Gagarin (che “sale nel
cielo con un semplice cuore” e “ridiscende in terra fra i semplici cuori” dei suoi compagni) che
afferma: “Da lassù tutti mi erano fratelli”. Ma tale speranza è di breve durata, poiché il film si
conclude con una serie impressionante di esplosioni nucleari che trasmettono un drammatico senso
di inquietudine e di terrore.
Il film è in due parti: sulla seconda, affidata dal produttore a Guareschi, mi pare più dignitoso non
fare alcun commento, non entrare cioè nel merito del modo in cui Guareschi “svolge” il “tema” (che
è lo stesso per i due episodi). Si commenta da sé, infatti, il suo becero para-fascismo, il suo
qualunquismo infarcito di banalità, anche peggiore, se possibile, di quello esibito da Guareschi nella
serie di film realizzati sulle storia di “Peppone e Don Camillo”.
Il testo che segue e' scritto da Carlo di Carlo, aiuto regista nel film La rabbia (lo e' stato
precedentemente di Mamma Roma e de La ricotta) ed integralmente riportato dal testo Teoria e
tecnica del film di Pasolini, a cura di Antonio Bertini ed edito dalla Bulzoni editore. Se ne consiglia
la lettura per avere un quadro completo della tecnica filmica di Pasolini.
Tra le carte del mio lavoro con Pasolini (1962-1963), torvo un appunto relativo a La rabbia,
l'ultimo film al quale ho collaborato con lui. Probabilmente una sua dichiarazione.
Dice Pier Paolo: "Il film La rabbia e' un saggio polemico e ideologico sugli avvenimenti degli
ultimi dieci anni. Tali documenti sono presi da cinegiornali e da cortometraggi e montati in modo
da seguire una linea, cronologico-ideale, il cui significato e' un atto di indignazione contro l'irrealta'
del mondo borghese e la sua conseguente irresponsabilita' storica. Per documentare la presenza di
un mondo che, al contrario del mondo borghese, possiede profondamente al realta'. La realta', ossia
un vero amore per la tradizione che solo la rivoluzione puo' dare". La rabbia; un film di montaggio,
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un film-saggio politico, un film poetico. Meglio, un testo in poesia espresso per immagini, con la
rabbia in corpo. La rabbia di Pasolini. La sua rabbia. Contro il mondo borghese, contro la barbarie,
contro l'intolleranza, contro i pregiudizi, la banalita', il perbenismo. Contro il Potere che, soprattutto
allora inveiva contro di lui (che non era ancora il Pasolini di poi) in modo persecutorio. Contro.
Contro. Contro.
Perche' La rabbia e' stato proprio un film-contro, e per molti versi anticipatore.
Gia' all'inizio nacque contro il partener, Giovannino Guareschi, autore della seconda parte. Quel
Guareschi, simbolo dell'umorismo da sacrestia di quegli anni, il quale incarnava meglio e piu' di
ogni altro lo spirito del '48, della piccola borghesia, dei Comitati civici, dell'Italia degasperiana,
quasi una liala del qualunquismo.
Si', perche' l'idea del produttore fu quella di sfruttare l'idea del "visto da destra.... e vista da sinistra",
le due vignette che settimanlmente distinguevano la prima pagina del Candido mettendo in berlina i
comunisti ("trinacituri") secondo le norme piu' bieche dell'anticomunismo della guerra fredda.
Attraverso l'incontro/scontro Pasolini-Guareschi, il produttore era certo di compiere un'operazione
commerciale di sicuro successo. Scandalo. Prestarsi a un'operazione del genere! Pasolini appariva
gia' e sempre scandaloso, e a quei tempi poi! Ora addirittura si prostituiva a favore di un'operazione
commerciale che lo vedeva affiancato a un tale figuro. (E pensare che la nostra moviola era perfino
distante dieci metri da quella di Guareschi, in fondo a un corridoio di un appartamente di Viale
Liegi. Di lui si intravedevano, ogni tanto, i baffi, perche' i due non si salutavano neppure). Il film fu
un totale insuccesso commerciale. A Roma due giorni di programmazione, credo due a Milano, a
Firenze uno. Poi basta. E cosi', sulle ceneri di questo insuccesso, rimase splendidamente sola, la
parte di Pier Paolo, questo eccezionale documento (capito soltanto negli anni a venire) che
implicitamente dimostrava ancora una volta l'autonomia della creazione, della poesia, della cultura.
Questo film fu un lavoro eccitante, complesso, superiore a quella per Mamma Roma e per La
ricotta. Perche' non si tratto' soltanto di scegliere insieme tra in novantamila metri di Mondo libero
(il cinegiornale degli anni della guerra fredda confezionato dal nostro produttore) e di tanti altri
documentari d'ogni tipo, ma di un paziente e vivace lavoro, sia dal punto di vista tecnico che da
quello creativo: ricerca e scelta dei piu' svariati materiali fotografici e di documentazione, riprese
dal vero e in truka di varie sequenze, prove e riprove di montaggi differenziati, costruzioni di
sequenze di collegamento tra un tema e l'altro, ricerca dell'unitarieta' stilistica, infine tante e tante
discussioni vive e accese su tutto perche' in quei mesi, d'un colpo, tutto cio' che era accaduto e
accadeva d'importante nel mondo, era davanti ai nostri occhi, li' sul piccolo schermo della moviola.
Quindi: amarezze indifferenza iprocrisia delusioni tragedie e anche illusioni speranze. La
rivoluzione. L'utopia. Bisognava stringere, scegliere, contenere. Gli argomenti si assotigliarono: la
morte di De Gasperi, la guerra in Corea, le alluvioni, la televisione, l'Ungheria, l'anticomunismo,
Egitto/Israele, l'assassinio di Lumumba, Nasser, Sukarno, la liberazione di Tunisia, Tanganika,
Togo, Cuba, il canale di Suez e poi Sophia Loren, l'incoronazione della regina d'Inghilterra,
Eisenhower, la morte di Pio XII (e' morto un Papa di famiglia eletta - grandi agrari del Lazio..."),
l'elezione di Giovanni XXIII ("Uguale al padre furbo e al nonno bevitore di vinelli pregiati, figura
umana sconosciuta ai sottoproletari della terra, ma anch'esso coltivatore di terra - il nuovo Papa nel
suo dolce, misterioso sorriso di tartaruga, pare avere capito di dover essere il pastore dei Miserabili;
pescator di pescecani, pastori di jene, cacciatori di avvoltoi, dei seminatori di ortiche, perche' e' loro
il mondo antico, e non son essi che lo trascineranno avanti nei secoli, con la storia della nostra
grandezza".), il realismo socialista e l'arte astratta, la Francia e l'Algeria, stermini, impiccagioni,
esecuzioni, torture, De Gaulle. Poi l'inno a Marylin ("Del pauroso mondo antico e del pauroso
mondo futuro / era rimasta solo la bellezza, e tu / te la sei portata dietro come un sorriso
obbediente"). Infine, l'atomica, i voli nel cosmo, la grande era. Pier Paolo concludeva: "Perche'
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compagni e nemici, / uomini politici e poeti, / la rivoluzione vuole una sola guerra, / quella dentro
gli spiriti / che abbandonano al passato / le vecchie, sanguinanti strade della Terra".
Un ultima cosa: Pier Paolo detestava i doppiatori e quindi leggere questo testo bellissimo divento'
un problema non secondario. Ebbe l'idea di farlo leggere da due voci altre, agli amici Giorgio
Bassani e Renato Guttuso. Testo a due voci: la voce in poesia e la voce in prosa, la voce della
pacatezza (Bassani), la voce della rabbia, dell'invettiva (Guttuso). Bassani e Guttuso si sentirono
protagonisti-attori, impegnati nel testo. Non fu facile, ma anche questo risultato fu singolare.
Comizi d'amore 1963-64
Nel 1963 Pasolini si dedica a un film-inchiesta (un prologo e tre atti) su un argomento considerato
ancora tabù nell’Italia dell’epoca: la sessualità. Il regista percorre in lungo e in largo, registratore e
cinepresa alla mano, la penisola (dalle grandi città dal Sud al Nord Italia, alle campagne) chiedendo
a passanti, a ignoti contadini, operai, calciatori famosi, studenti, commercianti, a persone
appartenenti a diversi ceti sociali, che cosa ne pensassero dell’erotismo e dell’amore.
Il regista pone le domande più disparate: da quelle rivolte a un gruppo di bambini (“Come nascono i
bambini?”), a quelle concernenti la libertà sessuale indirizzate ad alcune ragazze; oppure chiede a
signori borghesi, viaggiatori su un treno – o a giovani siciliani “bighellonanti” nelle piazze di paese
– che cosa pensino riguardo all’omosessualità.
Dalle risposte degli intervistati esce un quadro del nostro “Belpaese” (Pasolini lo chiamò con ironia
“Fritto misto all’italiana”) complessivamente falso e superficiale, infarcito – per quanto riguarda gli
intervistati di estrazione borghese – di luoghi comuni; altrettante frasi fatte sono contenute nelle
risposte di “borghesi illuminati” quali Camilla Cederna e Oriana Fallaci, anche se tali risposte sono
formulate scientemente in un’ottica “antiborghese” e femminista. Le persone appartenenti a classi
meno abbienti forniscono invece risposte più spontanee, più istintive.
Ciò che più colpisce, dice Enzo Siciliano nel suo Vita di Pasolini (Giunti, Firenze), “è la presenza
sullo schermo di Pasolini medesimo: il film è il suo più spassionato autoritratto. La sua
testardaggine pedagogica, la sua mitezza che era violenza e la sua violenza che era mitezza –
quell’insistere nelle domande, quel modularle a pennello, a una madre, a una recluta, a un
ragazzotto siciliano, a due frequentatrici di balere; quindi il timbro insolito della sua voce,
schermata dietro un rigore razionalista che pare non appartenergli: il film aderiva perfettamente, e
fuori di ogni previsione, alla sua persona fisica, al modo in cui erano inforcati gli occhiali o la
giacca gli ricadeva sulle spalle”.
L’impressione che si trae oggi da questo film-inchiesta – recentemente riproposto dalla televisione
italiana – è quella di una grande, diffusa ignoranza anche in strati di popolazione più acculturata, di
una profonda, generalizzata arretratezza e di un vero e proprio timore dell’italiano medio ad
affrontare, senza assurde “vergogne” un qualsiasi confronto legato ad un tema quale quello della
sessualità, che dovrebbe invece essere trattato con infinita naturalezza.
Il film fa riflettere, infine, su quali siano stati nel nostro paese (all’epoca, ma ancor oggi, direi) i
condizionamenti, le distorte sovrastrutture mentali, le paure instillate da un uso repressivo della
religione fatto dalle istituzioni cattoliche. E anche sulle responsabilità di una classe politica che non
ha dato impulsi di sorta a un rinnovamento profondo dei sistemi educativi.
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Intervistatore e commentatore del film è lo stesso Pasolini, affiancato nei commenti, per quanto
riguarda l’aspetto morale ed estetico, da Alberto Moravia, e da Cesare Musatti che inquadra i
problemi che si presentano, via via che l’inchiesta procede, da un punto di vista psicanalitico.
Il Vangelo secondo Matteo 1964
Il film segue passo passo la narrazione evangelica. Ne risulta quindi una fedele ricostruzione della
vita e degli insegnamenti di Cristo, dall’annunciazione di Maria alla nascita in una baracca che
ricorda singolarmente le periferie di Accattone e di Mamma Roma (Cristo come sottoproletario ante
litteram?), alla morte e resurrezione.
Dice Pasolini del suo Vangelo: “Avrei potuto demistificare la reale situazione storica, i rapporti fra
Pilato e Erode, avrei potuto demistificare la figura di Cristo mitizzata dal Romanticismo, dal
cattolicesimo e dalla Controriforma, demistificare tutto, ma poi, come avrei potuto demistificare il
problema della morte? Il problema che non posso demistificare è quel tanto di profondamente
irrazionale, e quindi in qualche modo religioso, che è nel mistero del mondo. Quello non è
demistificabile”.
L’idea pasoliniana del Vangelo, cioè, non partiva dalla volontà di mettere in discussione
dogmatismi o miti, ma si riferiva anche e in primo luogo all’idea della morte, uno dei temi
fondamentali dell’impegno intellettuale del Poeta: “È dunque assolutamente necessario morire,
perché, finché siamo vivi, manchiamo di senso, e il linguaggio della nostra vita (con cui ci
esprimiamo, e a cui dunque attribuiamo la massima importanza) è intraducibile: un caos di
possibilità, una ricerca di relazioni e di significati senza soluzione di continuità”.
Non casualmente – come già nelle opere cinematografiche precedenti – Pasolini affida a un
linguaggio sonoro raffinato tutte le vicende più significative narrate nel film. Per una sensibilità
quale quella del Poeta, il ricorso alla bachiana Passione secondo Matteo è quasi d’obbligo. Ma, in
particolare, alla morte di Gesù, egli associa la Musica funebre massonica, che è a sua volta una
delle più alte creazioni di Mozart, che in essa ha anche espresso la propria immagine della morte:
nessuna titanica lotta contro il destino ineluttabile. La morte non lo spaventa: Mozart la chiama
perfino “cara amica”; nella musica stessa si percepisce il dolore per la separazione, a cui Mozart si
dà, senza tuttavia lasciarsene sopraffare.
Vi è un solo momento della lunga sequenza della crocefissione e della morte in cui il racconto non è
affidato al solo indivisibile binomio “immagini-musica”: è quello in cui Cristo pronuncia queste
ultime parole: “Voi udrete con le orecchie ma non intenderete e vedrete con gli occhi ma non
comprenderete, poiché il cuore di questo popolo si è fatto insensibile e hanno indurito le orecchie e
hanno chiuso gli occhi per non vedere con gli occhi e non sentire con le orecchie”.
Per rimanere ancora un momento nell’ambito delle scelte musicali effettuate da Pasolini nel
Vangelo: ho trovato straordinario l’accostamento delle ultime immagini del film (Maria – che è qui,
non casualmente, la stessa madre di Pasolini – si reca con altri alla tomba del Figlio; il sepolcro si
apre e Cristo non è più avvolto nel sudario: è risorto!) al Gloria di una messa cantata congolese. Nel
canto, il testo è in latino e la musica ha tutti gli accenti, gli strumenti e i ritmi del folclore africano,
quasi a sottolineare l’universalità di un profondo sentimento religioso.
Il Vangelo cui Pasolini si richiama è quello di Matteo, dal quale emerge una figura umana, più che
divina, di Cristo che, anche se ha molti tratti di dolcezza e mitezza, reagisce con rabbia all’ipocrisia
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e alla falsità. È un Cristo sorretto da una forte volontà di redenzione per le vittime della
istituzionalizzazione della religione operata dai farisei “sepolcri imbiancati”, che l’hanno adottata
con ipocrisia e iniquità quale strumento di repressione politica e sociale.
È un Cristo che non è venuto a “portare la pace ma la spada”, perché sia possibile accedere al regno
di Dio con cuore puro “come quello dei bambini”.
È, anche, un Cristo rivoluzionario. Nel corso di un dibattito tenutosi negli ultimi mesi del 1964,
Pasolini dichiarò: “[...] mi sembra un’idea un po’ strana della Rivoluzione questa, per cui la
Rivoluzione va fatta a suon di legnate, o dietro le barricate, o col mitra in mano: è un’idea almeno
anti-storicistica. Nel particolare momento storico in cui Cristo operava, dire alla gente ‘porgi al
nemico l’altra guancia’ era una cosa di un anticonformismo da far rabbrividire, uno scandalo
insostenibile: e infatti l’hanno crocifisso. Non vedo come in questo senso Cristo non debba essere
accepito come Rivoluzionario [...]”.
In effetti, per quel momento storico (e, per alcuni versi, anche per il momento storico nel quale
Pasolini stesso si collocava) non sono da considerarsi rivoluzionarie predicazioni nelle quali si
dichiara: “fate agli altri quanto gli altri volete che facciano a voi”, “non accumulate tesori su questa
terra”, “nessuno può servire due padroni: Dio e il denaro”?
Quando fu presentato, nel 1964, il film fu ampiamente apprezzato (e premiato) dalla critica
cattolica, quanto duramente contestato dalla sinistra. A coloro che lo avversavano Pasolini rispose:
“[...] io ho potuto fare il Vangelo così come l’ho fatto proprio perché non sono cattolico, nel senso
restrittivo e condizionante della parola: non ho cioè verso il Vangelo né le inibizioni di un cattolico
praticante (inibizioni come scrupolo, come terrore della mancanza di rispetto), né le inibizioni di un
cattolico inconscio (che teme il cattolicesimo come una ricaduta nella condizione conformistica e
borghese da lui superata attraverso il marxismo)”
Uccellacci Uccellini 1965
Apparentemente sarcastico e ironico, in alcuni passaggi addirittura volutamente comico (anche per
la presenza in questo senso oggettivamente determinante di Totò), Uccellacci e uccellini mi ispira,
ogni volta che lo rivedo, un senso profondo di disillusione, di tristezza e di malinconia.
Legato com'è alla rappresentazione della realtà del suo tempo, Pasolini non può fare a meno di
constatare e di lanciare messaggi sulla progressiva, inarrestabile tendenza della società che lo
circonda – in primo luogo di coloro che avrebbero il compito storico di sostenere idee e principi
marxisti – ad assecondare il conformismo, l’“omologazione” dilagante, l’accantonamento o la
cancellazione dei valori, la rinuncia a battersi per l’affermazione di ideali e di principi.
Il Corvo è precisamente l’incarnazione dell’ideologia, che sta attraversando una crisi acuta e
profonda. Una crisi, a mio parere, mai superata e che, anzi, nel tempo indurrà coloro che avrebbero
dovuto essere i portatori di quella stessa “bandiera” a ripiegare su idee e comportamenti sempre più
indistinguibili da quelli del “nemico” storico, la borghesia. Anche su questo tema è dunque
sconvolgente riconoscere quale sia l’attualità del pensiero e della critica di Pasolini. “Sono passate
di moda le ideologie, ed ecco qui uno che continua a parlare di non si sa cosa a degli uomini che
vanno non si sa dove” – fa dire Pasolini al Corvo che si rivolge ai due viandanti disorientati. E gli fa
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concludere: “Non pensi però, signor Totò, che io pianga sulla fine di quello in cui credo. Sono
convinto che qualcun altro verrà e prenderà la mia bandiera per portarla avanti. Io piango solamente
su me stesso. È umano, no, in chi sente di non contare più...”
Per contro, Ninetto e Totò, i due viandanti, personaggi da moderna fiaba e personificazioni
metaforiche, sono avviati verso una meta imprecisata su una strada polverosa (la loro stessa vita)
che percorrono discorrendo della vita e della morte e vivendo o osservando avvenimenti ed
esperienze disparate – una giovane vestita d’angelo che appare da un embrione di porta-finestra di
una casa abusiva perennemente in costruzione; una coppia suicida in un quartiere degradato, e forse
altrettanto abusivo; il congressista dei “Dentisti Dantisti” che dirige un’orchestra inesistente in un
brano musicale che soltanto lui può udire; autobus continuamente perduti (a simboleggiare un noto
detto popolare); aerei fastidiosamente rumorosi, rappresentazione efficace di una sorta di
fagocitante progresso. Pasolini cala i due personaggi anche nel Medioevo. Inviati da san Francesco,
predicano amore a tutti gli uccelli. Tuttavia, ciò non riesce a eliminare i conflitti: il falco piomba
inesorabilmente sul passeretto. Così come Totò, riportato ad agire nel suo presente, è “falco”,
prepotente e autoritario con la contadina da lui minacciata di sfratto, nonché “passeretto”,
minacciato anche nell’incolumità personale, con “l’ingegnere” di cui, a sua volta, è debitore.
Insanabile contrasto tra classi diverse!
Vi è inoltre nel film-favola la citazione storica dei funerali di Togliatti – con l’inserimento di filmati
di repertorio che si integrano perfettamente alle immagini pasoliniane –, con quelle belle facce di
italiani che piangono, forse inconsapevolmente, insieme il capo perduto e la fine di un’epoca di
speranze. Come efficacemente scrive Pasolini in uno dei versi di Poesia in forma di rosa: “La
Rivoluzione non è più che un sentimento”.
Ricorda Serafino Murri nel suo commento (Pier Paolo Pasolini, Editrice Il Castoro, Milano): “[...]
le reazioni più violente nei confronti della critica a tutto campo rivolta da Pasolini [in Uccellacci e
uccellini] alla società nel suo equilibrio tra potere e antipotere, si avranno proprio da parte di quella
sinistra che rappresenta l’élite tradizionale, con cui l’intellettuale Pasolini continuerà a confrontarsi
sempre più drammaticamente, con una incomprensione sempre maggiore”.
Non ho mai “messo al mondo” un film così disarmato, fragile e delicato come “Uccellacci e
uccellini”. Non solo non assomiglia ai miei film precedenti, ma non assomiglia a nessun altro film.
Non parlo della sua originalità, sarebbe stupidamente presuntuoso, ma della sua formula, che è
quella della favola col suo senso nascosto. Il surrealismo del mio film ha poco a che fare col
surrealismo storico; è fondamentalmente il surrealismo delle favole [...]
Questo film che voleva essere concepito e eseguito con leggerezza, sotto il segno dell’Aria del
Perdono del “Flauto Magico”, è dovuto in realtà a uno stato d’animo profondamente malinconico,
per cui non potevo credere al comico della realtà (a una comicità sostantivale, oggettiva).
L’atroce amarezza dell’ideologia sottostante al film (la fine di un periodo della nostra storia, lo
scadimento di un mandato) ha finito forse col prevalere. Mai ho scelto per tema di un film un
soggetto così difficile: la crisi del marxismo della Resistenza e degli anni Cinquanta, poeticamente
situata prima della morte di Togliatti, subita e vissuta, dall’interno, da un marxista, che non è
tuttavia disposto a credere che il marxismo sia finito (il buon corvo dice: “Io non piango sulla fine
delle mie idee, perché verrà di sicuro qualcun altro a prendere in mano la mia bandiera e portarla
avanti! È su me stesso che piango...”).
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Ho scritto la sceneggiatura tenendo presente un corvo marxista, ma non del tutto ancora liberato dal
corvo anarchico, indipendente, dolce e veritiero. A questo punto, il corvo è diventato
autobiografico, una specie di metafora irregolare dell’autore.
Totò e Ninetto rappresentano invece gli italiani innocenti che sono intorno a noi, che non sono
coinvolti nella storia, che stanno acquisendo il primo jota di coscienza: questo quando incontrano il
marxismo nelle sembianze del corvo.
La presenza di Totò e Ninetto in questo film è il frutto di una scelta precisa motivata da
un’altrettanto precisa posizione nell’ambito del rapporto tra personaggio e attore.
Ho sempre sostenuto che amo fare film con attori non professionisti, cioè con facce, personaggi,
caratteri che sono nella realtà, che prendo e adopero nei miei film. Non scelgo mai un attore per la
sua bravura di attore, cioè non lo scelgo mai perché finga di essere qualcos’altro da quello che egli
è, ma lo scelgo proprio per quello che è: e quindi ho scelto Totò per quello che è. Volevo un
personaggio estremamente umano, cioè che avesse quel fondo napoletano e bonario, e così
immediatamente comprensibile, che ha Totò. E nello stesso tempo volevo che questo essere umano
così medio, così “brava persona”, avesse anche qualcosa di assurdo, di surreale, cioè di clownesco,
e mi sembra che Totò sintetizzi felicemente questi elementi.
LA TERRA VISTA DALLA LUNA 1966
Nell’ottobre 1966 Dino De Laurentis propone a Pasolini di partecipare con un episodio a un film
che sta producendo, Le streghe: gli altri episodi sono affidati ai registi Luchino Visconti, Francesco
Rosi, Vittorio De Sica e Mauro Bolognini.
Pasolini, per questa occasione, riprende una storia già scritta e non ancora realizzata, Il buro e la
bura. L’epigrafe del film porta la seguente scritta del regista: “Visto dalla luna, questo film che
s’intitola appunto La Terra vista dalla Luna non è niente e non è stato fatto da nessuno… ma
poiché siamo sulla Terra, sarà bene informare che si tratta di una fiaba scritta e diretta da un certo
Pier Pasolo Pasolini”.
Nel film sono narrate le avventure donchisciottesche di un padre e un figlio (Ciancicato Miao e
Baciù) che, dopo aver pianto la morte della moglie-madre Crisantema, deceduta per avere ingerito
funghi avvelenati, partono alla ricerca di una Donna ideale, che possa diventare l’anima femminile
della loro baracca, sperduta in una radura piena di altre catapecchie.
I due incontrano dapprima una vedova isterica che li prende a ombrellate, poi una prostituta; a un
certo punto pare che, infine, dopo tanto girovagare, abbiano trovato la donna perfetta, ma si
accorgono che si tratta solo di un manichino. Disperati, padre e figlio continuano un viaggio senza
più alcun senso, finché incontrano una donna bellissima (Assurdina Caì, nel film interpretata da
Silvana Mangano) che appare ai due come una vera e propria dea. La donna non risponde ad alcuna
domanda e Ciancicato pensa che sia sordomuta. Alla fine, Ciancicato le rivolge una richiesta di
matrimonio alla quale Assuntina acconsente.
Tornati tutti nella baracca, in breve, grazie alle “virtù femminili” della donna, tutto si trasforma e in
breve la baracca appare come una ordinata e graziosa casetta. Cedendo alla logica consumistica,
però, Ciancicato e Baciù architettano un “lavoro” che consentirà loro di farsi una bella casa. Tale
lavoro consisterà in questo: Assurdina, dall’alto del Colosseo, minaccerà di suicidarsi se non verrà
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aiutata a sopravvivere. Padre e figlio, intanto, raccoglieranno quattrini fra coloro che stanno
assistendo alla scena. Tutto procederà in questo modo, fino a quando la donna, scivolando su una
buccia di banana, precipiterà nel vuoto.
Ancora disperazione per Ciancicato e Baciù che, dopo aver sepolto la donna, tornano alla loro
bicocca: in essa ritrovano Assuntina, muta e sorridente, che li aspetta. I due, felicissimi, constatano
che Assurdina, anche da morta, può così continuare a svolgere tutte le funzioni che già assolveva, e
gioiscono: “È la felicità, è la felicità!” Appare a quel punto la didascalia finale: “Essere morti o
essere vivi è la stessa cosa”.
“La morale del film”, scrive Serafino Murri (Pier Paolo Pasolini, Il Castoro, Milano), “che l’autore
ci dice essere tratta dalla filosofia indiana, non è, come parte delle critica militante fu portata a
scrivere, ‘rinunciataria o nichilistica’, poiché non c’è nessun accenno di pessimistico consenso con
quella affermazione: semmai, con fin troppa ironia, vi si ritrova un malcelato invito a non accettare
la logica imperante, ad essere lunari quel tanto che basta per prendere le distanze dai tentacoli
mostruosi del nonsenso sociale e dei suoi schematismi da marionette. La forma fiabesca stigmatizza
dunque la falsità della vita, una vita perduta, sepolta in un mare di grotteschi comportamenti e
necessità secondarie […]”
Nel gennaio del 1967, scrivendo a Garzanti, in quel momento editore dei suoi libri, Pasolini gli
annuncia: “Infine c’è il progetto di un libro molto strano. Si tratta di questo: ho in mente una
dozzina di episodi comici, che vorrei girare ancora con Totò e Ninetto [i due interpreti di Uccellacci
e uccellini], ma forse non potrò farlo per i troppi impegni. Ora, la sceneggiatura dell’ultimo
episodio La terra vista dalla luna, l’ho stesa sotto forma di fumetto a colori (ripescando certe mie
rozze qualità di pittore abbandonate). Stando così la cosa, mi piacerebbe, piano piano, di mettere
insieme un grosso libro di fumetti – molto colorati e espressionistici – in cui raccogliere tutte queste
storie che ho in mente, sia che le giri, sia che non le giri”.
In effetti Pasolini non scrisse una vera e propria sceneggiatura dell’episodio La terra vista dalla
luna: elaborò le scene del film, girato verso la fine del 1966, disegnandole in forma di fumetti.
Che cosa sono le nuvole ? 1967
Dopo aver trascorso un breve periodo in Marocco per i sopralluoghi dell’Edipo re, tra marzo e
aprile 1967 Pasolini partecipò a un film a episodi, prodotto da Dino De Laurentis, Capriccio
all’italiana, nel quale il regista volle ancora quali interpreti principali Totò e Ninetto Davoli, oltre a
Laura Betti e a Francesco Leonetti. L’episodio pasoliniano, Che cosa sono le nuvole? fu girato in
una settimana e venne inserito tra i pezzi realizzati da altri registi (Steno, Bolognini, Pino Zac e
Monicelli).
In un teatro, dinanzi a un pubblico popolare, viene messa in scena una versione in chiave comica
della tragedia shakespeariana Otello: ne sono interpreti alcune marionette parlanti, metà uomini,
metà pupazzi (Totò rappresenta Jago, Ninetto Davoli è Otello). Il vero protagonista è Jago-Totò,
che architetta alle spalle dell’ingenuo Otello il falso tradimento di Desdemona (Laura Betti) con
Cassio, vantandosi intanto con il pubblico della propria perfidia. Jago induce Otello, utilizzando la
prova di un fazzoletto sottratto con l’inganno a Desdemona, a una sorda e violenta gelosia e nel
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momento in cui Otello è giunto al culmine della sua rabbia ed esprime propositi di vendetta, il
pubblico inizia a protestare.
Quando la scena dell’assassinio di Desdemona sta per aver luogo, il pubblico, che non condivide
tale conclusione, invade il palcoscenico: Otello e Jago sono linciati e uccisi, Cassio e Desdemona
vengono portati in trionfo. I due uomini-pupazzi (Jago e Otello) vengono buttati, piangenti di paura,
nel camioncino dell’“immondezzaro” (Domenico Modugno, che nel film canta la canzone “Che
cosa sono le nuvole”, su un testo dello stesso Pasolini); da lì, gettati in una discarica. Sdraiati in
mezzo ai rifiuti, scoprono il mondo. Intorno a loro non vi è altro che spazzatura, ma in alto, con
immenso stupore, vedono un cielo azzurro nel quale corrono nuvole bianche. “Iiiiih, che so’
quelle”, chiede Otello. “Sono… sono… le nuvole… Otello”, risponde Jago. “E che so’ le nuvole?”
“Quanto so’ belle! Quanto so’ belle!”, replica Otello. “Oh, straziante, meravigliosa bellezza del
creato!”, conclude Jago.
“Se l’arte è il tentativo di costruzione di una realtà necessaria, di qualcosa che resti oltre la singola
vita attraverso cui prende forma, la vita, nella sua inequivocabile, straziante bellezza, che surclassa
perfino la “necessità” artistica, è il trionfo della gratuità, della caducità e del cambiamento, di tutto
ciò che non trova spiegazione se non in se stesso: è solo la morte delle marionette, delle creature del
pensiero, che di solo pensiero e di dramma tutto umano sanno nutrirsi, a rivelare improvvisamente
la grandiosità dell’assenza di senso, di quell’unicità senza scopo che è l’attimo folgorante della
vita”, scrive Murri (P.P. Pasolini, Il Castoro, Milano).
Il film è dunque una sorta di riflessione, sui significati dell’esistenza umana e sui rapporti tra
“apparire ed essere”, tra vita e morte. Per rappresentare le sue poetiche riflessioni, Pasolini fa
ricorso a una doppia finzione – espressa da quel “sogno dentro un sogno”, come fa dire a Jago-Totò
–, quella della messa in scena nella messa in scena, cioè la rappresentazione grottesca di un famoso
dramma sul quale ironizza, interpretato da uomini-marionette, su uno sgangherato palcoscenico, di
fronte a un pubblico popolare che agirà in prima persona nella recitazione del dramma stesso; una
“messa in scena” dagli sviluppi originali e imprevedibili. E’ una storia, una riflessione per certi
versi amara, che non rinuncia però ad esprimere ancora una volta la “disperata vitalità” del suo
autore: “Oh, straziante, meravigliosa bellezza del creato!
EDIPO RE 1967
Una pietra miliare indica la città di Tebe: ma la scena ha luogo in un paesino del Nord Italia degli
anni Venti, dove vediamo una levatrice portare alla luce un bambino. Una donna (Silvana Mangano
gioca con delle amiche su di un prato, poi prende con tenerezza il suo bambino in braccio e lo
allatta. Sulle note del Quartetto delle Dissonanze di Mozart, il volto sorridente della madre che
allatta è attraversato da un momento di panico, prima di tornare al sorriso. Sotto un balcone da cui
pende la bandiera italiana con lo stemma sabaudo, un giovane ufficiale guarda con severità il
bambino che gioca nella carrozzella. L'uomo è il padre del bambino, e il suo pensiero è espresso
tramite una didascalia: egli teme che suo figlio sia nato per prendere il suo posto sulla terra e
ricacciarlo nel nulla, appropriandosi innanzitutto dell'amore della sua donna. Viene la notte. Dopo
essersi assicurati che il bambino sta dormendo, i genitori si recano ad una festa da ballo in un
palazzo attiguo al loro. Ma poco dopo il bambino si sveglia turbato, esce sul balcone, e vede,
attraverso le tende delle finestre, le silouetthes dei genitori che ballano abbracciati. Esplodono dei
fuochi d'artificio, il bambino è preso dal panico, piange. Di notte, il padre e la madre in una stanza,
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e il figlio nell'altra, sono svegli, pensierosi, inquieti. Sulle note di una musica etnica africana, il
padre si reca nella stanza del bambino e ne stringe le caviglie con forza. Il bambino si lamenta. La
scena si sposta nell'antica Grecia, sul monte Citerone. Un bambino è appeso per le caviglie a un
palo, portato a spalle da un servitore di Laio, re di Tebe. Il compito dell'uomo è uccidere il
bambino, per evitare che si avveri una profezia dell'oracolo di Delfi, secondo la quale il figlio di
Laio, una volta cresciuto, avrebbe ucciso il proprio padre e sarebbe giaciuto con la propria madre. Il
servitore (Francesco Leonetti), però, non ha il coraggio di ucciderlo, e finisce per abbandonarlo nel
deserto. Ma un vecchio pastore, che ha assistito alla scena, raccoglie con tenerezza l'innocente, e lo
porta in omaggio al suo sovrano Pòlibo, re della città di Corinto. Pòlibo, trionfante, mostra il
bambino alla sua consorte Mèrope, la quale decide di adottarlo come figlio, con il nome di Edipo,
che letteralmente significa "colui che ha i piedi gonfi". Edipo è cresciuto, ed è di temperamento
ambizioso e irascibile. Dopo una lite al gioco del disco, apprende dal suo rivale di essere un "figlio
della fortuna", un trovatello. La notte Edipo ha degli incubi, e decide di recarsi a Delfi a interpellare
l'oracolo sulla origine dei suoi sogni: così, senza alcuna scorta, armato di una sola spada, il giovane
principe di Corinto si incammina verso il tempio d'Apollo. L'oracolo, con una raccapricciante voce
femminile, lo scaccia via seccamente, rivelandogli il suo destino incestuoso e parricida. In preda
alla costernazione, Edipo si allontana. Per evitare che la profezia si avveri, decide di non tornare
mai più a Corinto, da quelli che crede i suoi genitori. Si mette le mani sugli occhi, fa qualche giro su
se stesso, e prende una direzione qualsiasi. Ma la direzione è sempre, fatalmente, quella di Tebe.
Sulla strada assolata giunge il carro del re Laio. Laio maltratta Edipo, solo e senza scorta, e lo
insulta come se fosse un mendicante: Edipo decide di vendicare l'affronto: con una corsa forsennata,
urlando fermamente la propria rabbia, uccide a uno a uno, nel silenzio desertico, sotto gli occhi del
sovrano, tutti gli uomini della sua scorta. La stessa sorte infine tocca anche al re Laio. Edipo,
stremato dalla carneficina, riprende il suo casuale cammino, che lo conduce finalmente a Tebe. Alle
porte della città incontra una interminabile fila di persone piangenti, che si allontanano da Tebe con
il loro poveri averi. Tocca al messaggero spiegare al nuovo arrivato Edipo le ragioni di quell'esodo:
la Sfinge, creatura oscura, è giunta all'improvviso sulla montagna alle porte della città, seminando
sciagura. Il messaggero aggiunge che esiste una "taglia" sull'uccisione della Sfinge: colui che
ricaccerà la Sfinge nell'abisso, diventerà marito della regina di Tebe, la vedova Giocasta. Edipo,
non ascoltando le parole della Sfinge che ancora una volta lo mette di fronte al suo destino oscuro,
riesce con una cieca violenza nell'impresa di sconfiggere l'inattaccabile creatura dell'abisso. Così il
messaggero annuncia alla propria città festante che è giunto il nuovo re, Edipo. Alla fine dei cortei
di ringraziamento, Edipo e Giocasta giacciono insieme nel talamo nuziale. L'oscuro destino del
"bimbo dai piedi gonfi" si ormai compiuto. La peste infuria su Tebe. Il gran sacerdote (Pasolini)
parla con Edipo a nome del popolo, e gli chiede ragione di quanto sta accadendo. Edipo gli risponde
di essere in attesa del ritorno del cognato Creonte, che si è recato a Delfi per avere un responso sugli
eventi luttuosi dall'oracolo. Creonte torna, e rivela che la causa della peste è la vendetta degli dei,
irati per la presenza a Tebe di un uomo impuro, la cui colpa è l'uccisione del re Laio. Edipo decide
di vendicare l'uccisione di Laio come se egli fosse stato "suo padre". Ma nonostante i provvedimenti
del re siano sempre più severi, la situazione non muta. I morti vengono ormai bruciati a decine nei
roghi comuni. Edipo decide di consultare Tiresia, il veggente cieco, per capire quale sarà il futuro
della città di Tebe. Il cieco Tiresia, suonatore di flauto, portato davanti ad Edipo, ha paura, e si
rifiuta di parlare. Minacciato e accusato prima, poi perfino malmenato dal re, Tiresia rivela che
Edipo prima o poi saprà di essere fratello e padre dei suoi figli, figlio e marito di sua madre, e che
vagherà per il mondo senza più poterlo vedere, come ora accade a quel Tiresia che lui ha dileggiato
e aggredito. Edipo prosegue la sua vita regale, e accusa Creonte e Tiresia di aver ordito una
congiura alle sue spalle. Ma durante una conversazione con Giocasta, che gli sta spiegando i
particolari dell'assassinio di Laio, Edipo apprende che il fato avverso lo ha ormai ghermito, che lui è
il vero assassino, il responsabile della catastrofe di Tebe. Giocasta non vuole perdere Edipo, cerca
di tranquillizzarlo, ma Edipo urla con dolore la verità ormai compresa. Edipo raggiunge l'unico
testimone dell'assassinio di Laio rimasto in vita, il vecchio servitore, per averne conferma. Una
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volta raggiunto sulle montagne quell'uomo, Edipo lo costringe a dire "quello che non si può dire":
che il re di Tebe che ha ora innanzi a sé è il figlioletto di Giocasta e di Laio che egli aveva
abbandonato sul monte Citerone molti anni addietro. Edipo ritorna il palazzo, ormai cosciente
dell'avverata profezia. Lì trova Giocasta che si è uccisa, impiccandosi nella stanza da letto. Allora,
con un gesto fulmineo e fermo, simile a quelli con cui ha fatto strage di Laio e della scorta, Edipo si
acceca entrambi gli occhi con la spilla delle vesti di Giocasta. Poi, accecato, esce dal palazzo, e
incomincia a brancolare nel suo buio definitivo, pietosamente accompagnato dal messaggero. Edipo
e il messaggero si trovano ora, vestiti in panni moderni, sotto i portici di una Bologna di fine anni
Sessanta. Edipo suona il flauto sulle scalinate delle chiese, ma è inquieto, disperato, e cerca di
continuo di andarsene altrove. Camminando sempre più in periferia, attraverso panorami sconsolati
di fabbriche e rifiuti urbani, Edipo giunge finalmente al prato in cui il bimbo nato negli anni Venti
aveva aperto gli occhi per la prima volta. Edipo è giunto dove la sua vita è cominciata, e dove
dunque, ora, può concludersi del tutto
“Questo è ciò che di Sofocle mi ha ispirato: il contrasto tra la totale innocenza e l’obbligo del
sapere”, dice Pasolini a commento del suo Edipo re. E aggiunge: “Non è tanto la crudeltà della vita
che determina i crimini, quanto il fatto che la gente non tenta di comprendere la storia, la vita e la
realtà.”
La cecità di Edipo, infatti (un “innocente” perseguitato da un destino avverso e crudele),
simboleggia l’incapacità dell’uomo contemporaneo di “vedere” – e di sforzarsi di comprendere – le
situazioni in cui si trova, situazioni per molti versi drammatiche e terribili. Il suo vagare in un
paesaggio desertico, in totale assenza di rapporti umani e di qualsivoglia comunicazione, senza che
pronunci alcuna parola e soprattutto senza una meta che non sia quella che il “destino” stesso gli
indica ineluttabilmente, dà il senso preciso di questo estraniamento, di questo tremenda, assoluta
mancanza di possibilità e di volontà di “vedere”.
L’intento autobiografico – che c’è ed è volutamente svelato da Pasolini perfino dal particolare
dell’ambientazione a Bologna del prologo e dell’epilogo del film – è evidente, ma non è il solo che
il Poeta si propone. Egli, infatti, inizia con Edipo re a percorrere, con i suoi lavori, la via di una
denuncia sempre più aperta, provocatoria e priva di intenti giustificatori, che avrà la sua massima
espressione nella rappresentazione delle atrocità di Salò. Pasolini è un intellettuale che conosce la
realtà, l’avvenuta “mutazione antropologica” del suo tempo, e che sente, quale suo primario
compito morale, civile e politico, di dovere richiamare l’attenzione dei suoi contemporanei affinché
non diventino “ciechi”, affinché non accettino come ineluttabile il divenire dei fatti e della Storia.
Attraverso i volti della gente semplice del Marocco, dove il film è stato girato (un luogo fuori del
“tempo borghese”) e dove il regista ha trovato gran parte dei personaggi che popolano il suo
racconto, Pasolini identifica il “mondo della verità umana”, una sorta di ritorno alle origini. Ed è per
rafforzare tali criteri di identificazione che utilizza per i suoi personaggi accenti dialettali compositi
e per commentare le vicende narrate si serve di un collage di musiche che vanno da motivi della
tradizione nordafricana a canti russi, rumeni e giapponesi.
Tutto il dramma di morte e di incesto di Edipo si svolge all’interno del palazzo di Tebe. Il popolo
che, fino all’arrivo di Edipo, è bello, felice, dedito al lavoro nei campi, alla musica, al canto, alla
danza, è decimato dalla peste, tragica sorta di “vendetta del cielo” che colpisce i tebani per colpe
non loro, senza lasciargli neppure alcuna possibilità di reagire.
Ho accennato al prologo e all’epilogo del film pasoliniano, quasi che la vicenda storico-mitologica
di Edipo (la parte centrale del film) sia da intendersi come un sogno che Edipo compie nel tempo
presente. Il Poeta “gioca”, in un certo senso, con questi aspetti e li lascia in una specie di sfocata
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ambiguità, tanto che pare rappresentare l’“attualità” delle azioni che avvengono in epoca presente
(anni Venti / anni Sessanta) come generate dall’“irrealtà”, mentre parrebbe fare intendere che il
passato mitico, immaginario (Edipo a Corinto, poi nel deserto, quindi a Tebe) sia “la realtà”. Ma si
potrebbe anche supporre che in Edipo re il passato sia il sogno del presente, e il presente sia
l’incubo del passato: in realtà, nel lavoro di Pasolini passato e presente interagiscono, sono
dipendenti fra loro, ad indicare l’unitarietà della Storia e del racconto di umane vicende.
I luoghi del Marocco dove il film è girato sono splendidi: non a caso Pasolini compì alcuni viaggi,
prima di iniziare la lavorazione, per individuarli e sceglierli. Come sempre, gran parte degli attori
sono persone reclutate sul posto che Pasolini dirige mirabilmente. Silvana Mangano fornisce una
grande e “spontanea” recitazione. Sempre più sorprendenti sono le capacità espressive di Franco
Citti, ottimo Edipo.
TEOREMA 1968
Milano, primavera del '68. Un postino dal significativo nome di Angelo (interpretato da Ninetto
Davoli) porta un telegramma nella villa di un industriale, in cui si annuncia la visita imminente di
un Ospite inatteso. L'Ospite (Terence Stamp) giunge il giorno successivo. E' un ragazzo senza
particolari qualità, forse uno studente in ingegneria, schivo, riservato, assorto in se stesso, che
rimane intatto dagli schemi e dalle convenzioni che vigono nella famiglia, e passa la maggior parte
del suo tempo a leggere l'opera omnia di Rimbaud. Questa sua angelicità, cioè la sua naturalezza ed
estraneità a tutto ciò che lo circonda, attrae irrsistibilmente, uno ad uno, tutti i membri della
famiglia: a cominciare dalla serva Emilia (Laura Betti), che, letteralmente folgorata dalla sua
presenza, nel timore di non poterlo avere, tenta di suicidarsi, ma viene salvata e amata dall'Ospite.
Poi è la volta di Pietro, studente con inclinazioni artistiche, coetaneo del giovane Ospite, che
prenderà coscienza della sua diversità sessuale; quindi di Lucia (Silvana Mangano) moglie e madre
di famiglia perbene, fino ad allora trincerata nel cattolico principio di fedeltà coniugale; poi è la
volta di Odetta, studentessa introversa e adoratrice della famiglia e dell'autorità paterna; in ultimo,
la stessa irrefrenabile smania di condivisione sessuale ghermisce il Padre (Massimo Girotti), l'uomo
borghese per eccellenza, padrone dei propri mezzi di produzione (è un industriale) e paterfamilias.
Tutti hanno rapporti sessuali con l'Ospite, che, come l'Adorabile descritto da Rimbaud per bocca
dell'Ospite stesso "E' venuto, se ne è andato, e forse non tornerà mai più". L'Ospite, infatti, così
come era giunto, senza alcun motivo, viene richiamato da un telegramma (portato in casa sempre
dallo stesso postino-angelo), e parte il giorno successivo. Tutti i membri della famiglia, ormai
rivelatisi a se stessi, cercano di ovviare l'assenza del loro oggetto d'amore percorrendo fino in fondo
la strada che, nella loro visione individualistica, porta verso il raggiungimento dell'Altro, Altro di
cui l'Ospite era portatore. Emilia, l'unica a legare questa presenza alla sacralità (chiede perdono a
Dio per aver fatto l'amore con l'Ospite), prende la strada dell'ascesi: gradualmente si distacca dalla
famiglia in cui lavora, torna nel borgo rurale da cui proviene, siede accanto ad un muro e si ciba
solo di ortiche, aspettando il ritorno dell'Ospite, compiendo il sacrificio di sé perché si compia
questo ritorno. I veri e propri membri della famiglia borghese, invece, percorrono la strada opposta,
cercando il senso della propria individualità, invece di sacrificarla: Odetta si chiude in una paralisi
isterica, recidendo i rapporti con il mondo, facendosi autisticamente essa stessa mondo di sé, e
finisce in un manicomio; Pietro cerca la sua liberazione tramite il gesto artistico, attraverso la
pittura, vivendo lo strazio e l'impotenza della gratuità sociale, della perdita del senso delle proprie
azioni, nella coscienza che un artista, un creatore, è qualcuno che "non vale niente, che è un essere
inferiore, un verme che si contorce e striscia per sopravvivere" ma continua a vivere e a dipingere,
incolpando il mondo del deserto in cui si trova; Lucia, donna rigorosamente monogama fino
all'arrivo dell'Ospite, percorre la strada della gratuità sessuale, del non senso delle relazioni
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affettive: prende a vivere una sequela di rapporti occasionali con giovani coetanei dell'Ospite,
cercando di rinnovare individualmente, senza uscire da se stessa, dalle proprie forze e
determinazioni, il miracolo della naturalezza sessuale che aveva vissuto; ma invano, e permeata da
una tristezza profonda. A parte Emilia, dunque, tutti gli altri hanno sostituito il mondo che hanno
abbandonato dopo la venuta dell'Ospite con il dilagare della propria individualità, facendosi mondo
essi stessi, senza affatto rinunciare alla propria identità, ma anzi eliminando tutto il resto; solo il
Padre, la cui "illuminazione" richiama, attraverso la citazione dell'autore, quella del tolstoiano Ivan
Iljic, che a partire da un incidente apparentemente insignificante vive il senso della propria morte,
percorre fino in fondo la strada della perdita della propria identità: sarà infatti lui a raggiungere quel
deserto di cui, di tanto in tanto, nel film si vedono inquietanti immagini tra una scena e l'altra. Come
un nuovo Francesco d'Assisi, nella Stazione Centrale di Milano egli si spoglia completamente nudo,
si districa dalla folla-società, dopodiché lo vediamo percorrere il deserto disperato, senza una
direzione, barcollante: ha rinunciato alla sua identità, ma, come egli stesso ha detto, questa è per lui
la morte civile, la nullificazione di sé. A lui si contrappone, con un montaggio alternato, la vicenda
di Emilia: essa percorre altrettanto fino in fondo la strada della perdita di sé, ma non avendo
un'identità borghese da salvaguardare il suo gesto sfocia in donazione totale di se stessa al mondo:
dopo un'estasi che l'ha portata a sollevarsi sui tetti delle case, liberata dalla costrizione del sé,
Emilia fa dono delle sue lacrime: si fa sotterrare viva, e rimette alla terra, rimbadianamente intesa
come carne e fonte della vita, le sue lacrime di amore e sofferenza, avendo rinunciato finanche
all'idea del ritorno dell'Ospite: è diventata lei stessa l'Ospite, ne ha incarnato il distacco dal mondo
delle concretezze. Accompagnato dalle note strazianti del Requiem mozartiano, l'uomo vaga nel
deserto, e, messosi di fronte alla propria nudità, si scioglie in un urlo di impotenza, un urlo fermo,
l'urlo della consapevolezza di non essere, l'urlo del nulla.
Per Teorema, presentato alla Mostra di Venezia nel 1968, piovvero su Pasolini critiche feroci sia da
parte della sinistra, che sostenne che si trattava di un film reazionario, oltre ad accusare Pasolini di
misticismo, sia dalla destra, che proclamò il suo disgusto per il modo in cui nel film si affrontava il
tema della sessualità.
La verità era che né la destra né la sinistra compresero allora, neppure marginalmente, gli intenti
dell’autore: rappresentare la totale e irrimediabile perdita di identità della borghesia nel momento
in cui essa (la borghesia) si avvia – dopo essere entrata in contatto con un “Altro”, del tutto estraneo
alle certezze prefabbricate, indelebili e indistruttibili dalla “ragione dominante” – a una presa di
coscienza che non può che svelare drammaticamente il “vuoto”, l’impotenza, la “non esistenza” che
costituiscono l’essenza stessa della borghesia. Una perdita d’identità, d’altronde, che non offre alla
borghesia alcun motivo di riscatto, ma che le crea intorno soltanto il “deserto”, il nulla.
“Lo sforzo espressivo di Pasolini è tutt’altro che irrazionalista, tutt’altro che reazionario o mistico”,
scrive il critico Serafino Murri. “Infatti, va a toccare le basi concettuali di una cultura che del
proprio mezzo, la ragione illuministica, aveva fatto la gabbia in cui imbalsamare definitivamente,
con tutto il carico di ingiustizia presente, la società nei suoi schemi irremovibili, nei suoi
antagonismi tutti interni ad essa.”
Teorema era nato come tragedia in versi, si era trasformato poi in un libro (romanzo / racconto)
molto frammentario che mantiene alcuni capitoli, o meglio “frammenti” in versi, per raggiungere
infine la forma della sceneggiatura cinematografica nella quale Pasolini riduce drasticamente la
presenza del “parlato”, cioè dei dialoghi o della narrazione per mezzo di una voce fuori campo,
riservando principalmente alle immagini, e secondariamente alla musica – qui incentrata su
citazioni dal Requiem di Mozart – la narrazione degli eventi e delle mutazioni dei propri personaggi.
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L’Ospite che giunge nella villa della famiglia borghese, e che determina in ciascuno dei componenti
di quella famiglia una crisi profonda, una totale perdita di identità, appunto, non ha qualità
sovrumane, tanto meno rappresenta un’allegoria divina come qualche commentatore ha voluto
sostenere. È semplicemente il suo essere “Altro” rispetto alla logica borghese su cui si fonda il
teorema dell’autoperpetuazione della borghesia stessa, che conduce alla perdita di identità tutti i
membri della suddetta famiglia, e all’irrecuperabile “deserto” che ne consegue. Secondo lo stesso
Pasolini, è proprio nel sovvertimento della logica che sorregge l’ideologia (o la totale assenza di
ideologia) della società borghese capitalistica che consiste l’unica possibilità di una rivoluzione.
Una notazione: Teorema (il libro) è stato per me il “primo incontro” con Pasolini scrittore e poeta:
un incontro che ha rappresentato una vera e propria “scossa” spirituale; un messaggio che ancora
oggi considero prezioso, se non fondante, per prendere coscienza dei problemi e degli squilibri
sociali e politici, che può fortemente “aiutare” a scoprire regioni e ragioni inesplorate dell’animo e
del pensiero umano.
MEDEA 1969/70
Siamo nella regione barbara della Colchide, nella città di Ea, dove si trova il vello d'oro. Qui sta per
avvenire un rito di fertilità della terra, un sacrificio umano alla presenza dei figli del re Eeta, un
uomo e una donna: quest'ultima, Medea, sacerdotessa di Ecate, dea della morte, presiede il
sacrificio. La vittima viene immolata, smembrata, e il suo sangue viene usato per fertilizzare la
terra. Nella bacinella che contiene il suo cuore, degli eletti andranno a bagnarsi le mani. La lunga
sequenza del sacrificio avviene nel silenzio, accompagnata solo da un canto funebre ancestrale.
Medea gira la ruota del sole in mezzo al campo, e pronuncia le uniche parole dell'episodio, con cui
chiarifica il senso del rito ciclico della vita: "Dà vita al seme, e rinasce il seme".
Giasone, ormai ventenne, torna nella città di Jolco e rivendica il trono a Pelia. Pelia gli promette di
concedergli il trono se Giasone riuscirà a conquistare il vello d'oro. Giasone, spavaldamente, accetta
la sfida, e si imbarca su una zattera, Argo, la prima nave della storia. Giasone e gli argonauti
approdano nella Colchide, e saccheggiano tutto quanto trovano sul cammino. A Ea c'è agitazione,
Medea prevede l'impresa, sogna il bel volto di Giasone prima che egli arrivi realmente nella città, e,
senza esitazione, decide il suo destino. Di notte si fa aiutare dal fratello a rubare il vello d'oro, poi
insieme a lui fugge su di un carro. Canti di catastrofe salgono nel giorno in città, alla notizia
dell'accaduto. Eeta raduna l'esercito nel tentativo di recuperare i figli e il vello. Il carro di Medea
raggiunge i cavalli di Giasone e gli argonauti. Medea, all'improvviso, uccide il fratello e si unisce a
Giasone, e con un gesto terribile d'amore e dedizione gli dona il vello. Poi, per fermare l'esercito di
Eeta che avanza, Medea sparge uno ad uno i pezzi del corpo del fratello per la strada, costringendo
Eeta a fermarsi per ricomporli.
Medea e Giasone raggiungono la zattera degli argonauti e tornano insieme veso Jolco. Ma Medea,
raggiunta di nuovo la terra, cade nel panico: non sente più la voce del sole e della terra, e mentre gli
argonauti, lontano, cantano, lei avverte il disastro del cambiamento. Ma Giasone giunge a prenderla
per mano, la porta nella sua tenda, e Medea si calma nell'atto d'amore. Giunto di nuovo a Jolco con
il vello, Giasone rivendica il regno. Pelia non mantiene la promessa, e Giasone, con sprezzo, punta
ad altre conquiste, ben più ambiziose del piccolo regno di Jolco. Medea è vestita dalle ancelle di
Jolco con i colori della nuova civiltà.
Sono passati dieci anni, Giasone e Medea vivono a Corinto, hanno avuto tre figli, ma Giasone ha da
poco abbandonato Medea per chiedere in sposa la giovanissima Glauce, figlia del re Creonte.
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Medea, umilata e lasciata sola con i suoi figli, soffre, e vuole vedere come sta Giasone senza di lei.
Giasone incontra il centauro, ormai sdoppiato: il centauro metà animale lascia al centauro-uomo il
compito di spiegare i sentimenti di amore che ancora, a sua detta, legano Giasone a Medea. Ma
Giasone non sa rendersene conto, e, sotto lo sguardo non visto di Medea, si diverte spensierato in
attesa delle nozze. Medea torna a casa, e si rende conto che dieci anni sono passati invano, di essere
rimasta "un vaso pieno di un sapere non mio". Medea sogna la Colchide, parla di nuovo con il sole,
e così giunge, per amore, alla recrudescenza dei gesti con cui era nato il suo amore per Giasone: si
vendicherà di lui donando a Glauce le sue antiche vesti, maledicendole. Queste vesti, portate in
dono alla sposa dai suoi figli, a contatto con il corpo, dovranno incendiare la pelle di Glauce. Le
immagini della vendetta passano sul volto piangente e silenzioso di Medea. Il sogno ha termine. Ora
ha inizio la realtà. Medea va a parlare col re di Corinto Creonte, che ha deciso di bandirla dalla città.
Non riesce a far altro che prolungare di un giorno la sua permanenza e quella dei suoi figli a
Corinto. Medea medita di vendicarsi su Giasone. Lo fa chiamare, e lo invoca di perdonarla prima
che lei lasci la città. Giasone, con un gesto di affermazione del suo possesso, fa per l'ultima volta
l'amore con Medea. Più tardi, mentre Giasone dorme, Medea richiama i suoi figli e gli affida le
vesti da donare a Glauce, strappando a Giasone la promessa di intercedere presso Creonte affinché
lasci vivere a Corinto i suoi figli. Giasone e i tre figli giungono alla reggia di Corinto. Glauce,
terrorizzata dal dono e dalla visione dell'antica vita del suo promesso sposo, corre fuori dal palazzo
e si suicida, seguita dal padre Creonte, anche lui impaurito e sconvolto dalla consapevolezza delle
arti magiche di Medea. Medea è a casa, serena. Chiama i figli uno ad uno, gli fa il bagno prima di
farli addormentare, e poi, con tenerezza materna, li uccide prima di metterli a letto. L'indomani,
prima di abbandonare Corinto, Medea appare tra le fiamme del sole, che, invocato, sta ormai
incendiando la città, con i corpi dei figli accanto a sé. Giasone, sconvolto, vorrebbe salutare
un'ultima volta i suoi figli, ma Medea, carica di odio, gli dice che "niente è più possibile ormai". Il
sole rosso sangue chiude, così come l'aveva aperta, la scena del film.
Tra maggio e agosto 1969 Pasolini girò, prevalentemente in Siria e in Turchia, Medea: era divenuto
un regista di punta del cinema italiano e ciò gli procurò critiche di connivenza con il potere, poiché
l’industria cinematografica rappresentava uno degli strumenti della omologazione di massa. Nel
corso di una trasmissione televisiva a uno studente che gli rivolgeva appunto tali accuse, Pasolini
rispose: “io strumentalizzo la produzione che c’è, la produzione che c’è strumentalizza me, vediamo
un po’, facciamo questo braccio di ferro, vedremo un po’ di chi sarà la vittoria finale”.
La partecipazione, nel ruolo di protagonista, di Maria Callas, presentata a Pasolini dal produttore
del film, Franco Rossellini, venne considerata un evento straordinario, anche perché la famosa
cantante lirica, dopo avere interpretato sulle scene dei teatri d’opera di tutto il mondo Medea,
l’opera di Luigi Cherubini, aveva già ricevuto offerte, sempre rifiutate, per una interpretazione
cinematografica del personaggio. Nacque tra Pasolini e la Callas una grande, affettuosissima
amicizia che continuerà anche dopo la lavorazione del film.
La Colchide, dove è ambientata la tragedia di Euripide da cui è tratta la Medea pasoliniana, è
ricreata dal regista in Turchia (Cappadocia). Tra gli altri luoghi teatro di riprese furono la Siria, la
piazza dei Miracoli di Pisa (a Pisa si gireranno le scene dentro e intorno al palazzo reale di Creonte
a Corinto), un isolotto della laguna di Grado. Nel modo seguente Pasolini descrive una scena di
Maria-Medea e, a seguire, parla della scelta della Callas quale protagonista del film:
“Nel fondo di una di queste vallette – sul greto del fiume – c’è intorno il grano e file di pioppi e
ulivi spinosi, argentei contro il rosa delle centinaia di cuspidi –cammina verso di me e si imprime
violentemente nella mia retina, una piccola folla assurda. Al centro c’è una figura femminile. Essa è
coperta fino all’altezza del seno da un velo bianco, pende un mazzo di collane dorate, grossissime,
che mandano un suono opaco, come i campanacci delle mandrie: penzolano, queste collane, su una
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“pazienza” azzurra listata d’argento – sembra vecchissima, di quelle conservate nelle teche dei
musei, che a toccarle, si direbbe che debbano andare in polvere. Sotto la pazienza cade una grande
sottana nera: che viene sostenuta per i lembi da due o tre persone, attente a tenerla alta fin sopra il
ginocchio della donna che l’indossa. Essa procede così come una regina non vista. Dietro di lei,
viene un altro gruppetto del seguito: e tra questo, la fedele cameriera, vestita di rosso e di verde, che
tiene per il guinzaglio i due magici cagnolini, innocenti come due insetti, due farfalline al loro
primo svolazzare qua e là; e insieme decrepiti, di una saggezza di re contadini. E dietro ancora, con
gli strumenti delle loro tecniche in mano, tutti gli altri…”
“ Ho pensato subito a Medea sapendo che il personaggio sarebbe stato lei. Delle volte scrivo la
sceneggiatura senza sapere chi sarà l’attore. In questo caso sapevo che sarebbe stata lei, e quindi ho
sempre calibrato la mia sceneggiatura in funzione della Callas. […] Cioè, questa barbarie che è
sprofondata dentro di lei, che viene fuori nei suoi occhi, nei suoi lineamenti, ma non si manifesta
direttamente, anzi, la superficie è quasi levigata, insomma i dieci anni passati a Corinto, sarebbero
un po’ la vita della Callas. Lei viene fuori da un mondo contadino, greco agrario, e poi si è educata
per una civiltà borghese. Quindi in un certo senso ho cercato di concentrare nel suo personaggio
quello che è lei, nella sua totalità complessa”.
In Medea coesistono come “fuori del tempo”, fuori del senso borghese della realtà, origine
barbarica e inizio della società storica; vi è narrato – in quasi totale assenza di “parlato” – il
dramma lacerante di Medea di fronte al rapporto irrisolto tra passato e presente, due epoche distinte,
due fasi della stessa civiltà.
Quanto Medea rappresenta la purezza del passato preborghese, tanto Giasone (l’uomo amato da
Medea), il capo degli Argonauti alla ricerca del vello d’oro, persegue situazioni sempre finalizzate
all’ottenimento del potere (appunto la conquista del vello d’oro; le progettate nozze con Glauce,
figlia di re Creonte, che faranno sì che lo stesso Giasone possa essee incoronato re di Corinto).
E ancora: Medea vive in simbiosi con la terra. Il suo amore per Giasone e per i propri figli non è un
sentimento rasserenante, ma un aspro conflitto tra ciò che sente e ciò che “è consentito” sentire, tra
quanto lei è e quanto diventa mutando identità. L’amore di Medea è totale, chiaro, violento: uccide i
figli perché si rende conto che sono frutto di un amore soltanto carnale, non sincero.
Giasone – che, come si è accennato, agisce solo in un rapporto di scambio con il potere – è l’eroe
freddo e pragmatico di una società nella quale ci si appropria razionalmente del mondo. Suo unico
obiettivo è l’arrivismo. In questo contesto, il suo “amore” è soltanto un calcolo dettato dalla
convenienza. Il suo e quello di Medea sono, come si vede, mondi del tutto inconciliabili.
Pasolini sintetizzò i contenuti di questa sua opera cinematografica in una intervista a Jean Duflot:*
“Ho riprodotto in Medea tutti i temi dei film precedenti. […] Quanto alla pièce di Euripide, mi sono
semplicemente limitato a trarne qualche citazione. […] Medea è il confronto dell’universo arcaico,
ieratico, clericale, con il mondo di Giasone, mondo invece razionale e pragmatico. Giasone è l’eroe
attuale (la mens momentanea) che non solo ha perso il senso metafisico, ma neppure si pone ancora
questioni del genere. È il “tecnico” abulico, la cui ricerca è esclusivamente intenta al successo. […]
Confrontato all’altra civiltà, alla razza dello “spirito”, fa scattare una tragedia spaventosa. L’intero
dramma poggia su questa reciproca contrapposizione di due “culture”, sull’irriducibilità reciproca di
due civiltà”.
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Duflot gli chiese ancora se la narrazione mitica racchiudesse implicazioni storiche attuali, come in
Edipo re, Il Vangelo secondo Matteo o Porcile.
“[…] potrebbe essere benissimo la storia di un popolo del Terzo Mondo, di un popolo africano, ad
esempio”, rispose Pasolini, “che vivesse la stessa catastrofe venendo a contatto con la civiltà
occidentale materialistica. Del resto, nell’irreligiosità, nell’assenza di ogni metafisica, Giasone
vedeva nel centauro un animale favoloso, pieno di poesia. Poi, man mano che passava il tempo, il
centauro è divenuto ragionatore e saggio, ed è finito col divenire un uomo uguale a Giasone. Alla
fine, i due centauri si sovrappongono, ma non per questo si aboliscono. Il superamento è
un’illusione. Nulla si perde”.
Oltre al gran numero di attori non professionisti, come di consueto presenti nei film di Pasolini, vi
sono in Medea le presenze, in ruoli principali, del saltatore olimpico Giovanni Gentile (Giasone), di
Massimo Girotti (Creonte), di Laurent Terzieff (il centauro). Elsa Morante, infine, collaborò con
Pier Paolo Pasolini alla scelta delle musiche: brani religiosi antichi dal Giappone, canti e danze
d’amore iraniani.
Dopo Medea Pasolini progettò un film su San Paolo, del quale Einaudi ha pubblicato nel 1977 la
sceneggiatura. Poiché però Medea non ottenne l’auspicato successo di pubblico (e quindi di
incassi), Pasolini non ebbe per tale progetto alcun finanziamento dai produttori e quindi il progetto
fu accantonato.
IL DECAMERON 1970/71
Con Decameron (1971), così come per gli altri due successivi film (I racconti di Canterbury e Il
fiore delle Mille e una notte) con i quali costituisce ciò che verrà poi definita la Trilogia della vita,
Pasolini si propose di esaltare i valori della corporeità e della vitalità sessuale.
"Decameron è un'opera che vuole essere completamente gioiosa, in maniera astratta." dichiarò il
regista. E aggiunse: "La gioia di vivere che c'era nel Boccaccio (anche nei racconti tragici) proviene
dall'ottimismo del Boccaccio. L'ottimismo del Boccaccio era un ottimismo storico. Cioè, nel
momento in cui lui viveva, esplodeva quella meravigliosa e grandiosa novità, che era la rivoluzione
borghese: cioè nasceva la borghesia. E, in quel momento, intorno al Boccaccio, la borghesia aveva
la grandezza, che avrebbe raggiunto solo in certi momenti, e in certi stadi, e in certe, diciamo così,
aree marginali della sua storia. […] Quindi il Boccaccio ha vissuto in questi momenti di esplosione,
di nascita, di inizio e di principio di una nuova era. E questo ottimismo suo, che è razionale e
logico (perché la ragione è il segno della borghesia), fa sì che l'opera del Boccaccio sia una grande
opera gioiosa.
Evidentemente, per me tutto questo non avviene. Io ho ritagliato un Boccaccio mio, particolare. Il
mio Boccaccio è infinitamente più popolare del Boccaccio reale. Il Boccaccio reale è popolare in un
senso molto più vasto di questa parola: la borghesia veniva lecitamente compresa nel popolare
allora (le istituzioni erano ancora feudali, erano ancora aristocratiche. Il potere era ancora un potere,
o metafisico nel Papa, o insomma era comunque un potere sacro). Dunque, la borghesia, in qualche
modo, era estremamente più vicina al popolo. […]
Quindi ho ritrovato quella gioia (che nel Boccaccio è giustificata ottimisticamente dal fatto che lui
viveva la nascita meravigliosa della borghesia) e l'ho, diciamo così, sostituita con quella innocente
gioia popolare, in un mondo che è ai limiti della storia, e in un certo senso fuori della storia."
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Il film riprende nove racconti di Giovanni Boccaccio, il grande poeta e narratore del Trecento, tra
cui due episodi-guida, quello di ser Ciappelletto (interpretato da Franco Citti: personaggio libertino
e immorale oltre che assassino, che in punto di morte si fa passare per santo) e quello dell'allievo di
Giotto, che è interpretato dallo stesso Pasolini: in chiave autobiografia il regista-attore sottolinea il
rapporto tra la vita, il sogno e l'arte (al termine del film, Pasolini-allievo di Giotto festeggerà con i
suoi lavoranti l'impresa compiuta, poi, guardando l'affresco – il suo film – dirà: "Perché realizzare
un'opera, quando è così bello sognarla soltanto?")
Un "intermezzo", per così dire, è rappresentato dal sogno allucinato, compiuto dall'allievo di GiottoPasolini e riprodotto nelle immagini cinematografiche a somiglianza di pitture trecentesche. Temi
del sogno sono il paradiso (con una bellissima Silvana Mangano che impersona la Madonna) e
l'inferno: le rappresentazioni dei "quadri" sono molto suggestive.
Nei dialoghi, che Pasolini reintroduce nel film dopo l'esperienza di Medea dove la vicenda era quasi
del tutto affidata all'espressività e alla gestualità dei personaggi, è utilizzato il dialetto napoletano.
"Ho scelto Napoli", dirà Pasolini, "perché è una sacca storica: i napoletani hanno deciso di restare
quello che erano e, così, di lasciarsi morire".
Cinque dei nove racconti sono "licenziosi"; l'erotismo vi ha cioè il sopravvento. Sono i seguenti:
Masetto da Lamporecchio, ortolano, si finge scemo e sordomuto per mettersi al servizio delle
monache del convento, tutte curiose di sperimentare le delizie che possono derivare dal giacere con
un uomo; Peronella si fa soddisfare da un giovane suo amante mentre incita lo stupido marito,
ignaro e contento, a pulire con cura l'interno di un orcio; Caterina, con la scusa della calura, dorme
sul balcone per poter ricevere la visita del suo innamorato e si prende poi teneramente cura
dell'"usignolo" del suo ragazzo; Gemmata viene posseduta, sotto gli occhi del marito, da don Gianni
che furbescamente mette in atto l'incantesimo di trasformarla in cavalla; Tingoccio torna dall'aldilà,
secondo il patto con Meuccio (restio ad avere rapporti con le donne, poiché ritiene che ciò lo
condanni all'inferno), assicurandolo che "lassù" far l'amore non è considerato peccato e che quindi,
se lo farà, meriterà il premio eterno.
Vi è inoltre, proprio all'inizio del film, la novella che narra la vicenda di Andreuccio da Perugia
(interpretato da Ninetto Davoli) venuto a Napoli a comprare cavalli. Viene derubato in un rione
malfamato da una giovane che, assicurandogli di essere una sua sorella, lo deruba dopo averlo fatto
cadere in un pozzo nero; dopodiché Andreuccio viene indotto da ladri sacrileghi a spogliare il
cadavere di un arcivescovo e recupera un rubino che lo risarcisce abbondantemente del danno
precedentemente subito. Un vecchio racconta poi un'altra storia ambientata in convento (e introduce
in tal modo la novella di Masetto).
Sulla sessualità e sui modi in cui Pasolini la rappresenta nel film, riporto quanto scrive il critico
Serafino Murri in Pier Paolo Pasolini, Editrice Il Castoro, Milano: "Quanto alla sessualità, la pietra
dello scandalo per i ben pensanti "tradizionali" dell'epoca, la naturale delicatezza con cui questa
gente rozza vive la dimensione corporale, l'adulterio, il raggiro, il puro appetito sessuale, vista oggi,
con gli occhi di un fine secolo in cui non si sa se sia più oscena la sessualizzazione della merce o
l'antica (ormai industriale) mercificazione del sesso, fa sorridere della sobria essenzialità di
Pasolini, il cui tormentoso rapporto con il sesso non valica neppure per un istante la dimensione
personale, per il quale le immagini non diventano mai mania elucubratoria di un gusto della
diversità alla quale siamo abituati da tanti più o meno dichiarati suoi epigoni di oggi. La ridda di
denunce (oltre ottanta) ricevute in tutte le città d'Italia, con l'accusa di pornografia (in un periodo in
cui peraltro comincia a prosperare il mercato del film a luci rosse), tra un sequestro e l'altro, non
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impediscono al film di diventare un vero e proprio successo commerciale e di vedersi attribuire
l'Orso d'argento al Festival di Berlino dell 971. Il linciaggio morale nei confronti del regista assume
toni macchiettistici, a tal punto da risultare, ormai, difficilmente credibile. L'unica cosa che non
viene perdonata al regista, da parte della "sua" sinistra (mentre i neofascisti lo accusano, nei loro
volantini, di essere un sostenitore dell'eversione "rossa"), è, dichiaratamente, l'"aver perso il senso
della realtà come di una realtà impegnativa e di una realtà che avanza, e che quindi bisogna aiutare
nel suo avanzare"".
Il commento musicale del film, che si richiama a melodie della tradizione napoletana, fu elaborato
dallo stesso Pasolini che si valse della collaborazione di Ennio Morricone.
Nei film di Pasolini, amici, parenti, ragazzi di borgata e intellettuali sono stati chiamati a sostenere
diversi ruoli. Anche in Decameron gli attori sono in gran parte non professionisti. L'indicazione del
regista era quella di "essere se stessi": il personaggio si sarebbe definito nel corso dell'incontro del
regista e del testo con un luogo e un corpo vivo.
Con Decameron Pasolini raggiunse per la prima volta un pubblico vasto ed eterogeneo. Il film
occupò i primi posti nelle graduatorie degli incassi, non solo in Italia.
LE MURA DI SANA'A 1970/71
Nel corso della lavorazione del Fiore delle Mille e una notte, alla fine delle riprese effettuate nello
Yemen, Pasolini girò il documentario Le mura di Sana’a, con il quale intese rivolgere un appello
all’Unesco per la salvaguardia dell’antica capitale yemenita.
Era l’ultima domenica che passavamo a Sana’a, capitale dello Yemen del Nord, disse Pasolini.
Avevo un po’ di pellicola avanzata dalle riprese del film. Teoricamente non avrei dovuto possedere
l’energia per mettermi a fare anche questo documentario; e neanche la forza fisica, che è il requisito
minimo. Invece energia e forza fisica mi son bastate, o perlomeno le ho fatte bastare. Ci tenevo
troppo a girare questo documento.
Si tratterà forse di una deformazione professionale, ma i problemi di Sana’a li sentivo come
problemi miei. La deturpazione che come una lebbra la sta invadendo, mi feriva come un dolore,
una rabbia, un senso di impotenza e nel tempo stesso un febbrile desiderio di far qualcosa, da cui
sono stato perentoriamente costretto a filmare Ma è chiaro che se volessi veramente ottenere
qualcosa, dovrei dedicare a questo scopo la mia intera vita. Son cose che qualche volta si pensano
ma poi non si fanno. Frustrazione terribile, ma consolata dal pensiero che ci sono persone che, in
realtà, per mestiere dovrebbero occuparsi di questi problemi e che dunque la responsabilità è dovuta
a loro
“Ma intanto ogni giorno che passa è un pezzo delle mura di Sana’a che crolla o vien nascosto da
una catapecchia ‘moderna’. È uno dei miei sogni occuparmi di salvare Sana’a ed altre città, i loro
centri storici: per questo sogno mi batterò, cercherò che intervenga l’Unesco.
Recentemente la Rai ha riproposto le suggestive immagini di questo documentario, tra le quali sono
grandemente apprezzabili soprattutto quelle che mostrano in infiniti dettagli i particolari dei palazzi
antichissimi della città (le forme e le decorazioni delle finestre e delle sovrastrutture poste in alto ai
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palazzi stessi che per qualche aspetto ricordano i “pizzi” delle decorazioni di alcune case veneziane
come per esempio della Ca’ d’Oro e le tinteggiature uniformi e “calde”, tutti simboli di una grande
ed evoluta cultura).
Notevole e commosso è il commento di Pasolini, che, utilizzando la sua stessa voce, si appella
all’Unesco perché protegga quelle bellezze, le conservi e le salvaguardi quali patrimonio storicoculturale dell’intera umanità.
I RACCONTI DI CANTERBURY
I racconti di Canterbury è il secondo film di quella che lo stesso regista definì la Trilogia della vita.
Il riferimento è, questa volta, alle novelle di Geoffrey Chaucer, del quale nel film Pasolini stesso
ricopre il ruolo.
Su alcuni aspetti relativi alle origini letterarie del film, il regista risponderà così in un’intervista: “I
racconti di Canterbury sono stati scritti quarant’anni dopo il Decameron ma i rapporti tra realismo
e dimensione fantastica sono gli stessi, solo Chaucer era più grossolano di Boccaccio; d’altra parte
era più moderno, poiché in Inghilterra esisteva già una borghesia, come più tardi nella Spagna di
Cervantes. Cioè esiste già una contraddizione: da un lato l’aspetto epico con gli eroi grossolani e
pieni di vitalità del Medioevo, dall’altro l’ironia e l’autoironia, fenomeni essenzialmente borghesi e
segni di cattiva coscienza”.
All’inizio del film, Chaucer/Pasolini si unisce idealmente ai molti pellegrini diretti all’Abbazia di
Canterbury; in seguito Pasolini rappresenterà il narratore che, all’interno di uno studio, penserà e
scriverà i racconti, non senza muti ammiccamenti ironici e maliziosi, costituendo di fatto il raccordo
tra una novella e l’altra.
I temi di Canterbury sono, come in Decameron, sesso, amore e morte, con un’accentuazione di
quest’ultimo rispetto alla trattazione operata in Decameron; in tutti gli episodi, infatti, viene
rappresentato un funerale, o un assassinio, o un condannato a morte, o un moribondo.
Pasolini affronta poi con grande ironia e senso del grottesco i temi della violenza esercitata dalla
ricchezza, e dell’immoralità del potere. La sgradevolezza dei personaggi dei ceti “alti” è messa in
particolare risalto da un trucco molto pesante, carico, volgare.
Nella gente comune (come al solito Pasolini utilizza attori non professionisti) si ritrovano la stessa
gestualità, le stesse espressioni e fisionomie di quelle presentate in Decameron.
La musica (curata da Ennio Morricone) si richiama a canzoni popolari inglesi medievali e
rinascimentali. Riappare la famosa canzone napoletana Fenesta ca lucive (già utilizzata in
Decameron) – che parla della morte improvvisa di una giovane donna – quasi a costituire un
ulteriore richiamo al tema della morte.
Una delle regole più rigorose, nei film di Pasolini, è quella di eseguire un doppiaggio integrale. “Il
doppiaggio”, diceva Pasolini, “deformando la voce, alterando le corrispondenze che legano il
timbro, le intonazioni, le inflessioni di una voce, a un viso, a un tipo di comportamento, conferisce
un sovrappiù di mistero al film. Con il fatto poi che molto spesso, se si vuole ottenere un rapporto
determinato tra suono e immagine, un rapporto di valori preciso, si è costretti a cambiare voce.
Detto questo, mi piace elaborare una voce, combinarla con tutti gli altri elementi di una fisionomia,
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di un comportamento… Amalgamare… Sempre la mia propensione per il pastiche, probabilmente!
E… il rifiuto del naturale.” L’edizione italiana dei Racconti di Canterbury fu doppiata in gran parte
a Bergamo con le voci di persone scelte nella città e dintorni.
Il tema sessuale, carnale, corporeo, occupa totalmente la scena: sarà uno degli elementi di
provocazione del film che verrà subito raccolto dai difensori di un ipocrita quanto diffuso senso
comune della morale e del pudore. Le denunce per pornografia e oscenità fioccheranno sul film fin
dalla sua apparizione nelle sale di proiezione italiane. In un convegno tenutosi a Bologna in quel
periodo sul tema “Erotismo, eversione, merce”, Pasolini fece un lungo intervento, nel quale tra
l’altro disse: “Perché io sono giunto all’esasperata libertà di rappresentazione di gesti e atti sessuali,
fino, appunto, come dicevo, alla rappresentazione in dettaglio e in primo piano, del sesso? Ho una
spiegazione che mi fa comodo e mi sembra giusta, ed è questa. In un momento di profonda crisi
culturale (gli ultimi anni Sessanta), che ha fatto (e fa) addirittura pensare alla fine della cultura – che
infatti si è ridotta, in concreto, allo scontro, a suo modo grandioso, di due sottoculture: quella della
borghesia e quella della contestazione ad essa – mi è sembrato che la sola realtà preservata fosse
quella del corpo […] Protagonista dei miei film è stata così la corporalità popolare. Non potevo – e
proprio per ragioni stilistiche – non giungere alle estreme conseguenze di questo assunto. Il simbolo
della realtà corporea è infatti il corpo nudo: e, in modo ancor più sintetico, il sesso […] I rapporti
sessuali mi sono fonte di ispirazione anche di per se stessi, perché in essi vedo un fascino
impareggiabile, e la loro importanza nella vita mi pare così alta, assoluta, da valer la pena di
dedicarci ben altro che un film. Tutto sommato il mio ultimo cinema è una confessione anche di
questo, sia detto chiaramente. E, siccome ogni confessione è anche una sfida, contenuta nel mio
cinema è anche una provocazione. Una provocazione su più fronti. Provocazione verso il pubblico
borghese e benpensante […] Provocazione verso i critici, i quali, rimuovendo dai miei film il sesso,
hanno rimosso il loro contenuto, e li hanno trovati dunque vuoti, non comprendendo che l’ideologia
c’era, eccome, ed era proprio lì, nel cazzo enorme sullo schermo, sopra le loro teste che non
volevano capire”.
Il film richiese nove settimane di riprese in Inghilterra e un lungo lavoro di montaggio e di
doppiaggio. “[…] era un periodo molto particolare, ero molto, molto, molto infelice, non ero adatto
per una trilogia nata all’insegna della spensieratezza, dello “stile medio”, del sogno e anche del
comico, per quanto astratto.”, dichiarò Pasolini. “E forse se non fossi stato così infelice, non mi
sarebbe venuto in mente di citare Chaplin così apertamente, con bastoncino e cappello.” Qui
Pasolini si riferisce al “racconto del cuoco”, interpretato da uno scatenato Ninetto Davoli che fa il
verso a Charlie Chaplin riproducendone alcune gag famose. Continua il regista: “Devo anche dire
che il mondo che ho trovato in Inghilterra, quando giravo Canterbury, era molto diverso; a Napoli e
nell’Oriente non avevo confini, potevo scatenare intorno a me questo linguaggio della terra, delle
cose, dei vulcani, delle palme, delle ortiche e soprattutto della gente. Invece in Inghilterra […] le
persone che sceglievo appartenevano a un mondo ormai storicizzato, borghese, e questa costrizione
pesava sul mio stato d’animo. È difficile parlare di un film come test di uno stato d’animo, ma
comunque ho un rapporto sempre molto passionale con i film che giro. Si tratta di veri e propri
amori”.
IL FIORE DELLE MILLE E UNA NOTTE
La scomparsa della Repressione, l’avvento dell’epoca della Tolleranza
Uno stralcio dal volume di Serafino Murri
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Il rapporto conflittuale di Pasolini con l’“uomo medio” resta intatto: tanto da far ricevere all’autore
del Fiore delle Mille e una notte, nel giugno del 1974, una denuncia per oscenità conseguente,
paradossalmente, alla proiezione unica di beneficenza del film, che il regista ha organizzato in
anteprima a Milano, con lo scopo di raccogliere fondi per realizzare un documentario a favore della
“riumanizzazione” della vita in quella città.
Quello che muta è il rapporto dì Pasolini con il Potere: è infatti quanto meno singolare che il
sostituto procuratore di Milano competente per il caso, Caizzi, riconosca lo statuto di “opera d’arte”
al film senza promuovere nessuna azione penale nei confronti del Fiore delle Mille e una notte. Che
cosa può essere così radicalmente mutato nella società italiana per spingerla, nel giro di qualche
anno, a considerare prodotto artistico ciò che prima era oggetto di scandalo e di censura? Di certo
non una palingenesi morale, né una crescita culturale e intellettuale della nazione: con la scomparsa
della Repressione, è l’avvento dell’epoca della Tolleranza.
Pasolini si accorge di questa generale tolleranza nei suoi confronti, la quale, lungi dall’essere il
frutto del riconoscimento di una validità intellettuale, e ancor meno atto di revoca della patente di
“diversità” che lo accompagna, è solo “una forma di condanna più raffinata”.
La strategia del Potere è cambiata, si è fatta più insinuante, diabolica. Somiglia al principio della
arti marziali giapponesi, per cui se l’avversario spinge, occorre non opporvisi, ma assecondarne il
movimento e tirarlo fino a fargli perdere l’equilibrio.
La falsa permissività tranquillizza tutti, neoconservatori (che possono fregiarsi di una illuminata
“modernità”) e progressisti (che possono andare fieri dei loro sfoghi, ammessi, pubblicati e
proiettati da coloro contro i quali sono indirizzati), e distrugge, in un solo colpo, qualsiasi dialettica
sociale, riducendo l’intervento politico a fatto di costume (quando non di folklore), considerabile
con gli stessi parametri di una partita di calcio o della concorrenza tra due marche di prosciutto.
A questo meccanismo di omologazione delle élites, che completa quello di assorbimento delle classi
subalterne, non sfugge neppure Pasolini, e lo sa bene. Infatti, il Pasolini “politico” è tormentato da
questa falsa dialettica dell’omologazione, che ha anche il potere di rendere a torto ottimistiche le
ipotesi riformiste dei “progressisti” e degli intellettuali illuminati; ma, a differenza di questi, riesce
ancora a vivere con semplicità la sfera della sua “diversità”, di quell’“abiezione” sessuale che non
può che dispensarlo dall’omologazione. Così, quella di Pasolini diventa la voce di un uomo solo
che, nel deserto della “sdrammatizzazione” generale, vive nella paura di “adattarsi alla
degradazione”, di “accettare l’inaccettabile”.
“Non si può immaginare fino a che punto fosse dolce Pier Paolo e quanta la sua capacità di
complicità, i suoi silenzi, perché era un uomo estremamente silenzioso, che parlava molto poco,
poteva stare delle ore senza dire una parola, però la sua presenza era sempre lì, non mancava mai
agli amici, la sua compagnia durante i viaggi (noi abbiamo fatto moltissimi viaggi insieme, in
Africa, per esempio), avevamo molte cose che ci accomunavano: per esempio, la curiosità sociale,
l’interesse e il desiderio di conoscere meglio e di frequentare il mondo di chi è impedito o
comunque di chi è privo degli strumenti della cultura e di chi addirittura è menomato da questo
punto di vista…” Questo un appunto di Dacia Maraini su Pasolini, con il quale collaborò, a partire
dal 1972, alla sceneggiatura del Fiore delle Mille e una notte.
Con Il fiore delle Mille e una notte Pasolini firma il capitolo più affascinante della Trilogia della
vita. “”Poi ho fatto questo gruppo che io chiamo ‘trilogia della vita’, cioè i film sulla fisicità umana
e sul sesso. Questi film sono abbastanza facili, e io li ho fatti per opporre al presente consumistico
un passato recentissimo dove il corpo umano e i rapporti umani erano ancora reali, benché arcaici,
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benché preistorici, benché rozzi, però tuttavia erano reali, e opponevano questa realtà all’irrealtà
della civiltà consumistica. Ma anche questi film sono stati in un certo senso superati, resi vecchi
dalla tolleranza della civiltà dei consumi”. Mentre si accinge a realizzare la parte più fortunata della
sua carriera cinematografica, [Pasolini] sente di aver raggiunto la maturità esistenziale e con essa la
conquista della leggerezza e dell’umorismo: diventando vecchi – dice – il futuro si accorcia, pesa di
meno. “Finalmente vivendo come gli uccelli del cielo e i gigli dei campi, cioè non occupandomi più
del domani mi godo un po’ di libertà e di vita (quest’ultima l’ho tutta molto goduta specie nel
campo erotico ma dissociandomi) […] Godere la vita (nel corpo) significa appunto godere una vita
che storicamente non c’è più: e il viverla è dunque reazionario. Io pronuncio da tanto tempo
posizioni reazionarie. E sto pensando a un saggio intitolato Come recuperare alla rivoluzione
alcune affermazioni reazionarie?””
Il fiore delle Mille e una notte è una sorta di affresco di un mondo, passato e presente – quel Terzo
Mondo verso il quale il regista, da qualche anno, si sentiva particolarmente affascinato e attratto –
attraversato da un grande senso di serenità e di sensualità mai presente prima, in questo modo, nei
film di Pasolini. Egli mette in scena, dunque, il suo sogno, la sua idealizzazione e mitizzazione del
Terzo Mondo. In tal modo, il sesso viene liberato dagli aspetti legati al reciproco possesso, alla
prevaricazione, al predominio. Vi è pienamente realizzata una libertà sessuale che è anche simbolo
di purezza dei sentimenti, che fa sì che il sesso non appaia mai né morboso né osceno, ma
rappresenti invece un dono reciproco, innocente e delicato, soprattutto libero da inibizioni e
sovrastrutture culturali.
Pasolini esprime, con Il fiore delle Mille e una notte, un cinema di “pura poesia delle immagini”,
riuscendo a trovare un sereno equilibrio tra alcune componenti essenziali già presenti nei suoi film
precedenti, particolarmente in Edipo re e in Medea: il richiamo prepotente alla sessualità e la
grandiosa maestosità dei paesaggi, ricchi di valenze pittoriche e di un acuto, sensibilissimo senso
artistico.
Il regista fa doppiare i suoi personaggi con marcati dialetti del Sud Italia che si adattano alla
perfezione ai volti straordinari delle persone del luogo che Pasolini sceglie, come sempre, “dalla
strada”. Ancora una volta, Ennio Morricone è il curatore delle musiche nel film.
L’Etiopia, la Persia, lo Yemen, l’India, il Nepal forniscono gli incredibili scenari, di antica bellezza,
al film e concorrono a descrivere un mondo di sogni e di emozioni che è anche la rappresentazione
dolce e fascinosa di ciò che per Pasolini è il Terzo Mondo.
Dirà del film il suo stesso autore: “Ogni racconto delle Mille e una notte comincia con una
“apparizione” del destino, che si manifesta attraverso un’anomalia. Ora, non c’è un’anomalia che
non ne produca un’altra. E così nasce una catena di anomalie. Più tale catena è logica, serrata,
essenziale, più il racconto delle Mille e una notte è bello (cioè vitale, esaltante). La catena delle
anomalie tende sempre a ritornare alla normalità.
La fine di ogni racconto delle Mille e una notte consiste in una “disparizione” del destino, che si
insacca nella felice sonnolenza della vita quotidiana. Ciò che mi ha ispirato dunque nel film è
vedere il Destino alacremente all’opera, intento a sfasare la realtà: non verso il surrealismo e la
magia (di ciò si hanno rare e essenziali tracce nel mio film), ma verso l’irragionevolezza rivelatrice
della vita, che solo se esaminata come “sogno” o “visione” appare come significativa.
Ho fatto perciò un film realistico, pieno di polvere e di facce povere. Ma ho fatto anche un film
visionario, in cui i personaggi sono “rapiti” e costretti a un’ansia conoscitiva involontaria, il cui
oggetto sono gli avvenimenti che gli accadono”.
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SALO' LE 120 GIORNATE DI SODOMA 1975
Il film segue la falsariga del romanzo del Marchese de Sade, attraverso la ripetizione infinita del
numero magico 4. Quattro "Signori", rappresentanti di tutti i Poteri, il Duca (quello nobiliare), il
Monsignore (quello ecclesiastico), Sua Eccellenza il Presidente della corte d'Appello (quello
giudiziario) e il Presidente Durcet (quello economico), si riuniscono in una villa assieme a quattro
Megere, ex meretrici, e a una schiera di giovani ragazzi e ragazze, catturati tra i figli dei partigiani,
o partigiani essi stessi, in una sontuosa e cadente villa, isolata dal mondo dal presidio dei soldati
Repubblichini e delle SS. Nella villa, per centoventi giorni, sarà vigente per tutti un regolamento
sottoscritto dai quattro Signori, con il quale essi sono autorizzati a disporre indiscriminatamente e
liberamente della vita delle loro giovani vittime, le quali dovranno tenere un comportamento di
assoluta obbedienza nei confronti dei Signori e delle loro regole. Ogni insubordinazione o pratica
religiosa, verrà punita con la morte.
Le giornate si svolgono attraverso una struttura infernale dantesca, che corrisponde alle quattro parti
(un Antinferno e tre Gironi), in cui è diviso il film. Le tre Megere, nella mansione di narratrici,
hanno il compito di raccontare le proprie perversioni sessuali nella cosiddetta Sala delle Orge, con
lo scopo di eccitare i Signori e contemporaneamente di "educare" i ragazzi alla soddisfazione dei
loro appetiti sessuali. Le narratrici sono accompagnate al pianoforte da una quarta donna, che ha il
compito di estetizzare ulteriormente il loro racconto crudo, pornografico e compiaciuto.
L'Antinferno mostra la sottoscrizione delle regole da parte dei quattro Signori, il loro patto di
sangue (ognuno sposa la figlia dell'altro), e la cattura dei giovani repubblichini di leva da parte delle
SS, e infine la caccia delle vittime da parte dei repubblichini. Le vittime vengono tradotte poi
nell'enorme villa, fuori Salò, selezionate e irregimentate dai Signori e dai loro orribili galoppini. I
giovani subalterni, maschi e femmine, si dividono così in quattro gruppi: le vittime, i soldati, i
collaborazionisti, la servitù.
Il primo girone è il Girone delle Manie. In esso, guidati dalla Signora Vaccari, i Signori esercitano
una serie di sevizie sui corpi nudi o vestiti degli adolescenti, aiutati e rinforzati dai fedeli
repubblichini. Tra le molte sevizie, primeggia quella di farli mangiare a quattro zampe, nudi, latranti
come dei cani, degli scampoli di cibo gettati in terra o nelle ciotole, quando alcuni di questi bocconi
di cibo sono riempiti, a sorpresa, di chiodi.
Il Girone della Merda, dalla denominazione fin troppo esplicita, sotto la guida della Signora Maggi,
si svolge tutto all'insegna dell'analità, o meglio, dell'oroanalità, dal momento in cui alle sempre più
fitte chiacchiere erudite dei signori (che citano a memoria Klossowski, Baudelaire, Proust e
Nietzsche) si aggiunge la scatofagia, coronamento metaforico del film, per cui tutti sono
letteralmente obbligati a cibarsi della propria merda, appositamente raccolta durante il giorno.
Il Girone del Sangue mostra l'apice delle efferatezze del film: qui i Signori, dopo aver costretto
ognuno dei ragazzi a trasformarsi in delatore nei confronti delle infrazioni altrui, prescelgono le
vittime designate allo strazio e accettano i peggiori come collaborazionisti. In seguito, in un'orgia
progressiva di torture, amputazioni, e varie uccisioni rituali, i Signori, aiutati dai loro vecchi e nuovi
collaboratori, si prodigano in balletti isterici e atti sessuali necrofili sulle vittime, portando
all'apoteosi il loro sentimento di disprezzo reciproco e del mondo.
Il film ha poi, non preannunciato, un Epilogo. Nel mezzo dell'immane carneficina, due giovanissimi
collaborazionisti, annoiati e assuefatti, cambiano canale alla radio d'epoca che trasmette i Carmina
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Burana di Orff, e improvvisano maldestramente, sulla canzonetta degli anni Quaranta Son tanto
triste, motivo conduttore del film, qualche passo di valzer, pronunciando questo dialogo: "Sai
ballare?" "No." "Dai, proviamo. Proviamo un po'..." "Come si chiama la tua ragazza?"
"Margherita."
VARIO
Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (e che in realtà è una serie di
golpes
istituitasi
a
sistema
di
protezione
del
potere).
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei
responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.
Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di golpes, sia i
neofascisti autori materiali delle prime stragi, sia, infine, gli "ignoti" autori materiali delle stragi più
recenti.
Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi opposte, fasi della tensione: una prima fase
anticomunista (Milano 1969), e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).
Io so i nomi del gruppo di potenti che, con l'aiuto della Cia (e in second'ordine dei colonnelli greci e
della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a
tamponare il 1968, e, in seguito, sempre con l'aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti
una
verginità
antifascista,
a
tamponare
il
disastro
del
referendum.
Io so i nomi di coloro che, tra una messa e l'altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la
protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l'organizzazione di un
potenziale colpo di Stato), a giovani neofascisti, anzi neonazisti (per creare in concreto la tensione
anticomunista) e infine ai criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome
(per
creare
la
successiva
tensione
antifascista).
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel
generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi
bruciavano), o a dei personaggi grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le
suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione,
come killers e sicari. Io so tutti questi nomi e so tutti questi fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di
cui
si
sono
resi
colpevoli.
Io
so.
Ma
non
ho
le
prove.
Non
ho
nemmeno
indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di
conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che
coordina fatti anche lontani, che rimette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero
coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e
il mistero. Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell'istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile
che il "progetto di romanzo" sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi
riferimenti
a
fatti
e
persone
reali
siano
inesatti.
Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e
romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il
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1968
non
è
poi
così
difficile...
Pier Paolo Pasolini
Appunti per un film sull'India
Alla Mostra del cinema di Venezia del 1968, insieme a Teorema, Pasolini presentò anche il
mediometraggio Appunti per un film sull'India, girato nel dicembre 1967. Naldini spiega nella sua
biografia pasoliniana (Pasolini, una vita, Einaudi 1989) che tali "appunti" si riferivano
sostanzialmente a un film da farsi "sulla storia di un maragià il quale, secondo una leggenda mitica
indiana, offre il proprio corpo alle tigri per sfamarle (questo, idealmente, prima della liberazione
dell'India); e, dopo la liberazione dell'India, sempre idealmente, la famiglia di questo maragià
scompare perché i suoi membri muoiono di fame ad uno ad uno durante una carestia". "Questa era
l'idea del film", spiegò Pasolini nel corso di una intervista. "Così sono andato in India a fare una
specie di inchiesta per verificare se questa idea era attendibile o no." Pasolini aveva in un primo
tempo progettato di realizzare un film sullo svilupparsi di una coscienza politica in alcune nazioni
del Terzo Mondo, alcune delle quali si erano affrancate dal colonialismo e stavano avviando forme
di gestione democratica. Per rappresentare poeticamente tutto ciò, il regista prevedeva di utilizzare
racconti che avessero le loro radici nella cultura locale e che risultassero omogenei grazie a ciò che
egli stesso definiva un "sentimento violentemente e magari anche velleitariamente, rivoluzionario:
così da fare del film stesso un'azione rivoluzionaria (non partitica, naturalmente, e assolutamente
libera fin quasi all'anarchia)". Pasolini presenta diversi progetti ad alcuni produttori: l'unica
possibilità di realizzazione gli si prospetta però grazie alla Rai, che gli propone di fare uno
"speciale" per TV7; e il regista sceglie, all'interno del suo progetto complessivo, di girare l'episodio
indiano. Pasolini effettua le riprese cinematografiche per le strade, principalmente nella città di
Bombay e nelle sue estreme, poverissime periferie, con la cinepresa in spalla, riprendendo gente
comune e dialogando con alcuni intellettuali indiani. L'intento del regista non è quello di realizzare
un documentario, anche se egli parla di "inchiesta", ma di verificare la propria concezione poetica
del film. E di ricercare inoltre i personaggi che interpreteranno l'episodio. Pasolini presenta a
persone di ogni estrazione sociale la propria idea di realizzazione della storia del marajà: di tali
persone egli ascolta e registra le opinioni, i commenti, i suggerimenti; e coglie, sui volti vecchi e
giovani di coloro che incontra, e nei gesti, nei sorrisi puri, nei quali traspare una grande quiete
interiore, una incredibile ricchezza di espressioni. Nel filmato sono numerose le immagini di
povertà e di morte: sulle riprese di un corteo funebre e di una cremazione il film si conclude con le
parole di Pasolini: "Un occidentale che va in India ha tutto, ma non dà niente. L'India, invece, non
ha nulla, in realtà dà tutto".
Appunti per un'Orestiade africana
Nel corso della lavorazione di Appunti per un film sull'India, Pasolini progettò di allargare il
discorso sui temi della religione e della fame e sui problemi dei paesi del Terzo Mondo girando
episodi che rappresentassero alcune realtà, come quelle dei paesi africani, dei paesi arabi,
dell'America Latina e dei ghetti neri nordamericani. In realtà, anche per difficoltà di produzione,
tale progetto si rivelò impossibile da realizzare. Rimasero ampi spezzoni di pellicola, gli Appunti
per un poema sul Terzo Mondo e la sceneggiatura de Il padre selvaggio, in seguito pubblicata da
Einaudi. Parlando di questa ipotesi di film sul Terzo mondo a Jean Duflot [Pier Paolo Pasolini. Il
sogno del centauro, Roma 1983], Pasolini precisò: "Questo è un progetto che non ho mai
abbandonato del tutto. Anzi, credo proprio di tenerci molto. In quale forma poi lo realizzerò ancora
non lo so bene. […] Quel film dovevo girarlo in diversi paesi del Terzo Mondo […] Era quindi una
sorta di documentario, di saggio. Non lo potevo concepire che in questa forma. Ma allora a chi lo
avrei destinato, se non alle poche élites politicizzate che si interessano ai problemi del Terzo
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Mondo? Per estendere questo pubblico prevedibile, avrei dovuto fare un film 'giornalistico'. È
difficile trattare un argomento del genere in tutta tranquillità, sia sul piano ideologico che politico.
Penso che ai marxisti ufficiali certe verità non sarebbero state del tutto gradite. Anche i contestatori
a loro volta vi avrebbero trovato materia di controversia". Se il film nella sua interezza non vedrà
mai la luce, Pasolini girò però per la televisione italiana un documentario di cinquantacinque
minuti, Appunti per un'Orestiada africana, del quale dirà Moravia: "[…] è uno dei più belli di
Pasolini. Mai convenzionale, mai pittoresco, il documentario ci mostra un'Africa autentica, per
niente esotica e perciò tanto più misteriosa del mistero proprio dell'esistenza, coi suoi vasti paesaggi
da preistoria, i suoi miseri villaggi abitati da un'umanità contadina e primitiva, le sue due o tre città
modernissime già industriali e proletarie. Pasolini 'sente' l'Africa nera con la stessa simpatia poetica
e originale con la quale a suo tempo ha sentito le borgate e il sottoproletariato romano".
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ARTICOLI
"Chiedo scusa a Pasolini"
Il pentimento di Andreotti
In uno dei suoi "scritti corsari" pubblicati sul Corriere della sera di Ottone tra il '73 e il '75, Pier
Paolo Pasolini chiedeva un "pubblico processo" per i "potenti democristiani". Fu un articolo
scandaloso per la furia iconoclasta e la lucidita' di pensiero che lo ispiravano. Ieri, nel giorno in cui
Giulio Andreotti riceveva dalla Procura di Palermo un avviso di garanzia per "attivita' mafiosa", tre
lanci di agenzie informavano che il senatore democristiano si sarebbe ricreduto sulle posizioni di
Pasolini, con cui aveva polemizzato aspramente nel '75 per quelle che giudicava estremistiche prese
di posizione contro il "palazzo". "Gli chiedo scusa ora per allora" scrive Andreotti in una nota che
sara' pubblicata sul secondo numero del mensile "lettere romane". E ricordando "per i piu' giovani"
l'articolo che scateno' la polemica, dal titolo "vuoto di potere", scrive che si trattava di un "elogio
funebre della Democrazia Cristiana e in genere degli uomini di potere , definiti 'maschere che a
sollevarle non si troverebbe neppure un mucchio d'ossa e di cenere'" Chiamato da Ottone a
rispondere alle accuse di Pasolini, Andreotti difese strenuamente le "conquiste" del dopoguerra, cio'
che diede l'opportunita' all'intellettuale friulano di distinguere, in un successivo articolo sul
Corriere, il concetto di " sviluppo" da quello di "progresso", e di sottolineare per la prima volta nella
storia italiana, col neocapitalismo, questi due concetti finivano per diversificarsi tragicamente.
"Seguii anche io - scrive oggi Andreotti - un sia pur diverso massimalismo. Forse a differenza dei
giovani che come tali non avevano conosciuto il sottosviluppo di prima, noi sentivamo l'orgoglio di
un'indubbia crescita economica collettiva. Ci scandalizzava lo scagliarsi di molti, in nome della
critica del consumismo, contro gli undici milioni di elettrodomestici entrati nelle famiglie. Io invece
ricordo le mani di mia madre spaccate per il bucato e vedevo le lavatrici come strumento di
redenzione familiare". Infine Andreotti, mostrandosi contrito per non aver condotto il dialogo
"approfondendo di piu' i valori culturali e morali dell'analisi pasoliniana", osserva che il poeta
friulano, "senza enunciarlo", ricordava a lui "che l'uomo non vive di solo pane". "Io ero forse
prosaicamente radicato alla convinzione che senza pane non si vive sicuramente", conclude
Andreotti, che pur "pentito" non sembra riuscire a cogliere tuttora, cosi', il senso del discorso
pasoliniano sui costi "antropologici", in termini di "omologazione culturale", dello sviluppo
neocapitalistico. Sarebbe stato importante, anche alla luce dell'avviso di garanzia da lui ricevuto
ieri, che Giulio Andreotti tornasse su un altro articolo di Pasolini, intitolato "Il romanzo delle stragi"
del 14 novembre 1974. Da quel giorno, in cui Pasolini - da intellettuale che "sa", perche'
"ristabilisce la logica la' dove regna l'arbitrarieta'" - rifletteva sul senso politico delle tragedie di
Piazza Fontana, Brescia e Bologna, l'elenco delle stragi, di diverso stampo, si e' allungato a
dismisura. Il "Romanzo delle stragi" si e' complicato e intorbidito ulteriormente. Ed e' ormai chiaro
che e' un capitolo di un romanzo piu' ampio su cui la "rivoluzione italiana" non ha fatto finora
alcuna chiarezza. Scriveva Pasolini a proposito delle stragi: "Io so i nomi di coloro che, tra una
messa e l'altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (.....),
a giovani neofascisti (.....) e infine a criminali comuni (......). Io so i nomi delle persone serie e
importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocita' fasciste e ai
malfattori comuni, siciliani o no, che sono messi a disposizione , come Killer e sicari". E
concludeva: "Probabilmente (.....) questi nomi prima o poi saranno 16/06/00 detti. Ma a dirli
saranno uomini che hanno condiviso con essi il potere: come minori responsabili contro maggiori
responsabili (....). Questo sarebbe in definitiva il vero colpo di Stato".
Deliri piccolo-borghesi e volonta' dantesca in fusione nell'opera
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Sorprende dalle riconsiderazioni che si son fatte della lirica pasoliniana in occasione dell'uscita di
Bestemmia, l'esigenza di circoscrivere, definire, il concetto di poesia. Che cos'e' la poesia? e' la
domanda sottesa o esplicita negli articoli di Giovanni Raboni, Franco Loi e chi altri. Fissati i paletti,
si puo' procedere da indicare se e quanto possa considerarsi poeta Pasolini. V'e', in questa urgenza,
la nostalgia di uno statuto, che infatti l'opera poetica di Pasolini, al contrario degli esercizi
"stilistici" della neo-avanguardia, mette in crisi alla radice. Non e' un caso, credo, che quasi tutte le
recensioni a Bestemmia abbiano glissato sulla prefazione di Giovanni Giudici: infatti nella sua
asciuttezza essa individua punti-chiave della poesia pasoliniana, tutti implicati nel problema epocale
della dissipazione. Poco importa, da questo punto di vista, che si consideri piu' o meno "riuscita"
l'infrazione pasoliniana: e' un ordine del ragionamente che fa parte di quel modo statutario e
formulare, cioe' consolatorio, di intendere la poesia, che Pasolini si senti' appunto costretto a
distruggere. Da questo ordine si puo' discettare sul concetto di "classico", su cui sempre Pasolini,
col suo operare poetico, ha detto una parola definitiva. Egli avrebbe disdegnato l'idea di diventare
"classico", non per paura della mummificazione, ma perche' si sarebbe sentito totalmente
incompreso nella sua "modernita'": vale a dire nell'idea, mostrata esistenzialmente quando non
propugnata, secondo cui la storia aveva passato l'ultimo cerchio di fuoco, oltre il quale doveva
considerarsi bruciata ogni riserva di memoria. In questo Dopostoria nessuna "classicita'" si sarebbe
potuta ristabilire, se non in forma parodistica. Dall'immersione nuova nella poesia pasoliniana di cui
si fa esperienza leggendo Bestemmia, che per la cura seria e amorevole di Graziella Chiarcossi e
Walter Siti la raccoglie integralemente (per la parte edita) e in molti campioni significativi (per
quella inedita), s'esce con un senso rigenerante e insieme amarissimo del tempo: questo per
negazione, perche' di continuo, dall'inizio alla fine, protagonista e' l'ossessione della circolarita'
stagionale, del tempo che ritorna e dunque non si da' come conquista illuminista e progressista. La
poesia piu' alta e' quella in cui questo sentimento si traduce piu' direttamente in immagini, e queste
immagini contendono la pagina a quel "ricordo mormorato" che e' la storia. Qui il grande manierista
di Poesia in forma di rosa, di "Israele" o de "L'alba meridionale", avvinto infatti in questa sua
stagione (1961-1964) dalla lascivia e dal rovello figuartivi di Pontormo e del Rosso. L'infrazione
linguistica a cui Pasolini si sente obbligato dal riconoscimento di un impossibile "ritorno all'ordine"
lo affaccia sul vuoto metrico, e dalla tensione che ne deriva non puo' che sortire esplosione
immaginaria. In questo ribollire atomico affiorano a tratti, come brandelli umani, i ricordi: che sono
le tracce, o meglio, le citazioni di una storia sognata, mitizzata, da cui non poca luce s'e' riflessa,
come in un processo divinatorio, sulla storia reale. Ricordi dell'elegia friulana o appeninica,
proiettata sulla Roma delle borgate, sono sommersi dal mare delle nuove laide urgenze. Se tutto
appare ancora integro, come Argo dinnanzi a Pilade, che vuole liberarla dal passato con la ragione
democratica e progressiva, tutto e' in realta' corrotto: col suo occhio "di pesce", magico, simile a
quello della sua Medea, Pasolini penetra nella corruzione, attraverso le porte finte della storia. E' in
Poesia in forma di rosa che per la prima volta con chiarezza si delinea il motivo di Petrolio: l'idea di
una fuoriuscita dalla letteratura verso un'esistenza corporea e palpitante, priva dell'esperienza
temporale, riflesso di un turbamento antropologico senza precedenti che e' pur sempre un libro.
Sara' un "delirio" enciclopedico, come l'ha definito acutamente Fortini a sottoporre la storia al
"giudizio finale", da cui non ci si puo' aspettare tuttavia, remissione alcuna. E di volonta'
enciclopedica scrive giusto Giudici a proposito dell'opera poetica di Pasolini laddove la si intenda,
come si deve, quale intero. Ma se il "delirio" di Fortini e' "piccolo-borghese", la volonta' di Giudici
e' "dantesca": pero' questa e' una distinzione che nell'oltranza pasoliniana non si comprende.
Contro l'omologazione
Il 2 novembre 1975 Pasolini veniva ucciso in circostanze che, per metterci la coscienza in pace,
chiameremo per ora "solo" drammatiche. L'11 aprile 1987 Prima Levi si gettava dalle scale della
sua abitazione. Suicida. Dicono che, negli ultimi tempi, la sua depressione fosse giunto al punto che
egli non riusciva piu' non solo a scrivere, ma neppure a leggere. Nella mia fantasia ritorno spesso a
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queste due morti, diversamente inquietanti. Non riesco a togliermi dalla mente che siano legate da
un comune senso tragico della storia, presagio possibile di un terribile futuro. Nella morte di
Pasolini colpi' la fantasia di chi seguiva la sua "disperata vitalita'" lo stretto rapporto esistente tra la
morale espressa nel suo ultimo film Salo' e quel che sappiamo della sua morte al Lido di Ostia: una
morte "annunciata" nel film, quasi cercata (dira' Pelosi, un giorno, tutta la verita'? O in cambio del
suo silenzio continuera' ad entrare e ad uscire dalle carceri italiane?) In Salo' Pasolini sostenne la
tesi secondo cui un sottile legame puo' unire, pur nel dramma, il carnefice con la vittima, entrambi
accomunati sadomasochisticamente nella comune azione. Una sorta di corto circuito tra oppressi e
oppressori, il cui esito e' l'impossibilita' di lottare. Una sorta di fascino che s'impone, coi connotati
della "collaborazione sociale", sulle contrapposizioni e i conflitti. Oppressi e oppressori omologati e
accomunati insieme: indistinti. Il fascismo porta all'omologazione e viceversa l'omologazione porta
al fascismo. Pasolini aggiungeva che l'omologazione in atto in Italia, necessaria perche' il paese
passasse dalla somma di culture nazionale, era caratterizzata da un forte violenza. Nella tradizione
italica stavano le distinzioni (e i dialetti), nel futuro del paese l'integrazione europea (e la lingua
italiana trionfante sui dialetti). Non cosi' pensava Primo Levi. Nel suo ultimo e splendido libro, I
sommersi e i salvati, ritornando sul tema oppressi-oppressori ha scritto pagine esaltanti nel
contestare la necessaria omologazione tra chi subisce e chi infierisce. Una allusione critica al film di
Liliana Cavani Portiere di notte ci toglie ogni sospetto sul suo pensiero, su questo punto. Ma,
sostiene Primo Levi, Auschwitz fu un fatto storico. Come tale puo' tornare. Questa tragedia, che per
la sua dimensione madornale, non puo' essere vissuta due volte, puo' ripresentarsi. E sebbene i
crimini di fronte ai quali ci troviamo ogni giorno (o quelli svelati tardivamente, perpetrati nel
silenzio e oggi riscoperti), non possono essere comparati con l'efferata, programmata, organizzata
brutalita' di quanto accadde nei campi di sterminio nazisti, pure la riflessione e' costretta a scendere
nel buio di dimensioni tragiche, che la nostra fantasia non sorregge. Alludo alla Cambogia, al
Vietnam, alle lotte tribali in Africa, ma anche nell'Armenia, al Kurdistan iracheno, ai cinquemila
morti, a mezzo yprite, del 27 marzo 1988 ad Halabja. L'omologazione riguarda anche l'indifferenza
con la quale l'opinione pubblica segue queste tragedie. Come quei polacchi che lavorano i loro
campi tutt'intorno ad Auschwitz (le cui agghiaccianti testimonianze sono analiticamente raccontate
nel documentario Sterminio), senza terrore, senza indignazione, senza scandalo, con assuefatta
sottomissione - come fossero ovvie! - le deportazioni e le morti, cosi' l'opinione pubblica
quotidianamente apprende dai televisori le tragedie attuali e cio' non crea fremiti di rabbia, o un
grande desiderio di trasformazione etico/politica. Si viene a sapere e si dimentica: si sa e non si sa
piu'. Nel tempo tecnico necessario a passare su un altro canale. Siamo in presenza di un immenso
processo di omologazione: quella legata all'assuefazione dell'orrendo, che ci fa complici dei
carnefici. L'orrido e' diventato ovvio. Di questo Levi lucidamente s'accorse prima di morire. E
allora perche' sopravvivere? Non si puo' essere testimoni due volte di crimini tanto atroci.
Chiamiamolo "depressione" - ma anche qui per metterci la coscienza in pace: senza convinzione - la
malattia che lo porto' a gettarsi dalla tromba delle scale della sua abitazione torinese. Le morti di
Pasolini e Levi ritornano spesso nella mia fantasia: e se un nuovo strisciante fascismo fosse gia' tra
di noi?
Due scheletri nell'immaginario
Quelle braccia indemoniate, quelle scure schiene, quel caos di verdi soldati e cavalli violetti, e
quella pura luce che tutto vela di toni di pulviscolo: ed e' bufera, e' strage". Fu Oreste Del Buono, in
un saggio su Piero della Francesca del 1967, a notare quanto "inappropriata" sia la descrizione che
Pasolini fa, nella Religione del mio tempo, dell'affresco aretino colla battaglia di Costantino e
Massenzio. Dov'e', in quelle parole, il mondo fermo, bloccato dalla sintesi prospettica del suo bagno
di luce sorgiva, di cui aveva scritto, nella monografia famosa su Piero, del '27, Roberto Longhi? Era
stato Longhi ad aprire gli occhi di Pasolini al mondo delle forme, responsabile, come questi ricorda
nella dedica di Mamma Roma, del sua "fulgurazione figurativa". Tradendo la visione "formalistica"
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del maestro, Pasolini sente il bisogno di inquinare con la passione, che e' movimento, e' vita, la
natura "trascendente" di Piero, l'"arcaica immobilita'" dei suoi affreschi aretini. Vede caos laddove
eterno s'e' imposto l'ordine, bufare e strage invece di soldati e cavalli cristallizzati nella piramide
ottica del pittore borghigiano. Che cosa lo spinge verso questa deriva? Longhi aveva si' restituito
alla storia, opponendosi all'accademia vasariana gli "eccentrici" del cinquecento, ruotanti attorno
alla fremente pittura emiliana di Amico Aspertini manierista ante litteram, ma mai privilegiato, se si
guardi a fondo, Pontormo e Rosso, seppure gli trovo' in Italia favolosi compagni spagnoli: Alonso
Beruguete, Pedro Machoca.... La ragione e' forse in una pagina del suo allievo prediletto Francesco
Arcangeli, il quale recensendo nel '46 il libro di Giuliano Briganti sul Manierismo e Pellegrino
Tibaldi s'era premurato, sottilmente, di distinguere tra Lotto-Gunewald e Pontormo-Rosso, tutti
pittori che l'altro aveva omologato all'insegna di un "sentimento irrequieto, solitario, inappagato".
Arcangeli vedeva si' nello spirito "anticlassico" di Rosso e Pontormo una "geniale rivolta", ma
"interna allo spirito stesso del classicismo" ignorato in piena liberta', invece da pittori come
Grunewald e Lotto. E se di questo si trattava, meglio allora, per Longhi, il classicismo per
antonomasia del giovane Raffaello, mai amato anch'esso, ma si' profondamente rispettato, e
compreso - come ricorda in un gran saggio Giovanni Romano -, col suo metodo "leopardiano di
maneggiar la forma prefigurata dai tempi", col suo "modo di vivere in calma dominazione di
circostanze". E l'urgenza, l'ossessione di forzare, snaturare, sfregiare un mondo cosi' misurato e
persuaso, coll'incapacita' nevrotica di uscire dal suo orizzonte, che attrasse, a un dipresso, Pasolini.
Nel 1961 Briganti diede alle stampe la maniera italiana, n libro-epoca che faceva tabula rasa del
manierismus e dei suoi vacui cantori internazionali: vi si assumevano integralmente le critiche di
Arcangeli, cosicche' Pontormo e Rosso contro l'idea spiritualistica dei tedeschi, i quali continuavano
a vedervi all'opera "l'eterno spirito gotico" sulla traccia del loro Friedlander, ci erano restituiti come
gli eroi dell'impotenza, cacciati indietro dal Moloch del classicismo, incapaci di nuove mete: del
tutto interni alla vicenda italiana, per quanto sensibili, in determinate fasi, agli influssi dureniani e
anche danubiani. E' nella pagine di Briganti, e nelle bellissime tavole che le illustravano in un
volume degli Editori Riuniti esemplare per l'editoria italiana, che Pasolini "scopri'" i due manieristi
fiorentini, riconosciuti subito come suoi fratelli. E' li' che si imbatte' in quella definizione famosa
"una disperata vitalita'", che Briganti aveva preso a prestito da Longhi, e sarebbe diventata il titolo
di uno dei poemetti della sua raccolta "manierista" dei primi anni sessanta Poesia in forma di rosa.
Una disperata vitalita': nulla di piu' moderno che questo, negli anni in cui l'Italia contadina era
messa a morte. Pasolini sapeva bene, infatti, che tra i carnefici c'era pure lui. Cosi' come non si
potranno considerare esenti da colpe, per l'instaurarsi dell'omologante dittatura manierista, sotto il
segno di Carlo V, gli "indemoniati" che a Santa Felicita, alla Certosa del Galluzzo, a San Lorenzo, a
San Francesco a Volterra s'erano illusi, giocando al massacro, di far pittura d'opposizione, per poi
finire preda dei propri deliri sulle muscolature michelangiolesche, come Pontormo o, come Rosso
Fiorentino, cortigiani del nuovo stile internazionale a Fointanebleau, dopo estetico girovagare:
destini tuttavia cosi' diversi da consigliare vivamente, ai giovani d'oggi, di lavorare a ricavarne due
specifiche costellazioni formali, contro l'idea novecentista della "coppia diabolica", sviluppando
magari di piu', sul versante Pontormo, il motivo naturalistico che dalla Cena in Emmaus degli
Uffizi, come un fiume carsico, percorrera' l'intero cinquecento fiorentino, per sboccare in fine
secolo nella pittura dei riformatori a cui guardera', sull'altra sponda del Mediterraneo, il Velazquez.
La "diperata vitalita'" che lo aveva spinto a contraffare la battaglia aretina di Piero, e da cui sortiva,
Poesia in forma in rosa, quel grido iconoclasta contro Giotto, sui cui "memorabili affreschi"
immaginava di spendere mani di calce, Pasolini la trovo' tradotta in figura nel "cinquecento nero" di
Pontormo e di Rosso. Che gli veniva incontro da fantasma, o scheletro, della modernita', portata
sulle spalle come una croce. Era una messinscena, e Pasolini lo sapeva, come quella che organizzo'
sul set del film sulla passione introno a cui, nella Ricotta, si svolge la passione "vera" di Stracci.
"Cristo nel nostro tempo". E c'era si' blasfemia nei tableaux vivants intrisi di puro colore con cui
citava le deposizioni di Pontormo e di Rosso. Lacerato dal suo status, che lo costringeva a dibattersi
tra passione e ideologia, Pasolini non poteva essere dalla parte di Stracci. Sapeva d'essere, come
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regista, tra la gente "bene" invitata ad assistere, dopo lo spuntino apparecchiato sotto i piedi di
Cristo, al ciak finale sulla crocefissione. Certo, era Stracci, con la faccia camusa che "Giotto vide
tra ruderi castrensi" e i "fianchi rotondi" impestati e chiaro-scurati da Masaccio, il suo eroe
antimoderno, ma il Regista, Orson Welles, che da antiche convinzioni marxiste s'era perso nel
cinismo e nell'estetismo, la sua condanna sociale. Cosi', per quanto giurasse sulla grande pittura
trecentesca, o sugli anonimi affreschi scrostati delle pievi appeniniche, la sua fantasia formale
s'infiammava alla lascivia anatomica e cromatica di Pontormo, all'immaginazione maligna e
sarcastica, del Rosso: "miscredenti" che alla prova della "riproducibilita'" si sarebbero dimostrati
ben labili, e consumati, contro la storia, nella grande masturbazione novecentesca che ne segui'.
Dalla quale, certo, fa parte anche Petrolio, dove Pontormo, piu' che Rosso, fa i suoi numeri, non
visto: liberandosi d'ogni riserva decandente, d'ogni remora "classicista", per approdare, qui si', ad
altre rive, di cui nulla si conosce. La blasfemia della Ricotta Pasolini s'illuse d'espiarla tornando al
Piero aretino, che nelle citazione del Vangelo, il film voluto in piena frontalita', restitui' fedelmente,
in immagini fermate nel fluire dei fotogrammi. Ma era pur sempre il polo di una dialettica bloccata,
la testimonianza appassionata di una tradizione divenuta ossessione. In morte di Pasolini
Con commossa unanimità di accenti, da destra e da sinistra, la stampa italiana piange Pier Paolo
Pasolini, l'intellettuale più scomodo che abbiamo avuto in questi anni. Diventato, anzi,
scomodissimo. Non piaceva a nessuno, quel che negli ultimi tempi andava scrivendo. Non a noi, la
sinistra, perché battagliava contro il 1968, le femministe, l'aborto e la disobbedienza. Non piaceva
alla destra perché queste sue sortite si accompagnavano a un'argomentazione sconcertante, per la
destra inutilizzabile, sospetta. Non piaceva soprattutto agli intellettuali; perché erano il contrario di
quel che in genere essi sono, cauti distillatori di parole e di posizioni, pacifici fruitori della
separazione fra "letteratura" e "vita", anche quelli cui il 1968 aveva dato cattiva coscienza. Solo di
essi, Sanguineti ha avuto, ieri, il coraggio di scrivere "finalmente ce lo siamo tolto dai piedi, questo
confusionario, residuo degli anni cinquanta". Gli anni cioè della lacerazione, apocalittici, tragici.
Finalmente, per l'intellettuale di sinistra, superati. Questa pressoché totale unanimità è certo la
seconda pesante macchina che passa sul corpo di Pasolini. Come della prima, chi ha la coscienza a
posto può dire: "se l'è cercata". Per chi non ha queste certezze è invece l'ultimo segno di
contraddizione, di questa contraddittoria creatura: una contraddizione vera, non ricomponibile in
qualche artificio dialettico. Giacché se una cosa è certa è che questo improvviso riconoscersi tutti
nelle sue ragioni, ora che è morto e in questo modo, è davvero l'ultimo sbeffeggiamento che gli
restituisce questo nostro mondo non amato. Non è, infatti, il tradizionale omaggio al defunto
illustre, e neppure la consueta assoluzione per il defunto in vita detestato. Se tutti scrivono sullo
stesso registro ("l'Unità", in un corsivo commosso, abbozza perfino un'autocritica, mentre il partito
radicale lo iscrive post mortem) è perché ognuno, dalle ragioni di Pasolini, pensa oggi di poter trarre
il profitto suo. Non diceva che i giovani sono, ormai, come una schiuma lasciata da una mareggiata
che ha distrutto i vecchi valori? che una collettività deve darsi un ordine, un sistema di convivenza,
un modello? Su questo sono d'accordo tutti, salvo dare ciascuno, a questo ordine e a questa
denuncia, il segno che più gli conviene. Pasolini, l'intellettuale più outsider della nostra società
culturale, fornisce con la sua indecorosa morte la prova ferrea che così non si può andare avanti.
Così comoda, che tutto il resto è perdonato. Penso che su questo fervore e i suoi corollari, Pasolini
avrebbe – se è lecito immaginare questo gesto in un uomo così dimessamente gentile – sputato
sopra. Che, se ne fosse uscito vivo, oggi sarebbe dalla parte del diciassettenne che lo ha ammazzato
di botte. Maledicendole, ma con lui. E così fino all'inevitabile, forse prevista e temuta, altra
occasione di morte. Ma con lui perché era il mondo, queste le creature della sua vita più vera ("io li
conosco questi giovani, davvero, sono parte di me, della mia vita diretta, privata") in cui cercava,
ostinatamente, una luce. In loro, non nel mondo d'ordine, che non sono solo i commissariati di
polizia. Qui tornava perché nella sua visione del mondo altre strade non c'erano. La sua denuncia
dello "sviluppo", dei valori del consumismo, del profitto, dell'appiattimento da essi indotto in una
società preindustriale dove ancora potevano prevalere i rapporti personali, non alienati, non
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passivamente accolti era – come in genere è in questo filone, che ha esponenti illustri, cattolici e
laici – unidimensionale come la società che criticava; era vissuta come fine della storia,
imbarbarimento, di fronte al quale soltanto cercar di arretrare. Arretrare, finché un rifiuto opposto a
questo tipo di "sviluppo" – e chi può opporvisi se non il margine, o un terzo mondo non ancora
arrivato a questa soglia? – non avrebbe offerto un'ancora di salvezza. Altrove, salvezze non vedeva,
per questo Pasolini tornava, ostinatamente, in borgata e più gli sfuggiva, più vi tornava
tormentosamente. Tanto più che in tutti i sensi doveva presentarglisi come una frustrazione, una
contraddizione. Cercava un rapporto autentico, e non tesseva, invece, un rapporto mercificato?
cercava un rapporto libero e non ripeteva lui stesso – l'intellettuale ricco che arriva con l'Alfa e paga
il ragazzo davanti a lui, socialmente e personalmente tanto più fragile – un rapporto fra oppressore e
oppresso? né l'umiliazione che ne doveva ricevere in cambio (quante prove, meno tragicamente
finite, di questa sua morte deve aver vissuto; l'irrisione del compagno occasionale, il rifiuto, la
resistenza di chi si fa usare ma si sente usato, e quindi si ribella) poteva assolverlo dal fatto che
entrava egli stesso in questo meccanismo alienante.Nel quale l'interlocutore diventava sempre più
sfuggente, più "oggetto". Diverso da un tempo, quando il ragazzo veniva con lui ma mantenendo
una sua figura, una sua dimensione non integrata, non asservibile, come il Tommaso di Una vita
violenta. Oggi non era più così: il ragazzo che lo ha ucciso ha poco in comune col borgataro d'un
tempo. Dovrebbe esser rilasciato domani, ai sensi dei valori che reggono questa società (oltre che di
un'umanità elementare) perché non è da dubitare della testimonianza della sua borgata, e cioè che
non aveva gran voglia di lavorare – e chi ce l'ha – ma era pronto e prossimo a rientrare nell'ordine
della famiglia, solo provvisoriamente e venalmente violato. Nulla, in questa storia, è davvero uguale
a quel che sembra. Non il ricco vizioso che cerca amori nascosti fra gli emarginati, giacché nessuno
come Pasolini viveva più semplicemente la sua inclinazione omosessuale e avrebbe potuto
soddisfarla, in una società ormai più permissiva, senza rischi di sorta. Non il giovane vizioso, che
non c'è: né come vizioso, né come delinquente, e neppure come volontariamente deviante, ribelle
alla norma. Morte accidentale nell'inseguimento di un fantasma, si potrebbe dire. Con soddisfazione
per i più, con amarezza per chi di Pasolini aveva stima e rispetto. E funerali, adesso, con assunzione
in gloria da parte di chi, quel fantasma, ha prima costruito e poi esorcizzato. Se Pasolini è oggi così
lodato, se probabilmente in buona fede tanti si riconoscono in metà del discorso che lui faceva, è
perché l'altra metà per lui essenziale, quella in cui riponeva la sua speranza, non aveva fondamento.
Quante discussioni, le poche volte che lo incontravo, e sempre le stesse; le stesse che ripeteva
puntualmente con Moravia. È vero che il capitale ci ha disumanizzato. È vero. È vero che la
conformizzazione al suo modello è mostruosa. È vero che essa è così potente, da riflettersi persino
in chi la nega; nel 1968, quando scrisse la famosa poesia sugli scontri di Valle Giulia, Pasolini
vedeva nello studente il prodotto d'un ceto che può perfino "provare" la rivoluzione, cosa che al
poliziotto, figlio di bracciante meridionale, non è permessa; e coglieva una parte di verità. È vero
che oggi, e non ieri, si può parlare di aborto, e non solo perché è maturato il movimento femminista,
ma la società maschile pensa a "economizzarsi". È vero che scuola dell'obbligo e Tv sono organismi
del consenso. È vero che il fascista non è così diverso dal democratico, nei suoi modelli culturali,
come era nel 1922. Vero tutto, e tutto parziale: perché ogni volta che Pasolini toccava con mano
queste scomode verità, l'ambiguità del presente, faceva seguire un salto indietro, verso l'umanità
non ambigua di "prima", invece che cogliere nello studente, nel femminismo, nella scolarizzazione,
nella stessa conformizzazione, il principio d'una sicuramente spuria, ma vitale via d'uscita in avanti.
L'idea che questo itinerario si dovesse compiere fino in fondo e di qui ritrovare il filo d'un mondo
restituito all'umanità, era in lui sempre più lontana. Avrebbe potuto essere uno scettico, diventava,
in senso classico, un "reazionario". E questo oggi viene sfruttato, questa è la seconda macchina che
passa sul suo corpo. Giacché del valore dirompente, violento, di questa sua "reazione" nulla resta,
nella elegia delle prime, seconde e terze pagine che gli sono dedicate. Avrà un funerale borghese, e
fra qualche tempo il comune di Roma gli dedicherà una strada. Lo ammazzeranno meglio, i suoi
veri nemici, che non il ragazzo dell'altra sera. Nel quale, prima di perire, deve aver visto soltanto la
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via senza uscite in cui s'era cacciato, la dimensione del suo errore. E pensare che cercava l'angelo
della passione secondo Matteo.
Pasolini e piazza Fontana
E' uscito in questi giorni, benvenuto, I dialoghi di Pier Paolo Pasolini, prefatto e curato da Giovanni
Falaschi per gli Editori riuniti (pag 803). Il volume raccoglie i testi scritti da Pasolini per le rubriche
"Dialoghi con Pasolini" su "Vie Nuove" (dal 28 maggio 1960 al 30 settembre 1965) e "Il caos" su
"Tempo" settimanale (dal 6 agosto 1968 al 24 gennaio 1970). Una scelta dei testi per "Vie Nuove"
era stata pubblicata, col titolo Le belle bandiere, nel 1977. Col titolo Il caos era invece uscita, nel
1979, una scelta di testi scritti per "Tempo". In entrambi i casi a cura di Giancarlo Ferretti per gli
Editori Riuniti. La novita' nel nuovo volume e' l'integrazione dei testi esclusi in quelle antologie: la
possibilita' di valutare, dunque, nella sua interezza il fitto dialogho su problemi di attualita' che
Pasolini ebbe, in maniera diretta o indiretta, con un pubblico di lettori (in maggioranza comunisti)
nel corso degli anni 60, dove si possono individuare, in nuce, i moventi politico-culturali di quella
che sara', negli anni 70, la sua polemica "corsara" ("l'apprendistato del corsaro" e' il titolo della
nuova prefazione di Ferretti). Nell'immediatezza del rapporto epistolare con persone in carne e ossa,
che esprimono i loro dubbi e le loro certezze, che si affidano al loro interlocutore oppure lo
incalzano, a volte affettuosamente, a volte offensivamente, si ritrovano, nella loro evidenza, tutti i
passaggi critici della societa' italiano del decennio che segno la "mutazione antropologica". Nel
rispondere, Pasolini e' maieutico come nel documentario reportage di quegli anni Comizi d'amore, e
insieme elementare; forse, ha giustamente notato Luigi Balducci sul Corriere della sera a proposito
della rubrica su Vie Nuove (siamo alla prima meta' degli anni sessanta) tende, piu' che in altri
contesti, a sentirsi parte di un progetto politico culturale comunista: salvo a tradire, a momenti, la
sua fondamentale eresia. Pubblicheremo quanto prima la recensione ai dialoghi. Intanto dedichiamo
questa pagina a una polemica che il volume ha suscitato. Franco Fortini prende spunto
dall'esclusione di due testi pasoliniani dal volume antologico Il caos del 1979 - esclusione operata, a
suo dire, intenzionalmentedal curatore Gian Carlo Ferretti - per stigmatizzare la presunta
incomprensione , da parte di Pasolini, della strage di Piazza Fontana e in generale del '68 e dei
movimenti extraparlamentari, la sua ripugnanza verso il "sottofondo culturale" rappresentato da
Pietro Valpreda, e il suo sostanziale allineamente, a questo proposito, con le posizioni ufficiali del
PCI; e insieme polemizzare con l'immagine parziale che il PCI avrebbe voluto dare di questo
Pasolini dopo la sua morte, di cui sarebbe un esempio la presunto censura di Ferretti. Gian Carlo
Ferretti, al quale abbiamo chiesto una risposta, sostiene, citazioni alla mano, che e' preconcetto e
offensivo schiacciare l'immagine di Pasolini sul PCI dei primi anni '70, cosi' come considerarlo
nemico tout court del '68 e dei movimenti extraparlamentari.
Pasolini poeta offeso
Pier Paolo Pasolini "poete d'opposizione", come recita il titolo della manifestazione romana che lo
celebra a vent'anni dalla morte? nel documentario Comizi d'amore, a Pasolini che gli chiede che
cosa sia per lui l'anormalita' sessuale, Giuseppe Ungaretti risponde: e' improprio rivolgere questa
domanda a un poeta, il quale per sua natura non conosce norma dunque neanche infrazione della
norma. Un poeta non puo' essere "d'opposizione". Alberto Moravia, colui che meglio ha colto il
carattere civile, in senso dantesco, della poesia pasoliniana, il 2 novembre '75, nello smarrimento
per l'assassinio all'idroscalo aveva perso "un suo grande poeta". Non si tratta di difendere
cronicamente il sacro recinto della poesia assediato dalla realta'. Ma di cogliere uno snaturamento
che l'industria culturale italiana ha fatto di Pasolini, a suo uso e a nostro consumo. Esso consiste
nella politicizzazione integrale dell'opera sua. Questo snaturamento ha favorito l'affermarsi
dell'immagine di Pasolini come Tiresia del tempo nostro, grande preveggente dei torbidi italiani che
sarebbero emersi in piena luce non tangentopoli. E' davvero poetica, per contrasto, l'immagine del
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vero Tiresia, che lui volle per l'Edipo re nelle scarne fattezze di Julian Beck: il quale vedeva cose
che non si possono dire, impossibili da comprendere nell'universo della politica. In questo universo
e' stato invece imprigionato Pasolini, per essere smembrato e servito fumante a un grande banchetto
post-moderno. L'ultimo esempio e' di ieri: un ennesimo imbarazzante tentativo di annetterlo al
pensiero fascista, firmato dall'ideologo della "nuova destra" Marcello Veneziani, ospite per una
cosiddetta "provocazione giornalistica" sulle pagine di Repubblica. d'altro canto notevoli detrattori
del Pasolini politico, come Alberto Asor Rosa quando contestava la congruenza d'una discussione
sulla modernita' a partire dai presupposti pasoliniani, si sono messi al passo: e hanno cominciato a
usare la sua prospettiva apocalittica in chiave politica. Ricordo un infervorato dibattito nei primi
anni ottanta a Castel Sant'Angelo in cui si stentava, da giovanissimi, ad accettare le sferzate di Asor
Rosa contro i concetti "apolitici" di Palazzo e Omologazione, difesi invece da Pietro Ingrao. Solo
Franco Fortini, forse - e del tutto a parte Alberto Arbasino, la cui cinica umanissimo disinvoltura
ancora in questi giorni ha profuso parole di disincanto, tra acido e amaro - ha tenuto duro fino alla
fine: conservando bene in luce l'origine narcisistica, cioe' poetica, delle incursioni politiche di
Pasolini: additando in esse il frutto di un vitalismo che finiva per portare al centro della scena il
Corpo del Poeta, straziato e adorato, a scapito della realta' che la sua parola intendeva redimere.
Pasolini amava troppo voracemente la realta' per conservarla intatta al giudizio politico: come il
centauro Chirone all'inzio della sua Medea vedeva "tutto santo", niente di "naturale" ma tutto
"miracoloso". La realta' era la sua ostia quotidiana. La stessa contraddizione di passione e ideologia,
che dopo la guerra sentiva dal corpo a corpo con la figura di Gramsci, era apriori risolta nella
poetica accettazione di una realta' mitica, indivisa: "il paese di temporali e primule". L'Appennino
"dove azzurri gli ,,,,,,,,,,,,,,,,,,,, dormono". Il Testaccio nell'aria "impura" di maggio, il perso
oriente... E mitica e indivisa sarebbe risultata poi, con l'omologazione e i suoi mostri, nel segno
freddo di Salo'-Sade. Un mito buono si rovesciava, come seguendo l'ordine dei cicli stagionali, in
un mito cattivo. Naturalment non v'e' costruzione di miti laddove non lo richieda la realta', e assai
ne richiedeva l'atroce sviluppo italiano. Ma essi non possono essere confusi con la realta', com'e' nel
consumistico appiattimento politico che s'e' fatto dell'opera pasoliniana. Solo tenendoli separati, i
miti pasoliniani possono illuminare la nostra realta', darsi come struemento energico di
comprensione politica. Oggi un paese civile dovrebbe limitarsi a ricordare un suo poeta. Un poeta
che non si e' espresso soltanto in forme disparate di poesia, ma finanche in politica. Che nella
trasformazione del "popolo gramsciano" in "massa neo-capitalistica" avvertiva la poesia in pericolo
- da tardo francofortese, come ancora suggerisce Fortini. Studio' disperatamente il modo di
conservare alla poesia una voce in capitolo: a rischio e con l'ebbrezza di snaturarla, fino a renderne
irriconoscibili le forme: e lui di mascherarsi da grande opinionista politico. Si dovrebbero riportare
gli Scritti corsari o le Lettere luterane alle proprie ragioni prime: leggerli come opere di poesia. Solo
cosi' sara' possibile comporre le spoglie di Pasolini, che vagano inquiete tra le pagine dei rotocalchi
d'opinione: dare loro una cristiana sepolura.
Pasolini, il "teatro di Parola" contra la chiacchiera e l'urlo
In un'intervista concessa alla Stampa mercoledi' 5 maggio (1993 n.d.a.) Luca Ronconi, nel
presentare i suoi tre spettacoli pasoliniani - Affabulazione, Pilade e Calderon -, ha ridotto il discorso
di Pasolini contenuto nel famoso Manifesto per un nuovo teatro, uscito su "Nuovi Argomenti" nel
gennaio-marzo del '68, all'idea di un "teatro declamato" contrapposto al teatro "diretto", il teatroteatro. Parlando della "diffidenza" di Pasolini per i "teatranti", Ronconi dice che "era quella di tutti i
letterati, per i quali il teatro era fatto letterario e, al massimo, tolleravano un genere di
rappresentazione degradata, volutamente miserabile sul piano estetico". Cosi' sembrerebbe che la
polemica di Pasolini contro il "teatro della chiacchiera" (definizione mutuata da Moravia), cioe' il
teatro borghese, e contro il "teatro del Gesto o dell'Urlo", il teatro antiborghese, fosse il frutto di una
repulsa a priori e corporativa per il teatro, e non, invece di un ragionamento su di esso, in una
specifica situazione storica. Oggi che Pasolini torna ad essere rappresentato e' forse utile ricordare i
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termini di quel ragionamento. Per dedurne, magari, una sua totale inattualita' a venticinque anni di
distanza, in una situazione in cui almeno uno dei bersagli polemici di Pasolini - il teatro
underground - e' venuto meno, integrato, con risultati anche alti, nel teatro dell'establishment (come
previsto da lui), il mondo dei mass-media (cinema e televisione), che per Pasolini si era sostituito
come "rito sociale" al teatro, si e' espanso a dismisura, e la "classe" intellettuale marxista su cui
Pasolini fondava la sua nuova idea di teatro non esiste piu'. Pasolini riteneva che con Bertolt Brecht
e la sua teoria dello straniamento si fosse consumata l'ultima possibilita' per il teatro borghese, di
rinnovarsi all'interno. Che fosse necessario fare un'opera di demistificazione attraverso la quale
sarebbe stato che il teatro in quanto teatro si fondava ormai sul nulla. Esso, sia nella sua accezione
borghese che antiborghese, non esisteva piu' in quanto prodotto organico di un contesto sociale, ma
come frutto di un mistico atto di volonta' "il teatro e' il teatro": soltanto in termini tautologici il
senso comune riusciva a spiegare che cosa fosse il teatro. Se per opporsi alla chiacchiera del teatro
ufficiale i gruppi che si riunivano nelle cantine (tra cui non mancavano oggetti di ammirazione per
Pasolini, come lo "stupendo" Living Theatre, Grotowsky e il "caso straordinario" di Carmelo Bene
intendevano recuperare, attraverso la disarticolazione del linguaggio e soprattutto la presenza
ossessiva del corpo, le radici orgiastiche, propiziatorie, magiche, dionisiache, in una parola religiose
del teatro, espunte dalla tradizione borghese, che a partire da Shakespeare e Calderon fonda il teatro
come "rito sociale", ebbene, questo tentativo era destinato al fallimento: non potendo recuperare
organicamente le sue radici religiose, il "teatro del gesto o dell'urlo" finiva, intellettualisticamente,
per affermarsi in quanto "rito teatrale": la sua religione era il teatro. In questo, Pasolini non si
differenziava dal teatro borghese, il quale, privo ormai della sua funzione sociale, che non fosse
un'epigonale e deprimente "chiacchiera" mondana promossa "dallo spirito conservatore borghese",
spiegava "la sua presenza e la sua prestazione (cosi' poco richiesta) come un atto mistico: una messa
teatrale, in cui il teatro appare in una luce cosi' abbagliante da accecare completamente". Se l'attore
tradizionale, nel recitare, "sente vagamente di non partecipare piu' a un avvenimento sociale,
trionfante e del tutto giustificato", reagisce alla sua disperazione con una falsa coscienza,
"intransigente, demagogica, e quasi terroristica", della "verita'" del teatro. Contro il teatro borghese
e antiborghese, due facce dunque di una stessa medaglia, Pasolini teorizzo' il "teatro di Parola" cosi' come, polemicamente verso l'industria cinematografica aveva inventato il "cinema di poesia".
Il "teatro di Parola" si proponeva di rinunciare all'intero apparato del teatro "naturalistico" scenografie, costumi, musiche, azione scenica - per rimettere al centro come cuore pulsante la
parola, ormai elusa nella chiacchiera o nell'urlo. Pasolini non nascondeva di rifarsi esplicitamente
"con candore neofitico", alla tragedia greca, "il teatro della democrazia ateniese", eclissando l'intera
tradizione del teatro borghese. E' un momento, la seconda meta' degli anni 60, in cui assai
problematicamente si pone per lui, nel cinema, il problema del "destinatario". Al "popolo" subentra
la "massa", un indistinto pubblico piccolo-borghese contro il quale realizzera', nel '68 e nel '69, i
suoi film piu' esclusivi, piu' complessi, "d'avanguardia": Teorema e Porcile. Il pubblico teatrale, per
quanto infiltrato da questa modificazione "antropologica", che in ultima analisi rende insensato il
teatro nella sua accenzione borghese, come "rito sociale", e' ancora un pubblico borghese
tradizionale, da riconoscere con la "chiacchiera" o scandalizzare con "l'urlo". Il "teatro di parola"
rinuncia a questo destinatario: il suo pubblico e' costituito dai gruppi avanzati della borghesia - gli
intellettuali - e attraverso di essi, marxisticamente, alla classe operaia. Per la quale Pasolini rievoca
nel suo Manifesto, contro "un operaismo dogmatico, stalinista, togliattiano", "la grande illusione di
majakovsky, di Essenin". Ma che cos'e' il "teatro di Parola"? E' una rappresentazione che a partire
dal "rito politico" della tragedia greca - ormai irrecuperabile storicamente - si propone come "rito
culturale". Il suo "spazio teatrale" non e' nell'ambiente ma nella testa. Infatti i reali personaggi di
questo
teatro
sono
le
idee.
Il rapporto tra autore e spettatori che appartengono alla stessa "classe" intellettuale, e' piu' critico
che rituale. In questo scambio il mediatore, l'attore, dovra' cambiare pelle: non sara' piu' il portatore
del Verbo teatrale ma semplicemente un "uomo di cultura" che comprende il testo, facendosene
"veicolo vivente". Lo "spazio teatrale" sara' dunque "frontale" perche' attori e spettatori hanno
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un'assoluta parita' culturale. In appendice: da che cosa nasce, sul piano culturale e psicologico,
l'idea del "teatro di parola", in quella seconda meta' degli anni 60 che segna indubbiamente una
svolta nella vita di Pasolini, con il configurarsi ormai chiaro di cio' che sara' l'Italia neo-capitalista?
Una risposta scomoda puo' essere suggerita da alcune limpide considerazioni di Franco Fortini - nel
suo Attraverso Pasolini appena edito da Einaudi - sulla rappresentazione che Pasolini vuol dare di
se' negli ultimi dieci anni della sua vita, sul suo personaggio pubblico. V'e' un punto in cui Fortini
scrive che una "voce clamante nel deserto non puo' usare un microfono", come invece fa, in
abbondanza Pasolini. La Parola del suo Manifesto, lungi dall'essere la parola critica e razionale e
dialogante di un "nuovo teatro", puo' configurarsi forse, cosi', come la parola onnipotente e
taumaturgica e profetica del poeta che si vuole libero dai condizionamenti dell'industria culturale,
che contro gli omologati "recita - scrive Fortini - la parte della liberta' o di una sublime schiavitu'".
In questo caso le considerazioni di Ronconi sul Pasolini "letterato" che disprezza i teatranti
sarebbero da riportare al centro del discorso. Ma questo e' solo uno spunto, tutto da sviluppare.
Un romanzo di luce
Bisognera' leggere a fondo, e a fondo riflettere, sul romanzo postumo di Pier Paolo Pasolini
Petrolio, che la casa editrice Einaudi mandera' in libreria il 30 ottobre. La sensazione prima di
questa approfondita lettura - e' che nelle pieghe di quest'opera incompiuta e frammentaria si
nascondano, in codice, motivi che possono illuminare alla radice i moventi delle scelte estetiche e
delle prese di posizione polemiche dell'ultimo Pasolini; e gettare una luce tremenda sulla realta'
italiana oltre la sua morte, fino a oggi. Da questo punto di vista - ma ripeto; prima di una lettura
approfondita - si puo' dissentire da Aurelio Roncaglia (che ha supervisionato la cura filologica del
libro, svolta da Graziella Chiarcossi e Maria Careri) allorche', nella finale "nota filologica", sostiene
che tra i motivi per cui oggi, dopo 17 anni, se ne decide la pubblicazione si puo' annoverare anche la
lontananza di "situazioni contingenti (politiche e di costume), oggi non certo dimenticate, ma in
qualche modo lasciate alle nostre spalle", se "oggi la societa' e' mutata, ed e' mutato anche il quadro
politico", questo mutamento si ha l'impressione che sia avvenuto nella direzione indicata da
Pasolini, soprattutto in quelle opere, come Salo' e questo Petrolio, in cui ragiona, attraverso una
trasposizione allegorica del suo intimo vissuto, delle atrocita' cui conduce l'anarchia del potere. Ma
e' certo troppo presto, a proposito di Petrolio, per arrivare a queste conclusioni. Per presentarlo al
pubblico l'Einaudi ha scelto la storica Collana dei Coralli: su una copertina bianca, senza alcuna
illustrazione, spicca in rosso il titolo e in nero quello dell'autore; nei risvolti di copertina e sul retro
nulla che dia qualche indicazione, se non una dichiarazione di Pasolini rilasciata a La Stampa il 10
gennaio 1975: "Ho iniziato un libro che mi impieghera' per anni, forse per il resto della mia vita.
Non voglio parlarne, pero' basti sapere che e' una specie di 'summa' di tutte le mie esperienze, di
tutte le mie memorie. Questa 'summa' sarebbe dovuta essere di almeno 2000 pagine. Alla data della
morte, sul suo tavolo da lavoro, custodito in una cartellina logorata dagli anni, ce ne erano 522. Che
cos'e' Petrolio? Lo si puo' capire solo leggendo il libro. E infatti ieri, alla presentazione presso il
gabinetto Vieusseux in Palazzo Strozzi a Firenze, Aurelio Roncaglia si e' voluto limitare ha parlare
dei problemi filologici che ha posto la cura del testo e di quelli etici legati alla decisione di
pubblicarlo. Per quanto riguarda i primi, ha informato che, trattandosi di un testo non solo
incompiuto, ma la cui parte scritta era ancora in fase di abbozzo e sarebbe stata certo rivista da
Pasolini e limata anche in quelle tranche che sembrano piu' compiute, si e' lavorato soprattutto a
restituire i materiali per quello che si pensa fosse il progetto dell'autore. E del resto, difficolta'
particolari non ci sono state, dato che i 200 "appunti" o unita' che Pasolini aveva scritto erano
ordinati cronologicamente: i problemi sono stati soprattutto per la decifrazione di parole
incomprensibili, a volte rimaste tali, e per decidere come restituire in stampa parti su cui l'autore
manifestava incertezze attraverso segni grafici. Si e' deciso cosi' di dare al lettore tutti gli strumenti
per capire il lavoro di ricostruzione effettuato, ma senza subissarlo di note e segnalazioni grafiche,
che avrebbero rappresentato una foresta impervia trattandosi di un testo che e' gia' impervio di per
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se'. Per quanto riguarda i problemi etici, angosciosi per Graziella Chiarcossi, che di Pasolini e'
nipote e erede, Roncaglia ha tenuto a chiarire che non si tratta "come nella vicenda di Virgilio, per
citare un esempio classico o, per venire al novecento, di Kafka, che voleva le sue opere al rogo", di
un testo sulla cui pubblicazione esista un veto di Pasolini. Quale diritto avremmo avuto, ha poi
protestato il filologo, rovesciando i termini del problema, di "tenere nascosto un libro, che puo'
portare un grande contributo di studio o conoscenza sull'opera pasoliniana?". Il progetto di Petrolio
risale alla primavera o estate del 1972, anno in cui Pasolini stila una "scaletta", riprodotta dal
volume Einaudi, alla fine della quale spiega il motivo minimale e insieme folgorante della sua
decisione di scrivere il romanzo: "mi sono caduti per caso gli occhi sulla parola petrolio in un
articoletta credo de l'Unita', e solo per aver pensato la parola petrolio come il titolo di un libro mi ha
spinto poi a pensare alla trama di tale libro. In nemmeno un'ora questa 'traccia' era pensata e scritta".
Ma, come spiega Roncaglia nella sua "Nota", non si puo' dire che l'opera si sviluppi secondo questa
'traccia'. Che essa rimane il motivo del doppio, raro nell'opera di Pasolini, riluttante alle suggestioni
romantiche: il protagonista e' scisso in un Carlo Polis e in un Carlo Tetis, che poi corrispondono alle
due dimensioni in cui vive l'opera, quella del pubblico, del politico, e quella dell'intimo del sessuale.
Questo Carlo, industriale del petrolio, e' meta' donna e meta' uomo, un androgino che condensa in
se' il rispettabile borghese, pero' di aperte vedute, di sinistra, e quella, atroce, dell'essere simbiotico,
orgiastico, che come Mister Hyde ha obliato ogni possibilita' di redenzione. Bisogna leggere a
fondo Petrolio perche' questo non e' che un flebile tracciato tematico, scavalcato dal suo possente
significato allegorico. Pero' non si puo' che rimanere colpiti dal fatto che mentre Pasolini,
voracemente, come un fiume in piena, senza scrupoli di stile, scriveva disperatamente Petrolio, era
tutto intento a cogliere l'interezza dei corpi e dei luoghi, girando i due secondi film della sua
Trilogia: I racconti di Canterbury e Il fiore delle mille e una notte. "Di giorno" impressionava sulla
pellicola il mondo intatto e popolare dell'universo novellistico orientale e medievale-anglosassone;
di "notte" dissociava la vita del personaggio di Carlo. Finche' con Salo', questo gioco non si
ricompone in un'astratta, fredda, lucida, geometrica rappresentazione del Potere. E' la stessa
sconsolata e abissale necessita' di "adattamento" al degrado neocapitalistico, denunciata nella sua
famosa "Abiura", che informa il suo romanzo postumo. Che "romanzo" in senso proprio non e',
spiega Roncaglia, senza volersi troppo perdere, pero', nei nominalismi. Pasolini accarezzava da
almeno otto anni, quando comincio' a scrivere Petrolio (che nella sua testa si sarebbe potuto
chiamare anche Vas, forse per suggestione dantesca "Vas d'elezione", "Natural vassello"), "l'idea di
un libro scritto a strati... in modo che....si presenti quasi come un diario... ; alla fine.... come una
stratificazione cronologica, un processo formale vivente.. un misto di pagine rifinite e in abbozzo, o
solo intenzionali". Cosi', aggiungeva nell'appunto che contiene queste parole, datato 1 novembre
1964 (e ora "Nota n.1" in fondo a La Divina Minesis), "il libro avra' insieme la forma magmatica e
la forma progressiva della realta'". Non solo: nella prima pagina di Petrolio, che risale alla
primavere del '73, Pasolini presenta la sua opera come un "meta romanzo filologico", per usare le
parole di Roncaglia: cioe' un'opera il cui risultato sarebbe dovuto figurare come la collazione
filologica di parti sparse (quattro, cinque manoscritti, concordanti e discordanti di cui due apgrifi,
"con varianti curiose, caricaturali, ingenue o rifatte alla maniera", e molto altro materiale scritto a
mano. Se Pasolini non pote' realizzare questo programma strutturale, cio' non di meno l'idea di
mettere di fronte al lettore non un libro, ma un'esperienza, come era nelle sue intenzioni, scegliendo
la strada dell'opera aperta musiliana, non decade, in virtu' del fatto che il lavoro di filologia che
sarebbe dovuto essere intrinseco al suo processo creativo, il fato - diciamo cosi' - ha voluto che lo
svolgesse dopo la sua morte, qualcun altro. Ed e' agghiacciante, ma insieme comico "alla Kafka",
che abbia immaginato come autore dell'opera incompiuta, La Divina Mimesis, cioe' se stesso, un
scrittore morto ucciso a colpi di bastone a Palermo, l'anno scorso: e lui, nella finzione, ne risulta il
filologo. Ricorda Concaglia, che nelle Lettere luterane Pasolini ha scritto: "non c'e' niente di piu'
alluncinatorio del verificarsi, in atto, di qualcosa che si era prevista e descritta come.... possibilita'"
"E' un romanzo, ma non scritto come sono scritti i romanzi veri: la sua lingua e' quella che si
adopera per la saggistica, per certi articoli gionalistici, per le recensioni, per le lettere private e
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anche per la poesia", scrisse Pasolini a Moravia a proposito di Petrolio (la lettera e' anch'essa
riportata nel volume). E inoltre tra le pagine della sua opera, in cui riflette continuamente sul testo
che sta scrivendo, estraniandosene al pari di un Hoffmann del 20° secolo (a cui lo accumuna il
motivo del doppio, del borghese presentabile e del rifiuto vivente, com'e' nel Gatto Murr), Pasolini
scrive che e' intenzionato non ha raccontare una storia, ma ad arrivare ad "una form... 'qualcosa di
scritto'", a un blocco di segni. In questa intenzione, riflette Roncaglia, si palesa la sopraffazione del
simbolo su la cosa narrata. Ma il "simbolo tende a tradurre il pensiero in immagine poetica", cosi' se
il romanzo tende al saggio, il saggio tende alla poesia. Avremo, di conseguenza, un registro gia'
sperimentato in Trasumanar e Organizzar, dove la provocatoria concettualizzazione della metrica a
favore di un "parlato monotonale", finiva per piegarsi alle esigenze primarie della poesia. "La
poesia e' in alcuni appunti del libro, compatti, conchiusi, che possono leggersi come novelle. Da
alcune parti che descrivono l'oriente, emana una luce, ha detto Roncaglia. Infine ha ripetuto: "Si, si
puo' parlare di un romanzo di luce". Bisognera' leggerlo a fondo, Petroliio, perche' questa luce
illumini, come sembra in suo potere, zone recondite del nostro presente, nonostante siano lontani lo
scandalo del Petrolio, o le stragi di Brescia e dell'Italicus, dentro cui trovava la sua incidentale
cornice storica.
Pasolini, un corpo chiamato linguaggio
Pasolini poeta continua ad essere oggetto di contrasti. Ora con Bestemmia, Tutte le poesie, e cioe'
con la raccolta di tutta la produzione poetica pasoliniana edita, piu' inediti e testi dispersi in riviste e
altrove, i contrasti si riccendono. Troppo contemporaneo per essere classico. Troppo vicino a noi
per poter sopravvivere come poeta dopo di noi. O addirittura mediocre poeta, migliore regista e
prosatore (ma saggista non romanziere), miglior critico che autore. Sara' proprio cosi'? Giovanni
Giudici, nella bella prefazione ai due volumi recenti, ci parla di un vero e poliedrico poeta, attirato
dall'"inespresso esistente", e cioe' dal segreto mai rivelabile della realta', dal suo mistero. Perche' di
Pasolini si puo' anche dire che e' stato un grande poeta del secondo novecento, dell'aver vissuto la
lacerazione della poesia, sentita come carente alla vita. La poesia e', per Pasolini, il discorso del
corpo vivo. Il discorso, e non il corpo ("E' parola, non Carne...", da un inedito del 1949). E' in
questa espulsione del corpo dalla scrittura che vive la parola poetica. E' nella coscienza di questa
espulsione che vive la parola poetica. E' nella coscienza di questa espulsione che si riproduce la
contraddizione insanabile del verso (che significa proprio spezzato, piegato). Dunque e' altro che ci
interessa, rileggendo la (a volte grandissima, altre meno) poesia di Pasolini, come del resto la poesia
di Montale, Caproni. Forse, chiusi nel mito del formalismo della critica letteraria, non possiamo
capire l'apporto vero di un poeta alla sua cultura, alla lingua in cui si e' insediato. Con Pasolini,
come del resto in Francia con Artaud, dobbiamo usare un'altra chiave. Sono casi che hanno messo
alla prova la lingua e l'unita' del soggetto, e con essi la menzogna letteraria. Vivendo con il corpo la
cultura, certi autori del Novecento hanno dato la vera avanguardia del cuore, mentre la critiva
correva dietro a quelle ufficiali. Le fonti seccate hanno ricevuto nuova acqua dalla violenza
espressionistica e dal manierismo vitalistico. Per Artaud, Genet, Pasolini, la "poesia" ha significato
il discorso del corpo vivo. La polemica e' stata contro uno statuto del sapere, che si organizza e si
sviluppa invece come discorso sul corpo morto, come discorso del corpo morto. Poche opere come
quella di Pasolini, in questo secolo, portano dentro di se' l'istanza della ragione vitale, l'evento
ossesso del corpo. Di questo fa esperienza il linguaggio pasoliniano. Attraverso i gradi della
nostalgia delle origini (il friulano romanzo dell'apprendimento), della emulazione metrica (le
raccolte italiane "incivili", piu' che civili, poiche' sempre in dissidio o mai mediatorie), degli ultimi
abbassamenti alla prosa, Pasolini corre tutti i rischi, ma li supera per evidenziarne sempre meglio il
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suo fuoco. Non si tratta, come alcuni critici sostengono, di fallimento formale, ma di una strategia
consapevole di dissipazione. Perche' si dovrebbe scrivere, se non per piacere o per necessita',
perche' non se ne puo' fare a meno? Non c'e' altro giudizio che quello di sentire veri certi percorsi, e
percorrerli fino in fondo. Di che cosa e' stato poeta Pasolini? Del corpo vivo che non si sa
rassegnare all'estrema unzione di tutte le istituzioni, fino alle culturali e linguistiche, perche' c'e'
qualcosa che fonda e precede la stessa cultura: il rapporto prelinguistico e mistico con le cose.
"Gettare il proprio corpo nella lotta" sta allora per "gettare il proprio corpo nel linguaggio". E'
questo il vero scandalo, la pietra di eresia che fa uscire dalla rilettura dell'opera di Pasolini, al di la'
della stucchevole rappresentazione di "poesia civile" che gran parte della critica le ha assegnato con
un convincimento opposto: si tratta della poesia meno "civile" che sia data nel Novecento, perche'
meno compromessa con qualsiasi mediazione mondana. La contraddizione corpo/storia e'
insanabile, come come uno stile da allucinazione del reale ("la realta' - l'irreale qualcosa", dai
Quadri friulani, altro che "realismo sociale"!). Si tratta di una poesia violentemente inclusiva
dell'altro, che si sa per sempre cancellato, nell'atto stesso che lo si nomina: il corpo visivo. Ed e'
proprio il discorso del corpo vivo (che si sa in perenne scissione con l'essere del corpo) ad essere
nella poesia di Pasolini continuamente evocato. Nella cultura, il rapporto tra segno e cosa prende
l'aspetto del rapporto tra segno e segno: quest'ultimo esclude dal proprio sistema il corpo, la vita, la
fisica tridimensionalita' con cui lavora il cinema, tridimensionalita' che lo stesso cinema, diventanto
scrittura riduce. E' l'ossessione della "semiologia della realta'" e non della semiologia del cinema: la
realta' e' il linguaggio (il figlio e' la madre?), e' il linguaggio piu' grande, "la mia vera passione".
Pasolini vive cosi' aperto dentro la contraddizione corpo/storia, fino a quando questa non lo
sopprime e se lo porta via, lasciandoci un'opera ancora molto da capire e saggiare, grazie anche a
questa ottima edizione ormai indispensabile nel suo corpus poetico.
Pasolini, dialoghi di formazione
Quando leggiamo una dopo l'altra le lettere di un epistolario, quasi mai le consideriamo per quello
che sono: in gran parte delle risposte. Notizie autobiografiche o embrioni d'opera formano una
successione che sembra governata dal caso, come se l'autore si fosse trovato a dialogare con le
domande di un questionario infinito e capillare, compilato da questa redazione anonima.
Nell'intreccio di significati che e', a posteriori, una corrispondenza, l'intervento di un destinatario
non puo' che rendere piu' oggettiva la figura del mittente: un po' meno "io monologante" e un po'
piu' "autore", insomma. Cosi' l'epistolario puo' diventare davvero immagine del laboratorio. Nel
caso di Pasolini, l'impressione di un "lavoro" in atto e' netta fin dalle prime lettere, scritte a diciotto
anni. Franco Farolfi prima, e poi gli amici bolognesi della progettata rivista Eredi - fra cui
Francesco Leonetti e Roberto Roversi - ricevono missive che registrano le tappe dell'adolescenza
sullo stesso ruolino di macia delle lettere e dell'apprendistato poetico. Il tutto con l'accento vitale e
allegro di chi, anche nelle more degli "stati d'animo" giovanili, desidera e prepara. Il racconto di una
scampagnata notturna sulle colline di Bologna, ad esempio, non tarda a diventare una esercitazione
letteraria con tanto di lessico alto e immagini ch si accavallano come visioni: "...ci siamo poi
inerpicati sui fianchi delle colline, tra gli sterpi che erano morti e la loro morte pareva viva,
abbiamo varacato frutteti e alberi carichi di amarene, e siamo giunti sopra un'alta cima...". Ma la
lettera che lo contiene, della primavera del 1941, si chiude bruscamente con la promessa di un piu'
agevole resoconto a voce. Stufo di "fare letteratura" , forse, il ragazzo Pasolini gia' si volgeva a
colline e alberi veri. La lettura partecipata dei classici accomuna il giovane Pier Paolo alle decine di
studenti brillanti che in quegli anni di oscuramento culturale cercano un po' di luce, ma essa
risultera' soprattutto - e noi oggi possiamo capirlo anche dalle sue lettere - un inconsapevole cursus
non solo letterario, preludio di poesia (e vita) futura. Tanto piu' che, iniziati a Bologna gli studenti
universitari, cominciano a susseguirsi le estati a Casarsa, la "patria" materna dove Pasolini fa la
scoperta-invenzione della lingua, quella parlata friulana di ca' da l'aga che sara' per piu' di un
decennio il nucleo del suo lavoro di poeta. "Quando ho scritto sblanciada da li rosis avevo venti
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anni.... certo nessun casarese ha detto sblanciada da li rosis, ma come nessun fiorentino ha detto
quel rosignol che si soave piange (si parva..). Sono i rapporti tra le parole che il poeta deve
inventare. ossia la sintassi. E' la sintassi che deve essere interiorizzata. Quindi la mia sintassi non e'
friulana perche' e' mia: ma e' la sintassi friulana che determina la mia...". Cosi' scrive nel 1953,
ormai stabilitosi a Roma, all'unico udinese, Lugi Ciceri. Lingua del popolo e ricerca di uno stile
formano la materia poetica che segnera', con diverse gradazioni, l'intera opera creativa di Pasolini.
Che sia questo il nodo originariio della sua "vocazione", un nodo che stringe forte, e dolorosamente,
anche la vita intima e i suoi difficili chiarimenti, lo confermera' lui stesso in un'altra lettera
retrospettiva indirizzata a Vittorio Sereni: "Alternavo come succede nell'adolescenza, un'estrema
gaiezza, e in me era la foy poetica-religiosa dei provenzali, a estremi sconforti. Niente capacita'
oggettivo-realistiche, quindi, il mondo era inconoscibile se non in una figura leggendaria e poetica.
Di qui, forse, una certa maggiore validita' della mia poesia friulana in cui l'ambiente era puramente
poetico, ma c'era...". Nell'accurata cronologia che precede l'epistolario, e che riporta lunghi brani
dei Quaderni rossi, il diario segreto di Pasolini degli anni 46-47, Naldini afferma che le poesie in
lingua di quel periodo "pongono la figura del poeta su un grandioso piano confessionale e il mondo
umile che gli sta intorno in una prospettiva mitica con forti scorci di vicende reali e simbologie. Le
poesie friulane nascono invece on immediatezza, si formano quasi da se'". Sebbene sia stata
dimostrata di recente l'importanza della tradizione, soprattutto metrica, nel canzoniere friulano, se
ne puo' trarre l'ipotesi che i versi scritti nella "lingua della madre" servissero anche a rendere
oggettivi - cioe' riconducibili ad un "sereno" scenario popolare - i tortuosi percorsi psicologici e
culturali che nei versi in italiano si caricavano di una piu' evidente letteralita'. Ma e' un discorso che
potra' farsi solo quando il vasto ciclo dell'opera poetica di Pasolini sara' offerto in una, ormai
necessaria, edizione critica. Anche negli occhi di guerra e durante l'occupazione nazista l'attivismo
frenetico di Pasolini non conosce soste. Le iniziative piu' ricche di significato in quel periodo sono
la "scuoletta" allestita a Versuta per i ragazzi rimasti senza aule ne' insegnanti, e la costituzione
della "Academiuta di lenga furlana" che produrra', tra il '44 e il '47, i cinque numeri dello "Stroligut
di ca' da l'aga" piu' le quattro raccolte poetiche pasoliniane che seguono la prima, Poesia a Casarsa.
L'impeto pedagogico che lo anima, indagato negli ultimi anni da Andrea Zanzotto e da Enzo
Golino, e' testimoniato qui dall'intero carteggio con Gianfranco Contini, il quale ne occupa, come
"maestro" il vertice piu' alto, nonche' dalle molte lettere piene d'istruzioni ed esortazioni agli
"allievi" Nico Naldini, tonuti Spagnol, Cesare Padovani. Dal parlanti del Friuli ai giovani infelici
degli anni settanti, passando per i ragazzi di Roma, la passione pedagogica di Pasolini attinge a una
materia, che e' poesia, ideologia, politica. Se questo e' vero, la rilettura del Pasolini comunista,
eretico, corsaro - che secondo Franco Fortini e' l'iniziativa critica da privilegiare rispetto a qualsiasi
altra chiacchiera su di lui - dovra' iniziare dal "poeta in dialetto", e forse finire con l'estremo ciclo
friulano "la meglio gioventu'" scritta nel 1974, che il suo autore reputava non meno corsara degli
interventi sul "Corriere della Sera". Torniamo al laboratorio degli anni quaranta. Dopo la morte del
fratello Guido, partigiano del Partito d'Azione, Pasolini matura l'adesione al marxismo e nel '47 si
iscrive al PCI. Si apre un triennio di militanza durante il quale amplia l'opera in versi e fa lievitare il
"romanzo politico" che diventera' il sogno di una cosa. Com'e' nota, alla fine del '49 un processo per
atti osceni, manovrato dalla Dc locale, provoca l'espulsione di Pasolini dal partito, la perdita
dell'incarico di insegnante, l'abbandono di gran parte degli amici e ammiratori sparsi nella regione,
il crollo definitivo della precaria situazione familiare e infine la partenza per Roma, in compagnia
della madre, nel gennaio 1950. Pochi mesi prima scriveva a Silvana Mauri: "La mia malattia
consiste nel non mutare, mi capisci vero? 'Diventare felici e' dovere' (Gide), questo e' stato l'unico
dovere della mia vita, e l'ho compiuto con accanimento, lo strazio e la malavoglia che il 'dovere'
comporta". Lo scenario friulano, scomparendo, svela una vitalita' maturata nella solitudine e nel
lavoro, una "sapienza di se'" che, non e' felicita', e' pienezza e presenza di un corpo ormai "gettato
nella lotta". La corrispondenza con Silvana Mauri, gia' parzialmente nota, ne' da un progressivo e
appassionato chiarimento, e cosi' altre lettere scritte nella "stanzetta" di Casarsa, diventata
soffocante come il Friuli. Pasolini a Roma e' poverissimo e sradicato: ma l'impatto con l'universo
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degli emarginati da' vita a una "folgorazione linguistica" che inaugura il secondo tempo della poesia
dialettale. Il prepotente imporsi di quella nuova realta' linguistica prima ancora che sociologica, gli
consente di arricchire il binomio lingua-stile con un divorante impegnoalla mimesi, cui concorre il
suo marxismo anti-istituzionale e una rinnovata "competenza di umilta'" (contini). Le lettere di
questo periodo (1950-52) tendono a far dimenticare le sue quasi disperate condizioni materiali: la
primavera di Roma sa "di stracci bagnati e seccati al caldo, di ferrivecchi, di scarpate brucianti
d'immondizie", mentre l'aria ha un profumo che e' "come un enorme parafango scottato dal sole".
Ancora la volta la realta' "unico idolo", crea lo stile, e di questo procedere uno dentro l'altro si
trovano tracce rilevanti nelle lettere ai nuovi amici (Leonardo Sciascia, Vittorio Sereni, Carlo
Betocchi, Giacinto Spagnoletti), in cui sono testimoniate le fasi preparatorie di "Officina" e
l'ultimazione di Ragazzi di vita. La corrispondenza che riguarda l'inserimento di Pasolini nella
societa' letteraria - tra le meno interessanti del volume - danno tuttavia l'impressione che, nonostante
il prestigio acquisito in poco tempo, egli si trovi ancora ben di qua della data cardine della sua
carriera, quel 1955 che gli dara' con l'uscita di Ragazzi di vita, successo e "immagine". Questa
prima parte dell'epistolario si ferma al 1954: un modo per dire che "dopo" niente sarebbe stato come
prima?
Ricordare Pier Paolo Pasolini
Ricordare Pier Paolo Pasolini e' qualcosa che va oltre la collocazione temporale del personaggio,
della sua esperienza, della sua significazione. E' come quando tentiamo di ricordare un sogno: le
luci, i bagliori, le ombre, i colori, i tratti somatici che appaiono, si situano precisi in un contesto, poi
si fanno fumosi, svaniscono, maledettamente non si ricordano. Pasolini e' come un sogno, qualcosa
che si ripropone, a tratti, come un percorso ideale: lo spunto, lo stimolo, la contraddizione, il
discorso, il tramite con gli altri, con una sintonia universale, attraverso la magia della comprensione,
o l'estrema libidine dell'errore umano. Il torbido cercare nella notte rovente il magico incesto fra
amore e perversione, significa non rinunciare neanche per un attimo al ticchettio del cosmo, essere
dentro al divenire di un animo umano perfettibile, divorato dall'incompletezza, dalla provvisorieta',
dall'attimo. Per alcune tribu' primitive l'omosessualita' e' segno di divinazione, come per lo
sciamano, che viene identificato come il ponte verso il soprannaturale, verso la perfezione. Cosi'
come per gli aruspici latini che si facevano essi stessi segno premonitore (catarsi mediale), gli
sciamani, gli omosessuali, i vecchi saggi, gli artisti nella proto-societa' vengono tutelati come
prezioso strumento di interpretazione, di nemesi. Nella societa' di questo tempo ne viene fatto
scempio. Pasolini e' finito per un incidente di percorso, interpretando cosi' una morte quotidiana e
universale ad un tempo. Per questo il ricordo non puo' essere allocato, come calligrafiche sono le
retrospettive o i memoriali allestiti in varie parti del mondo tranne magari che in Italia. Perche'
Pasolini resta, come ogni eccezionale, artista, ma con un soffio vitale in piu', quello dell'uomo a
tutto tondo, uno straordinario riassunto cerebrale, anello di calamita che da ogni direzione attira in
un punto che per un attimo solo non si fa ingorgo plateale. Per un attimo e' tutto chiaro.
L'eccitazione che deriva non e' per la perversione, o la trasgressione, simbologie tautologiche della
demenza post-moralista, ma per il sapersi involare nel baratro, tipico dei rivoluzionari.
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Cronologia dei procedimenti giudiziari di Pasolini
07.07.47 Processo per la strage di Porzus. Interrogatorio in qualita' di parte lesa per la morte del
fratello Guido, davanti al G.I. di Udine
15.10.49 Fatti di Carsara (corruzione di minorenni). Prima segnalazione dei carabinieri di
Cordovado.
17.10.49 Fatti di Carsara. Denuncia del Pretore di A. Vito al Tagliamento da parte dei carabinieri
di Cordovado.
22.10.49 Fatti di Carsara. Inzio instruttoria da parte del pretore (interrogatorio delle presunte parti
lese).
09.01.50 Processo per la strage di Porzus. Udienza davanti la corte di assise di Brescia. Costituzione
parte civile.
14.01.50 Processo Porzus. Udienza davanti alla corte d'assise di Brescia. Interrogatorio come
testimone della parte lesa.
15.12.50 Fatti di Carsara. Notifica del decreto di citazione per l'udienza del 28.12.50 davanti alla
pretura di S. Vito al Tagliamento.
28.12.50 Fatti di Carsara. Celebrazione del processo davanti al pretore. Sentenza.
30.12.50 Fatti di Carsara. Appello dell'imputato contro la sentenza del 28.12.
01.01.51 Fatti di Chioggia. Fermo di polizia dell'imputato per ubriachezza.
02.01.51 Fatti di Chioggia. Rilascio per contenstazione della contravvenzione.
03.01.51 Fatti di Chioggia. Invio del rapporto al pretore.
08.01.51 Fatti di Carsara. Notifica dell'avviso di deposito della sentenza del 28.12.50
09.01.51 Fatti di Carsara. Notifica dell'appello del pubblico ministero contro la sentenza di I grado
03.04.51 Fatti di Chioggia. Emissione da parte del pretore del decreto penale di condanna.
29.08.51 Processo Porzus. Notifica della citazione quale testimone a parte lesa per l'udienza del
26.09.51 davanti alla corte di assise di Lucca.
26.09.51 Processo Porzus. Udienza davanti alla corte.
04.10.51 Processo Porzus. Udienza davanti alla corte d'assise di Lucca. Interrogatorio come
testimone.
22.02.52 Fatti di Carsara. Notifica del decreto di citazione per l'udienza dell'08.04.52 (tribunale di
Pordenone) per il giudizio d'appello.
06.04.52 Processo Porzus. Sentenza della corte d'assise di Lucca.
99
100
08.04.52 Fatti di Carsara. Giudizio d'appello davanti al tribunale di Pordenone. Sentenza.
08.04.52 Fatti di Carsara. Ricorso in cassazione del pubblico ministero contro la sentenza di II
grado.
14.06.52 Fatti di Carsara. Dichiarazione di rinuncia da parte del P.M. al ricorso in cassazione.
20.06.52 Fatti di Carsara. Dichiarazione di inamissibilita' del ricorso per cassazione del P.M.
20.11.53 Processo Porzus. Notifica di citazione quale testimone a parte civile per l'udienza del 1°
marzo 1954 davanti alla corte d'assise d'appello di Firenze.
21.07.55 Processo Ragazzi di vita. Segnalazione della presidenza del consiglio dei ministri al
procuratore della repubblica di Milano per contenuto pornografico.
20.10.55 Processo Ragazzi di vita. Inizio delle indagini preliminari da parte della procura di Milano.
04.01.56 Processo Ragazzi di vita. Notifica del decreto di citazione a giudizio direttissimo davanti
al tribunale di Milano per l'udienza del 18.01.56.
18.01.56 Processo Ragazzi di vita. I udienza davanti al tribunale di Milano. Rinvio a nuovo ruolo.
27.01.56 Processo Ragazzi di vita . Notifica del decreto di citazione a giudizio dle 18.04.56
(tribunale di Milano)
18.04.56 Processo Ragazzi di vita. II udienza davanti al tribunale di Milano.
04.05.56 Processo Ragazzi di vita. III udienza. Rinvio a nuovo ruolo.
04.07.56 Processo Ragazzi di vita. IV udienza e sentenza.
04.06.58 Decreto penale di condanna del pretore di Roma per contravvenzione stradale.
17.11.59 Presentazione di una querela per diffamazione da parte del comune di Cutro.
09.02.60 Processo contro una vita violenta. Il procuratore della repubblica di Milano conferisce ad
Alessandro Cutolo l'incarico di svolgere una relazione critica estetica sul libro.
18.02.60 Querela del comune di Cutro. Inizio delle indagini preliminari da parte della procura di
Milano.
02.03.60 Querela del comune di Cutro. Notifica del decreto di citazione per l'udienza davanti al
tribunale di Milano.
09.03.60 Processo contro Una vita violenta. Deposito della perizia di Cutolo.
21.03.60 Querela del comune di Cutro. I udienza. Rinvio a nuovo ruolo.
29.06.60 Fatti di via Panico. Fermo per interrogatorio al commissariato. 30.06.60 Fatti di via
Panico. Denuncia della polizia diretta al procuratore della repubblica di Roma.
100
101
02.07.60 Fatti di via Panico. Notifica di una convocazione davanti al procuratore delle repubblica
per il giorno 04.07.60.
04.07.60 Fatti di via Panico. Interrogatorio davanti al P.M.
10.07.60 Fatti di Anzio (corruzione di minore). Denuncia di due giornalisti.
11.07.60 Fatti di Anzio. Denuncia del padre di una delle due presunte parti lese.
12.07.60 Fatti di Anzio. Denuncia del padre dell'altra delle presunte parti lese e rapporto denuncia
dei carabienieri al procuratore della repubblica di Velletri.
14.07.60 Fatti di Anzio. Il P.M. di Velletri invia gli atti a Roma per eventuale riunione con il
processo per i fatti di via Panico.
18.07.60 Fatti di Anzio. Il P.M. di Roma restituisce gli atti a Velletri. 05.08.60 Fatti di Anzio. Il
P.M. di Velletri invia gli atti al pretore di Anzio.
16.11.60 Denuncia contro il film Una giornata balorda.
14.12.60 Fatti di Anzio. Il pretore dichiara di non doversi procedere perche' non si ravvisano
estremi di reato.
22.03.61 Fatti di via Panico. Notifica del decreto di citazione in giudizio davanti al tribunale di
Roma.
20.04.61 Fatti di via Panico. I udienza. Rinvio a nuovo ruolo.
06.06.61 Fatti di via Panico. Notifica di un nuovo decerto di citazione.
01.07.61 Fatti di via Panico. II udienza. Rinvio a nuovo ruolo.
30.09.61 Fatti di via Panico. Notifica di decreto di citazione.
25.10.61 Denuncia da parte di Vece Antonio.
27.10.61 Ritrattazione di Vece. Denuncia contro di lui da parte della polizia per calunnia.
15.11.61 Fatti di via Panico. III udienza.
16.11.61 Fatti di via Panico. Sentenza di I grado e appello dei difensori (Avv. Roscioni e
Berlingieri) contro la sentenza.
18.11.61 Fatti del Circeo (rapina). Denuncia di De Santis Benedetto.
19.11.61 Fatti del Circeo. Denuncia di De Santis Bernardino.
22.11.61 Fatti del Circeo. Due interrogatori davanti ai carabinieri (nucleo di polizia giudiziaria di
Roma).
22.11.61 Fatti del Circeo. Perquisizione domiciliare.
101
102
05.12.61 Fatti di via Panico. Notifica della dichiarazione di appello del procuratore generale contro
la sentenza di I grado.
18.12.61 Fatti di via Panico. Notifica dell'avviso di deposito della sentenza di I grado.
22.12.61 Fatti del Circeo. Notifica della costituzione di parte civile di De Santis Bernardino.
04.01.62 Processo per calunnia di Vece. Notifica della citazione in qualita' di parte lesa davanti al
P.M. di Roma.
05.01.62 Processe Vece. Presentazione spontanea e interrogatorio davanti al P.M.
25.01.62 Fatti del Circeo. Citazione davanti al giudice istruttore di Latina per un confronto con
Bernardino De Santis.
27.01.62 Fatti del Circeo. Confronto cono Bernardino De Santis davanti al G.I. di Latina.
24.02.62 Causa civile intentata dall'on. Pagliuca in relazione al film Accattone. Notifica dell'atto di
citazione.
28.02.62 Fatti del Circeo. Notifica di un mandato di comparizione davanti al giudice istruttore di
Roma (per rogatoria).
09.03.62 Fatti del Circeo. Interrogatorio davanti al G.I. di Roma.
17.04.62 Fatti del Circeo. Sentenza di rinvio a giudizio.
23.04.62 Remissione della querela sporta del sindaco del comune di Cutro.
26.04.62 Querela del comune di Cutro. Il tribunale di Milano pronuncia sentenza di non doversi
procedere.
27.04.62 Causa civile Pagliuca. I udienza davanti al tribunale di Roma.
07.06.62 Fatti del Circeo. Notifica del decreto di citazione a comparire davanti al tribunale Latina.
15.06.62 Causa civile Pagliuca. II udienza.
03.07.62 Fatti del Circeo. Udienza davanti al tribunale di Latina e sentenza.
03.07.62 Decreto penale di condanna del pretore di Roma per contravvenzione stradale.
06.07.62 Querela del comune di Cutro. Notifica dell'estratto contumaciale della sentenza del
tribunale di Milano.
07.07.62 Fatti del Circeo. Notifica della dichiarazione d'appello del pubblico ministero contro la
sentenza del tribunale di Latina.
11.07.62 Causa civile Pagliuca. III udienza.
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103
25.07.62 Fatti del Circeo. Notifica della dichiarazione d'appello del procuratore generale contro la
sentenza del tribunale di Latina.
31.08.62 Denuncia dei carabinieri al procuratore della repubblica di Venezia contro il film Mamma
Roma.
01.09.62 Mamma Roma. Decreto di proiezione davanti al magistrato
04.09.62 Mamma Roma. Richiesta di archiviazione da parte del procuratore della repubblica.
05.09.62 Mamma Roma. Il giudice istruttore emette decreto di archivizione.
22.09.62 Aggressione da parte di Serafino di Luia.
04.10.62 Causa civile intentata dal procuratore Amoroso in relazione al soggetto del film La ricotta.
Notifica dell'atto di citazione.
09.10.62 Fatti del Circeo. Notifica dell'avviso del deposito della sentenza di I grado.
13.10.62 Fatti di via Panico. Notifica del decreto di citazione a comparire davanti alla corte
d'appello di Roma
. 06.11.62 Causa civile Pagliuca. IV udienza davanti al tribunale di Roma.
16.11.62 Causa civile Amoroso. I udienza davanti al tribunale di Roma.
05.12.62 Causa civile Amoroso. II udienza.
19.12.62 Causa civile Pagliuca. V udienza.
11.01.63 Processo Vece. Notifica della citazione a comparire come parte lesa davanti al tribunale di
Roma.
15.01.63 Fatti del Circeo. Notifica del decreto di citazione a comparire davanti alla corte di appello
di Roma.
30.01.63 Fatti di via Panico. Udienza di corte d'appello e rinvio a nuovo giudizio.
23.02.63 Causa civile Amoroso. III udienza.
27.02.63 Causa civile Pagliuca. VI udienza.
01.03.63 Sequestro dell'episodio La ricotta del film Rogopag.
02.03.63 Processo La ricotta. Notifica del decreto di citazione a comparire davanti al tribunale di
Roma.
05.03.63 Processo La ricotta. I udienza.
07.03.63 Processo La ricotta. II udienza e sentenza.
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104
08.03.63 Processo vede. I udienza. Costituzione di parte civile.
08.03.63 Processo La ricotta. Appello dei difensori (Avv. Berlingieri e Giovannini) contro la
sentenza di I grado.
14.03.63 Processo Una vita violenta. Decreto di archiviazione del giudice istruttore di Milano.
18.03.63 Aggressione di Luia. Sentenza del pretore di Roma di non doversi procedere per
remissione di querela.
20.03.63 Processo Vece. Notifica della citazione in qualita' di parte lesa davanti al tribuanale di
Roma.
22.03.63 Processo Vece. II udienza e sentenza.
26.03.63 Fermo effettuato da un vigile notturno per "atteggiamento sospetto".
06.04.63 Fatti del Circeo. Udienza in corte di appello.
10.04.63 Fatti di via Panico. notifica del decreto di citazione a comparire davanti alla corte di
appello di Roma.
09.05.63 Fatti del Circeo. Notifica del decreto di citazione a comparire davanti alla corte di appello
di Roma.
11.05.63 Processo La ricotta. Notifica dell'avviso di deposito della sentenza di I grado.
15.05.63 Causa civile Amoroso. V udienza. Interrogatorio di Pasolini.
22.05.63 Causa civile Pagliuca. VII udienza.
19.06.63 Causa civile Amoroso. VI udienza. 05.07.63 Fatti di via Panico. Udienza di corte
d'appello.
12.07.63 Fatti del Circeo. Udienza di corta d'appello e sentenza.
16.07.63 Fatti del Circeo. Notifica della dichiarazione di ricorso per cassazione del procuratore
generale.
24.10.63 Processo La ricotta. Notifica del decreto di citazione a comparire davanti alla corte di
appello di Roma.
12.11.63 Fatti del Circeo. Notifica dell'estratto contumaciale della sentenza di II grado.
12.11.63 Processe Vece. Notifica del decreto di citazione a comparire, in qualita' di parte civile,
davanti alla corte di appello di Roma.
15.11.63 Causa civile Pagliuca. VII udienza. Sepedizione e sentenza.
23.11.63 Causa civile Amoroso. VII udienza.
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07.01.64 Decreto penale di condanna del pretore di Roma per contravvenzione stradale.
11.01.64 Causa civile Pagliuca. Sentenza del tribunale di Roma.
25.01.64 Causa civile Amoroso. VIII udienza.
02.02.64 Fermo di polizia a villa Borghese. Nulla di fatto.
03.02.64 Processo La ricotta. Udienza di corte d'appello.
13.02.64 Aggressione da parte di Paolo Pecoriello, Flavio Campo e Adriano Romualdi. Pasolini non
sporge querela.
26.02.64 Processo Vece. Udienza di corte d'appello.
14.03.64 Fatti di via Panico. Notifica dell'estratto contumaciale della sentenza di II grado.
03.04.64 Processo Vece. Notifica del decreto di citazione a comparire, in qualita' di parte civile,
davanti alla corte d'appello di Roma.
06.04.64 Causa civile Pagliuca. I udienza davanti la prima sezione delle corte d'appello di Roma.
28.04.64 Processo La ricotta. Udienza di Corte d'appello.
06.05.64 Processo La ricotta. Sentenza della corte d'appello.
08.05.64 Processo La ricotta. Notifica del ricorso per cassazione del procuratore generale.
13.05.64 Notifica dell'ordinanza del prefetto di sospensione della patente di guida.
20.05.64 Causa civile Amoroso. X udienza.
03.07.64 Processo La ricotta. Notifica dell'estratto contumaciale della sentenza di II grado.
07.10.64 Processo Vece. Sentenza della corte d'appello.
19.10.64 Causa civile Pagliuca. III udienza della corte d'appello.
23.10.64 Causa civile Amoroso. XI udienza.
11.11.64 Causa civile Amoroso. XII udienza.
11.11.64 Aggressione fascista al circolo culturale "Francesco De Sanctis". Pasolini non sporge
querela.
19.12.64 Causa civile Amoroso. XIII udienza.
23.01.65 Causa civile Amoroso. XIV udienza.
02.02.65 Causa civile Pagliuca. IV udienza in corte d'appello. Spedizione sentenza.
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106
20.02.65 Causa civile Amoroso. XV udienza.
01.03.65 Fatti del Circeo. La corte di cassazione annulla la sentenza della corte d'appello di Roma e
rinvia gli atti per il nuovo giudizio.
07.03.65 Querela di Bernardino De Santis per diffamazione a mezzo stampa.
23.03.65 Causa civile Pagliuca. Sentenza della corte d'appello di Roma.
27.03.65 Causa civile Amoroso. XVI udienza.
24.04.65 Querela De Santis. Notifica del decreto di citazione a giudizio direttissimo per l'udienza.
12.05.65 Causa civile Amoroso. XVIII udienza.
26.06.65 Causa civile Amoroso. XIX udienza.
16.07.65 Causa civile Amoroso. XX udienza. Visione del film.
01.10.65 Querela De Santis. II udienza davanti al tribunale di Roma. Rinvio a nuovo ruolo.
06.10.65 Causa civile Amoroso. XXI udienza.
23.10.65 Causa civile Amoroso. XXII udienza.
28.10.65 Causa civile Amoroso. XXIII udienza.
06.11.65 Causa civile Amoroso. XXIV udienza.
13.11.65 Causa civile Amoroso. XXV udienza.
01.12.65 Querela De Santis. Notifica del decreto di citazione a comparire.
02.12.65 Causa civile Amoroso. XXVI udienza. Visione della pellicola modificata. 18.12.65 Causa
civile Amoroso. XXVII udienza.
19.01.66 Causa civile Amoroso. XXVIII udienza. Precisazioni delle conclusioni. 25.01.66 Querele
De Santis. III udienza.
01.04.66 Causa civile Amoroso. XXIX udienza. Spedizione della sentenza.
19.04.66 Querela De Santis. IV udienza.
31.05.66 Querela De Santis. V udienza.
18.06.66 Causa civile Amoroso. Sentenza del tribunale di Roma.
26.07.66 Querela De Santis. VI udienza.
27.07.66 Causa civile Amoroso. Atto d'appello.
106
107
08.11.66 Querela De Santis. VII udienza.
06.12.66 Querela De Santis. VIII udienza.
15.12.66 Causa civile Amoroso. I udienza davanti la corte d'appello di Roma. 10.01.67 Processo La
ricotta. Notifica della fissazione dell'udienza per la discussione del ricorso in cassazione.
31.01.67 Querela De Santis. IX udienza e sentenza.
02.02.67 Causa civile Amoroso. IX udienza e sentenza.
24.02.67 Processo La ricotta. Sentenza della cassazione.
09.06.67 Fatti del Circeo. Notifica del decreto di citazione a comparire davanti la corte d'appello di
Roma.
20.06.67 Causa civile Amoroso. III udienza in corte d'appello. Precisazioni delle conclusioni.
06.07.67 Fatti del Circeo. I udienza in corte d'appello. Rinvio a nuovo ruolo. 27.11.67 Fatti del
Circeo. Notifica del decreto di citazione davanti alla corte d'appello di Roma.
23.10.65 Causa civile Amoroso. XXII udienza.
28.10.65 Causa civile Amoroso. XXIII udienza.
06.11.65 Causa civile Amoroso. XXIV udienza.
13.11.65 Causa civile Amoroso. XXV udienza.
01.12.65 Querela De Santis. Notifica del decreto di citazione a comparire.
02.12.65 Causa civile Amoroso. XXVI udienza.
18.12.65 Causa civile Amoroso. XXVII udienza.
19.01.66 Causa civile Amoroso. XXVIII udienza. Precisazione delle conclusioni. 25.01.66 Querela
De Santis. III udienza.
01.04.66 Causa civile Amoroso. XXIX udienza. Spedizione e sentenza.
19.04.66 Querela De Santis. IV udienza.
31.05.66 Querela De Santis. V udienza.
18.06.66 Causa civile Amoroso. Sentenza del tribunale di Roma.
26.07.66 Querela De Santis. VI udienza.
27.07.66 Causa civile Amoroso. Atto d'appello.
08.11.66 Querela De Santis. VII udienza.
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06.12.66 Querela De Santis. VIII udienza.
15.12.66 Causa civile Amoroso. I udienza davanti alla corte d'appello di Roma. 10.01.67 Processo
La ricotta. notifica della fissazione dell'udienza per la discussione del ricorso in cassazione.
31.01.67 Querela De Santis. IX udienza e sentenza.
02.02.67 Causa civile Amoroso. II udienza in corte d'appello.
24.02.67 Processo La ricotta. Sentenza della cassazione.
09.06.67 Fatti del Circeo. Notifica del decreto di citazione a comparire davanti alla corte d'appello
di Roma.
20.06.67 Causa civile Amoroso. III udienza in corte d'appello. Precisazione delle conclusioni.
06.07.67 Fatti del Circeo. I udienza di corte d'appello. Rinvio a nuovo ruolo. 27.11.67 Fatti del
Circeo. Notifica del decreto di citazione a comparire davanti alla corte d'appello di Roma.
19.12.67 Fatti del Circeo. II udienza e sentenza della corte d'appello.
22.12.67 Causa civile Amoroso. IV udienza. Spedizione a sentenza.
27.12.67 Fatti del Circeo. Notifica del ricorso per cassazione del procuratore generale contro la
sentenza.
29.02.68 Processo La ricotta. Notifica dell'ordinanza della corte d'appello che dissequestra il film.
14.04.68 Carmelo Tedesco viene trovato alla guida della vettura di Pasolini senza patente. Denuncia
per incauto affidamento.
07.05.68 Processo per l'incauto affidamento della vettura. Notifica del verbale di contravvenizione.
01.06.68 Fatti del Circeo. Notifica dell'estratto contumaciale della sentenza di II grado.
25.07.68 Causa civile Amoroso. Sentenza della corte d'appello di Roma.
26.08.68 "invasione" del palazzo del cinema a Venezia. Denuncia della squadra mobile.
13.09.68 Processo Teorema. Sequestro del film da parte della procura della repubblica di Roma.
16.09.68 Processo Teorema. Denuncia da parte dell'Avv. Biamonti.
18.09.68 Processo Teorema. Invio degli atti alla procura di Venezia per competenza.
19.10.68 Processo Teorema. Notifica del decreto di citazione a comparire davanti al tribunale di
Venezia.
24.10.68 Processo Teorema. I udienza in tribunale. Rinvio.
09.11.68 Processo Teorema. Udienza in tribunale, visione del film e interrogatorio dell'imputato.
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23.11.68 Processo Teorema. Udienza in tribunale e sentenza.
23.12.68 Causa civile Amoroso. Sentenza di I grado.
28.12.68 Fatti del Circeo. Notifica dell'ordinanza di inammisibilita' dei ricorsi in cassazione contro
la sentenza di II grado.
04.01.69 Processo Teorema. Notifica della dichiarazione di appello del procuratore generale di
Venezia contro la sentenza di I grado.
22.01.69 Processo per l'incauto affidamento dell'automobile. Notifica del decreto di citazione a
comparire davanti al pretore di Bologna.
10.02.69 Processo per l'incauto affidamento. Udienza di pretura e sentenza. 20.03.69 Processo
Teorema. Notifica del decreto di citazione a comparire davanti alla corte di appello di Venezia.
21.04.69 Processo Teorema. Udienza di corte d'appello. Rinvio a nuovo ruolo per malattia
dell'imputato.
15.05.69 Denuncia ai carabinieri di Nicolosi per una presunta strage di pecore durante la
lavorazione di Porcile.
10.06.69 Processo Teorema. Notifica del decreto di citazione a comparire davanti alla corte
d'appello di Venezia.
07.07.69 Processo Teorema. Udienza di corte d'appello. Rinvio a nuovo ruolo. 08.07.69 Processo
per invasione di edificio (palazzo del cinema). Notifica del decreto di citazione a comparire davanti
alla corte d'appello di Venezia.
01.09.69 Processo Teorema. Notifica del decreto di citazione a comparire davanti alla corte
d'appello di Venezia.
06.10.69 Processo per invasione di edificio. Udienza in pretura.
06.10.69 Processo Teorema. Udienza in corte d'appello.
07.10.69 Processo Teorema. Udienza in corte d'appello. Visione del film.
09.10.69 Processo Teorema. Udienza in corte d'appello e sentenza.
11.10.69 Processo per invasione di edificio. Udienza in pretura e sentenza.
15.10.69 Processo Teorema. Notifica della dichiarazione di ricorso per cassazione del procuratore
generale di Venezia contro la sentenza di II grado.
21.11.69 Processo Teorema. Dichiarazione di rinuncia al ricorso in cassazione del procuratore
generale.
22.12.69 Questione pecore di Porcile. Notifica dell'atto di citazione.
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27.04.70 Questione percore di Porcile. Udienza davanti al tribunale di Catania. 16.04.71 Torino.
Denuncia contro Pasolini nella sua qualita' di direttore di "Lotta Continua" per istigazione a
disobbedire alle leggi e per propaganda antinazionale. 03.06.71 Siena. Denuncia contro Pasolini
(nella sua qualita' - presunta - di direttore di "Lotta Continua") da parte dell'Avv. Arturo Viviani per
istigazione a delinquere e apologia di reato.
05.06.71 Questione "Lotta Continua" di Siena. Rapporto-denuncia della questura. 26.08.71
Denuncia di Orlandini Fabio (Trento) contro il film Decameron.
27.08.71 Decameron. Richiesta di archiviazione del P.M. e decreto di archiviazione del giudice
istruttore di Trento.
17.09.71 Decameron. Denuncia di Glauco Peretto (Verona).
18.09.71 Decameron. Denuncia di Saverio Blasi (Taranto).
20.09.71 Decameron. Denuncia di: Alberto Muzzetti (Milano); Costantino Locatelli e di Claudio
Valenza del fronte Monarchico Giovanile (Roma).
21.09.71 Decameron. Denunce di: Giuseppe Barca piu' altri 10 da Napoli; Giancarlo Cavalli.
24.09.71 Decameron. Denuncia di Giampaolo Vincenti (Genova).
01.10.71 Decameron. Denuncia di Michele Dacampo (Venezia); Umberto Monti e Ferrari (Roma).
02.10.71 Decameron. Sequestro del film disposto dalla procura della Repubblica di Bari.
02.10.71 Decameron. Denuncia di Lorenzo Mannozzi Turini dell'ispettorato provinciale di Ancona
del corpo forestale dello stato.
04.10.71 Decameron. Denuncia di Salvatore Mirra (Napoli).
10.10.71 Decameron. Denuncia di Michele D'Ambrosio anche a nome di 52 cittadini di Lucera.
11.10.71 Decameron. Denuncia di Teodorico Stendardo presidente del comitato nazionale per la
pubblica moralita' piu' altri 60 (Napoli).
12.10.71 Decameron. Denuncia di Alfonso Petrella (Lucera).
18.10.71 Questione "Lotta Continua" di Torino. Udienza in corte d'assise.
20.10.71 Decameron. Denunce di: Roberto Spelta (Pavia); Maria Rosa Mazzucchi (Milano); Ester
Brioschi (Sesto San Giovanni).
22.10.71 Decameron. Denuncia di Bice Allegretti (Milano).
23.10.71 Decameron. Denuncia di Neris Arisi (Milano).
24.10.71 Decameron. Denunce di: Giovanni Colombo (Milano); Alba Damonte (Milano).
26.10.71 Decameron. Denuncia di Giuseppe Moneta (Milano).
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111
28.10.71 Decameron. Denuncia di Suor Rosa Zanotti e suo Erminia Cappelli (Milano). 04.11.71
Decameron. Denuncia di Piermaria Ferri (Roma).
05.11.71 Decameron. Denuncia di Giuseppe Sacconi (Cesano Maderno).
08.11.71 Questione pecore Porcile. Udienza in tribunale.
13.11.71 Decameron. Sequestro del film disposto dalla procura della repubblica di Ancona.
21.11.71 Decameron. Sequestro del film disposto dalla procura della repubblica di Sulmona.
14.02.72 Questione pecore Porcile. Udienza in tribunale.
24.04.72 Decameron. Denuncia di Renata Danielli (Milano).
11.07.72 Questione "Lotta Continua" di Siena. Notifica della comuicazione giudiziaria.
06.09.72 Questione "Lotta Continua" di Siena. Notifica del mandato di comparizione da parte del
giudice istruttore.
22.09.72 Questione "Lotta Continua" di Siena. Interrogatorio davanti al giudice istruttore.
07.10.72 Sequestro del film I racconti di Canterbury.
18.10.72 Processo per il film I racconti di Canterbury. I udienza davanti al tribunale di Benvento.
20.10.72 Processo Canterbury. Udienza in tribunale e sentenza.
23.10.72 Processo Canterbury. Grimaldi chiede il dissequestro del film.
23.10.72 Processo Canterbury. Dichiarazione di appello del PM contro la sentenza di I grado.
03.11.72 Processo Canterbury. Notifica della dichiarazione di appello del procuratore generale
contro la sentenza di I grado.
07.11.72 Processo Canterbury. Ordinanza del tribunale di Benevento che dichiara inammisibile
l'istanza di restituzione.
15.11.72 Questione pecore di Porcile. Udienza in tribunale.
01.12.72 Denuncia-querela di padre Antonio Gambale contro il film I racconti di Canterbury.
02.12.72 Processo Canterbury. Notifica dell'avviso di deposito della sentenza di I grado.
09.12.72 Processo Gambale Canterbury. Notifica del decreto di citazione a giudizio direttissimo.
15.12.72 Processo Gambale Canterbury. Udienza in tribunale.
20.12.72 Questione "Lotta Continua" di Siena. Notifica dell'avviso di deposito della sentenza del
G.I.
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21.12.72 Processo Canterbury. La corte di cassazione annulla l'ordinanza del tribunale di
benevento.
27.12.72 Processo Gambale Canterbury. Notifica del decreto di citazione a giudizio direttissimo
davanti al tribunale di Benevento.
09.01.73 Processo Canterbury. Ordinanza del tribunale di Benevento con cui viene dissequestrato il
film.
13.01.73 Processo Canterbury. Notifica del decreto di citazione a comparire davanti alla corte di
appello di Napoli.
18.01.73 Questione "Lotta Continua" di Siena. Notifica del decreto di citazione a comparire davanti
al tribunale di Siena.
22.01.73 Processo Gambale Canterbury. Udienza davanti al tribunale di Benevento. 03.02.73
Processo Gambale Canterbury. Udienza in tribunale e sentenza.
08.02.73 Processo Canterbury. Udienza davanti alla corte d'appello di Napoli. Rinvio a nuovo
ruolo.
20.02.73 Processo Canterbury. Notifica del decreto di citazione a comparire davanti alla corte di
appello di Napoli.
23.02.73 Questione "Lotta Continua" di Siena. Udienza in tribunal e sentenza. 09.03.73 Il film I
racconti di Canterbury viene sequestrato dalla procura della repubblica di Teramo.
13.03.73 Processo Canterbury. Udienza in corte d'appello.
23.03.73 Processo Canterbury. Notifica del decreto di citazione a comparire davanti alla corte di
appello di Napoli.
02.04.73 La corte di cassazione annulla il decreto di sequestro della procura della repubblica di
Teramo.
04.04.73 Processo Canterbury. Il sequestro ordinato dalla procura della repubblica di Benevento.
10.04.73 Processo Canterbury. Udienza davanti alla corte di appello di Napoli. 18.04.73 Il tribunale
di Benevento solleva questione di legittimita' costituzionale in relazione al sequestro del film I
racconti di Canterbury.
26.05.73 Processo Canterbury. Notifica del decreto di citazione a comparire davanti alla corte di
appello di Napoli.
12.06.73 Questione pecore di Porcile. Udienza colleggiale davanti al tribunale di Catania.
19.06.73 Processo Canterbury. Udienza davanti alla corte di appello di Catania. 27.06.73 Processo
Canterbury. Udienza davanti alla corte di appello di Napoli. 02.07.73 Processo Canterbury. Udienza
in corte d'appello e sentenza.
03.07.73 Questione pecore Porcile. Sentenza del tribunale di Catania.
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12.07.73 Processo Canterbury. Notifica della dichiarazione di ricorso per cassazione del procuratore
generale di Napoli contro al sentenza di I grado.
22.11.73 Processo Canterbury. Notifica all'avv. De Marsico dell'avviso di fissazione dell'udienza in
corte di cassazione.
20.12.73 Processo Canterbury. Udienza di corte di cassazione e sentenza.
27.06.74 Denuncia contro il film Il fiore delle mille e una notte.
27.07.74 Mille e una notte. Richiesta di archiviazione del PM di Milano.
05.08.74 Mille e una notte. Decreto di archiviazione del giudice istruttore di Milano. 27.03.75 La
corte constituzionale decide in relazione alla questione del film I racconti di Canterbury.
02.11.75 Pier Paolo Pasolini viene assassinato.
02.11.75 Arresto di Giuseppe Pelosi. Interrogatorio.
05.11.75 Processo Pelosi. La madre di Pasolini si costituisce parte civile. Nuovo interrogatorio
dell'imputato.
05.11.75 Denuncia di due professionisti contro il direttore de "la gazzetta del sud" per un articolo,
pubblicato il 3.11, in cui si ravvisano estremi di apologia di reato. 06.11.75 Il gesuita padre Arturo
Dalla Vedova viene sorpreso ad imbrattare i manifesti funerari di Pasolini con scritto ingiuriose.
Viene arrestato per oltraggio a pubblico ufficiale e processato anche per "deterioramento di
manifesti".
07.11.75 Interrogatorio in carcere di padre Dalla Vedova.
09.11.75 La commissione di censura di I grado vieta la programmazione di Salo'. 11.11.75 Processo
Della Vedova. I udienza. Rinvio.
13.11.75 Processo Pelosi. Interrogatorio dell'imputato.
15.11.75 Processo Pelosi. Interrogatorio dell'imputato.
21.11.75 Denuncia contro "La gazzetta del sud". Richiesta di archiviazione da parte del PM.
28.11.75 Processo Pelosi. Perizia medico legale.
09.12.75 Processo Pelosi. Interrogatorio dell'imputato.
13.12.75 Processo Della Vedova. II udienza e sentenza. Appello dei difensori. 18.12.75 La
commissione di censura di II grado annulla il precedente divieto di programmazione di Salo' e
concede il nulla osta.
07.01.76 Denuncia contro "La gazzetta del sud". Decreto di archiviazione del giudice istruttore.
13.01.76 Il procuratore della repubblica di Milano sequestra il film Salo' e apre un procedimento
penale contro il produttore Grimaldi per commercio di pubblicazioni oscene.
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21.01.76 I udienza del processo per direttissima contro Grimaldi.
24.01.76 Processo Salo'-Grimaldi. II udienza. Visione del film.
30.01.76 Processo Salo'-Grimaldi. II udienza e sentenza di condanna.
02.02.76 Processo Pelosi. I udienza davanti al tribunale dei minori di Roma.
05.02.76 Processo Pelosi. II udienza davanti al tribunale dei minori di Roma. 07.02.76 Processo
Pelosi. III udienza. 09.02.76 Processo Pelosi. IV udienza. 12.02.76 Processo Pelosi. V udienza.
16.02.76 Processo Pelosi. VI udienza.
19.02.76 La procura generale di Roma apre un procedimento penale contro il produttore Grimaldi
per corruzione di minorenni ed atti osceni in luogo pubblico in relazione ad una scena del film
Salo'.
23.02.76 Salo', corruzione di minori. Gli atti vengono spediti alla procura di Brescia e di qui al
pretore di Mantova, per competenza territoriale.
26.02.76 Processo Pelosi. VII udienza. 04.03.76 Processo Pelosi. VIII udienza. 08.03.76 Processo
Pelosi. IX udienza. 09.03.76 Processo Pelosi. X udienza. Accesso sul luogo del delitto. 11.03.76
Processo Pelosi. XI udienza.
11.03.76 L'associazione nazionale per il buon costume ricorre al tribunale amministrativo regionale
per ottenere l'annullamento del Nulla Osta alla programmazione di Salo', con richiesta di immediata
sospensione del provvedimento.
05.04.76 Processo Pelosi. XII udienza. 12.04.76 Processo Pelosi. XIII udienza. 22.04.76 Processo
Pelosi. Udienza di discussione della parte civile e del pubblico ministero. 24.04.76 Processo Pelosi.
Udienza di discussione della difesa.
26.04.76 Processo Pelosi. Sentenza.
26.04.76 Il TAR respinge la richiesta di sospensione del Nulla Osta alla programmazione di Salo'.
23.09.76 Salo', corruzione di minori. Il pretore di Mantova archivia il processo. 04.12.76 Processo
Pelosi. Udienza in corte d'appello e sentenza.
17.02.77 Processo Salo0. La corte di appello di Milano assolve Grimaldi e ordina il dissequestro del
film.
03.03.77 L'associazione nazionale per il buon costume ripropone al TAR richiesta di immediata
sospensione della programmazione di Salo'. 28.03.77 Il TAR respinge la richiesta dell'associazione
nazionale per il buon costume. 07.06.77 Denuncia di un cittadino contro Salo' e nuovo sequestro del
film da parte del pretore di Grottaglie.
09.06.77 Il pretore di Grottaglie viene denunciato dalla societa' produttrice di Salo' per abuso di
potere.
18.06.77 Il procuratore della Repubblica di Milano dissequestra Salo'
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Il testimone misterioso
Oriana Fallaci
Nossignori, l'intervista col ragazzo-che-sa non appare col nome del ragazzo-che-sa.
Non daremo il nome di quel ragazzo. Non ne forniremo neppure i dati somatici, nella speranza che
ciò serva a non farlo riconoscere dagli assassini di Pasolini prima che la polizia possa trovarlo e
interrogarlo e proteggerlo.
Oltretutto la sua non è un'intervista data spontaneamente e con gioia. È un'intervista strappata,
estorta pezzo per pezzo, giorno per giorno, attraverso preghiere, chiacchiere, promesse, a un
poveretto sconvolto dal terrore d'essere punito da "una pistolettata in bocca". Un poveretto che
appartiene al mondo dei prostituti romani, cinquemila al colpo, dieci se va bene, e zitto sennò ti
ritrovi morto anche te sul sentiero di qualche borgata. Chi ha visto il suo volto pallido di paura, i
suoi occhi bagnati di angoscia, chi ha udito la sua voce disperata mentre si raccomandava: "Tu me
devi capì, cerca de capì, la verità io ce l'ho qua in bocca. E me brucia.
Vorrei dirtela proprio, vorrei dirtela tutta. Ma nun ce la faccio perché quelli m'ammazzeno con 'na
pistolettata in bocca", si farebbe fare a pezzi prima di tradirlo. E io con lui. Costi ciò che costi,
riteniamo e ritengo che non spetti a noi consegnarlo alla sua fine.
A noi spetta soltanto registrare le sue frasi smozzicate, le sue ammissioni agghiaccianti, le sue
piccole rivelazioni terribili, insomma la conferma che Pasolini non fu ucciso da Pelosi e basta: fu
ucciso da un gruppo di teppisti che lo seguirono e gli tesero un agguato per rapinarlo o punirlo,
magari su incarico altrui, quindi il testimone di cui parlai la scorsa settimana aveva visto bene, luna
o non luna.
A me, poi, spetta anche dimostrare che tra i diritti e i doveri di un giornalista v'è quello di
pubblicare un'informazione che riguarda la comunità: sia pure col dubbio di un punto interrogativo.
Prima però devo chiarire qualcosa che mi sta molto a cuore. lo disprezzo chi non parla per paura,
chi si nasconde dietro l'anonimato. lo ritengo complice in omicidio chi assiste a un omicidio o a una
qualsiasi violenza e non tenta di impedirlo e poi tace. Io sputo il mio disgusto su chi vide
ammazzare Pasolini e invece di corrergli in aiuto si rintanò zitto zitto nella sua baracca ad attendere
che gli assassini scappassero via.
La vigliaccheria, l'omertà, l'egoismo, la stessa prudenza sono a mio avviso crimini immondi.
E aggiungo: niente, per me, è più immorale della paura. Non la paura che si prova, volenti o nolenti,
ma la paura che non si vince con uno sforzo dell'anima. Però l'immoralità altrui ha un effetto
delizioso su me: rafforza la mia moralità. E la mia moralità, sia personale che professionale, mi
impone di non tradire la parola data a chi mi raccontò che Pasolini era stato ucciso da tre persone e
non da una, e che non lo dicessi per carità, sennò-avrebbero-fatto-fuori-anche-me. (Oltretutto, le
minacce mi infuriano, mi inducono a comportarmi subito nel modo opposto a quello che mi viene
ordinato.) Non tradire la parola data in questo caso era, ed è, un atto di umanità
Non siamo tutti uguali, non abbiamo tutti le stesse debolezze o gli stessi rigori. La persona che mi
raccontò non mi assomiglia.
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Non è pronta a rischiare, non è pronta a pagare sebbene abbia già pagato un pochino: la sera stessa
in cui seppero che non aveva taciuto, venne picchiata e minacciata.
E da allora vive in una paura che, se non è pari a quella del ragazzo-che-sa, vi assomiglia molto. Del
resto anche le persone che stanno intorno a questa persona, i suoi amici e parenti e colleghi, hanno
paura. Tutti coloro che hanno udito il suo racconto, con me e oltre a me, hanno paura. E son tanti. Il
testimone cui allusi la scorsa settimana non si confidò, infatti, a un individuo e basta. Per due giorni
disse a un mucchio di gente ciò che aveva visto e udito. Solo quando ne capì le conseguenze si
decise a "chiudere il becco", anzi a minacciare gli stessi che aveva informato senza che glielo
chiedessero. E se baso i miei calcoli sul fatto che chiunque venga a sapere una cosa sensazionale la
confida a sua volta a due o tre, concludo che esistono alcune decine di cittadini italiani a Roma in
grado di fornire il nome del testimone. Perché non lo fanno? Perché hanno paura? Perché si
trasmettono le minacce? Cosa c'è dietro questa lurida storia? "Chi" c'è? È così grande il rischio che
corrono da fargli dimenticare un dovere civile e il bisogno di scaricarsi d'un peso greve come il
nome di colui che vide? Quel nome io non lo conosco. Ogni volta che il telefono squilla spero che
sia per darmi il nome. E invece mi dà solo una voce strozzata dalla paura. La centnilinista
dell'"Europeo" v'è così abituata che, ogni volta, mi passa la comunicazione dicendo: "E uno di
quelli con la voce strozzata dalla paura". Poi me lo passa e la voce strozzata dalla paura chiede
ansimando: "E proprio lei Oriana Fallaci?". E io rispondo: "Sì, sono io. Lei chi è?". E la voce: "Non
posso dirglielo... ma ho da riferire che... quel delitto... Posso fidarmi?". "Sì, può fidarsi". "Guardi
che per me è un rischio grosso e... Be', richiamo dopo". Dopo richiama, magari, per farfugliare il
suo panico, offrire appuntamenti impossibili, innervosirsi se mi spazientisco. E, ammenoché io non
sappia più intuire le cose, e all'improvviso sia rimbecillita, finisco col pensare che il suo nervoso sia
autentico, il suo panico sia sincero. V'è qualcosa o qualcuno che li spaventa. E, tanto per restare sul
tema della paura, non credo che la paura del testimone che tace sia paura della moglie. Certi
colleghi cui non è piaciuto ch'io stuzzicassi il vespaio mi fanno torto a ritenere che abbia preso per
buono l'intero racconto.
Il particolare delle catene e delle rnoquettes, per esempio, mi ha sempre lasciato perplessa, ma alla
storia dello sciagurato che non vuoI compromettersi per via della moglie non ho addirittura creduto.
Non è lei che il testimone teme, sono coloro che terrorizzano i probabili informatori. Stanno troppo
in basso o troppo in alto? Forse egli li conosce bene, ed essi conoscono bene lui.
Forse egli si fece vedere quando accese la luce nella baracca. Forse essi sanno che la baracca dove
si accese la luce era sua.
E a proposito della luce accesa: chi ha detto che fosse luce elettrica? Avrebbe potuio essere un lume
a batteria e anche una torcia elettrica. Avanti, signor testimone che ora mi legge, ce lo dica con una
lettera anonima. Per rinfrescarle la memoria, intanto, io le dico che cosa ho appreso di lei: che la sua
casa è a Roma e che la sua moglie è siciliana o calabrese, che ha due figli, che un suo amico è
camionista o addetto ai trasporti, che un altro è un muratore uso a costruire abusivamente "villette"
all'idroscalo. La persona che mi raccontò e che io non tradisco, sennò lei la picchia, mi disse anche
qualcos'altro. Fu quando esclamai: "Se costui ha paura che sua moglie scopra che era a letto con
un'altra donna o una prostituta, perché non telefona alla polizia senza dare il suo nome?" Mi disse:
"Perché quelli capirebbero lo stesso che a smascherarli è stato lui. Se la fanno con la droga e,
quando c'è di mezzo la droga, chi canta finisce sottoterra". Vediamo dunque perché esistono almeno
numerose probabilità che abbia fatto centro riferendo una storia che era mio dovere riferire e
insinuando il dubbio che la polizia ci avesse regalato una versione un po' sbrigativa o un po'
ingenua. Vediamolo rifacendoci alle domande che io ponevo in base a un ragionamento così
elementare da non andarne fieri: "Perché il Pelosi non parla e si assume tutte le responsabilità?
Perché lui stesso ha messo sulla pista la polizia raccontando di avere perso un anello che nessuno
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fino a quel momento sapeva che fosse suo? È possibile perdere un anello durante una colluttazione?
Non si darà il caso che Pelosi abbia gettato l'anello lì di proposito?" Di proposito lo ha gettato
davvero. Non solo Io afferma il ragazzo intervistato da Mauro Volterra prima di pentirsi e gridare:
"Lasciame andà, nun so gnente, nun t'ho detto gnente!", ma lo si deduce dal fatto che non poteva
perderlo durante la colluttazione. Infatti gli era stretto. Lo afferma la sua amica Stella Angeletti Di
Martino che glielo notò e chiese di guardarlo sul proprio dito ma lui non riusciva a sfilarlo. (La
notizia è di "Paese Sera".)
Lo sanno i carabinieri che sul Pelosi hanno fatto una prova e hanno concluso:
"Novecentonovantanovemila casi su un milione non poteva perdere l'anello". Quindi Pelosi
imbeccò la polizia, contando sul fatto che essa ci sarebbe cascata. E la polizia ci cascò, non
conoscendo la legge di gravità formulata da Newton e nota in tutte le scuole elementari come "la
mela di Newton".
Sulla testa di Newton era caduta una mela, grazie alla legge di gravità. Sulla testa della polizia
italiana era caduto un anello, grazie alla stessa legge di gravità. Però mentre Newton ci aveva
ragionato un po' su, la polizia italiana non ci aveva ragionato su per niente. Era una domenica piena
di sole, e con un bel ponte.
Perché cercare complicazioni? Regalarsi il sospetto che Pelosi avesse voluto firmare il delitto
lasciando l'anello avrebbe posto una quantità di domande difficili. Ad esempio: per quale motivo il
ragazzo voleva accusarsi, assumersi ogni responsabilità? Poteva esistere un motivo? Non c'è
bisogno d'essere Newton per concludere: sì. Supponiamo infatti ch'io sia un ragazzaccio senza nulla
da perdere e supponiamo ch'io viva di furtarelli, di scippi, di auto rubate e poi rivendute a pezzi, nel
mondo della prostituzione e della droga.
Supponiamo che io abbia un debito da saldare con quel mondo perché ho fatto uno sgarro o un
errore, e che i miei compari vogliano servirsi di me per rapinare Pasolini. È già successo, a Pasolini,
d'essere rapinato dai ragazzacci: più volte, e anche pochi mesi fa. Di notte Pasolini non va mai in
giro con più di ventimila lire in tasca, però porta sempre con sé il libretto degli assegni.
Alcuni mesi fa, il colpo degli assegni è riuscito. Pasolini voleva farsi un sandwich con due del
Colosseo e, anziché in un prato, quelli l'hanno portato su un ponte. Qui, minacciandolo di buttarlo
sotto, nel Tevere, gli hanno fatto firmare un assegno da duecentocinquantamila lire. (I carabinieri lo
sanno, l'episodio è agli archivi.)
Al Colosseo e ai giardinetti se ne parla ancora, con ammirazione e con rabbia: bravi, sì, ma perché
solo duecentocinquantamila? Col libretto degli assegni potevi pretendere molto di più, tutto ciò che
volevi. Il colpo va tentato di nuovo, e Pelosi ci sta. Farà da esca. Lo condurrà in un luogo sicuro, e
in pochi minuti tutto sarà sistemato. Così avviene. Pasolini è però coraggioso e robusto. Tenta di
ribellarsi e bisogna pestarlo: a un punto tale che resta lì come morto. C'è una breve discussione
concitata: che fare? Tanto vale finirlo, sennò ci riconosce.
D'accordo: e se gli passassimo sopra con l'automobile? Sì, e poi? Poi nulla: gli si porta via
l'automobile e la si vende a pezzi. Grazie tanto, dice Pelosi, ma ai giardinetti hanno visto salire me
sulla "GT": la colpa la daranno a me.
A te la danno comunque, rispondono i compari, però una cosa è se scoprono che hai agito con altri a
scopo di rapina e una cosa è se gli racconti d'aver agito da solo: per legittima difesa in quanto
Pasolini ha offeso il tuo onore didietro. Sei minorenne. Nel caso peggiore ti becchi due o tre anni,
nel caso migliore vai assolto: povero-ragazzo-insidiato-e-sedotto-da-un-depravato-come-Pasolini.
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Pelosi se ne convince. I due scappano e lui resta solo, accanto al cadavere sfigurato. Ha un attimo di
smarrimento, grida la frase udita dal testimone che tace: "Mo' me lasciate solo, mo' me lasciate
qui!".
Ma subito si riprende. Si sfila l'anello, lo getta per terra, parte con la "GT" contromano e a velocità
esagerata. Lo beccano in un quarto d'ora. E poiché in Italia i tutori dell'ordine non sono certo come
Newton, accettano senza fiatare la tesi dell'auto rubata. Non si disturbano neanche a notare che sul
sedile posteriore c'è, bene in vista, un golf macchiato di sangue. Il golf di Pasolini. Se ne
accorgeranno tre giorni dopo. E allora sorgerà il problema: perché il golf macchiato di sangue stava
nell'automobile e la camicia macchiata di sangue stava tra le immondizie, cioè lontano dal corpo di
Pasolini in canottiera? Possibile che Pelosi abbia fatto tutto da sé, compreso spogliare un corpo
pesante come un corpo senza vita? E com'è che, malgrado quel traffico, Pelosi non è quasi
macchiato di sangue? Non si darà il caso che qualcuno lo abbia aiutato? Ora supponiamo che io sia
lo stesso ragazzo e che qualcuno mi voglia usare per tendere un agguato non a scopo di rapina ma
per eliminare un uomo scomodo come Pasolini. Dietro di me, stavolta, non due compari della mia
età ma alcuni magnaccia o alcuni tipi molto potenti che Pasolini ha disturbato e disturba. Alcuni
tipi, diciamo, che vogliono farlo morire due volte, cioè fisicamente e moralmente: nella vergogna.
Se mi chiamo Pelosi servo bene allo scopo. E, se accetto, è un gioco da nulla.
Magari accetto perché non ho scelta, perché anche in questo caso ho un debito da saldare. Un debito
che vale un'incriminazione per omicidio, un processo dove vengo assolto per legittima difesa o
condannato a una pena mite perché sono minorenne e ho difeso il mio onore. Un processo insomma
dove il vero imputato non sono io ma Pasolini. Del resto non è detto che lo debba ammazzare,
questo Pasolini. A chi ci ha ordinato e pagato l'agguato io ho ben ripetuto che preferirei un
pestaggio e basta. E questa ipotesi non è fantasia. Si basa sulle dichiarazioni fatte a me da un barista
che si chiama Gianfranco Sotgiu e che si dice disposto a deporre dinanzi al giudice istruttore.
L'incontro col Sotgiu è avvenuto nel mio ufficio, presenti il nostro collega Paolo Berti e il nostro
collaboratore Mauro Volterra. L'uomo era molto spaventato ed esitante.
M'aveva telefonato più volte, dandomi appuntamenti che non si materializzavano mai, e solo dopo
infinite incertezze s'è deciso a venire da me. Ecco la sua testimonianza, parola per parola. "Fu
giovedì pomeriggio, verso le quattro o le quattro e mezzo. Giovedì 30 ottobre. Fu al bar Grande
Italia, in piazza Esedra. Nel bar ci sono due telefoni a gettone, uno per le chiamate urbane e uno per
le chiamate interurbane. Io ero entrato per cercare un numero nelle Pagine gialle. Il numero era di
un campo sportivo a Trastevere, diretto da un prete. Volevo telefonare al prete e chiedergli se il
campo era disponibile per una partita. Le Pagine gialle stavano sotto l'apparecchio delle interurbane,
quel ragazzo stava telefonando dall'apparecchio accanto. Non mi ricordo tutto ciò che diceva ma
ricordo queste parole: "Va bene, mi faccio portare al posto dove sono già stato. Se è solo da
menargli ci sto, sennò lasciamo perde". E dopo un po' disse: "Aò, me raccomando. Solo pe' un po'
de botte e basta".
E poi disse: "Ah, senti. Me servirebbe un po' de soldi". E poi disse: "Eh, no, che faccio. Aspetto fino
a sabato pe' un po' de soldi?". E poi: "Vabbe', t'aspetto qui sotto i portici, se poi venire in piazza
Esedra sotto il cinema Moderno". Attaccò il ricevitore, uscì, e quasi subito tornò.
Dico quasi subito perché io stavo ancora lì a cercare il numero del campo sportivo in Trastevere. E
questa telefonata la sentii tutta, insomma la ricordo tutta. Io mi girai quando sentii che faceva il
numero, mi venne spontaneo. Fu una telefonata breve. Disse: "Pronto, me chiami Franz". Poi disse,
e non so se lo disse a Franz: "Senti, ci ho ripensato. Vorrei andare al cinema e se è possibile ti
aspetto alle otto, Otto e mezzo. Se vieni a quell'ora". E l'ultima parola che disse prima di riattaccare
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fu: "Aò, me raccomando. Porta il dollaro". E uscì. Io questo ragazzo non lo avevo mai visto. E in
faccia non lo vidi neanche tutto, all'inizio, perché alla prima telefonata non faceva che sofliarsi il
naso. Alla seconda mi voltava un poco le spalle, ma era più visibile.
E appena ho visto le fotografie del Pelosi sul giornale ho pensato: io questo l'ho visto, lo conosco.
Ho riconosciuto bene la parte superiore della faccia, il naso, le sopracciglia, gli occhi
E gli zigomi pieni. Era un ragazzo alto all'incirca come me ma più robusto di me, soprattutto alle
spalle. Più che guardo le sue fotografie più che Io riconosco. E fu riconoscendolo nelle fotografie
che mi scattò il ricordo. Mi scattò con la frase: "Aspetto fino a sabato pe' un po' de soldi'".
Alla polizia non ho detto ancora nulla perché ci ho paura. Una grande paura. Quella è gente che
mena, che ammazza. Magari mi trovano e poi... Ci devo pensare bene prima di rimetterci. Io mi
levo un peso dallo stomaco, ma ci rimetto. Rischio. Da lei mi sono deciso a venire quando ho letto
sul giornale di questa faccenda. M'è sembrato che il mio fosse un episodio importante. E se
c'entrasse la politica? Lei scriva pure le cose che ho detto. lo le giuro che sono vere. Lo giuro
sull'anima mia." Si tende, dunque, questo tipo di agguato.
Esso richiede un appuntamento con Pasolini, è vero, ma i suoi amici più intimi come Ninetto Davoli
ammettono che di solito Pasolini non improvvisava le sue avventure. "Prendeva l'appuntamento
anche con due o tre giorni di anticipo.
Infatti, di solito, me lo diceva. Era raro che l'avventura la decidesse lì per lì. Perché era prudente".
Però, se è vero che Pelosi conosceva già Pasolini, tutto diventa semplice. Supponiamo che
l'appuntamento esistesse già, anche se Ninetto non lo sapeva. Pasolini arriva puntuale, la sua cena
con Ninetto e la moglie di lui è durata soltanto fino alle dieci e mezzo. Carica prima un ragazzo che
per qualche ragione non va o che è il protettore dei prostituti, torna indietro, lo fa scendere e costui
chiama Pelosi. Si avvicina Pelosi, "Ciao, sei Pasolini?", e sale sulla "GT". Si allontanano discutendo
dove andranno. Pelosi vuol essere certo di dare l'indirizzo giusto, perché gli altri lo seguano come
stabilito. Dopo un poco la "GT" riappare.
Pelosi scende con una scusa: deve riprendere le chiavi di casa che aveva lasciato agli amici. Bugia
di un bugiardo irrimediabilmente e sempre bugiardo: le chiavi di casa le prende ma allo stesso
tempo consegna quelle di una "850".
La sua. Il ragazzo terrorizzato che s'è confidato col nostro collaboratore Mauro Volterra non ha
forse fatto capire che la Mini Morris non era una Mini Morris? Cos'era dunque? La "850" di Pelosi?
Durante questo scambio di chiavi Pelosi dice anche dove andranno: prima al ristorante Biondo
Tevere e poi all'idroscalo. Quindi torna alla "GT" di Pasolini e di nuovo i due partono: seguiti da
un'automobile che potrebbe essere la "850" e da una motocicletta. A bordo dell'auto e della
motocicletta, i teppisti scelti per il pestaggio. Un pestaggio mortale anche nelle intenzioni? Vicino
al ristorante si appostano. Oppure hanno un appuntamento con Pasolini cui non sempre piace
disporre di un prostituto soltanto? Durante l'attesa quelli dell'automobile cambiano idea. Forse tra
loro c'è il ragazzo terrorizzato che dice: "lo so' riuscito a uscinne".
A seguire Pasolini e Pelosi, o a incontrarsi con loro, sono soltanto i tipi della motocicletta. E,
all'Idroscalo, la tragedia si compie più o meno come racconta il testimone-che-tace. Insomma, più o
meno secondo la versione che io offrii sull'"Europeo" la scorsa settimana. Sottolineo il "più o
meno" perché niente ci prova per ora che l'alterco ebbe inizio in una baracca. Con molte probabilità
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esplose subito fuori. Ma il resto del racconto convince: "Pasolini riuscì a raggiungere l'automobile e
si apprestava a salirci quando i due giovanotti della motocicletta lo agguantarono e lo tirarono fuori.
Pasolini si divincolò e riprese a fuggire. Ma i tre gli furono di nuovo addosso e continuarono a
colpirlo. Stavolta con le tavolette di legno e con le catene". C'erano queste catene? lo non lo so, però
c'erano due tavolette e un bastone. Le due tavolette eran quelle dove c'è scritto 'Buttinelli A." e "Via
Idroscalo 93". Ma insomma! C'è bisogno di essere Newton o Sherlock Holmes per capire che
quando uno picchia da solo non adopera tre oggetti?!? Ma quante mani ha? Tante quante la dea
Kali? Oppure adopra prima il bastone, poi una tavoletta, poi un'altra tavoletta, perdendo tempo a
cambiare, mentre Pasolini si difende? Ragioniamo col cervello o con i piedi?
Neanche sul piano della logica vogliamo prendere in considerazione il racconto del testimone-chetace? La polizia risponde: "Non poteva vedere perché non c'era la luna".
Non poteva neanche udire tre voci diverse che gridavano, perché non c'era la luna? No, senza luna
diventiamo ciechi e sordi in Italia.
Non udiamo più nulla e non vediamo più nulla, neanche a cinquanta metri, a trenta, neanche se da
qualche parte giunge un chiarore, per esempio dai capannoni oltre la strada asfaltata, neanche se la
scena avviene (mettiamo) intorno a una certa "GT" coi fari accesi. Siamo un popolo senza virtù, un
popolo che sa tenere il becco chiuso e che adora l'anonimato, ma siamo un popolo così romantico.
Facciamo dipendere tutto dalla luna, e guai se non c'e. Il resto è più o meno la ripetizione di ciò che
avvenne se fu un agguato a scopo di rapina e non di pestaggio. Col particolare dell'anello eccetera.
E se quell'anello a Pelosi lo avesse regalato qualcuno, ad esempio qualcuno che è implicato nella
lurida storia? E se Pelosi se lo fosse sfilato e lo avesse lasciato cadere per vendicarsi d'esser stato
messo in un pasticcio che (s'era raccomandato) doveva limitarsi a un po' di botte e basta? Forse è il
caso di pensarci e forse no. Ben consigliata, o mal consigliata, la famiglia di Pelosi ci informa ora
che "Pino aveva un attaccamento feticistico per il suo anello". Feticistico? Che parole difficili può
imparare la povera gente ignorante grazie alla legge. E comunque dubito che avremo le risposte
invocate. Troppo tempo si è perso, troppe occasioni. Se pensi che la polizia non si curò nemmeno di
recintare il luogo del delitto e impedire alla folla di cancellare le tracce. Ad esempio, le tracce di
una motocicletta. Se pensi che alcuni giovanotti giocavano a pallone lì intorno e il pallone finiva
ogni tanto sul cadavere di Pasolini. Se pensi che il cadavere venne lavato prima di completare gli
esami della scientifica. Si voleva lavare anche la nostra coscienza? Oddio, ma per quello non
basterebbero le cascate del Niagara. Arida e sporca come il cuore di chi non parla, essa non sa
affrontare nemmeno un granello di verità. E quando qualcuno per caso lo offre, osservando i diritti e
i doveri di un cittadino e di un giornalista, subito s'alza un gran vento. E spazza via quel granello, in
un turbinare di sabbia.
È stato un massacro
Oriana Fallaci
Questa è, parola per parola, la ricostruzione del dialogo avvenuto a più riprese tra il nostro
collaboratore Mauro Volterra e il ragazzo che sa come mori Pasolini, o meglio chi (oltre al Pelosi)
uccise Pasolini.
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Ho ritenuto giusto lasciare le frasi del ragazzo così come furono dette da lui, e cioè in dialetto
romanesco, per non alterarne in nessun modo la spontaneità e l'autenticità. Ho ritenuto opportuno
rispettare rigorosamente la successione cronologica dei colloqui avvenuti tra Volterra e il ragazzo
per non manipolare in nessun modo la loro importanza e la loro utilità.
Le notizie contenute dentro le parentesi che interrompono il dialogo spiegano come avvennero i
drammatici incontri e sino a che punto il ragazzo fosse terrorizzato dalla paura d'essere ucciso. "Te
ne devi annà, capito? Te ne devi annà! lo so' riuscito a uscinne da questa storia, ne so' uscito fori.
Perché me voj rimette in mezzo ar casino? Perché me voj rovinà? Va via, va via!"
E in quale modo sei riuscito a uscirne? "Mo te lo vengo a dire a te! Perché te lo dovrei dire a te'?"
Perché ci potresti guadagnare un po' di soldi. Io te le pago queste informazioni. "Nun li vojo li sordi
tua! Che ci faccio con li sordi tua? Mannaggia, è facile parlà per te che nun rischi gnente. Tu con
questa storia ce fai carriera. Ma io me becco na pistolettata in bocca, capito? La pelle è mia, mica è
tua, capito?" Ti assicuro che non dirò mai a nessuno d'avere avuto certe informazioni da te. C'è il
segreto professionale. "E io come faccio a fidamme? E se poi lo racconti invece? Tu ormai me
conosci come faccia.
" lo, il viso tuo, dopo averti parlato lo dimentico. "Ce credo proprio, ce credo. Tu quando l'hai
dimenticato vieni a ricercamme per ricordallo un'altra volta. E me fai la fotografia all'improvviso,
de nascosto. Bel guadagno ritrovamme con la fotografia sur giornale. E sotto la fotografia la scritta:
"Ecco er testimone". Aò! Mica so' stronzo." [Il primo incontro tra Mauro Volterra e il ragazzo è
avvenuto in una via di Roma. Anzi in una via frequentata da prostituti, ladri, ricettatori: l'ambiente
che ha ucciso Pasolini.
Era notte. Il ragazzo, scoperto dopo una lunga e paziente ricerca, era profondamente impaurito.
Cercava di sottrarsi alle domande di Volterra sgusciandogli via e camminando svelto lungo il muro.
Sapeva la verità ma sapeva anche che dirla avrebbe potuto costargli molto. Allo stesso tempo,
sembrava combattuto tra quella paura e la voglia di parlare, il bisogno di parlare per liberarsi d'un
peso. La schermaglia tra lui e Volterra durò circa mezz'ora, e cioè fino a quando il nostro
collaboratore si allontanò, deciso a ritrovarlo. Lo avrebbe ritrovato, infatti, due giorni dopo. Il
dialogo che segue si riferisce all'incontro di due giorni dopo.] "Ah, ma allora nun ce semo spiegati!
Nun hai capito che nun te vojo vedé, che nun te dico gnente! Ma perché sei tornato? Lé, hai fatto un
viaggio a voto. Stai a perde tempo." Una cosa soltanto. Lo sai dov'è la baracca di Pasolini all
Idroscalo? "Sì che lo so.
Te potrei pure dì andove sta con esattezza. Ma nun te dico gnente. Capito? Gnente! - Ma chi sa
gnente! Stavo a scherzà!" Sai anche chi erano gli altri che l'hanno ammazzato? "Ah! T'ho capito! È
questo che voj sapé: chi so' quell'altri." Si, gli altri due. "Chi t'ha detto solo due? Mannaggia, se te
dicessi la verità fino alla fine, ce sarebbe de fà un volume! Lé, io te saluto e me ne vado. Amici più
di prima." Non andartene, via, stai calmo... Non avere paura. Camminiamo un po'. Che t'importa se
camminiamo insieme per un po'. "Vabbé... In fondo mi sei pure simpatico." Di ma qui non si
vedono piu quelli che hanno la motocicletta? Chi ce l'ha la motocicletta? "Vuoi dire la Gilera 124?
Quella ce l'ha il Roscio.
" Chi? "Ma che me fai dì? Me fai di quello che nun vojo dì! Te ne voj andà? Mo vedi come sono i
giornalisti? Te fanno le moine davanti e appena te revorti te fregano. Te ne voi andà? T'ho detto
pure troppo. Anzi nun t'ho detto gnente, capito?" Senti, io non voglio i nomi e i cognomi. Mica sono
un poliziotto. "Anche se nun sei un poliziotto, come faccio a sapé che nun me voj mette in mezzo,
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che nun me voj denuncià, che nun ciai quarcun altro appresso? E sai che te dico? Come faccio a
esse certo che nun sei un poliziotto, che sei un giornalista peddavvero?" Ecco la mia tessera di
giornalista. E, se non ci credi, vieni al giornale. Ci mettiamo in una stanza e parliamo là. "Manco pe'
gnente! Così da quella stanza nun esco più. Al giornale me vedono in troppi. E tu... Ma tu me voj fa'
ammazzà! Me voj fa' finì con na pistolettata in bocca!
Te lo voj mette en testa che se parlo m'ammazzeno?!? Ascoltame, lé: io te la direi la verità. Te la
direi tutta, perché me sta qui. Però se la dico me pijo la pistolettata in bocca. E nun ce riesco! Nun
ce riesco!" Provaci. "Ora ciò da fà. Vedemoce domani." D 'accordo. "Però se parlo nun te dico tutto,
t'avverto. Te dico mezza verità e basta, capito? Perché se te dico tutta la verità intera, poi te devo
sparà a te. Te devo sparà in bocca." Il secondo incontro è avvenuto in un punto diverso della città,
cioè in un punto non frequentato dai prostituti e dai ladri. È avvenuto anch 'esso di notte e, stavolta,
il ragazzo era più che impaurito: era terrorizzato. Aveva ricevuto minacce da qualcuno, forse?
Qualcuno che lo aveva visto con Volterra o che lo aveva saputo? L'impressione di Volterra è che il
terrore non gli venisse dai compagni di vita ma da persone più lontane e più forti.
Contemporaneamente, v'era nel ragazzo una durezza insospettata la prima volta. Diciamo la durezza
che nasce nei deboli dalla paura. La sua voce era fredda, decisa, quando ha esclamato: "Se te dico
tutta la verità intera poi te devo sparà a te, te devo sparà in bocca". E su questa frase si sono lasciati
per ritrovarsi l'indomani, in una strada del centro. [Ciò che segue è il dialogo del terzo incontro,
incominciato con scena muta. L'appuntamento era infatti dinanzi a un negozio, ma quando è giunto
Volterra il ragazzo non stava dinanzi al negozio.
Volterra l'ha visto in un portone, che si nascondeva. Lo ha chiamato allora con un gesto della mano.
Il ragazzo ha risposto con un moto di stizza. Poi ha attraversato la strada, gli ha detto con ostilità:
"Aspettami qui". Infine è andato dietro una colonna, ha tolto dalla tasca un foglietto e, sveltissimo,
gli ha dato fuoco con un fiammifero. Quando Volterra gli si è avvicinato, per terra restava un
mucchietto di cenere.
E il ragazzo la calpestava, in preda all'ira.] "Ecco, me l'hai fatto brucià! Ce avevo scritto mezza
verità, in quel biglietto, e ce l'avevo scritta per te... E tu me l'hai fatta brucià." Io?!? "Si, te,
mannaggia a te. Perché m'ero preparato tutto, mannaggia a te. Te volevo pedinà pe' vedé se eri solo
peddavvero o se ciavevi quarcuno dietro, e dopo, se ero sicuro che nun ciavevi nessuno dietro, te
davo er biglietto e scappavo. Così nun me cercavi più. Hai rovinato tutto.
" Non importa, mi dici le stesse cose a voce. Tanto io le cose le so già: da te voglio una conferma e
basta. Hai letto l'articolo della Fallaci? "Io i giornali nun li leggo mai." Allora andiamo a comprare
il mio. Cosi leggi quello. "Giurame su mamma tua che nun me fai uno scherzo." Lo giuro su
mamma mia. Voglio solo che tu legga quell'articolo. [Si sono avviati verso un'edicola e hanno
comprato "L'Europeo". Il ragazzo ha voluto pagarlo. Poi, con "L'Europeo" in mano, sono entrati in
un bar, hanno chiesto due caffè, si sono seduti a un tavolo. Anche i due caffè ha voluto pagarli il
ragazzo. Il ragazzo sfogliava le pagine su Pasolini con curiosità e diceva: "Ah, è questo
"L'Europeo"?". Quando Volterra gli ha indicato il mio pezzo a pagina 23 e il titolo "Ucciso da due
motociclisti?" s'è messo a leggerlo attentamente e annuendo con dondolii della testa. A circa metà
del pezzo, o poco prima, ha improvvisamente sbattuto il giornale sul tavolo.] "Ma ce l'hai qui la
verità! Ce l'hai qui nell'articolo! Che voj da me? È successo così! Che voj da me'?" Una conferma.
"Te la dò, te l'ho data. Che me voj fà dì? Se parlo ancora finisce che si capisce chi sono io. Lo fai
capire insomma. Perché io da questo articolo l'ho già capito chi è l'omo che ha visto.
È quello che va a fare l'amore laggiù con... No, no, fa conto che nun so gnente, che nun t'ho detto
gnente." Va' avanti, finisci di leggere l'articolo e poi parliamo. [Il ragazzo ha ripreso la lettura ma,
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giunto alla seconda parte della seconda colonna, ha assunto un'aria ironica e delusa.] "No, le catene
no. Quelle nun ce stavano. Su quelle le hanno detto na bugia. E poi chi le usa più le catene pe'
menà?" Lo sappiamo. Lo sapevamo che probabilmente v'erano inesattezze nel racconto. Ma
dovevamo riferire quel che c 'era stato riferito, senza censure, sennò avremmo rischiato di tagliare
cose vere. "Però a parte le catene... Mannaggia! Ma chi gliele è andate a dì queste cose? Chi è
stato?" Se io te lo dico, ti dimostrerei che non rispettiamo il segreto professionale. E avresti ragione
a non fidarti di me quando ti assicuro che nessuno saprà chi è stato a darmi la conferma. Leggi
ancora. Leggi fino in fondo. [Ha letto fino in fondo, con attenzione quasi morbosa, e alle ultime
righe ha avuto uno scatto ai bordi dell'isteria.] "Sì! Questo è vero, sì! E vero!" Cosa è vero? "La
storia dell'anello! Ce l'ha lasciato apposta. È vero che Pelosi l'ha lasciato apposta! Lo so!" Vuol dire
che l'ha fatto per incriminare se stesso o qualcun altro? "Lasciame stà! Lasciame andà! Nun dico
gnente! Nun ho detto gnente! devo andà via! Ciò un appuntamento!" [Il ragazzo s'è accorto troppo
tardi d'essersi lasciato sfuggire qualcosa che giudicava molto pericoloso. E ciò lo ha gettato in preda
al panico, anzi alla disperazione. Sconvolto da ciò che aveva detto s'è alzato, è uscito dal bar, s'è
messo a correre lungo il marciapiede.
Volterra lo ha raggiunto, lo ha costretto a fermarsi, e con una mano gli teneva il braccio destro, con
l'altra gli mostrava il denaro respinto il giorno prima.] Guarda, questi soldi sono davvero per te. E se
non ti bastano te ne do ancora. Perché non vuoi guadagnare un po' di soldi senza rischiare nulla?
"Nun li vojo! Che ce faccio con li sordi se me pijo una pistolettata in bocca? Nun li vojo!" Ma di chi
hai paura? Di chi? Prendili. "No. Cerca de capì. Nun posso. Io con questi sordi me ce potrei divertì
due settimane e magari anche un mese. Ma se li piglio io nun ce arrivo a un mese, nun ce arrivo
nemmeno a due settimane. Ascortame, lé - tu te tieni li sordi tuoi, e io me tengo la pelle mia." [S'è
divincolato, ha ripreso a scappare. Volterra lo ha inseguito e raggiunto, costringendolo a rallentare il
passo e a camminargli accanto. Hanno continuato così, camminando l'uno accanto all'altro, per circa
un'ora e mezzo. Hanno girato, a piedi, mezza città. Alcuni tratti li facevano in silenzio completo,
altri discutendo sull'opportunità di fermarsi e parlare o no. Tutto il dialogo che segue va letto senza
dimenticare il panico e la disperazione che aveva preso il ragazzo. Ansimava, tremava, si guardava
alle spalle per convincersi di non esser seguito. Ogni tanto sembrava anche cedere alla tentazione di
guadagnarsi quei soldi e annunciava che al prossimo bar si sarebbero fermati, ma poi il bar non gli
andava bene e la marcia riprendeva: come un incubo.]
"Tu me devi capì, cerca de capì. Io la verità ce l'ho qua in bocca, lé. E me brucia. Vorrei dirtela
proprio, vorrei dirtela tutta. Ma nun ce la faccio. Ciò troppa paura. Ma che ce guadagno a parIà'?
Ma che sono li sordi se m'ammazzeno'? Quelli m'ammazzeno!" Via, calmati. Calmati. "Senti come
scotto. Senti come brucia la faccia mia. Nun lo vedi che so' tutto rosso? So' un foco. Nun ce la
faccio. Famme calmà. Quando me so' calmato, provo a parlà. Te giuro che ce provo perché n'ho
voglia. Al primo bar con le sedie ce fermamo e te dico tutto. No, tutto no: te dico mezzo. Ma te
dico." Bene. Questo bar qui ti piace? "No. C'è troppa gente." Allora questo. Questo è quasi vuoto,
guarda. "No, nun me piace. Meglio la chiesa. La scalinata della chiesa. Mettemose là." Mettiamoci
qua. "Mo aspetta, eh? Aspetta che me riposo un pochetto. No, nun me va bene neanche qui. Ce
vedeno in troppi." [S'è rialzato. Si sono rialzati. Hanno ripreso a camminare.
Si sono fermati a un sottopassaggio. E qui, finalmente, ha incominciato a parlare.] "Quella sera...
Guarda, quella sera...
Ecco: Pasolini, è arrivato con er "GT". È arrivato lì, ai giardinetti davanti al bar. E arrivato e ha
fatto montà subito uno che nun era il Pelosi. Ed è partito con lui e hanno fatto un giro. Un giretto de
cinque minuti, diciamo, una cosa così. Poi è tornato e il ragazzo che aveva fatto montà è sceso. Il
ragazzo è sceso, è andato verso il Pelosi e l'ha preso da parte e se so' parlati.
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Allora Pelosi è montato lui sulla macchina de Pasolini. E sono andati via ma dopo un poco sono
tornati. Robba de poco tempo. E Pelosi è sceso. È venuto verso de noi. S'è messo a parlà con noi.
Si, c'ero pure io. Vabbé, c'ero pure io." E che vi ha detto il Pelosi? "Tu me voi rovinà! Nun te lo
dico che ha detto! Famme annà via!" Calmati. Continua il racconto. "Lo continuo perché me piaci.
Dei sordi tua me ne frego. Però te devo ricordà che la verità tutta intera nun te la posso dì, te ne
posso dì mezza e basta, quell'altra mezza te la devo raccontà con quarche bugia pe' fà confusione.
Sennò me riconoscono che so' io che t'ho detto le cose. E la verità è che quando il Pelosi è risalito
de novo sulla "GT" de Pasolini...
E Pasolini s'è allontanato de novo con lui a bordo... ecco... l'hanno seguito. Dietro ce se so messe
una Mini e una moto.
Voglio dì una Vespa 125. No, una Vespa 50... Nun Io so che era. Nun te Io dico che era." Lo sai,
ma qui dici la bugia. Neanche la Mini era una Mini, vero? "Lo vedi che fai er pezzo de merda? Lo
vedi che me voi imbroglià? E che, so' fregnone io?" E la Vespa non era una Vespa. Perlomeno, non
era una Vespa 50. E magari era una moto. "Lasciame annà, lasciame annà. La cosa più importante
te l'ho detta!" No, ancora no. Vai avanti, ti prego. "Bé... L'hanno seguito. L'hanno seguito prima al
ristorante. E qui l'hanno aspettato e..." [Su queste parole s'è alzato, di scatto, pentito, deciso a
fuggire, e Volterra è riuscito a trattenerlo. Il ragazzo si divincolava.] "Nun me toccà!... Metti giù le
mani!... Lasciame andà!... Ce vedeno!" Non ci vedono.
E se mi prometti di non scappare. ti lascio. Anzi guarda: io mi metto tre scalini sotto, così non ti
osservo nemmeno quando parli. "Vabbé." Ora dimmi: c'eri anche tu nel gruppo che l'ha seguito fino
al ristorante? Ma quanti eravate? "Lasciame annà! Lo vedi che nun ce stai ai patti? Lo vedi che me
voi fa' ammazzà? Nun me chiede niente!" Cosa intendevi quando hai detto "io-da-questa-storia-sonriuscito-a-uscire"? Intendevi dire che l'hai seguito fino al ristorante e basta e che te la sei cavata
fuggendo dopo? "Non me regge! Lasciame annà! Maledetto a me! Chi me l'ha fatto fà quella sera
d'andà ai giardinetti? Perché nun sono andato al Colosseo?" È stato Pelosi, vero, a dirvi d'andargli
appresso? "Io nun so gnente, gnente. Nun te dico più gnente. Tu me voi rovinà." Senti, se mi dici di
più ti faccio guadagnare davvero dei soldi. "Te dico tutto ar telefono. Te chiamo io al numero tuo
dell'ufficio tuo. Me l'hai dato il numero dell'ufficio tuo. Te chiamo tra un'ora, anzi tra mezz'ora.
Ma lasciame." Ti lascio se mi dici una cosa. Una cosa sola. Perché è morto Pasolini? "Perché... Nun
è che volevamo... Gli volevamo solà er portafoglio e..." [E qui è scappato. Con tanta decisione, con
tanta rapidità che Volterra non ha tentato nemmeno di raggiungerlo. È rimasto lì a vederlo entrare in
una via secondaria e poi sparire. Quando abbiamo visto il nostro collaboratore giungere al giornale,
egli era bianco per la tensione e per la stanchezza.
Al giornale ci siamo messi tutti ad aspettare la telefonata del ragazzo. Abbiamo aspettato mezz'ora e
un'ora e un giorno e due giorni e più. Ma la telefonata non è arrivata mai. Mentre aspettavamo
chiedevo a Volterra di interrogare la sua memoria per convincermi che la frase pronunciata dal
ragazzo era "Volevamo solà er portafoglio" e non "Volevano solà er portafoglio".
E la memoria di Volterra ripeteva "Volevamo". La speranza di sbagliarsi, invece, gli diceva
"Volevano".
Un delitto politico
di Giorgio Galli
PROCESSI
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L'assassinio di Pier Paolo Pasolini è uno dei molti delitti rimasti impuniti e avvolti nel mistero che
costellano la storia politica italiana. Le origini di tali oscuri e irrisolti fatti delittuosi risalgono alla
stessa genesi della successione della democrazia rappresentativa al fascismo, e la loro
intensificazione data a partire dalla strage di Piazza Fontana (1969). Il delitto della notte tra l'1 e il 2
novembre, tra il giorno dei Santi e il giorno dei Morti del cruciale 1975 (l'anno del "terremoto
elettorale"), si colloca al centro di quella seconda fase, che iniziata appunto con Piazza Fontana e
con la "strategia della tensione", si concluderà virtualmente all'inizio del 1982 con la liberazione del
generale americano Dozier rapito e tenuto prigioniero dalle Br, evento che di fatto pose fine agli
"anni di piombo". Pasolini è una delle personalità più emblematiche e positive della ricca cultura
italiana della seconda metà del Secolo e si tratta di una emblematicità e di una positività che
derivano dalle stesse sue contraddizioni Per valutarla mi pare opportuno prendere spunto dall'analisi
critica espressa da una personalità rappresentativa del ceto politico dell'Italia di fine millennio quale
è il deputato socialista Ugo Intini. Intini contesta l'esaltazione di Pasolini in occasione del
sedicesimo anniversario della sua morte apparsa sul "Corriere della Sera" (dove il poeta e regista
aveva esordito in veste di commentatore politico e di costume), a firma di Giovanni Raboni, il quale
di Pasolini aveva ricordato "l'invettiva contro il Palazzo della politica: una definizione e uno slogan
destinati ad avere successo e a entrare nella retorica quotidiana". Sotto il titolo "Una lezione
artistica e non politica", Intini replica che "reso il giusto omaggio alle qualità artistiche e umane
dello scrittore, a distanza di tanti anni ci si dovrebbe tuttavia attendere una riflessione critica...
Pasolini non ha dato una lezione né politica né sociologica. Anzi ha rappresentato al massimo
livello proprio l'impatto tra comunismo, cattolicesimo conservatore ed elitarismo aristocratico che
ha reso anacronistica parte della cultura italiana, con conseguenze a tutt'oggi ben visibili"
("Avanti!", 5 novembre 1991). Intini sviluppa poi questo suo punto di partenza attraverso una
analisi che contiene anche apprezzamenti per talune posizioni politiche di Pasolini ("le critiche
all'autoritarismo sovietico, la solidarietà manifestata verso i poliziotti aggrediti dagli studenti
rivoluzionari del Movimento, la simpatia verso il vecchio Nenni, e il giudizio equilibrato sul
centrosinistra"). In Pasolini erano effettivamente presenti alcuni degli aspetti criticati da Intini. Ma
l'insieme di queste contraddizioni faceva del regista-scrittore un simbolo di quanto si mobilitava
nella società italiana in modo non anacronistico, bensì per aprire la strada a un ulteriore sviluppo
democratico - una mobilitazione alla quale si oppose quanto di peggio esisteva nella società italiana,
dal crimine organizzato al reazionarismo sanfedista. E, a mio avviso, proprio in quanto "simbolo"
Pasolini venne colpito e ucciso. Al dramma di questa contraddizione culturale collettiva
(l'eterogeneità delle spinte ribelli contro il "Palazzo") se ne aggiungeva una più "personale". Prima
di cercare di individuare altrui responsabilità, occorre comprendere come in certo modo Pasolini
andò incontro alla morte e a "quella" morte, così come in altro modo vi andò incontro Foucault
(altro critico della società detta del "capitalismo maturo", stroncato dall'Aids contratto nei gabinetti
degli squallidi bistrot di Parigi, nel segno di una omosessualità per la quale mi sembra doloroso ma
necessario il termine "degradata"). Per Pasolini e per Foucault, l'omosessualità non era infatti
gioioso erotismo comportante affinità culturali e sentimentali e una sostanziale pariteticità tra i
partner (ovviamente pur nella percezione della "diversità"). Si trattava invece di una omosessualità
"mercenaria", che quasi si nascondeva a se stessa (pur essendo notoria) nel consumarsi alla periferia
del sociale, tra "ragazzi di vita" che occorreva pagare per ottenerne le prestazioni. Un uomo con la
personalità e la sensibilità di Pasolini certamente avvertiva questa contraddizione (il dover
"comperare" la propria "diversità"), contraddizione tanto più marcata da quando, iniziando, per idea
di Piero Ottone, la collaborazione al "Corriere della Sera" su quei temi e in quel periodo, egli si
presentava come una sorta di "coscienza morale" dell'Italia civile contro il corrotto potere
democristiano (e non, genericamente, contro il "Palazzo della politica"). Quel tipo di omosessualità
è certamente espressione di una storia personale che mi pare ancora difficile conoscere appieno.
Come dato storico-culturale, si può anche pensare al prezzo che la cultura maschile occidentale,
eIleno-romana e giudaico-cristiana, è quasi indotta a pagare per la repressione del femminile. In
sostanza mi pare si possa affermare che Pasolini andò incontro a quella morte quasi fosse disposto a
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pagare il prezzo di una contraddizione che viveva drammaticamente. E da questo punto si può
partire per analizzare il delitto: da un lato la cautela della vittima, dall'altro una sorta di
predestinazione. La cautela di Pasolini è documentata negli atti processuali, e si era accentuata dopo
una precedente aggressione con estorsione che aveva subito. Per spiegare quello che è accaduto,
occorre partire dalla successione degli eventi. Emerge che la prima versione - quella di Ulderico
Munzi sul "Corriere della Sera" (3 novembre 1975), presentata in base alle prime, sommarie notizie
corrisponde quasi integralmente alla versione della Corte d'Appello circa un anno dopo (4 dicembre
1976): l'artista è stato "massacrato" di colpi da Pelosi che "ha poi schiacciato il suo corpo steso a
terra con le ruote di una automobile"). È questa l'ultima convinzione giudiziaria sul fatto (la
successiva sentenza della Corte di Cassazione è ovviamente limitata alla valutazione di diritto). Alla
versione iniziale pubblicata dal "Corriere della Sera" (Pasolini ucciso dal solo Pelosi), segue
cronologicamente, a distanza di pochi giorni, quella di Oriana Fallaci e dell'inchiesta de
"L'Europeo" (gli assassini erano più d'uno), basata su voci e testimonianze rivelatesi prive di
consistenza; la sentenza di primo grado riprende questa interpretazione (pluralità di assassini) sulla
base di una serie di indizi. Infine, la Corte d'Appello ripropone la prima versione contestando la
validità di quegli stessi indizi. Si può cogliere il significato di queste successive versioni
collocandole nel clima socio-politico in cui si tennero le varie fasi del dibattito intorno all'omicidio.
Pasolini viene ucciso quando trame e complotti sono all'ordine del giorno (vedremo come le
interpreta lo scrittore), e sorgono subito sospetti circa il fatto che sia stato un ragazzo diciassettenne
da solo a uccidere un uomo robusto e guardingo. La posizione pubblica di Pasolini fa sospettare un
agguato, e subito compare qualche scritta - "Pasolini come Matteotti" - che si collega alle denunce
della sinistra contro ipotizzate "trame nere". (segue) Questo atteggiamento di sospetto dell'opinione
pubblica di sinistra è alimentato da quelle che appaiono sensazionali rivelazioni di una prestigiosa
giornalista. Ma lo stile vibrante di Oriana Fallaci e l'inchiesta de "L'Europeo" non reggono alla
constatazione (documentata dagli articoli e dalle successive deposizioni qui raccolti) che tutta la
costruzione si basa su voci incontrollabili, su testimoni inaffidabili, su supposizioni al limite del
paranormale. Alcuni elementi - l'intervista "a inseguimento" a uno scombinato giovanotto, l'uomo
che si presenta in redazione col passaporto pronto da esibire e che poi scompare - sono di tale
inconsistenza da far supporre che solo la tentazione dello scoop, e quella di dare voce a una
indignazione e a sospetti diffusi, possano avere indotto una autorevole professionista ad accreditare
una tesi insostenibile. Lo scoop che diviene un boomerang blocca ogni altra possibilità di avviare
inchieste giornalistiche, pure in un periodo nel quale, da Piazza Fontana in poi, esse erano di grande
attualità ed efficacia, avendo contribuito a smascherare versioni ufficiali e di comodo in più di un
occasione. Molti anni dopo, incontrando Barth David Schwartz, autore della monumentale biografia
Pasolini Requiem, pubblicata a New York dalla Pantheon nel dicembre 1991, Oriana Fallaci
continua a sostenere: "Sono l'unica a sapere tutto, ma non fa niente". (1) In realtà, i giudici di primo
grado - pur deplorando le strumentalizzazioni politiche - ritennero che Pasolini fosse stato
assassinato da più persone: "Il clamore che l'episodio ha avuto sulla stampa", afferma la sentenza,
"le interpretazioni non sempre obiettive e documentate che sono state proposte, la prospettazione di
versioni contrastanti non basate su una "lettura" delle risultanze ma solo sulla scelta aprioristica di
una verità di comodo, il settario schierarsi pro o contro una tesi in funzione di preconcette opinioni
politiche, tutto ciò ha certamente resa più confusa sin dal primo momento l'indagine, inquinando
quella serena atmosfera di ricerca della verità che era indispensabile in un caso così delicato. E
questo clima che ha favorito il sorgere dì testimonianze fantasiose, di rivelazioni interessate, di auto
o etero accuse sostanzialmente pubblicitarie, di ricostruzioni mitomani degli avvenimenti
venimenti... Nessun serio contributo probatorio alla ricostruzione della verità può venire dalla
"versione alternativa" proposta dal settimanale "L'Europeo", i cui giornalisti sono stati ascoltati
come testimoni [che] non hanno ritenuto di poter rivelare le loro fonti di informazione, per cui il
Tribunale non è assolutamente in grado di valutare direttamente l'attendibilità delle dichiarazioni".
Sono quindi giudici di primo grado in guardia contro interpretazioni fantasiose che concludono:
"Ritiene il collegio che dagli atti emerga in modo imponente la prova che quella notte all'Idroscalo
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il Pelosi non era solo". Gli indizi figurano nella sentenza. Cruciale per l'argomentazione è la
sproporzione tra i colpi e le ferite inferti a Pasolini e le escoriazioni di Pelosi: "In una colluttazione
tra due soggetti", afferma il collegio, "a meno che uno non sia gravemente menomato sul piano
fisico, è impossibile che uno solo dei contendenti riporti gravi ferite mentre l'altro esca praticamente
indenne dalla lotta. Invece il Pasolini ha riportato rilevanti lesioni, mentre il Pelosi non ha subito
significativi traumi. Eppure il Pasolini - come è notorio - non era un vecchio cadente incapace di
organizzare una qualche difesa: era agile, aveva un fisico asciutto, praticava lo sport, giocava
ancora a calcio in partite regolari". La Corte d'Appello oltre a negare, come risulta dagli atti, la
validità complessiva degli indizi relativi al concorso di più persone, contestò in particolare questo
punto: "Attenta considerazione meritano soprattutto", si afferma, "la sproporzione tra le lesioni
riportate da Pasolini e quelle riscontrate sull'imputato e la scarsità delle tracce di sangue di Pasolini
sui vestiti di Pelosi... Che questi elementi possano spiegarsi con la partecipazione di più persone è
indubbio. [Ma] la sproporzione delle lesioni subite dai due contendenti può trovare una spiegazione
proprio ipotizzando che, invece di essere stato aggredito, sia stato Pelosi ad aggredire Pasolini,
cogliendolo di sorpresa e menomandone sin dall'inizio la capacità di difesa. Questa supposizione
non è affatto contraddetta, come invece si prospetta nella sentenza impugnata, dall'agilità e
robustezza fisica di Pasolini, che peraltro era di complessione fisica assai minuta (59 kg di peso e
1.67 m di altezza), poiché Pelosi poté valersi non soltanto della maggiore vigoria della giovane età,
ma verosimilmente di una determinazione a offendere che in Pasolini mancò e con tutta probabilità
lo portò a colpire duramente per primo e d'improvviso... La corte deve attribuire mero valore
congetturale all'induzione che la sentenza impugnata volle trarre dalla precisione e violenza del
calcio ai testicoli, che sarebbe stato inferto da uno dei complici mentre Pasolini veniva tenuto da
altri... non potendosi escludere che Pelosi sia riuscito a colpire Pasolini al basso ventre quando
l'altro non se l'aspettava". La corte conclude quindi "di ritenere estremamente improbabile, per tutte
le cose dette, che Pelosi possa avere avuto uno o più complici"; ma insiste sul fatto che la sua
versione è del tutto inattendibile, che Pelosi intendeva uccidere senza aver subito alcuna violenza e
dopo aver accettate preventivamente tutte le prestazioni sessuali che gli potevano essere richieste. Il
suo dunque è un omicidio doloso e senza attenuanti, per cui il corpo schiacciato con l'automobile è
l'ultimo atto di una serie di iniziative volte a uccidere. Pasolini "massacrato" da un Pelosi indenne,
dunque; è questa la spiegazione alternativa: o più persone contro l'artista, oppure l'assassino che lo
aggredisce di sorpresa. "Tertium non datur", come si direbbe con una espressione latina spesso
usata. Ma, nell'uno o nell'altro caso, quali le ragioni del feroce massacro? Neanche la sentenza di
primo grado le può indicare, quando conclude: "La mancanza di un preciso accertamento della
causale del delitto non può portare alla esclusione della responsabilità... In realtà possono farsi varie
ipotesi: che si volesse rapinare Pasolini, che gli si volesse dare una lezione per un precedente
"sgarbo", che si volesse proteggere il Pelosi alle prime esperienze e che un protettore vigilasse su di
lui. Non esistono elementi - di fronte al mutismo sul punto del Pelosi, sempre ancorato alla sua
versione difensiva originaria - che possano far preferire una delle causali sopra riportate o anche
una causale diversa, allo stato non facilmente ipotizzabile". Se il Tribunale non può spiegare perché
più persone avrebbero massacrato Pasolini, la Corte d'Appello non può spiegare perché lo abbia
fatto il solo Pelosi, in una sequenza logica così presentata nelle conclusioni: "Vi dovette essere fra
loro una colluttazione durante la quale Pelosi riuscì ad afferrare Pasolini per i capelli (la ciocca fu
ritrovata a otto metri dal cadavere) e a raggiungerlo con violenza ai testicoli. Subito dopo, mentre
Pasolini era incapace di difendersi, lo colpì alla testa [...] fino a quando Pasolini, che si trovava già
in ginocchio, cadde a terra anche col tronco, rantolando. Nello stesso tempo, si deve affermare che
dal racconto dell'imputato non appare verosimile che Pasolini abbia posto in essere un tentativo di
violenza carnale o altra immotivata aggressione fisica... L'azione finale si collegò, nella sua fredda
determinazione, a quella precedente, quando Pasolini ormai in balia del suo aggressore fu colpito
ripetutamente, senz'altro scopo che quello omicida, alla testa e alla nuca. Allo stesso modo Pelosi,
salito sull'automobile, non soltanto non si curò di evitare il corpo giacente a terra, ma si diresse
decisamente su di esso e non cambiò direzione che quando l'ebbe schiacciato con le ruote... La
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certezza che egli ha perpetrato un omicidio volontario senza trovarsi in stato di legittima difesa si
rafforza. Ritiene cioè la corte che i lati oscuri che rimangono nella vicenda - ivi compresa la
marginale incertezza intorno all'ipotesi che Pelosi abbia potuto non essere solo - non tolgono nulla
alle certezze acquisite intorno alla natura dolosa del ferimento e del successivo investimento di
Pasolini da parte dell'imputato. Si deve infine rilevare che questo giudizio non è minima-mente
ostacolato dal mancato appuramento dei motivi del delitto... L'impossibilità di identificare la
causale del reato non pregiudica il giudizio di colpevolezza". Dunque entrambe le sentenze
concordano sui punti oscuri e sulla impossibilità di stabilire le ragioni di un delitto compiuto con
tanta ferocia. La contrapposizione delle conclusioni (uno, oppure più assassini) non può stupire, se
si pensa che i processi indiziari di un drammatico quindicennio di storia italiana (da Piazza Fontana,
1969; alla strage di Natale, 1984) si concludono con sentenze che, in gradi diversi. variano
addirittura dalla comminazione dell'ergastolo all'assoluzione, appunto per la difficoltà di
trasformare in prove certe indizi labili. Acclarato dunque l'impegno col quale i magistrati dei due
gradi (e poi quelli della Cassazione) hanno lavorato per giungere il più vicino possibile alla verità,
per tentare di spiegare quanto sta dietro l'omicidio sul lungomare di Ostia, occorre ampliare l'ambito
della analisi: da quello giudiziario al contesto politico, che entrambe le sentenze lasciano sullo
sfondo (salvo i riferimenti dei giudici di primo grado). Del resto anche "L'Europeo" esclude il
"delitto politico" e trova "delirante" l'analogia con Matteotti. Va premesso che dai fatti descritti
emerge che Pelosi (coi complici del suo ambiente, se ne ha avuti) non solo non aveva ragioni per
uccidere Pasolini, ma ne aveva molte per non farlo. L'artista era una fonte costante di reddito facile
(per il suo oscuro bisogno di cui si è detto all'inizio). Era una conoscenza importante e forse da
utilizzare: come risulta dagli atti, Pelosi e i suoi amici gli chiedevano scherzosamente se avrebbero
potuto avere qualche parte in un film... Perché distruggere una fonte di reddito e prospettive di
ulteriori vantaggi quando Pelosi, ladro d'auto e uso a ogni tipo di prestazioni sessuali, poteva
incassare ventimila lire senza fatica alcuna? Va aggiunto che Pelosi, come risultato dalle perizie e
dal comportamento, è un ragazzo rozzo ma scaltro, che per oltre un anno - dal momento
dell'omicidio alla sentenza d'appello - non cede di un millimetro dalla sua inattendibile versione; la
Corte d'Appello parla della "accortezza con la quale in dibattimento l'imputato ha cercato di
attenuare, con parziali abili modificazioni, la portata di precedenti ammissioni", sgusciando
abilmente tra reticenze, bugie e contraddizioni. Va infine rilevato (è la parte utile dell'inchiesta de
"L'Europeo") che Pelosi sin dall'inizio cambia avvocato, scegliendo quello che ha difeso i giovani di
destra autori di un altro atroce delitto al Circeo (una ragazza massacrata, un'altra gravemente ferita).
Se Pelosi e gli amici del suo ambiente avevano dunque l'interesse a un Pasolini vivo; se non poteva
sfuggire il rischio che si correva uccidendo un uomo di grande notorietà a difesa della cui memoria
metà del Paese avrebbe chiesto una punizione esemplare per un assassinio tanto feroce, che cosa
poteva indurre un incolto ragazzo diciassettenne a comportarsi come si è comportato, prima e dopo
il delitto - sino a vantarsi, appena giunto in carcere come colpevole di un semplice furto d'auto, di
aver ucciso Pasolini, e arrivando a mimare le sequenze del delitto per il fotografo di un settimanale?
Vi è una sola situazione che può dare una risposta coerente e convincente a tutte queste domande:
Pelosi è stato contattato per attirare Pasolini in un agguato: ha avuto una grossa ricompensa per
farlo; gli è stato garantito che sarebbe stato adeguatamente protetto e tutelato. Di fatto, minorenne e
nonostante la ferocia del comportamento, è uscito dal carcere dopo pochi anni, per riprendere la vita
di prima, tra furti e detenzioni, dopo aver presumibilmente sperperato quanto riscosso per il suo
operato da killer. Tale è infatti la sola spiegazione possibile di quanto ipotizzato nella sentenza della
Corte d'appello: un colpo a sorpresa (ma con la difficoltà di spiegare il contemporaneo strappo della
ciocca di capelli), seguito da una gragnuola di colpi e dal colpo di grazia con le ruote dell'auto. Se si
parte dall'ipotesi che Pasolini, nonostante la sua cautela, abbia potuto essere attirato in un agguato,
si riduce l'importanza della presenza attiva di più persone. Qualcuno poteva essere sul luogo per
aiutare Pelosi (tesi del Tribunale), oppure questi ha agito fulmineamente da solo (tesi della Corte
d'Appello), magari controllato sul posto da qualcuno non attivo ma pronto a intervenire in caso di
necessità. Questa ipotesi richiede una spiegazione su chi e perché abbia contattato Pelosi a quello
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scopo. Sul "chi" non occorre affaticare la fantasia: le cronache di quegli anni sono gremite di poteri
occulti, di servizi deviati, del crimine organizzato che fornisce strutture e operatori per azioni di
finta destabilizzazione e di autentica stabilizzazione politica. Non vi è che l'imbarazzo della scelta.
Pelosi è stato uno strumento. Ora può continuare la sua vita di emarginato senza gloria, perché, se
volesse raccontare qualcosa, sa quel che gli costerebbe e che nessuno gli crederebbe. Quale era
l'obiettivo dell'agguato? Personalmente ritengo probabile una delle "causali" suggerite dal
Tribunale: si voleva "dare una lezione" a Pasolini, ma non per uno "sgarbo", bensì per quello che
egli rappresentava nel momento politico, così come, un paio d'anni prima per la stessa ragione, si
era voluta dare una lezione all'attrice Franca Rame. (segue) Pasolini, si è detto, viveva una
contraddizione angosciosa. Non perché fosse omosessuale, ma perché si avvaleva del suo denaro e
del suo prestigio per ottenere prestazioni sessuali: una posizione tanto più difficile, quanto più egli
era divenuto espressione della "coscienza pubblica", di quegli stessi settori di opinione i quali
contestavano il sistema di potere soprattutto della Dc, partito che egli proponeva addirittura di
sottoporre a una sorta di Processo palingenetico. Pasolini aveva perfettamente capito il processo di
apparente de-stabilizzazione in atto e del quale sarebbe rimasto vittima. Stava per recarsi al
congresso del Partito radicale, dove avrebbe probabilmente proseguito la riflessione della quale
sono passaggi cruciali l'articolo sul "Corriere della Sera" del 14 novembre 1974 e l'intervista a
Massimo Fini, proprio su "L'Europeo" (coincidenza significativa), del 26 dicembre successivo.
L'articolo sul "Corriere" è ampiamente riportato nell'arringa dell'avv. Guido Calvi, qui riproposta.
L'intervista a "L'Europeo" parte dalle stragi definite "fasciste" e con un accenno a Matteotti che
suggerisce un'altra coincidenza (aldilà del citato "Pasolini come Matteotti"): anche al leader
socialista si voleva "dare una lezione" (espressione usata da Mussolini) che si trasformò in un
omicidio per cause e con un retroscena ancora non chiariti. Pasolini dichiarava a Fini nel Natale del
1974, il suo ultimo Natale: "C'era stato il delitto Matteotti, certo, ci sono state altre vittime da tutte e
due le parti, ma la prepotenza, la violenza, la cattiveria, la disumanità, la glaciale freddezza dei
delitti compiuti dal 12 dicembre 1969 in poi non s'era mai vista in Italia. Ecco perché c'è in giro un
maggior odio. Soltanto che quest'odio si dirige, in certi casi in buonafede e in altri in perfetta
malafede, sul bersaglio sbagliato, sui fascisti archeologici invece che sul potere reale. Prendiamo le
piste nere. lo ho un'idea, magari un po' romanzesca, ma credo giusta, della cosa. Il romanzo è
questo. Gli uomini di potere, e potrei addirittura fare nomi senza paura di sbagliarmi - comunque
alcuni degli uomini che ci governano da trent'anni - hanno prima gestito la strategia della tensione a
carattere anticomunista, poi, passata la preoccupazione dell'eversione del '68 e del pericolo
comunista immediato, le stesse identiche persone hanno gestito la strategia della tensione
antifascista". Pasolini precorreva così una interpretazione che oggi ha trovato sostanziale conferma,
con l'ulteriore sviluppo della successiva evoluzione degli "anni di piombo", di nuovo in chiave
anticomunista contro il pericolo dell'accesso del Pci al governo. Dalla sua convinzione circa la
responsabilità della Dc derivava la proposta di un Processo. Ma la Dc temeva non un processo,
bensì il rischio elettorale rappresentato da un Pci col 33 per cento dei voti e un Psi al 12, più l'1 per
cento della "nuova sinistra": un totale del 46 contro il 35 dello scudo crociato. Occorre citare
qualche testo per capire la situazione dell'ottobre 1975, l'ultimo mese di vita di Pasolini. Il 28 agosto
1975 "Il Mondo" pubblica una sua lettera al "Caro Ghirelli" col titolo "Bisognerebbe processare i
gerarchi Dc", nella quale alla fine afferma: "In conclusione, il Psi e il Pci dovrebbero per prima cosa
giungere ad un processo degli esponenti democristiani che hanno governato in questi trent'anni
(specialmente gli ultimi dieci) l'Italia. Parlo proprio di un processo penale, dentro un tribunale.
Andreotti, Fanfani, Rumor, e almeno una dozzina di altri potenti democristiani, dovrebbero essere
trascinati, come Nixon, sul banco degli imputati. E quivi accusati di una quantità straordinaria di
reati, che io denuncio solo moralmente... Senza un simile processo penale, è inutile sperare che ci
sia qualcosa da fare per il nostro Paese. È chiaro infatti che la rispettabilità di alcuni democristiani
(Moro, Zaccagnini), o la moralità dei comunisti, non servono a nulla". Colpiscono le coincidenze
del riferimento al processo penale (lo si farà per il suo omicidio) e a Aldo Moro (che rimarrà vittima
della finta destabilizzazione). Col titolo "Il Processo" questa tematica verrà ripresa sul "Corriere
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della Sera" (24 agosto 1975), con le successive "Risposte" (9 settembre 1975) alle critiche di Leo
Valiani e di Luigi Firpo. "La sua intervista conferma che ci vuole il processo" è infine una lettera al
presidente Leone ("Il Mondo", 11 settembre 1975) che così conclude: "E solo attraverso il processo
dei responsabili che l'Italia può fare il processo a se stessa e riconoscersi". Fu a questo punto che
scrissi su "Panorama" una "Opinione" (25 settembre 1975) dal titolo "Non occorre un Processo".
Pasolini rispose su "Il Mondo" il 16 ottobre 1975 uno dei suoi ultimi scritti, due settimane prima
dell'assassinio. Scrisse di "Silenzio da parte di tutti coloro che potrebbero parlare. Giorgio Galli che,
di serio, non si limita ad avere il doppiopetto, si fa portavoce di quel silenzio, dicendomi,
civilmente, che il processo sarebbe inutile. Ma il processo a Nixon è stato utile o inutile? D'altra
parte, nell'ipotesi, del resto utopistica, che tutti i processi "fermi" fossero portati a termine da una
magistratura indipendente e al di sopra del potere politico, si giungerebbe fatalmente al Processo di
cui parlo io". Conclusione: si voleva "dare una lezione" all'uomo che voleva processare la Dc. E
gliela si voleva dare in una situazione tale (mentre pagava ragazzini per sodomizzarli) che avrebbe
offuscato la sua figura di scrittore-moralista. Ritengo che non vi fosse il proposito di ucciderlo,
anche per la preoccupazione delle reazioni di una pubblica opinione spostata a sinistra. In ogni caso
venne preparato un agguato, che si concluse con un assassinio. Si noti la coincidenza tra la frase di
Pasolini sulla "glaciale freddezza" delle stragi di Piazza Fontana, Brescia, Bologna, e la "fredda
determinazione" di cui parla la Corte d'Appello nel descrivere Pelosi che passa con l'auto sul corpo
della vittima. Sembra di cogliere una sorta di preveggenza in Pasolini, in quel suo insistere in
pratiche che lo rendevano vulnerabile, nonostante la cautela. E ricca di coincidenze è la polemica
con Carlo Casalegno, che lo criticava su "La Stampa". In un "frammento" inedito, presumibilmente
datato novembre 1974 (sarebbe morto un anno dopo nello stesso mese), Pasolini scriveva: "In tutta
la mia vita non ho mai esercitato un atto di violenza né fisica né morale. C'è una sola eccezione. Si
tratta di una decina d'anni fa. Per strada - era verso sera - un gruppo di fascisti mi ha aggredito.
C'erano con me dei giovani compagni: ed èstata soprattutto la violenza usata contro di loro che mi
ha esasperato. Abbiamo risposto con altrettanta violenza ed essi hanno battuto in ritirata. Io ho
cominciato ad inseguire il più scalmanato". Pasolini descrive questa "corsa forsennata" che si
conclude quando il giovane "si dilegua". Pasolini furente che insegue un giovane: è la descrizione
che Pelosi fa della notte di Ostia - una descrizione falsa che ricorda una situazione vera. Pasolini
conclude: "L'indignazione suscitata in me da quel miserabile fascista dieci anni fa, non è nulla in
confronto all'indignazione che ha suscitato in me, in questi giorni, un articolo di un sedicente
antifascista: il vice-direttore de "La Stampa", Carlo Casalegno" (ora in Scritti corsari). Sullo stesso
tema, scrive su "Panorama": "Quanto all'affermazione di Casalegno su una mia "nostalgia di un
passato anche tinto di nero", sia ben chiaro: se egli osa ripetere qualcosa di simile, salgo a Torino e
passo a vie di fatto". Lo scritto, che preannunzia, sia pure in forma forse ironica, una violenza,
comunque almeno verbalmente una sorta di seconda "eccezione", porta la data del 7 novembre
(sempre il mese della morte, un anno dopo). In un altro novembre, tre anni dopo, Casalegno sarà
colpito a morte dalle Brigate rosse (ferito il 16, si spegnerà il 29). È la violenza della finta
destabilizzazione, del "romanzo" anticipato da Pasolini, Sono delle coincidenze che concludono il
dramma del litorale di Ostia. (segue) Il ricordo di Pasolini è ancora forte. All'inizio del 1992,
commentando il peraltro inutile atto d'accusa del Pds contro il presidente Francesco Cossiga,
Ruggero Puletti vi vede "una sorta di prefigurazione di un "processo" pasoliniano al Palazzo"
("Avanti!", 3 gennaio 1992). Ma intanto, sotto il titolo "Giù le mani da Pier Paolo", Giampiero
Mughini segnala, nell'anniversario della morte, che "dagli ex comunisti ai giovani missini, tutti
rivendicano l'eredità politica del poeta... Ecco "l'Unità" fare omaggio dei suoi scritti saggistici. "Il
Sabato" non perde occasione per esaltare l'eredità morale del poeta... Per non dire dei giovani
missini di "Fare Fronte" che hanno organizzato un dibattito all'Università di Roma dove Pasolini
sarà celebrato assieme a Ernst Junger e a Augusto Del Noce" ("Panorama", 17 novembre 1992); la
segnalazione si conclude col ricordo di quello che qui ho presentato come un dramma e che sembra
un fatto marginale: "Dario Bellezza era stato tra i primi, in un suo pregevole libretto del 1980, a
sostenere che il tragico destino di Pasolini, la terribile notte del 2 novembre 1975, s'era compiuto
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sul terreno della ricerca del piacere, e non su quello di un eventuale complotto. "Ho sempre pensato
che dietro la polemica di Pier Paolo contro la modernizzazione vi fosse innanzitutto un suo trauma
personale, privato. Si erano fatti difficili i suoi rapporti sessuali con i ragazzi di vita, perché questi
ragazzi non erano più freschi e ingenui come al tempo della sua giovinezza. Dacia Maraini lo
rimproverava di questo, che si lamentasse del fatto che questi ragazzi volessero essere pagati e non
gli bastassero i soldi della pizza. 'Sanno che tu sei un regista famoso e dunque ti chiedono i soldi.
Come puoi pensare che vogliano tornare indietro e contentarsi di quello che avevano una volta?', gli
diceva Dacia. E Pier Paolo si infuriava"". Che si possa considerare "piacere" quello ricavabile da un
ragazzo come Pelosi, è di per sé un dramma, ed è questo che rende possibile il "complotto"; un
dramma che si manifesta nel fatto che Pasolini, che pure tenta di capire anche i fascisti e che oggi i
giovani missini rivalutano ai propri occhi, vede solo in termini di "giornate di Sodoma" il dramma
di altri giovani, volontari nell'esercito della Repubblica sociale di Mussolini. Invece giustificava i
partigiani comunisti che pure gli avevano ucciso l'amato fratello, anch'egli partigiano, ma non
comunista. L'intreccio di contraddizioni psicologiche e cultural-politiche che certamente
caratterizzò Pasolini è così una ragione ulteriore per apprezzarne la vita e per capirne la morte.
Anche se, come si è detto, stava per recarsi al congresso del Partito radicale, non ne condivideva
l'iniziativa di raccogliere le firme per un referendum che depenalizzasse l'aborto. Sul diritto alla vita
del concepito la sua posizione era quella cattolica. Ma dalla tribuna del congresso avrebbe chiesto
forse con ancora maggior vigore di processare la Dc per il malgoverno e per le stragi. La sua
esortazione avrebbe avuto ulteriore eco sul maggior quotidiano italiano e sulla stampa nel suo
insieme. Glielo si volle impedire: probabilmente senza ucciderlo, ma in circostanze tali che ne
avrebbero compromessa la figura morale. E' una ipotesi del tutto verosimile, ci sono gli indizi, ma
mancano le prove, così come era accaduto per le stragi che avevano insaguinato l'Italia, che egli
denunciava, e per quelle che ancora sarebbero seguite, dopo la sua morte, sino a destabilizzazione
conseguita. Il suo assassino è libero, così come liberi sono gli autori senza nome e senza volto delle
stragi. Così il cerchio logico e quello simbolico si chiudono contemporaneamente sulle vittime alle
quali non è stata resa giustizia. A molti anni di distanza, all'inizio del decennio di fine Secolo,
nessuno ha osato dire che si trattava di una morte necessaria, come è stato detto di altre analoghe,
per conseguire la grande vittoria del "mondo libero" sul comunismo. Lo si è invece ricordato con
rispetto, anche da parte dei suoi avversari più accaniti. Una prova ulteriore dell'omologazione che
egli deplorava. Forse, tuttavia, anche il segno di una rinnovata e non effimera attenzione. Il
quotidiano che ha ospitato gli scritti coraggiosi che gli sono costati la vita dedica oggi a Pasolini
intere pagine, e ancora Giovanni Raboni scrive: "Non è facile, non sarà mai facile sbarazzarsi di
Pasolini... allontanandolo nell'immagine gloriosa e inoffensiva del grande poeta o scrittore o
cineasta, le cui idee o prese di posizione in campo morale e politico, "giuste" o "sbagliate" che
fossero, non contavano e - soprattutto - non contano, non ci interessano, non ci riguardano più... La
grandezza di Pasolini... non è soltanto inseparabile dall'acutezza, dall'audacia, dalla vitale e
"scandalosa" inquietudine delle sue idee, ma consiste, alla lettera, in esse, e questo spiega perché
[non sia] entrato in questa sorta di limbo... Questo destino che non ha risparmiato, credo, nessuno
dei protagonisti dalla cultura del dopoguerra, da Sartre a Barthes, non ha nemmeno sfiorato
Pasolini" ("Corriere della Sera", 12 gennaio 1992). E a sua volta "Panorama". che pure lo aveva
ospitato, sottolinea il ruolo di Pasolini quale critico anticipatore della crisi del nostro sistema
politico, intitolando il servizio "Il gran picconatore" e citando Giuliano Ferrara che "coglie
l'occasione di una delle sue apologie delle esternazioni di Francesco Cossiga, per sostenere che Pier
Paolo Pasolini avrebbe picconato gli stessi bersagli, se fosse ancora vivo... A Pasolini ieri erano
riservati i roghi, oggi gli osanna... Uomo di tutti i dolori, di tutte le contraddizioni, da cui germinò la
sua altissima poesia. Altro che imbalsamazioni ove Pasolini serve a tutto e a tutti. Altro che gara a
non potersi non dire pasoliniani" (19 gennaio 1992). Oggi. E ieri, dopo l'assassinio, l'essenza della
sua lezione giungeva persino a un periodico femminile di intrattenimento quale "Brava!", che
riportava La ballata delle madri (suggerendo di leggere Poesia in forma di rosa) con questo
commento di Rudy Stauder: "Nei giorni della tragedia e delle lacrime ripresi in mano il libro.
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Ritrovai intatti gli insegnamenti di vita di Pasolini: il rifiuto del compromesso, l'amore per le grandi
virtù, il coraggio di essere coerenti, di essere se stessi, anche se diversi dal prototipo sociale. Questo
suo coraggio, questa coerenza, Pasolini li ha pagati con la vita". Coerenza pagata con la vita.
Coerenza pur contraddittoria, perché amando la madre e non intendendo le donne, presentava come
"servili" e "feroci" le donne-madri, tante volte ribelli e tante volte sconfitte, dalle maghe e baccanti,
come la sua Medea con la Callas, alle gnostiche, alle streghe. Ma comunque coerenza e rifiuto del
compromesso. E che queste fossero le vere ragioni del delitto era evidente mentre era appena stato
compiuto per fermare, in un momento cruciale, una lezione che - come ricorda Raboni - sarebbe
sopravvissuta al tempo. Delitto, dunque, sostanzialmente politico, anche se non voluto sino alle
estreme conseguenze. Delitto che non si spiega se non nel clima politico dell'autunno 1975. La Dc
era stata sconfitta due volte, nel 1974 (referendum sul divorzio) e pochi mesi prima, nelle elezioni
del 15 giugno. Si sentiva "assediata", come ebbe a scrivere uno dei suoi leader, già segretario e poi
presidente del partito, Flaminio Piccoli. Il primo maggio i vietnamiti di Ho Chi Minh conquistavano
Saigon, gli americani sgomberavano il Vietnam, si sentivano dirigenti democristiani paragonare alle
"macchie di leopardo" (la zona dove si era insediata la guerriglia in Vietnam) le nuove
amministrazioni di sinistra che si insediavano un po' ovunque in Italia, accerchiando il potere della
Dc. In questo clima matura la decisione di dare un colpo d'avvertimento, di tacitare, con l'agguato e
col discredito, la voce di chi chiedeva di processare la Dc dalle colonne del maggior quotidiano
italiano. Oggi questo clima è remotissimo. Anche allora la Dc non correva reali pericoli, perché la
sinistra, preoccupata e incerta, non intendeva percorrere le possibili strade di cui si parlava nel mio
commento alla questione del "Processo". Ma poiché la Dc appariva assediata si volle aprire una
breccia nell'assedio facendo tacere una delle voci più forti dei supposti assedianti. Appunto perché
oggi questo clima è lontano, perché il sistema mondiale comunista è crollato, il Pci si è scisso, vi è
chi sostiene che sia stata positiva la permanenza al governo della Dc, che l'italia ha evitato così
rischi peggiori; ma anche allora persino "L'Europeo" escludeva che si trattasse di un "delitto
politico". Invece di questo precisamente si è trattato. Il poeta lo ha reso possibile con una abitudine
di vita che si è tradotta in una sorta di vocazione al sacrificio. Ma altri (e come si è detto non vi è
che l'imbarazzo della scelta, tra servizi deviati e malavita organizzata, che due anni dopo avrebbero
svolto un ruolo tuttora non chiarito nel sequestro e nell'omicidio di Aldo Moro) hanno sfruttato
quell'abitudine e quella vocazione per predisporre un agguato poi risultato mortale, probabilmente
al di là delle intenzioni. Gli ampi estratti degli atti istruttori e processuali qui pubblicati forniscono
tutti gli elementi utili a corroborare questa tesi. Essi completano la biografia di Pier Paolo Pasolini,
e sono una ulteriore spiegazione del perché il suo messaggio permane. Giorgio Galli (1) Andrea
Jacchia, su "L'indipendente", 18 dicembre 1991. Il fallito scoop di Fallaci viene anche recentemente
ricordato da Ugo Intini, in una critica ai "salotti" definiti "radical chic": "Oriana Fallaci", scrive tra
l'altro, "non tentò forse di dimostrare, di fronte ai lettori e ai giudici, che Pasolini era stato
assassinato da un complotto fascista e di Stato?" ("Avanti!", 15 gennaio 1992). NUOVA PAGINA
CON LINK ALL'ARTICOLO DI GALLI DEL 16 OTTOBRE 1975 La polemica sollevata da
Pasolini con la sua invocazione di un Processo (con la P maiuscola) alla Dc, mi sembra una
fantasticheria, significativa come espressione di un senso di vuoto politico che grava sull'Italia dopo
il 15 giugno. Da allora la Dc ha perso parecchie posizioni di potere in periferia [...]. E al centro, il
governo della Dc è praticamente ridotto all'impotenza, come ammette tristemente lo stesso leader
democristiano che lo presiede. Ma la Dc continua a gestire l'insieme del potere, senza sapere che
cosa farne, se non tutelare i privilegi dei sempre più ristretti gruppi sociali che controllano il vertice
del partito. Non si può governare con questo solo criterio una nazione in crisi nella quale è in atto
un processo di crescita democratica. Ma del resto nessuna forza politica si propone seriamente di
sostituire la Dc alla testa del governo sulla base di un programma che affronti la crisi con la
necessaria risolutezza. Il Pci gestisce in periferia il successo del 15 giugno e attende al centro i
congressi del Pci e della stessa Dc. Da qui il senso di vuoto dopo la svolta. Da qui le proposte semimetafisiche come quella di Pasolini, la cui ultima formulazione e la seguente: "Insieme al processo
ai mafiosi democristiani coinvolti in abusi e intrallazzi infiniti, bisognerebbe istruire un Processo 132
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non per reati comuni o non solo per reati comuni, ma per reati politici - contro il gruppo dei potenti
democristiani maggiormente responsabili. In questi ultimi dieci anni, della rovina del Paese". Se ho
ben capito, oltre a colpe specifiche Pasolini attribuisce alla Dc la grave responsabilità culturale di
non aver capito quanto sia cambiata l'Italia in questi dieci anni. Per cui ha continuato a governarla
come il vecchio Paese che non era più. Su queste basi andrebbe costruito il Processo alla Dc come a
un regime che sta crollando. Questa impostazione mi sembra voler ricondurre il dibattito alla
palingenesi che la crescita democratica di questi anni ha sostituito con analisi e proposte politiche
aggiornate. Francamente, se si dovesse essere processati per non aver capito in tempo come e
quanto l'Italia stesse cambiando, dovremmo essere processati in molti: studiosi, esperti di scienze
sociali, intellettuali di professione. La Dc non ha capito quanto l'Italia stesse cambiando, perché le
altre forze politiche capivano poco anch'esse. Ed è una situazione ancora in atto. La Dc sta
conducendo il Paese alla rovina perché soprattutto negli ultimi dieci anni è stata lasciata governare
dagli altri partiti senza condizionamenti e senza alternative. Di qui occorre partire per ipotizzare uno
sbocco per la crisi attuale. Dal punto di vista dello Stato di diritto, gli uomini politici, come ogni
altro cittadino, vanno processati per i reati che abbiano commesso. Nella specifica situazione
italiana, occorre allora che le commissioni parlamentari che hanno raccolto da anni una imponente
documentazione su quali reati siano stati commessi anche da ministri in carica, si decidano a
investire il Parlamento delle attribuzioni che gli spettano in materia in base alla Costituzione. La
commissione detta antimafia e quella costituita dopo gli scandali del petrolio e dei fondi neri della
Montedison nelle quali i democristiani sono rappresentati esclusivamente in base alla loro forza
elettorale - debbono fornire al Parlamento e al Paese la documentazione che hanno raccolto. Questo
chiede l'opinione pubblica. Il resto è, appunto, fantasticheria. Si vedrebbe allora che non tutti i reati
sono stati commessi da democristiani. E si vedrebbe che non sono stati commessi da tutta la Dc.
L'insabbiamento predisposto dai Cattanei, dai Carraro e dai Castelli, con la connivenza di
parlamentari non solo democristiani, ha certamente salvato i ministri e gli uomini politici corrotti.
Ma ha contribuito a diffondere nell'opinione pubblica la convinzione che tutti i partiti, salvo il Pci,
fossero coinvolti nella corruzione. lì 15 giugno, almeno per uno spostamento di voti del 2-3 per
cento, si spiega anche così. Dunque, dal punto di vista giuridico, non si tratta di fare un Processo a
un partito colpevole di reati culturali. Si tratta di fare il processo a uomini politici (di vari partiti)
che hanno approfittato della loro posizione per usare a fini privati il potere pubblico. Se questo
processo si farà, l'opinione pubblica si sentirà più partecipe delle istituzioni democratiche che non
se le fosse offerta qualche sorta di rito sacrificale. Ma al di là del problema giuridico, vi è il
problema politico. E certamente Pasolini usa la metafora del Processo per significare l'attesa diffusa in tutti gli italiani - che si giri davvero pagina per un modo di governare e di saccheggiare il
Paese che per mille segni non si tollera più. Questo non accadrà se gli stessi uomini che da trenta o
vent'anni sono espressione di questo stile di saccheggio stando alla testa della Dc e del governo,
continueranno a starvi. Magari come promotori di qualche strategia dell'attenzione, di qualche
compromesso storico, di qualche rapporto preferenziale che consenta loro di far percorrere all'Italia
qualche altro passo sulla strada della rovina. Ebbene, anche per evitare questo non occorre un
Processo. Occorrono analisi e indicazioni politiche. Per quanto riguarda la Dc, il rinnovamento del
partito non può che essere opera dei democristiani stessi. La perdita di posizioni di potere è un utile
condizionamento in questa direzione. Per quanto riguarda gli altri partiti, possono ridurre il potere
della Dc che ha consentito ai suoi capi di governare negli ultimi dieci anni tanto male, soltanto in
due modi. O vi è una situazione di grave emergenza, e allora si faccia un governo di emergenza con
tutti i partiti dell'arco detto costituzionale, dal Pli al Pci. Perché oggi l'Italia non è minacciata dal
fascismo, ma dalla mafia, dalla crisi economica e dalla disgregazione sociale. Se mai una destra
radicale pericolosa potrebbe svilupparsi tra qualche tempo proprio in conseguenza di tale crisi e di
tale disgregazione. Esse possono essere fronteggiate da un governo temporaneo di coalizione che
abbia risolutezza e consenso per affrontare l'emergenza sino alle elezioni del 1977. Se invece la
situazione non e così grave, si lasci che la Dc governi, male ma senza provocare catastrofi, sino alla
scadenza della legislatura. E si prepari un'alternativa possibile e credibile per sostituirla al potere
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dopo le elezioni. In entrambi i casi, attraverso un governo di coalizione subito o un'alternativa
potenziale da proporre oggi per attuarla (se avrà i consensi) nel 1977, il potere di questa De sarà
fortemente condizionato e quindi sostanzialotente ridotto. E si comincerà a voltare pagina, senza
Processo, se mai con un processo che sia maturazione di un nuovo corso politico. Ma è un nuovo
corso che altri - non la Dc - possono proporre, se lo credono utile. Altrimenti non ci saranno di
giovamento né processi metafisici, né riti sacrificali." Giorgio Galli, "Panorama", 25 settembre 1975
I sei errori della polizia
di Gian Carlo Mazzini
Una serie di errori ha intralciato il normale svolgimento delle indagini sulla morte di Pasolini, nelle
prime quarantott'ore dopo il delitto.
Solo una coincidenza fortunata, il posto di blocco sul lungomare di Ostia dei carabinieri, ha
permesso di mettere le mani su Pelosi, confessatosi in un primo tempo ladro di auto, poi assassino.
Se la gazzella dei carabinien non avesse bloccato l'Alfa GT che aveva imboccato a folle velocità
una direzione vietata, adesso probabilmente saremmo molto più lontani dalla verità. E, in fondo,
non ci sarebbe poi troppo da meravigliarsi, pensando a come si sono mossi e intralciati polizia e
carabinieri nelle prime indagini. Solo da giovedì 6 novembre, a settantadue ore di distanza dal
ritrovamento del cadavere di Pier Paolo Pasolini, la collaborazione delle forze dell'ordine è
diventata più stretta: da quando cioè, anche loro, hanno capito che i punti oscuri, i dubbi e le
incertezze erano troppi e che il fatto di avere sotto chiave l'autore confesso di un omicidio, un
cadavere e le armi di un delitto, non erano sufficienti a far archiviare la "pratica" Pasolini
classificandola come omicidio nel mondo del vizio. Almeno sei errori costellano le prime indagini.
Li elenchiamo.
1. Alle 6.30 di domenica mattina 2 novembre arrivano su una stradetta di terra battuta all'idroscalo
tra Ostia e Fiumicino due Giulia della polizia, avvertita della presenza di un cadavere dal figlio di
un proprietario delle baracche che sorgono nella zona. Trovano una piccola folla intorno al corpo,
che non pensano minimamente d'allontanare.
Tantomeno circondano la zona per bloccare il passaggio. Alle 9 infatti nel rudimentale campo di
calcio, a pochi metri dal cadavere di Pasolini, almeno una ventina di ragazzi in magliette e
pantaloncini sono impegnati in una partita di pallone che ogni tanto esce dal rettangolo di gioco e
che viene rimandato a calcioni dagli stessi agenti. Pochi metri dietro una delle due porte, quella a
sud, l'esame sommario del terreno fa scoprire un bastone rotto, insanguinato, con tracce di capelli e
cuoio cutaneo e la camicia di Pasolini imbrattata inverosimilmente di sangue sulle spalle fino alla
cintola. Tutte le altre eventuali tracce sono andate perdute dal passaggio di macchine e pedoni
diretti o alle altre baracche o al campo di gioco, oppure da curiosi. È stato impossibile fare i calchi
dei copertoni della macchina di Pasolini e ricostruire l'itinerario. Come non si è potuta accertare la
presenza di altre macchine o motociclette.
2. Nessuno ha pensato di tracciare sul foglio quadrettato a disposizione degli inquirenti i punti esatti
dei vari ritrovamenti, che di solito vengono contraddistinti da lettere dell'alfabeto. I carabinieri
intanto avevano trasferito Pelosi, confessatosi ladro della GT metallizzata, al carcere per minorenni
di Casal del Marmo (appena arrivato in cella, pare che lo stesso Pelosi si sia vantato con i suoi
compagni di aver ammazzato Pasolini), e cercavano sulla macchina un anello che Pelosi aveva detto
di aver perso.
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Alle 9 circa è arrivata alla stazione dei carabinieri di Ostia la segnalazione che era stato trovato
Pasolini assassinato. E lì, all'Idroscalo, mandano una pattuglia a cercare l'anello di Pelosi: l'aveva
raccolto un maresciallo della polizia di Ostia che se l'era messo in tasca. In quale punto lo aveva
trovato? La risposta non può essere stata che vaga. Fino alle 9, insomma, i carabinieri avevano un
ladro di auto con la macchina, e la polizia un cadavere che non sapevano com'era arrivato sul luogo.
3. Fino a giovedi, la macchina di Pasolini era sotto una tettoia nel cortile di un garage dove i
carabinieri di solito ricoverano le macchine sequestrate, aperta e senza sorveglianza. Del resto era
solo la macchina rubata da un ladro. Chiunque avrebbe potuto mettere o levare indizi, lasciare o
cancellare impronte. Alla squadra scientifica è arrivata solo giovedì.
4. Sul luogo del delitto, la polizia è ritornata solo nella tarda mattinata di lunedi 3 per tentare una
ricostruzione del caso, ma senza nessuna misura precisa, con le tracce ormai inesistenti, e ha tentato
di ricostruire sia l'investimento mortale di Pasolini che la fuga di Pelosi non con l'Alfa GTdel morto
ma con una normale Giulia. Ora, la strada dov'è stato ritrovato il corpo di Pasolini è percorsa
longitudinalmente da profondissime buche, che, a detta di esperti, è quasi impossibile superare con
una GT notevolmente bassa senza toccare il terreno almeno con la coppa dell'olio. La notte tra
domenica e lunedì, infine, la zona non era vigilata.
5. Solo da giovedì gli investigatori hanno cominciato a interrogare gli abitanti delle baracche o i
frequentatori della Stazione Termini. Perché? Avevano archiviato tutto? Consideravano chiuso il
caso? Non li interessava andare più a fondo nelle indagini?
6. Sul luogo del delitto non è mai stato chiamato il medico legale.
È chiaro che polizia e carabinieri, certi di trovarsi di fronte a un normale caso di omicidio a sfondo
sessuale, con l'assassino già in carcere, hanno ritenuto superfluo ogni accertamento sul cadavere che
poteva invece servire per le successive indagini. Queste, ora, ripartono più o meno da zero. L'ipotesi
che a uccidere Pasolini non sia stato solo Pino Pelosi si fa strada anche negli inquirenti. Le
testimonianze raccolte dall"'Europco" non sembrano più nemmeno ai poliziotti così fantastiche.
Così come un delitto che sembrava solo quello di un ragazzo di vita prende un'altra consistenza.
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INTRODUZIONE
Da quel tragico 2 novembre 1975 Pier Paolo Pasolini non è più tra noi.
Da oltre vent'anni la coscienza critica di un intero Paese tace. Ed è anche su questo silenzio che
sono passati, inesorabilmente, gli avvenimenti più drammatici, inquietanti e atroci di questi ultimi
venti anni. Molte di queste vicende si sono svolte nella totale "assenza" di un popolo, ormai
"educato" a una indifferenza sempre più volgare ed esasperata. Intere generazioni si sono succedute
crescendo nel cosiddetto "benessere" e nell'indifferenza, appunto; con un'unica preoccupazione,
pare: quella di "avere".
È una umanità sempre più povera, in termini di valori, di idee, di creatività, quella che si avvia
verso il terzo millennio... Oltre che in altri ambiti, Pasolini è stato bersaglio, per tutta la sua vita, di
una vera e propria persecuzione giudiziaria. In queste pagine riguardanti i processi che egli dovette
subire, vi è una panoramica significativa e illuminante di tutte le accuse che si trovò a contrastare
anche nei Tribunali. Gli attacchi, anche e soprattutto quando si sono manifestati nelle aule
giudiziarie, hanno rappresentato lo strumento del quale hanno tentato di servirsi tutti coloro che
sostanzialmente intendevano contrastare o porre freno a ciò che di nuovo e originale veniva
espresso in una stagione nella quale, in ambito sociopolitico oltreché di costume, molto alta è stata
l'ansia di cambiamento di ampie fasce di popolazione. Pasolini aveva compreso, fin dagli anni
Cinquanta - alla metà di questo secolo inquieto - ciò che stava accadendo nel nostro Paese.
E, con straordinaria lucidità, preveggenza e una insistenza quasi maniacale non aveva risparmiato
attacchi e denunce al Potere, non si era stancato di mettere in guardia dai risultati perversi che
avrebbero prodotto la "mutazione antropologica" e l'ansia consumistica conculcata. Tutta la sua
opera artistica, la sua produzione letteraria e saggistica sono tuttora testimonianza della sua
lungimiranza e della sua profonda sofferenza per una situazione che vedeva irrimediabilmente
compromessa. In questo senso, sono convinta che il patrimonio prezioso che Pasolini ci ha
trasmesso è, ora più che mai, di una attualità e freschezza stupefacenti. È necessario quindi, oggi più
di ieri, leggere la sua immensa opera, critica e poetica, per comprendere fatti e misfatti succedutisi
in questo Paese. In nome di che cosa Pasolini fa tutto questo?
"Lo dirà con parole fin troppo piane nella sua deposizione al Tribunale di Venezia, nel processo per
Teorema, respingendo la tesi secondo cui l'autore di un film avrebbe obblighi di riserbo a cui
sfugge, grazie al pubblico meno vasto e più selezionato, l'autore di un libro: "non posso tener conto
della minor preparazione o capacità a comprendere quello che una proiezione vuol dire, da parte
dell'uomo medio, perché in tal caso compirei un'immoralità nei confronti della libertà espressiva,
non solo nei miei confronti ma anche nei confronti dello spettatore".
Pasolini spiga pazientemente queste cose al giudice "perito dei periti", volta a volta critico letterario
e critico cinematografico, psicologo e armaiolo. E il giudice non rinuncia a servirsi del coltello che
tiene dalla parte del manico (come sempre farà la polizia nei suoi rapporti): durante il dibattimento
non si cerca tanto di accertare una verità, quanto piuttosto di far sentire Pasolini in una situazione di
imbarazzo, di dimostrargli che ci sono interlocutori che possono tenergli testa proprio in quella
materia artistica a cui l'imputato si richiama e in cui ha osato cimentarsi. [...]
Questo atteggiamento non esprime soltanto una deformazione della magistratura, visibile anche al
di là della lunga vicenda giudiziaria di Pasolini: a suo modo rispecchia una costante della società
italiana, anche della più tollerante, che mai appare disposta ad accettare fino in fondo Pasolini,
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anche se è costretta a subirlo. Proprio nella'aula di un tribunale questo coflitto latente si trasformerà
nella richiesta di una sorta di giudizio di Dio. Nella sua requisitoria nel processo per La ricotta, il
pubblico ministero non chiede ai giudici di stabilire se Pasolini abbia vilipeso o no la religione, ma
di scegliere tra lui e l'imputato.
Anzi: "... in questo processo gli imputati sono due: Pier Paolo Pasolini ed io... Se voi condannerete
Pasolini approverete me, ma se voi lo assolverete allora ineluttabilmente condannerete il mio
operato"". (1) Pasolini, come si vedrà dai resoconti qui forniti sinteticamente (esclusi il caso
emblematico della Ricotta e il processo a Pino Pelosi per i quali la docuementazione è più ampia)
non ebbe condanne definitive, ma le sue "battaglie" processuali furono sempre aspre e costellate di
controversie di non poco conto.
"Ma non ci si può certo fermare alle vicende processuali, quasi che il mondo giudiziario fosse in sé
concluso, non comunicante con l'esterno. L'atteggiamento della magistratura innesca un gigantesco
processo di controllo sociale, di cui le reazioni e gli atteggiamenti della stampa sono la
documentazione più evidente. Se manca la sanzione in forma di una condanna penale definitiva, ci
sono sanzioni non formali più pesanti di mesi o anni di galera. Pasolini dovrà scontare pene
durissime: ci sarà l'aggressione fascista, morale e fisica, contro la quale mai polizia e magistratura
muoveranno un dito; ci sarà quella specialissima interdizione dai pubblici uffici che, per un artista,
è il vedersi preclusa la possibilità di apparire in televisione; c'è, alla fine, la pena di morte, eseguita
una notte, dalle parti di Fiumicino. Una condanna verrà, nell'ultimo processo in cui Pasolini
comparirà come protagonista, ma che, alla fine, non obbedirà a regole diverse da quelle
puntigliosamente seguite in tutti i processi precedenti. Formalmente l'accusato è Pino Pelosi,
l'assassino.
" Così, ancora, Stefano Rodotà. In effetti, pare che nel Tribunale penale che processa Pelosi vi sia
una preoccupazione prevalente: quella di "chiudere" al più presto. Così, nel processo all'assassino di
Pasolini, si tiene conto solo marginalmente del "concorso di ignoti" nell'atto delittuoso: non viene
disposta - né effettuata autonomamente - alcuna altra indagine da polizia e carabinieri (mentre ve ne
sarebbe stata necessità soprattutto tenendo conto delle inchieste svolte da giornalisti prestigiosi) e
non viene riservata alcuna attenzione a una denuncia nella quale venivano indicate le prime due
cifre della targa di un'auto che avrebbe seguito Pasolini la sera dell'omicidio.
Provvederà poi la Corte d'Appello a cancellare anche queste ultime tracce di sospetto nei confronti
di "ignoti". Lo scopo di riferire, ora e qui, i passaggi salienti del processo per l'omicidio di Pier
Paolo Pasolini non è ovviamente quello di rimettere in discussione quell'evento infausto, ma di
fornire ulteriori motivi di conoscenza e riflessione su un altro dei "misteri", giudiziari e non, che
costellano la storia del nostro Paese: perché la conoscenza è anche uno dei pochi strumenti che ci
permettono di non dimenticare.
(1) da AA.VV., Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, Garzanti, Milano 1977
Arringa dell'avvocato Guido Calvi
[1. La parte civile ritira la sua costituzione]
PROCESSI
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Le ragioni che inducono la parte civile a ritirare la sua costituzione possono trovare spiegazioni solo
ricordando le motivazioni che determinarono inizialmente la scelta di essere partecipi di questo
procedimento penale. Certamente più semplice, e anche sostenuta da valide e comprensibili
argomentazioni, sarebbe stata la scelta di astenersi dalla costituzione di parte civile. La vita e l'opera
di Pasolini sono state arrestate tragicamente e la loro perdita, per i familiari, per gli amici, per il
mondo della culrura, non poteva in alcun modo trovare compensi.
Né tanto meno poteva esservi proporzione o semplice rapporto tra il dolore e lo sgomento provati e
la ricerca di una rivalsa, sia pure processuale, nei confronti di un assassino, così miserevole e
abietto nella sua sordida insania. Solamente chi non l'ha mai voluto o potuto conoscere, chi ha
odiato lui e la sua cultura, chi lo ha stimato con invidia malcelata, chi ha sperato da sempre che per
sempre la sua voce fosse chiusa nel silenzio, ha potuto ricordare e giudicare Pasolini esclusivamente
alla luce degli ultimi e drammatici istanti della sua esistenza.
Era, dunque, semplice rifiutare quegli ultimi istanti e il giudizio che su essi sarebbe stato espresso.
Ma così non è stato. Si è voluto invece essere presenti così come Pasolini avrebbe deciso: "Ho
sempre pagato, sono andato disperatamente in fondo a tutto. Ho fatto molti errori, ma certo non ho
rimpianti". E ciò perché, scriveva in una poesia del 1969: "Della nostra vita sono insaziabile /
perché una cosa unica al mondo non può mai essere esaurita". Senza acrimonia o iattanza, ma con
l'umiltà della coscienza che solo Pasolini avrebbe potuto difendere o spiegare appieno se stesso, la
parte civile ha scelto di collaborare con la giustizia, solamente perché la verità, o almeno quella
parte di verità, alla sua morte, non fosse ancora una volta travolta e mistificata dal risentimento e
dalla incomprensione.
Abbiamo voluto offrire a voi giudici e alla opinione pubblica i nostri dubbi e le nostre certezze circa
quanto accadde la notte del 2 novembre. Abbiamo voluto provare la volontarietà dell'omicidio ed
esporre le ragioni che ci inducono a ritenere che Giuseppe Pelosi non fosse solo e che gli elementi
obiettivi raccolti in istruttoria possono essere compiutamente valutati solo in presenza di una
pluralità di esecutori. In tutto ciò l'attenzione, la serenità, l'obiettività e l'intelligenza di tutto il
Tribunale, a cominciare dal suo Presidente, ci sono stati di conforto e di aiuto. Riteniamo che, per
ora, il nostro compito sia terminato. Vogliamo che Pelosi sia condannato, ma non spetta più a noi
chiedere come e in quale misura la pena sia concretata. Abbiamo fatto tutto ciò che ci è stato
possibile per dimostrare la responsabilità dell'imputato e dei suoi complici. Tuttavia la pena che sarà
irrogata ci è estranea e la sua valutazione preclusa, poiché Pelosi "è" di questo processo, "è" di
questo Tribunale, mentre la memoria di Pasolini appartiene a noi tutti perché "è" di un'altra realtà.
L'unica e ultima richiesta che resta è dettata dalla insoddisfazione per la parzialità della verità
accertata.
Il Tribunale decide ora su quanto è stato portato a sua conoscenza. Restano i complici ancora ignoti.
E questi appartengono a un capitolo del processo che altri giudici dovranno riaprire e continuare.
Non possiamo ritirare la costituzione di parte civile senza aver dato prima una valutazione, sia pur
sintetica, sui punti del processo che reputiamo fondamentali. Tale scelta infatti è legata al momento
formale della costituzione stessa considerando quanto eccezionale e dolorosa sia stata la riflessione
giudiziaria sulla morte di Pasolini. In altre parole, come abbiamo già scritto, il ritiro della parte
civile non attiene all'accertamento delle responsabilità penali del Pelosi, anzi esso avviene proprio
perché tale accertamento, a nostro parere, è stato acclarato in modo inequivoco, ed è posto in essere
sulla soglia della irrogazione della pena e della richiesta del risarcimento. Di qui la necessità, in
questa sede, di puntualizzare il nostro convincimento sui temi della maturità dell'imputato e delle
modalità del delitto. Uno dei momenti centrali in questo processo è, senz'altro dubbio, l'analisi circa
la "maturità" dell'imputato. Su questo tema giuristi, psicologi, intellettuali anche stranieri, si sono
impegnati pubblicamente in riflessioni che, non sempre, hanno offerto contributi positivi a una
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chiara impostazione del quesito che in sede processuale è stato posto. In ogni caso, crediamo debba
essere premesso che l'art. 98 C.p., pur inserito in un quadro normativo notoriamente autoritario e
conservatore, rappresenta un segno di sicura e alta civiltà giuridica.
Non si dimentichi, infatti, che in altri Paesi il minorenne può essere punito financo con la pena di
morte mediante ghigliottina. Ciò detto, riteniamo che il problema debba essere riproposto e valutato
sulla base dei criteri interpretativi propri ed esclusivi dello specifico ambito nel quale il concetto di
incapacità d'intendere e di volere è posto, e cioè sul terreno giuridico.
L'art. 85 C.p.. dopo aver ribadito e ampliato il principio di stretta legalità secondo cui "nessuno può
essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso,
non era imputabile", dichiara: "è imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere". L'art. 98
C.p., poi, afferma che il minore degli anni 18 è imputabile se nel momento in cui ha commesso il
fatto "aveva capacità di intendere e di volere". Il quesito al quale il Tribunale deve rispondere è
questo. E questo è anche l'ambito entro il quale i periti possono e debbono operare nel coadiuvare
l'attività dei giudici. [...] (segue)
[2. La personalità di Pino Pelosi] Pelosi è imputabile? È capace di intendere e di volere? È maturo?
La risposta, come abbiamo visto, non può essere data intendendo per "oggetto concreto" l'imputato,
bensì il rapporto tra imputato, il suo sviluppo psichico e il fatto criminoso. Non vi è dubbio che,
anche a una osservazione superficiale, il Pelosi appaia un soggetto con gravi carenze intellettive e
terribili lacune etico-sociali, ma la sua maturità, dal punto di vista giuridico, va valutata in relazione
alla comprensione dell'atto criminoso e posta nel momento in cui uccise Pier Paolo Pasolini.
Dunque, la vera e definitiva questione è se Pelosi, allorquando uccise Pasolini, era in grado di
rappresentarsi gli effetti della propria azione e di darne comunque, e sia pure in modo informe e
primitivo, un giudizio etico-sociale. Ebbene la risposta non può darsi senza avere presente la
ricostruzione. la dinamica e le modalità del delitto. Se fossimo stati di fronte a una azione
improvvisa, repentina e quasi inconsulta, ben diverse sarebbero l'analisi e le conclusioni cui
perverremmo. In realtà, l'istruttoria ha fornito elementi per escludere una si- mile ricostruzione degli
avvenimenti, ed è proprio ciò che rende più complesso e assai difficile l'accertamento della capacità
del Pelosi.
A nostro avviso, la volontarietà dell'omicidio è stata ampiamente dimostrata, e a sostegno di ciò
sono soprattutto le perizie medico-legali, le osservazioni del nostro consulente prof. Faustino
Durante, e le stesse incerte e lacunose dichiarazioni del Pelosi. Di ciò tratteremo in altra parte delle
nostre conclusioni, ma qui osserviamo che se quella notte del 2 novembre Pasolini fu colpito in
prossimità della sua auto, se disperato fuggì sanguinante per oltre 70 metri, se fu inseguito e
raggiunto, se qui fu di nuovo colpito, se Pelosi tornò indietro, salì sull'auto, ripartì, deviò
ampiamente sulla sua sinistra, passò sul corpo martoriato con ambedue le ruote, ebbene tutto ciò
non solo prova la volontarietà dell'esecuzione ma sottolinea, nella dilatazione dello spazio
temporale, pervicace e reiterata volontà omicida che non poteva essere priva della coscienza di
quanto stava accadendo e della intelligenza della reale situazione che stava ponendo in essere.
Pelosi aveva dunque la capacità di rappresentarsi gli effetti delle sue azioni? A nostro avviso
sicuramente sì.
Ma Pelosi aveva anche la capacità di esprimere un giudizio etico e sociale su quanto stava
commettendo? Qui il discorso è più complesso. Il nostro consulente prof. Luigi Cancrini ha
espresso con chiarezza qual è il nostro punto di vista e ad esso ci riportiamo. Il Pelosi come tutti è
soggetto ad una scala di valori che l'ambito sociale nel quale egli vive forma, e che la sua famiglia
media criticamente. Ed è solamente in relazione a un tale complesso inscindibile, individuofamiglia-società, che è possibile esprimere un giudizio di maturità. Si tratta, insomma, di "riflettere
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sulla possibilità di considerare "maturo" un individuo e un gruppo che mettono in opera, nel corso
dei colloqui diagnostici, comportamenti complessivi di questo tipo e di questo livello: l'indifferenza
al problema proposto dalla sorte di un uomo, la preoccupazione centrata sul giudizio della gente (i
giornali che hanno parlato di Pino dicendo che era "soprannominato" Rana e lui invece non
rassomiglia per niente a una rana, la "famiglia esemplare" rovinata da "quello lì"), sono
l'espressione evidente di una difficoltà grave, comune a tutto il gruppo familiare, ad affrontare con
la serenità e il realismo propri di un comportamento maturo i fatti di cui si sta qui discutendo. E ciò
anche se è possibile ritrovare, per ognuno di essi, spiegazioni anche convincenti all'interno di un
certo contesto socio-culturale e all'interno di quella che deve, comunque, essere considerata come la
reazione a un momento di gravissima tensione del gruppo familiare considerato nel suo complesso".
È questo un punto assai importante "perché sarebbe impossibile giudicare il grado di maturità del
Pelosi se non lo si valutasse all'interno del contesto familiare in cui egli è cresciuto e di cui, tuttora,
egli subisce gli influssi. Ben note sono infatti a tutti i moderni studiosi dell'antisocialità giovanile, le
connessioni esistenti fra il comportamento con cui quest'ultimo si manifesta fuori della famiglia e
all'interno di questa, e l'atteggiamento fortemente contraddittorio nei confronti dei valori e degli
orientamenti generali del gruppo sociale più vasto. Ben noto è, cioè, il fatto per cui il
comportamento "antisociale" del figlio viene a essere regolarmente appoggiato, anche se in modo
abitualmente del tutto in-consapevole, da una serie di comportamenti complessivi di un gruppo
familiare che vive ed esprime al livello del figlio una complessiva situazione di difficoltà nei
confronti dell'ambiente sociale più vasto". Non è semplice esprimere un giudizio sui comportamenti
complessivi del Pelosi e della sua famiglia inquadrati all'interno di quello che è l'attuale livello di
maturità della coscienza civile del Paese. Quali che siano le ragioni di questa arretratezza, in ogni
caso. essa va tenuta presente "soprattutto se si tiene conto del fatto che le circostanze storiche e
sociali in cui questo gruppo ha sviluppato il suo particolare tipo di orientamento e di valori
costituiscono di fatto l'unica occasione offerta finora al Pelosi per progettare se stesso come
individuo e come cittadino".
Non è sufficiente. quindi, proporre l'idea "per cui alla famiglia Pelosi, cioè quella particolare
famiglia incarnata da quel padre e da quella madre, possa essere guardata come la causa di un
comportamento inadeguato del ragazzo". In nessun caso, infatti, la famiglia può essere considerata
come sistema "chiuso": "essa subisce infatti il condizionamento dell'ambiente alle cui esigenze deve
continuamente adattarsi. La dipendenza sociale ed economica e la difficoltà di confrontare i propri
sistemi di riferimento culturali con quelli dominanti all'esterno sono le cause più comuni di tensione
tra la famiglia e l'ambiente. Specchio di contraddizioni che crescono fuori di lei, la famiglia
ripropone nel conflitto tra padre e madre, tra genitori e figli, tutti i conflitti propri della gestione
autoritaria del potere e le difficoltà legate alla mancata realizzazione dei suoi membri. È per questo
motivo che le difficoltà di ordine psicologico e le manifestazioni di disadattamento non si
distribuiscono a caso nella popolazione: le classi sfruttate sono sempre più colpite di quelle al
potere.
Famiglie spezzate, alcolismo, tossicomanie, e manifestazioni diverse del disadattamento giovanile
possono essere studiate proprio in questo senso come conseguenza delle pressioni di ordine socioculturale sopportate da zone della popolazione mantenute in condizioni abituali di inferiorità.
Osservata da questo punto di vista la famiglia può essere considerata come un sistema di
trasmissione delle pressioni esercitate sull'individuo dall'ambiente sociale più vasto. Di questo essa
infatti non trasmette solo i valori ma anche le contraddizioni, il disagio e la follia. È possibile
dunque, al termine di tali considerazioni, guardare alla famiglia del Pelosi come al veicolo passivo e
acritico di un pregiudizio diffuso nel più vasto ambiente sociale un pregiudizio che tende a
connotare in termini dispregiativi il "diverso" e a veicolare nei suoi confronti tutto il rancore, l'odio
e la incapacità di rappresentarsi obiettivi reali di critica e di protesta". La conclusione alla quale,
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sulla base delle considerazioni elaborate dal nostro consulente, perveniamo, è che "l'immaturità e il
comportamento antisociale in cui esse si esprimono devono essere guardate come il risultato di un
processo che coinvolge l'ambiente in cui il ragazzo è cresciuto e la complessiva immaturità delle
strutture che ne hanno influenzato lo sviluppo e che non hanno potuto occuparsi altrimenti di lui.
Perché nessuno si è preoccupato del fatto che il minore abbandonasse la scuola? Perché nessuno è
intervenuto nel momento in cui egli accettava di prostituirsi? Che diritto si ha oggi di chiedergli
conto di un singolo gesto che costituisce il tragico epilogo di una storia possibile solo all'interno di
una società che pretende di essere matura lasciando che i ragazzi come Pelosi affoghino nella apatia
e nella indifferenza delle sue istituzioni?" Ecco le domande dalle quali noi ci siamo mossi e di
fronte alle quali, in questa sede, ci fermiamo perché esse ci avviano verso spazi che non sono più
patrimonio esclusivo del diritto. Ecco anche, però, il nodo che occorre sciogliere e che noi, qui,
abbiamo solo potuto prospettare e valutare nei termini più obiettivi e critici che ci è stato possibile.
Paradossalmente, sia pure partendo da così differenti assunti, siamo giunti alle medesime
conclusioni dei periti d'ufficio. Pelosi è immaturo? Sì, ma solo se egualmente immature sono la
società che lo ha prodotto, la famiglia che lo ha educato, e i valori che queste gli hanno proposto.
Accertare la sua maturità sarebbe soltanto un alibi per assolvere i veri responsabili di un delitto
atroce, rinnovato e rinnovabile - sarebbe solamente un modo per dare ulteriore validazione a un
processo sociale e culturale del quale Pelosi è, in fondo, anch 'egli vittima inerme. (segue) [3.
Ricostruzione dell'assassinio] L'istruttoria dibattimentale ha offerto con sufficiente chiarezza un
quadro che consente ora una ricostruzione dei tragici fatti in termini assai credibili e vicini alla
verità, pur se ci si mosse all'inizio delle indagini tra infinite difficoltà e incertezze. È stata
soprattutto la consulenza del prof. Durante che ha permesso una chiarificazione attraverso
l'elaborazione logica e induttiva degli elementi non certo abbondanti che la situazione offriva. È
nostra profonda convinzione di essere riusciti a fornire al Tribunale elementi di giudizio sufficienti
al fine di giungere alle conclusioni indicate circa la volontarietà dell'omicidio e la pluralità degli
esecutori. Qui desideriamo riassumere, sia pure sinteticamente e schematicamente, gli elementi che
ci hanno condotto a tale convinzione e che nel corso dell'istruttoria dibattimentale hanno trovato
ampio riscontro.
La volontarieta dell 'omicidio emerge con assoluta certezza da tutti gli elementi di sopralluogo e
dalle risultanze stesse della perizia d'ufficio. che possono essere così riassunti:
1. La reiterazione dei colpi inferti fin dalla prima fase, che è provata da:
1.1. La camicia inzuppata di sangue: sia che si tratti di sangue "scolato" dalle ferite e sia che
provenga da tentativi di Pasolini di "tamponarsi" le ferite, è un chiaro segno che le ferite stesse non
erano banali, e soprattutto che non si trattava di una sola lesione. In particolare, la presenza di
abbondante sangue sulle maniche avvalora l'ipotesi dei periti d'ufficio (scritta e ripetuta in aula) di
una prima posizione di difesa del capo e di un probabile secondo tentativo di tamponamento
dell'emorragia. In conclusione: i colpi debbono essere stati ripetuti. (Dai periti è stata negata, in
aula, la possibilità di un imbrattamento nel movimento compiuto da Pasolini per togliersi la
camicia: ciò in quanto essendo essa stata slacciata sul davanti non è passata sul capo.)
1.2. La presenza di capelli di Pasolini nel tragitto di fuga. Tale elemento indica la gravità delle
lesioni oltreché il reiterare dei colpi durante la fuga, e prova inequivocabilmente che non era
Pasolini a colpire Pelosi in fuga ma viceversa. Su questo elemento i periti in aula non hanno
risposto con chiarezza avanzando addirittura la inaccettabile ipotesi del semplice strappamento di
capelli a opera di "fissurazioni" del bastone. È già stato chiarito al Tribunale che la ciocca di capelli
essendo stata rinvenuta a 8 metri di distanza dal cadavere (e cioè a circa 60 metri dal luogo ove fu
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inferto il colpo) non poteva essere in alcun modo attribuita a colpi inferti con la tavoletta
"Buttinelli", perché tale tavoletta ha agito soltanto laddove fu rinvenuto il corpo, ove appunto sono
visibili, sulle fotografie in atti, tutte le schegge del legno. 2. La reiterazione dei colpi inferti nella
seconda fase, che è provata da:
2.1. La presenza di sangue e di capelli di Pasolini su tutte e due le su-perfici larghe e sui margini
della tavoletta "Buttinelli" strappata dal cancello avanti al quale fu rinvenuto il corpo di Pasolini.
2.2. La emorragia cerebrale dai periti non attribuita al sormontamento ma ai colpi inferti con mezzi
contusivi prima del sormontamento
. 2.3. Il calcio ai testicoli: è da precisare che si trattò di un così violento trauma da determinare una
infiltrazione di sangue anche nei tessuti profondi come riportato nella perizia d'ufficio.
3. Il volontario sormontamento del corpo di Pasolini con le ruote dell'autovettura della stessa
vittima, è provato da:
3.1. Lo spazio tra il corpo e la rete di recinzione situata sulla carreggiata destra opposta a quella ove
fu rinvenuto il corpo era di circa 8 metri.
3.2. La distanza fra l'ultima buca e il corpo di Pasolini era di circa 8 metri.
3.3. Ifari accesi: e quindi visibilità piena dello spazio antistante la vettura.
3.4. La velocità non eccessiva del veicolo: l'ing. Capuccini nella sua perizia d'ufficio dice che la
velocità era "relativamente elevata e probabilmente superiore a quella normalmente tenuta da un
veicolo in manovra". Quindi il "relativamente elevata" è veramente molto "relativo" perché se
rapportata alla velocità di un veicolo in manovra essa sarà stata di 10-15 km/h. A ciò aggiungasi che
sempre l'ing. Capuccini nella sua relazione parla di: "lievi ammaccature nella zona inferiore
sinistra... nonché nei condotti di scarico e nella parte anteriore e inferiore del primo silenziatore.
Lievi tracce di strisciature si notano anche nella fiancata interna del secondo silenziatore nonché
nella parte inferiore del serbatoio della benzina". Se si tiene conto di due fatti, veicolo non nuovo e
presenza di due grosse buche (evidentissime sulle fotografie in atti), si può concludere con assoluta
certezza che nel passare sull'ultima buca (a 8 metri prima del corpo di Pasolini) la velocità doveva
essere veramente bassa. Infatti, anzitutto alcune ammaccature possono essere state preesistenti
(vettura vecchia), e in secondo luogo una velocità superiore ai 10-15 km/h avrebbe prodotto, a
causa della buca, ben più gravi ammaccature. Ciò vale in modo particolare per il tubo di
scappamento nella sua parte terminale, che al contrario non presentava nessuna alterazione.
Dai punti 3.1, 3.2, 3.3, 3.4 si deduce facilmente la seguente dinamica: il Pelosi conducendo l'auto
con fari accesi sulle due grosse buche a velocità molto bassa. esce dall'ultima buca e
immediatamente si trova sulla destra una strada di 8 metri di larghezza e davanti all'auto uno spazio
di 8 metri che lo separa dal corpo di Pasolini che giace assai vicino al bordo sinistro del bivio. È per
il Pelosi facilissimo mantenere la primitiva direzione di marcia e, compiendo una lieve deviazione a
destra sulla sua stessa strada, raggiungere la via asfaltata senza toccare né avvicinare il corpo di
Pasolini. È inoltre molto importante ricordare che tra le stesse buche e la rete di recinzione (sulla
destra) esiste un largo spazio. Quindi addirittura fin dal momento in cui l'auto si trovava nella zona
precedente la buca, Pelosi aveva direttamente puntato l'auto sul corpo di Pasolini (il tutto è
comprovato e documentato sulle fotografie). (segue)
[4. La presenza di più agressori] La presenza di più aggressori è comprovata dai seguenti elementi:
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1. Entità delle lesioni preesistenti al sormontamento.
1.1. La certezza sulla genesi contusiva di alcuni gravi complessi lesivi del capo. Su questo punto
valgono le affermazioni scritte e i verbali dei periti d'ufficio, i quali hanno soffermato la loro
attenzione sulla lesione ad "H" (non si dimentichi che si tratta di un complesso di lesioni che nel
loro insieme occupano una zona con diametri di 6 e 4 cm!), e sulle tre grosse lesioni situate nella
zona del parietale di sinistra. I periti hanno affermato che, in relazione ai due mezzi rinvenuti, le
lesioni suddette vanno forse attribuite al margine della tavoletta "Buttinelli" e ciò per la resistenza
di essa e per il suo peso. Essi non hanno comunque escluso la possibilità di altri mezzi produttori di
queste lesioni. A questo proposito va ribadito il concetto già accennato in aula dal consulente di
parte civile: la tesi dei periti potrebbe essere valida qualora si fosse certi che la produzione delle
lesioni stesse sia avvenuta davanti al cancello dei Buttinelli (seconda fase dell'aggressione) quando
fu adoperata la tavoietta. Ma se così fosse non si spiegherebbe più la provenienza dell'abbondante
emorragia verificatasi nella prima fase dell'aggressione e deducibile dal rinvenimento della camicia
abbondantemente impregnata di sangue, nonché la perdita di ciocche di capelli di Pasolini lungo il
tragitto della sua fuga: momenti nei quali fu usato soltanto il "friabile" bastone che gli stessi periti
non hanno con sicurezza dichiarato idoneo a produrre quelle lesioni. Su questo punto si ricordino
ancora due elementi: 1° la friabilità del bastone che si ruppe nel senso della lunghezza (lo ha
ricordato ai periti lo stesso Tribunale addirittura precisando loro che una delle due metà era appena
sporca di sangue e che quindi il bastone doveva essersi rotto subito!): 2° la relativa scarsa
robustezza della stessa tavoletta che si ruppe dopo il primo colpo (deposizione del Pelosi,
testimonianza di Buttinelli).
1.2. Le lesioni fratturative delle falangi (due fratture e una lussazione): anche su questo elemento i
periti di ufficio non hanno tratto tutte le conseguenze logiche che da esso deriverebbero. Tuttavia si
può avanzare il ragionevole dubbio che siano presenti altre lesioni fratturative alle braccia che per
una mancata indagine radiografica particolareggiata di tutti i segmenti ossei non potranno mai
essere escluse. Per quanto attiene alle fratture delle falangi, va affermata con decisione la più che
verosimile azione di corpi contundenti ben più consistenti e pesanti della tavoletta.
1.3. La impossibilità di individuare altre lesioni gravi non dovute al sormontamento, ma
verosimiglianza di una loro presenza. Tutti sono d'accordo, compresi i periti d'ufficio e compreso il
consulente della difesa, che è pressocché impossibile distinguere altre gravi lesioni non dovute al
sormontamento. Orbene: la verosimile loro presenza si basa fondamentalmente sulla constatazione
anatomopatologica di una emorragia cerebrale che con certezza non è stata prodotta dal
sormontamento (cosi affermano gli stessi periti), ma che è molto poco attendibile riferire soltanto al
colpo che produsse la lesione ad "H". Per essere ancora più chiari: è un dato ormai inconfutabile che
la lesione ad "H" è stata prodotta dalla tavoletta, ed è altrettanto indubbio che il grave
sanguinamento durante la prima fase dell'aggressione debba essere attribuito a vaste lesioni del
cuoio capelluto verificatesi per le lesioni al parietale sinistro. Se a questo punto si tiene presente un
fatto sicuro, e cioè che Pasolini fuggì per 70-80 metri e che quindi non poteva essere già portatore
di una emorragia cerebrale, come è possibile attribuire tale emorragia interna a uno o due colpi di
tavoletta? Quindi in questo momento lesivo doveva esserci un altro mezzo ben più robusto della
tavoletta. In conclusione, i corpi contundenti non rinvenuti hanno agito sia nella prima fase
(determinando vaste lesioni con diffusa emorragia provata dall'insanguinamento della camicia) e sia
nella seconda fase (determinando una emorragia cerebrale certamente verificatasi non nella prima
fase di aggressione, poiché Pasolini non avrebbe avuto possibilità di percorrere un tragitto di 70-80
metri, e altrettanto certamente non attribuibile all'azione della tavoletta "Buttinelli").
2. La particolare vascolarizzazione arteriosa del cuoio capelluto. Tale constatazione è stata fatta dai
periti anche in aula. Si ricordino alcuni elementi significativi: l'arteria temporale superficiale che
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decorre proprio sotto la cute ha un diametro di ben 3 mm. Quindi si è in presenza non di semplice
"fuoriuscita" di sangue, bensì di "schizzi" e "zampilli" veri e propri
. 3. La scarsissimo imbrattamento dei vestiti di Pelosi con sangue di Pasolini. I periti hanno rilevato:
1° la presenza di una macchia di imbibizione rossastra interessante il polsino sinistro della maglia a
carne (una zona di 3x4 cm). Da rilevare che non è una macchia intensa ma una "sbavatura", quindi
o una primitiva piccola macchia lavata o una semplice striatura (chiarissima sulla fotografia in atti):
2° l'imbrattamento sulla parte terminale del pantalone di destra: si tratta solo di alcune macchie. Se
per assurdo Pelosi si fosse lavato i vestiti, anche altre macchie sarebbero rimaste quantomeno sotto
forma di striature e di sbavature; 3° la presenza di sangue sotto la suola di una delle scarpe di
Pelosi. Tale elemento non contrasta con l'asserito scarso imbrattamento di sangue sul Pelosi per
ovvie ragioni essendo stato, egli, sicuramente in prossimità del cadavere di Pasolini.
4. L'assenza di lesioni sul corpo di Pelosi. Su questo elemento va sottolineato: 1° quanto i periti
d'ufficio affermano circa la lesione alla fronte: "Il mezzo lesivo deve aver comunque esercitato la
sua efficacia lesiva in ogni caso di modesta entità in senso trasversale"; 2° che i medici della
Pubblica sicurezza di Ostia parlarono di ferita da taglio, il che contrasta con l'azione di un bastone
mancandovi ecchimosi ed escoriazioni; 3° che la regione frontale fu vista dai periti dopo quattro
giorni e anche essi non vi rilevarono infiltrazioni ematiche circostanti. La lesione alla fronte occorre
riferirla più verosimilmente a un urto contro il volante (mezzo a strettissima superficie e situato in
senso trasversale rispetto al guidatore) anche per un'altra osservazione: se Pelosi avesse avuto la
lesione frontale prima della fuga in auto è assurdo ritenere che, data la nota vascolarizzazione del
cuoio capelluto e dato il sobbalzare dell'auto per le buche e per la fuga velocissima sulla strada
asfaltata nonché per l'arresto immediato contro il marciapiede, non vi fosse maggiore imbrattamento
del suo stesso sangue sulle superfici anteriori dei suoi vestiti. Fu invece rinvenuta una macchiolina
sul bordo della canottiera e qualche macchiolina contro la tappezzeria dell'auto, davanti al volante.
Anche quest'ultima disposizione delle tracce ematiche fa ritenere molto più attendibile la
produzione della lesione frontale per urto contro il volante. Per quanto riguarda la frattura delle ossa
nasali si può non avere alcuna difficoltà a ritenere verosimile quantomeno un pugno difensivo da
parte di Pasolini. Comunque non è detto che la frattura sia con certezza riferibile a quella notte (lo
hanno riferito gli stessi periti) ed essa inoltre bene si accorderebbe con il sicuro trauma craniofacciale subito dal Pelosi al momento dell'arresto improvviso dell'auto contro il marciapiede. Ciò
che è importante sottolineare è l'assenza assoluta su Pelosi di lesioni da afferramento come sono
tipiche in una colluttazione a due (quantomeno una escoriazione o una contusione di un certo rilievo
delle mani o delle braccia): tutto quello che lamentò il Pelosi nella visita a CasaI del Marmo i periti
affermano che era soggettivo senza alcun riscontro obiettivo.
5. L'assenza di sangue di Pasolini all'interno della propria autovettura e sulla portiera di guida. Su
questi elementi si può considerare l'opportunità di avanzare una nuova ipotesi mai prima accennata:
l'auto non è stata spostata da Pelosi ma da un altro aggressore che ha ideato e posto in essere il
sormontamento del corpo di Pasolini; solo successivamente alla guida dell'auto si è messo il Pelosi.
Ciò avvalora ancor più l'ipotesi della presenza di altri aggressori. Infatti: Pelosi presentava poche
tracce di sangue sulle mani così come tutti gli altri in quanto la molteplicità degli aggressori non ha
permesso a Pasolini di difendersi mai validamente e di afferrarne mai alcuno, o al massimo gli ha
permesso soltanto di raggiungere qualcuno degli aggressori (che al limite potrebbe essere lo stesso
Pelosi) con un pugno scarsamente valido tanto da non lasciare tracce obiettive; essendo quindi solo
contro più aggressori è stato ben presto sopraffatto e ha pensato soltanto a salvarsi fuggendo, ma
raggiunto (certamente anche dal Pelosi) è stato colpito con la tavoletta (usata anche dal Pelosi) e
con altri mezzi (questi ultimi giustificano la emorragia cerebrale) nonché dal calcio ai testicoli; poi,
caduto a terra, probabilmente riceve un calcio da Pelosi che sporca così la sua scarpa destra e il
fondo del pantalone dallo stesso lato; infine viene abbandonato ormai privo di coscienza (emorragia
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cerebrale). A questo punto gli aggressori raccolgono i due pezzi di tavola e il bastone e tornano
all'auto: Pelosi entra dalla parte non della guida e, trattandosi di un'autovettura a due portiere,
compie la mossa istintiva tipica di questi casi: con la mano destra afferra la maniglia e con la
sinistra si appoggia sul tetto dell'auto là dove si rinvengono tracce del sangue di Pasolini. Il
complice (adulto, e quindi più freddo nonché più scaltro) simula l'investimento di Pasolini; poi
scende dall'auto e Pelosi prende il posto della guida fuggendo.
Questa ricostruzione, che a una analisi superficiale potrebbe sembrare alquanto romanzesca, in
realtà è la sola che offre una giustificazione credibile di molti dati di fatto:
1°) spiega la contraddizione tra l'ingenuità di Pelosi e l'idea di simulare l'investimento che non è
affatto un'idea ingenua;
2°) spiega la frase del Pelosi laddove dice di aver smesso di colpire Pasolini perché ormai lo vedeva
a terra esanime e quindi lo riteneva morto; e quindi non ha capito neanche perché lo si dovesse
sormontare con l'auto;
3°) spiega la presenza di tracce di sangue di Pasolini sulla parte destra del tetto dell'auto proprio in
corrispondenza del limite posteriore della portiera di destra (dato obiettivo che nella prima
ricostruzione del consulente di parte civile era posto in termini ancora problematici);
4°) spiega l'assenza di sangue di Pasolini all'interno della sua auto dato che trattandosi di più
aggressori nessuno di essi era seriamente imbrattato di sangue neanche sulle mani, ma ne poteva
avere soltanto qualche traccia per avere toccato i mezzi contundenti;
5°) spiega, infine, l'assenza di grossi imbrattamenti di sangue di Pasolini sui vestiti del Pelosi perché
nella dinamica di un'aggressione compiuta da più persone c'è chi sta più vicino, o meglio chi vi
partecipa più attivamente, e chi no. Tale ipotesi trova la sua base sugli elementi oggettivi che
spiegano incongruenze, lacune e contraddizioni e che tuttavia non si contrappongono alla tesi della
volontarietà dell'omicidio. Questa, infatti, attiene all'autore del delitto chiunque esso sia. Se
l'omicida è Pelosi questa è soltanto una ipotesi e ferma resta la certezza della sua volontà omicida.
Se Pelosi non è invece il solo omicida, la volontarietà va attribuita ad altri e, pur tuttavia, Pelosi
resta comunque, e forse in forma ancor più grave, compartecipe lucidamente cosciente
dell'omicidio. (segue)
[5. La personalità e il mondo ideale di Pasolini] Non possiamo, infine, chiudere queste note senza
ricordare la personalità e il mondo ideale di Pasolini, il suo atteggiamento verso il problema della
violenza, verso i diseredati, verso i potenti, e che cosa egli è stato nella nostra cultura con le sue
opere, le sue tensioni morali, il suo impegno civile. "In tutta la mia vita non ho mai esercitato un
atto di violenza, né fisica, né morale. Non perché io sia fanaticamente per la nonviolenza. La quale,
se è una forma di auto-costrizione ideologica, è anche essa violenza. Non ho mai esercitato nella
mia vita alcuna violen 848f51i za, né fisica né morale, semplicemente perché mi sono affidato alla
mia natura, cioè alla mia cultura...
" Questa dichiarazione prelude in modo conciso ma significativo a un inedito che Pasolini volle
pubblicare nell'ambito di quella anomala ma così indispensabile raccolta pubblicistica Scritti corsari
destinata a suggellare la sua composita opera poetica - i più non lo hanno ricordato, ma, dalla
letteratura più intima e clandestina al cinema più pubblico e popolare, Pasolini è rimasto saldamente
poeta - con la netta impronta del reale e del quotidiano. Un confronto arduo e sofferto, ma sempre a
viso aperto, con i fatti, con gli amici, con i nemici, con gli amici-nemici.
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Monologo o dialogo che fosse, è stato sempre più fitto e serrato, tanto da far della sua vita un
apologo, culminato tra la fine di ottobre e l'inizio di novembre dello scorso anno. In modi che
qualcuno ha definito persino "maniacali", Pasolini si batteva contro la brutale "omologazione
totalitaria del mondo" oggi in atto - cioè contro quel processo consumistico-edonistico che avrebbe
travolto l'individuo sino a trasformarlo in cosa: una povera cosa era infatti il corpo del giovane
Antonio Corrado, ucciso a colpi di pistola nella notte fra il 29 e il 30 ottobre 1975 nel quartiere
romano di San Lorenzo, vittima inconsapevole di una vendetta fascista, ammazzato al posto di un
giovane extraparlamentare di sinistra perché stessa era la via, stessa la barba, stesso il soprabito; due
giorni dopo, un'altra efferata violenza avrebbe ridotto anche Pasolini a una cosa senza vita, in quella
notte fra il 1° e il 2 novembre cominciata proprio nelle vie di San Lorenzo, percorse a capo chino
"perché si vedono facce terribili in giro, prive d'espressione": la morte, arrivata per mano di un
ragazzo-oggetto che forse sa o forse non capirà mai fino a che punto è stato tale.
Come dice Jean Paul Sartre, può darsi che Giuseppe Pelosi guardasse. sebbene con acerba
inconsapevolezza, all'omosessualità come a una "tentazione costante e costantemente rinnegata,
oggetto del suo odio più profondo", ma forse la sua insicurezza non poteva ancora permettergli di
"detestarla in un altro perché in questo modo si ha la possibilità di distogliere lo sguardo da se
stessi".
Suo padre sì, il suo contesto sì, possedevano questa ottusa e tronfia consapevolezza, e lui avrebbe
preso la sua "patente" e la sua "maturità" in questo senso, nel modo più viscerale, senza sapere che
ormai la società sembra "tollerare" il diverso, o forse avvertendo con il suo ultimo, definitivo
sentimento che Pasolini "aveva capito che era intollerabile, per un uomo, essere tollerato". È
tragicamente singolare ritrovare oggi tutto questo in un articolo scritto da Pasolini più di tre anni fa,
il 7 gennaio del 1973, sulle colonne del "Corriere della Sera": "Le maschere ripugnanti che i giovani
si mettono in faccia, rendendosi laidi come vecchie puttane di una ingiusta iconografia", scriveva lo
scomparso, "ricreano oggettivamente sulle loro fisionomie ciò che essi solo verbalmente hanno
condannato per sempre... Cioè la condanna radicale e indiscriminata che essi hanno pronunciato
contro i loro padri, risuscitando nella loro anima terrori e conformismi e, nel loro aspetto fisico,
convenzionalità e miserie che parevano superate per sempre... Provo un immenso e sincero
dispiacere nel dirlo (anzi, una vera e propria disperazione): ma ormai migliaia e centinaia di
migliaia di facce di giovani italiani assomigliano sempre più alla faccia di Merlino
[nota: il 'trasformista' ideologico, il personaggio più sordidamente emblematico di tutta la vicenda
della strage del 12 dicembre del '69 a Piazza Fontana]...".
Un apologo forse incompiuto, ma certo terribilmente concluso nel momento in cui il suo cuore ha
cessato di battere, il suo sguardo di svelare, la sua coscienza di fremere.
Sì, perché dal 2 novembre 1975 Pier Paolo Pasolini ha cessato di esistere, e nei discorsi degli amici,
in quelli dei nemici e in quelli degli amici-nemici, si è sempre sentita da allora, in modo grave, la
sua mancanza, per non parlare di quanto la sua personalità sia assente nell'ingrato epitaffio offerto
da questo delitto, e nel troppo intorbidito e controverso ricordo degli ultimi, drammatici momenti
della sua vita, raccolti dagli impietosi occhi e orecchie di chi c'era, di chi non c'era, di chi poteva o
di chi voleva esserci. Il cadavere di Pasolini è stato divorato dalla nostra società e dal nostro tempo:
è questa la nemesi che chiude, come per un'esauribile regola narrativa, l'apologo. Si può ricordare
qualcuno che non c'è più e talvolta lo si è fatto senza offesa né tradimento. Per colui che ha lasciato
di sé l'impronta marcata della sua opera, poi, ciò sembrerebbe addirittura più semplice visto che ci
sono i documenti a parlare in sua vece.
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Nonostante la incommensurabile e gravosa eredità che egli ci affida, o forse persino a dispetto di
questa, Pier Paolo Pasolini ci ha precluso la via del ricordo, e ce ne siamo resi conto fin dal
momento del più acuto dolore per la sua scomparsa, davvero profondamente tale perché "perdita e
basta". Sia pure in una interpretazione esoterica, Pasolini è stato più volte definito "un testimone
provocatorio", ma la sublime maledizione non è stata dettata né da un narcisismo del poeta, né
dall'estro reclamistico dì un editore: c'era in questa sorta di slogan una verità istintiva, immediata,
quasi epidermica, ma profonda e implacabile proprio come lo sono i messaggi stereotipi della
pubblicità, che devono prima colpire, poi manipolare le nostre insoddisfazioni. Tutti ricordiamo
come Pasolini seppe reperire nell'ineffabile inventiva consumistica dei "Jesus jeans" la crepuscolare
parabola di un potere ciclopico, perché "il linguaggio dell'azienda è un linguaggio per definizione
puramente comunicativo: i "luoghi" dove si produce sono i luoghi dove la scienza viene "applicata",
sono cioè i luoghi del pragmatismo puro. I tecnici parlano un gergo specialistico, sì, ma in funzione
strettamente, rigidamente comunicativa. Il canone linguistico che vige dentro la fabbrica, poi, tende
a espandersi anche fuori: è chiaro che coloro che producono vogliono avere con coloro che
consumano un rapporto d'affari assolutamente chiaro" ("Corriere della Sera", 17 maggio 1973).
Nelle due parole "testimone provocatorio" c'è prima un elemento-chiave che illumina non tanto la
personalità di Pasolini quanto, essenzialmente, il suo rapporto fondamentale con la collettività, poi
segue la registrazione "a caldo" di una sensazione rapida, ancora da codificare, che è appunto quel
"provocatorio". Sovente, di un individuo in qualche modo "pubblico" si azzardano legittimi
pronostici, e la gara per decifrarne con anticipo i pensieri e le reazioni di fronte a questa o a quella
questione può risultare finanche poco vivace.
Per Pasolini questo gioco non si metteva in moto; per lui no, oseremmo dire per lui solo. È stata
questa sua caratteristica a fargli conquistare sul campo l'aggettivo "provocatorio", che è un giudizio
ottuso ma sincero, disarmante nella misura in cui ognuno potrà leggerlo, positivamente o
negativamente, secondo la prospettiva preferita, senza tuttavia mai afferrarlo veramente. Immune
come per natura dal tumore conformista (in realtà, questa sua vittoria molto personale è stata
sofferta, come ben si può immaginare, poiché solo un lucido, costante e dolente esame della realtà
può far sì che le impennate non finiscano prima o poi nella trappola dell'anticonformismo di
maniera, o nella retorica del "bastian contrario" con cui si tappa la bocca al dissenziente fino a fargli
provare il senso di colpa per la propria "anormalità", una colpa che quasi sempre prende il
sopravvento sui suoi slanci), Pasolini, pur non discostandosi mai da una sua logica ostinatamente
vigile, ha sempre generato, con le sue reazioni, stupore. E quest'ultimo dapprima ha coinciso con
una diffusa ostilità, che mal celava quella pressoché unanime cecità culturale sempre pronta a
sbarrargli il cammino, ma poi la volontà di "resistere alla provocazione" ha via via lasciato il posto
a graduali, sempre più estese prese di coscienza, in un Paese che fatalmente proprio nel
moltiplicarsì dei disagi e degli stenti vede più chiaramente il proprio cammino.
Non è casuale, infatti, che dal 1968 il poeta abbia progressivamenie intensificato i suoi interventi,
dando sempre maggiore incisività ai suoi bersagli, divenuti tremendamente congrui, e infittendo le
schiere degli amici (quei movimenti politici e culturali che della sua presenza hanno sentito il
bisogno: tutti coloro che con lui hanno voluto dialogare al di là delle polemiche devianti o persino
delle divergenze di fondo) e dei nemici (i depositari o i servi di un potere che prima lo ha
disprezzato quale intellettuale e quale omosessuale confinandolo ai margini, poi, comprendendo
l'inutile sforzo di rinchiuderlo in un ghetto, ha voluto mostrargli i denti). Né gli uni né gli altri
potranno ricordarlo al presente, tuttavia, perché il suo pensiero era in costante divenire e si sottraeva
a qualsiasi schema: traeva linfa dalla vita, e ne accettava le più orride beffe, ne condivideva le
contraddizioni pesanti da portare. Pasolini non coltivava utopie sorde, e questo tratto così semplice
e fermo è stato arduo da accettare per chi lo ha accusato di "voler tornare indietro". di "rimpiangere
il passato", perché chi l'ha detto o solo pensato non potrà mai confessare, in primo luogo a se stesso,
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la disperata fragilità del proprio, preventivato futuro. Con la sua presenza, Pasolini era egli stesso
l'utopia, in quanto veicolo dialettico di un'era, e di alcune generazioni. Il "testimone" si poteva
arrestare solo con la morte. Ora la coscienza pubblica, straziata e straziante, di un'epoca tace, e chi
ha tanto invocato il silenzio non può dolersene. Sul "Corriere della Sera", il 30 gennaio 1975.
Pasolini ammoniva sé e noi a questo proposito: "... La mia vita sociale in genere dipende totalmente
da ciò che è la gente. Dico "gente" a ragion veduta, intendendo ciò che è la società, il popolo, la
massa, nel momento in cui viene, esistenzialmente (e magari solo visivamente) a contatto con me. È
da questa esperienza esistenziale, diretta, concreta, drammatica, corporea, che nascono in
conclusione tutti i miei discorsi ideologici..." Dal 2 novembre 1975 la memoria si è dimostrata
infatti ingrata, e con lui e con noi: non ha saputo darci i mezzi per farlo rivivere, perché non poteva
e mai potrà. Lo abbiamo notato nella lode o nell'infamia di tanti suoi improvvisati biografi, quasi
tutti, ciascuno a suo modo, rifugiatisi nella più arida convenzionalità. Sono risbucati fuori anche i
rappresentanti di un livore e di una rozzezza che credevamo, peccando di presunzione, estinti.
Pasolini li conosceva bene, sono coloro che usano l'aggettivo "squallido" ("... cioè l'aggettivo di
sempre, sistematicamente, meccanicamente, canagliescamente usato negli articoletti di cronaca di
tutta la stampa italiana..."), irriducibili perché anonimi portavoce di quella "ltalietta, paese di
gendarmi" che il poeta non avrebbe mai dimenticato: "... Mi ha arrestato, processato. perseguitato,
linciato per quasi due decenni. Questo un giovane non può saperlo... Può darsi che io abbia avuto
quel minimo di dignità che mi ha permesso di nascondere l'angoscia di chi per anni e anni si
attendeva ogni giorno l'arrivo di una citazione del tribunale e aveva terrore di guardare nelle edicole
per non leggere nei giornali atroci notizie scandalose relative alla sua persona..." (da '"Paese Sera",
8 luglio1974).
Forse l'unico frammento di memoria che potrebbe restituirci, almeno per un attimo. Pier Paolo
Pasolini vivo, è il suo film Salò o le centoventi giornate di Sodoma, che egli aveva configurato
come un elemento di rottura spontanea con le sue opere precedenti, nell'intento di fondere il
"testimone" e "l'artista", alla ricerca di una leggibilità esplicitamente attuale, fatta di riflessioni ma
anche di carne e di sangue. Ma questo film il popolo italiano, considerato "immaturo" dai suoi
"tutori", pare che non possa vederlo e discuterlo. È questo l'ultimo sopruso, l'ultima violenza
dell'esistenza-apologo di Pier Paolo Pasolini e, per lo meno in questo caso, il sopruso e la violenza
hanno l'inequivocabile, inconfondibile sapore della "ufficialità". (segue) 6. ["Il romanzo delle
stragi"] C'è un'altra memoria, però, che terrà in vita Pier Paolo Pasolini. È la memoria di una strana
Storia, che raramente accede all"'ufficialità" poiché troppo alternativa rispetto a questa, ma non
riesce tuttavia a spegnersi negli occhi e nella mente degli uomini che cercano, pensano, sanno,
dibattono. 1114 novembre del 1974, Pasolini scrisse quello che chiamò Il romanzo delle stragi: "Io
so. lo so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (e che in realtà è una serie di
golpes istituitasi a sistema di protezione del potere). lo so i nomi dei responsabili della strage di
Milano del 12 dicembre 1969. lo so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei
primi mesi del 1974. Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti
ideatori di golpes, sia i neofascisti autori materiali delle prime stragi, sia, infine, gli "ignoti" autori
materiali delle stragi più recenti. Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi opposte, fasi
della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969), e una seconda fase antifascista (Brescia
e Bologna 1974). Io so i nomi del gruppo di potenti che, con l'aiuto della Cia (e in second'ordine dei
colonnelli greci e della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata
anticomunista, a tamponare il 1968, e, in seguito, sempre con l'aiuto e per ispirazione della Cia, si
sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del referendum. Io so i nomi di
coloro che, tra una messa e l'altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a
vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l'organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a
giovani neofascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine ai
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criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva
tensione antifascista).
lo so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel
generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi
bruciavano), o a dei personaggi grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le
suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione,
come killers e sicari. Io so tutti questi nomi e so tutti questi fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di
cui si sono resi colpevoli. lo so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un
intellettuale, uno scrittore. che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se
ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace, che coordina fatti anche lontani, che
rimette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che
ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero. Tutto ciò fa parte
del mio mestiere e dell'istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il "progetto di romanzo"
sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali
siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto
intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in
Italia dopo il l968 non è poi così difficile...".
Infatti, non bisogna necessariamente essere intellettuali e romanzieri per acquisire le stesse
consapevolezze che armavano quel giorno la penna di Pasolini, dal momento che milioni di italiani
"sanno" e manifestano ogni giorno nelle piazze, nelle fabbriche, nelle scuole, ovunque, un dissenso
che è il frutto di questa consapevolezza. Allo stesso modo noi sappiamo chi sono, tra le quinte di
questo apologo, i mandanti e gli esecutori "ideali" dell'assassinio di Pasolini, come lo sapeva quella
folla di romani che lo ha salutato, con dolore e con rabbia, per l'ultima volta nella camera ardente a
Campo de' Fiori. Quella folla così eterogenea, così "romanesca e inattendibile" perché così
popolare, sapeva e sa. Ma come noi non ha le prove. Solo qualche indizio. Avv. Guido Calvi
Interrogatorio del 2 novembre 1975 dell'imputato Giuseppe Pelosi
"Mi trovavo con gli amici Salvatore, Claudio e Adolfo detto "Lo Sburacchione" perché ha il viso
pieno di forungoli, di cui non conosco i cognomi e che però sono in grado di rintracciare, alla
Stazione Termini verso le ore 22; ci si è avvicinato un signore con gli occhiali sui 35-50 anni, col
volto magro, di media statura, a bordo di un'autovettura. Il signore era a bordo dell'auto "Alfa
Romeo GT" sulla quale sono stato poi trovato e arrestato questa mattina. Sceso dall'auto venne
incontro a un mio amico.
In particolare quel signore ha parlato con l'amico Adolfo e ho sentito che gli diceva: "Ci facciamo
un giro?" Il mio amico rideva e io ho capito che quel signore era un "frocio". lo mi sono allontanato
e sono andato al chiosco-bar di piazza dei Cinquecento all'angolo con piazza Esedra.
Dopo pochi minuti quel signore è arrivato in macchina davanti al bar, è sceso dall'auto e mi è
venuto incontro. Io mi trovavo sulla porta. Ha fatto anche a me la proposta di fare un giro in
macchina dicendo che mi avrebbe fatto un bel regalo. Non mi ha fatto proposte concrete anche se io
avevo più o meno capito che cosa volesse da me.
Mi ha portato in una trattoria vicino alla Basilica di San Paolo, e precisamente sul raccordo che
conduce sul viale Marconi e sullo svincolo per Ostia Lido. Mi ha detto che era un cliente della
trattoria, infatti lì lo salutavano tutti.
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La trattoria era deserta ma il personale proprio perché era cliente [...] di questo signore che diceva di
chiamarsi Paolo. Io ho mangiato perché avevo fame, lui ha soltanto bevuto una birra. Nell'osteria
non mi ha fatto proposte ma mi ha parlato amichevolmente, ha voluto sapere del mio lavoro. Siamo
stati insieme dalle ore 23 alle 23.20 nella trattoria, poi siamo risaliti in macchina. Il signore ha fatto
benzina presso un Selv Serv e poi ha preso una strada, anzi precisamente l'Ostiense, e cioé quella
alberata e con reticolati. Strada facendo mi ha detto che mi avrebbe portato in un campetto isolato,
che mi avrebbe fatto qualcosa e che mi avrebbe dato lire 20.000. Nel dire questo mi toccava le
gambe e poi giungeva ad accarezzarmi i genitali. Mi ha portato direttamente, come se conoscesse
perfettamente i posti, al campo sportivo.
" A questo punto il dottor Masone precisa che il luogo del delitto e costituito da una radura
adiacente al campo sportivo dove figura anche una porta e che era attrezzata rudimentalmente per il
gioco del calcio. Dentro questa porta è stato rinvenuto un maglione intriso di sangue e una tavola
recante l'indicazione ''via dell'Idroscalo n° 93" spezzata in due tronconi in senso longitudinale e
macchiata di sangue. Il corpo del Pasolini e stato trovato a 100-150 metri dalla anzidetta sul viottolo
in terra battuta che conduce al campetto di fortuna partendo dalla strada asfaltata. L'imputato
dichiara: "Il luogo è quello descritto, e preciserò meglio quello che ivi è accaduto. Ricordo infatti
che il Paolo lasciò la strada asfaltata e si addentrò in un viottolo a terra battuta, e si è fermato con
l'auto vicino alla porta da calcio. Ricordo che in vicinanza c'erano delle baracche in muratura.
Inizialmente, in macchina, il Paolo mi ha preso il pene in bocca per un minuto circa ma non ha
completato il 'bocchino" dicendo di uscire fuori dall'auto.
Mi ha fatto poggiare a una rete metallica di recinzione e mi è venuto dietro premendosi a me da
dietro e cercando di abbassarmi i pantaloni. Io gli ho detto che la smettesse e lui invece ha raccolto
un paletto del tipo di quelli che recingono i giardini e voleva infilarmelo nel sedere, o perlomeno me
lo ha appoggiato contro il sedere senza nemmeno abbassarmi i pantaloni. lo ho afferrato un pezzo di
legno, mi sono girato e gli ho detto: "Ma che ti sei impazzito?" Il Paolo si era tolto gli occhiali che
aveva lasciato in macchina, e nel vederlo in viso mi è sembrato con una faccia da matto tanto che ne
ho avuto proprio paura. Io sono scappato in direzione della strada asfaltata sul terreno fangoso
mentre il Paolo mi inseguiva. Siccome portavo ai piedi le stesse scarpe con i tacchi alti che ho in
questo momento, ho inciampato e sono caduto.
A questo punto mi sono sentito addosso il Paolo che si agitava alle mie spalle, io ho capito che
voleva ricominciare e mi sono rigirato divincolandomi, e allora il Paolo mi ha colpito alla testa col
bastone proprio nel punto dove ho il cerotto e dove mi è stato dato un punto di sutura al Pronto
soccorso. Io a mia volta dopo avere ricevuto il colpo ho afferrato il bastone con le due mani e sono
riuscito a scaraventare lontano da me il Paolo. Sono nuovamente fuggito e sono stato nuovamente
raggiunto; il Paolo mi ha colpito col bastone, ora ricordo, era un paletto verde, e mi ha colpito alla
tempia, alla testa e in varie parti del corpo. Io ho visto per terra la tavola con la scritta di cui ha detto
prima il dottor Masone e gliela ho rotta in testa, ma questo non e servito a farlo smettere. Sembrava
che non avesse sentito niente e sembrò non sentire nemmeno due calci nelle "palle". Allora gli ho
afferrato i capelli, gli ho abbassato la faccia e gli ho dato due calci in faccia. Il Paolo barcollava ma
ha trovato ancora la forza di darmi una bastonata sul naso. Allora non ci ho visto più e con uno dei
due pezzi della tavola di cui ho detto prima l'ho colpito di taglio più volte finché non l'ho sentito
cadere a terra e rantolare. Allora sono scappato in direzione della macchina portando con me i due
pezzi di tavola che ho buttato e anche il paletto verde che ho pure buttato vicino alla rete e vicino
alla macchina.
Subito dopo sono salito in macchina e sono fuggito con quella. Ero stravolto e ho impiegato del
tempo per metterla in moto e per accendere le luci. Nel fuggire non so se sono passato o meno con
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l'auto sul corpo del Paolo. Descrivo le manovre che ho fatto con l'auto. L'auto era col muso rivolto
alla rete di recinzione e con il "culo" alla porta di calcio.
Ho ingranato la retromarcia e sono passato sotto la porta, e poi ho fatto la conversione curvando a
sinistra". !l dottor Masone a questo punto precisa che la manovra descritta corrisponde piu o meno
alle tracce rinvenute sul luogo. "Ripeto che nel guidare non ho fatto caso a nulla: la macchina
sobbalzava perché il terreno era pieno di buche". Il dottor Masone, a questo punto, a richiesta del
magistrato precisa che parte del tragitto percorso dall'auto presenta effettivamente accidentalità del
terreno, ma che il punto in cui è stato trovato il cadavere è invece piuttosto regolare anche se in terra
battuta. Il colonnello Vitali a questo punto, fa presente che in base alle ultime ispezioni dell'auto di
cui gli è stata data notizia dal personale operante, risulterebbero tracce di sangue e di capelli nella
parte inferiore esterna dell'auto "Alfa GT" del Pasolini.
Contestato quanto sopra all'imputato, lo stesso dichiara: "Io non ho investito volontariamente il
corpo del Paolo e nemmeno ricordo di esserci passato sopra con l'auto inavvertitamente. Ero sotto
shock e non capivo niente. Ricordo solo che sulla strada alla prima fontanella mi sono fermato per
lavarmi e togliermi le macchie di sangue che avevo indosso". Il colonnello Vitali riferisce, per
quanto appreso a sua volta dal personale operante, Carabinieri di Ostia, che subito dopo l'arresto il
Pelosi chiese di cercare in macchina un anello, e che un anello fu poi rinvenuto vicino al cadavere.
Contestata la circostanza, il Pelosi risponde: "Io cercavo le sigarette, l'accendino e un anello mio: si
tratta di un a-nello d'oro con pietra rossa, a fianco della pietra ci stavano due aquile e tutt'intorno la
scritta "United States of America"". A questo punto il dottor Masone esibisce l'anello repertato che
il Pelosi riconosce per proprio e dichiara che "può darsi" che I'abbia perso mentre vibrava i colpi. Si
fa presente che la scritta è lievemente differente e che dice esattamente "United States Army".
L'imputato dichiara: "L'anello è mio, l'ho comprato da uno "stuart" che lo ha portato dall'America.
Ripeto che i fatti sono quelli da me narrati e che ho agito per difendermi e che ho colpito duramente
quando ho avuto l'impressione che il Paolo mi volesse proprio ammazzare per come si stava
comportando. Durante i fatti che ho descritto ero solo, anzi siamo stati sempre solo io e il Paolo dal
momento in cui abbiamo lasciato l'osteria fino a quando è successo quello che è successo". A
domanda risponde: "Delle persone di cui ho detto fornisco i dati che possiedo: Claudio si chiama
Seminara e abita in via [...], lo "Sburacchione" si chiama Adolfo De Stefanis e abita, credo, in via
[...], di Salvatore ignoro il cognome, so che abita verso la Batteria Nomentana".
Oriana Fallaci
- Deposizione del 2 dicembre 1975
A domanda risponde: "Ebbi i primi accenni in ordine all'eventualità che il Pasolini non fosse stato
ucciso solo dal Pelosi, ma anche da due motociclisti, e che ciò fosse stato visto da qualcuno, e che
l'iniziale versione raccolta dalla S.V. non fosse quindi esatta, da una giornalista americana del
"Chicago Tribune", Kay Withers, che ritengo abiti a Roma e che a sua volta riferiva voci
provenienti da due giornalisti dell'agenzia "Reuter". All'inizio non detti peso all'accenno, ma il
racconto tornò alla mia memoria allorché ebbi un incontro con una persona che mi dette la
narrazione sulla morte di Pasolini da me riportata nell'articolo "Ucciso da due motociclisti?" su
"L'Europeo".
Prima della pubblicazione dell'articolo. e anche per ottenere il giudizio di un collega e per
approfondire i fatti, volli avere un altro colloquio con l'individuo alla presenza del dott. Libero
Montesi, vice-direttore della rivista a Roma: ma alle nostre sollecitazioni per ottenere
dall'informatore il nome del testimone che dalle baracche avrebbe visto, la notte dell'assassinio, lo
svolgimento dei fatti, egli si dimostrò spaventatissimo e rifiutò dichiarando che il testimone si
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sarebbe rifiutato di parlare con chiunque perché aveva paura e non avrebbe parlato nemmeno
"coperto d'oro". Anche l'invito rivolto all'informatore affinché anche per scritto anonimo o
telefonata il giornale potesse acquisire maggiori conoscenze, non ebbe successo, né ebbero successo
ulteriori tentativi di persuasione.
Noi cercammo di appurare altre notizie dal direttore della "Reuter", che disse di non sapere nulla.
La Withers mi riferi poi, o almeno così dedussi da una successiva conversazione con lei, che uno
dei due giornalisti della "Reuter", da lei interpellato, le aveva detto di aver letto le voci relative sulla
stampa
. Non sono in grado di dare indicazioni sul Gianfranco Sotgiu (generalità che io ricavai dal
passaporto da lui esibitomi) e che venne a parlare con me: era un uomo magro, di media statura. di
età tra i 25 e i 30 anni. con i capelli scuri e con leggere inflessioni romanesche nell'accento.
Voglio precisare che circa la persona che mi informò, e che desidero che si indichi sempre come
persona senza precisazione di sesso (intendo in tal modo che si rettifichino i punti del verbale in cui
la si indica con la qualificazione maschile) non ritengo di fornire alcun particolare, considerandomi
vincolata dal segreto deontologico. La indicazione di Stella Angeletti Di Martino la ricavai dal
"Paese Sera".
Aggiungo a richiesta della S.V. che la persona che ci informò non volle alcun compenso. Dopo la
pubblicazione del mio primo articolo ebbi una conversazione nel mio ufficio con il Malusà Libero,
il quale mi offriva una sua personale ricostruzione dei fatti. Anzi preciso che tale persona non si
qualificò, e che il nome di Malusà Libero mi viene fatto dalla S.V. Aveva comunque una barba
biondiccia che gli ricopriva la parte inferiore del viso. Non mi parve persona attendibile e quindi al
più presto la congedai, anche perché il suo rifiuto a qualificarsi e a fornire le ragioni del suo
interessamento mi lasciarono perplessa."
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PERIZIA MEDICO-LEGALE
Note di parte allarelazione peritale d'ufficio (perizia medico-legale) sul cadavere di Pasolini
Prof. Faustino Durante Medico chirurgo, docente dell'Istituto di Medicina Legale dell'Universitò di
Roma
Per incarico dell'avv. Antonio Marazzita
ho preso visione della relazione peritale d'ufficio dei
proff. Silvio Merli, Enrico Ronchetti, Giancarlo Umani Ronchi,
sulla morte di Pier Paolo Pasolini,
e redigo qui di seguito la mia relazione tecnica.
Sormontamento del corpo di Pasolini da parte della propria autovettura. Va anzitutto premesso che
una corretta ricostruzione delle modalità con le quali si è verificato tale evento lesivo non può
prescindere dall'attento esame dei seguenti elementi:
1) le fotografie eseguite sul posto prima della rimozione del cadavere per uno studio sia della
posizione del corpo nel suo insieme, nei singoli segmenti (capo, arti superiori, tronco, arti inferiori)
e rispetto ai luoghi, sia alla posizione delle vesti ancora indossate dalla vittima, e sia delle lesioni
corporee visibili, nonché delle tracce di pneumatici in tutto il loro percorso fino al cadavere:
2) le lesioni cutanee, sottocutanee, ossee e dei visceri endotoracici (cuore) ed endoaddominali
(fegato);
3) le strutture metalliche dell'autovettura. Risulta dalla relazione peritale - anche per esplicita
ammissione dei periti i quali invocano l'estrema difficoltà di una particolareggiata ricostruzione che il loro "convincimento" sulla dinamica di questo momento lesivo prende origine soltanto dalla
constatazione di alcuni elementi anatomopatologici: scarsità e non uniformità delle fratture costaIi,
rottura del solo cuore e non scoppio del pericardio, assenza di lesioni cutanee figurate da riferire al
disegno dei pneumatici. È assente, invece, nella ricostruzione peritale, ogni riferimento alla rottura
del fegato, alle caratteristiche delle singole lesioni cutanee, e soprattutto alla disposizione di ogni
complesso lesivo esaminato singolarmente e nell'insieme con tutti gli altri. È altresì assente un
confronto con le fotografie eseguite sul corpo di Pasolini prima della rimozione e sui luoghi
circostanti il cadavere stesso. Una accurata indagine condotta con il sistematico studio di tutti gli
elementi a disposizione - secondo il metodo prima indicato - porta alle seguenti constatazioni di
fatti obiettivi. Dall 'esame necroscopico: a) Presenza di "materiale ferroso" sulla canottiera, sul
capo, sul collo, sulle spalle e sugli arti superiori "specie alle superfici laterali" (pagg. 4 e 5 della
relazione peritale).
Tale materiale non è presente sulla parte inferiore della canottiera e sui pantaloni. b) Presenza di
due larghe e del tutto simili escoriazioni ecchimotiche comprendenti soluzioni di continuo alle
regioni frontali laterali (pagg. 6, 11, 12, 14 della relazione).
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c) Ecchimosi escoriata della regione zigomatica e masseterica di sinistra (pag. 5 della relazione). d)
Frattura in due punti della branca orizzontale di sinistra della mandibola e lussazione
dell'articolazione temporo-mandibolare di sinistra (pagg. 15 e 16 della relazione).
Assenza di lesioni a carico della branca mandibolare di destra.
e) La piramide nasale risulta appiattita da sinistra verso destra (pag. 11 della relazione).
f) Lesione trasversale a carico del padiglione auricolare destro (pagg. 16, 18 della relazione).
È assente qualsivoglia alterazione cutanea nelle zone superiori al padiglione auricolare stesso.
g) Interessamento della regione occipito-parietale destra da "serie duplice soluzioni di continuo
lineari pressoché trasversali e parallele tra di loro della lunghezza di cm 2 e cm 4,5 essendo la prima
- costituita da tre soluzioni di continuo - localizzata posteriormente alla inserzione del padiglione
auricolare destro, la seconda - costituita da quattro soluzioni di continuo - localizzata più
medialmente, pressoché sulla linea mediana del capo...", le lesioni sono "svasate a carico del
margine inferiore", e la svasatura è "più accentuata nel gruppo situato medialmente" (pagg. 18, 19
della relazione).
h) Vasta lesione situata superiormente e posteriormente al padiglione auricolare sinistro. Tale
lesione è scollata "specie nella parte inferiore" (pagg. 23, 24 della relazione).
i) Lesione al padiglione auricolare sinistro. Il padiglione è "ampiamente strappato sul suo impianto"
e interessato dalla lesione stessa in corrispondenza del suo "terzo medio superiore" (pag. 25).
I) Tumefazione della regione latero-cervicale sinistra con escoriazioni seriate "prevalentemente
trasversali" (pagg. 25, 26 della relazione).
m) Numerose escoriazioni sulle regioni posteriori della spalla sinistra, sulla regione dorsale in
posizione o "trasversale" o "obliqua" (pag. 28 della relazione); non infiltrate e non "figurate" (pagg.
28 e 29 della relazione).
"Detto complesso si estende sino alla regione lombare essendo più accentuata la infiltrazione
emorragica proprio a carico delle lesioni localizzate in questa sede come alla base dell'emitorace
sinistro" (pag. 29 della relazione).
n) Escoriazioni trasversali alla base degli emitoraci, anteriormente, e all'addome (pagg. 31, 32, 33
della relazione). Non inflitrate.
o) Escoriazione in corrispondenza della spina iliaca anterosuperiore di sinistra. Tale zona è
ecchimotica (pag. 33 della relazione).
p) Numerose escoriazioni agli emitoraci, anteriormente, senza infiltrazione (pagg. 31, 32, 33, 34
della relazione).
q) Soluzione di continuo al braccio sinistro (pagg. 36 e 37 della relazione).
r) "Complesso lesivo a forma di grossolana losanga di cm 6 x 3 che su di un fondo ecchimotico
mostra figurazioni escoriative di colore rosso-grigiastro" (pag. 37 della relazione, dorso
avambraccio sinistro).
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s) Complesso ecchimotico al dorso della mano sinistra con frattura di alcune falangi e lesione da
taglio al primo dito (pag. 40 della relazione).
t) Frattura dello sterno a livello del III spazio; frattura della IV e V costola di destra lungo la linea
emiclaveare, frattura della VII e VIII costola di destra lungo la linea ascellare posteriore; a sinistra
frattura della VI e VII costola in due punti; sulla linea emiclaveare e sulla linea ascellare anteriore,
frattura dell'VIII e della IX costola sulla linea ascellare anteriore. Complessivamente 10 fratture
costali (pag. 48 della relazione).
u) Lacerazioni capsulari del fegato lunghe 15 e 7 cm a carico della superficie antero-laterale del
lobo destro e della superficie del lobo sinistro (pag. 51 della relazione).
v) Assenza di infiltrazioni ematiche delle pareti toraciche, di quelle addominali e di ogni regione
degli arti inferiori (pag. 51 e altre della relazione).
Dall'esame delle fotografie: Il corpo di Pasolini si trova in posizione prona; la testa poggia sul
terreno con le regioni laterali di sinistra, e più precisamente con la temporale, la frontale, la
zigomatica e la geniena. La piramide nasale si nota schiacciata verso destra. Le regioni frontale,
zigomatica e geniena di destra sono libere. L'arto superiore di sinistra è leggermente discostato dal
corpo e situato in posizione di flessione al gomito, sicché appaiono visibili: in parte il braccio nelle
sue superfici latero-posteriori, il gomito stesso e porzione della superficie latero-posteriore del terzo
superiore dell'avambraccio. L'arto superiore di destra è situato sotto il corpo e di esso è visibile
soltanto la superficie palmare della mano che sporge sul lato sinistro del corpo stesso.
Il cadavere indossa una canottiera che risulta parzialmente sollevata in corrispondenza del dorso e
che presenta una sola lacerazione, verso il lato destro, di piccole dimensioni; pantaloni non lacerati;
scarpe senza alcuna alterazione
Si rilevano, non distintamente, le lesioni a carico del capo, e della mano di destra. Si rilevano
piuttosto distintamente numerose escoriazioni seriate disposte in senso obliquo dal basso in alto e
da destra verso sinistra lungo il fianco sinistro, e altre disposte meno obliquamente sulla regione
dorso-lombare.
Si apprezzano abbastanza bene le impronte delle ruote di una auto fino al corpo di Pasolini, che
viene raggiunto dall'impronta di sinistra pressoché a livello della regione dorso-lombare, o
comunque in direzione del terzo medio dell'asse corporeo. Tale impronta di sinistra proviene sul
corpo stesso in senso diagonale, dal basso in alto e da destra verso sinistra. Dall'esame
dell'autovettura di Pasolini: Risulta dal disegno della superficie interiore dell'autovettura che il
punto più basso, rispetto al piano terra, si trova a 12 cm ed è costituito dal primo silenziatore dello
scarico; che a 13 cm da terra è situato il secondo silenziatore. Risulta altresì che due strutture con
margini molto stretti, quali la sporgenza del longherone della fiancata sinistra e il supporto della
barra di reazione della stessa fiancata, si trovano, rispettivamente, a cm 14 e a cm 13,5 dal piano
terra.
Dai dati obiettivi sopra riportati si possono avanzare le seguenti considerazioni. Le superfici
posteriori e laterali del corpo di Pasolini, e più precisamente il capo, il collo, le spalle, il dorso e la
regione lombare, sono interessate da gruppi di lesioni - costituite da escoriazioni più o meno
infiltrate di sangue e da ferite lacere o lacero-contuse - che hanno, sia singolarmente che nel loro
insieme, un andamento a volte obliquo da destra verso sinistra e dal basso in alto e a volte
trasversali all'asse corporeo. Più specificatamente i vari gruppi di lesioni vengono a costituire nel
loro insieme tre fasci di linee ideali, parallele tra loro, con il seguente andamento rispetto al corpo:
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superiormente in corrispondenza del capo con lievissima obliquità dal basso in alto e da destra
verso sinistra (dalla lesione all'orecchio destro che ne interessa il terzo inferiore alla lesione a carico
dell'orecchio sinistro che ne interessa il terzo medio superiore) passando per le numerose lesioni
pressoché da taglio alla regione occipitale di destra indicate quasi trasversali, e per la grossa lesione
da scollamento alla regione occipito-parietale di sinistra fino al distacco del padiglione auricolare di
sinistra dalla sua base di impianto.
[Alle lettere f); g); h); i)]; medialmente in corrispondenza del collo, della spalla sinistra e della parte
alta del dorso con andamento in parte trasversale e in parte obliquo sempre dal basso in alto e da
destra verso sinistra [lettere I); m)]; inferiormente in corrispondenza della regione dorsale bassa e
della regione lombare con andamento simile a quello prima descritto [lettera m)]. Siffatta
disposizione delle lesioni - che già di per sé porta a ipotizzare come più verosimile l'azione di mezzi
lesivi che hanno agito sempre con andamento obliquo rispetto all'asse corporeo - assume tutta la sua
vera importanza se confrontata con le peculiari caratteristiche di ognuna delle stesse lesioni ora
considerate e con le caratteristiche delle altre lesioni cutanee, nonché di quelle ossee e di quelle
viscerali. Iniziando dal capo e procedendo da destra verso sinistra, si richiama l'attenzione sui
seguenti elementi: - la lesione del padiglione auricolare destro è nettamente trasversale, ha le
caratteristiche della lesione da taglio, o meglio lacera, e non è accompagnata ad alterazioni cutanee
nella zona subito soprastante. Ciò porta a ritenerla come prodotta in senso pressoché trasversale e a
escludere una azione dal basso in alto che avrebbe "strappato" il lobo stesso dal suo impianto
inferiore continuando ad agire oltre il padiglione auricolare; - tale proseguimento dell'azione lesiva
esiste invece lateralmente verso sinistra, cioè sulla regione nucale adiacente, dove troviamo le
numerose lesioni dirette tutte nello stesso senso, ovverossia pressoché trasversalmente o con
andamento leggermente obliquo dal basso verso l'alto; tutte presentano il margine inferiore svasato,
e la svasatura stessa è maggiore in quelle lesioni che sono situate pressoché medialmente nella
regione nucale.
Questa caratteristica è dovuta a due fatti: anzitutto tale zona è più alta rispetto al piano terra e quindi
il mezzo lesivo nel suo procedere in avanti vi ha agito con maggiore profondità; e in secondo luogo
in questo punto la regione nucale assume un più pronunciato andamento a scivolo verso il basso
sicché il mezzo lesivo è venuto ad attingere una superficie piuttosto convessa; - ancora più a
sinistra, verso la regione occipito-parietale sinistra, la vasta lacerazione a lembo è scollata nella
parte inferiore e lateralmente e si prosegue con il distacco del padiglione auricolare dalla sua
inserzione. Il padiglione auricolare è quindi a sua volta sezionato trasversalmente.
Queste caratteristiche delle lesioni al capo fin qui ricordate portano a ritenere come nel momento in
cui l'automezzo superò il corpo di Pasolini, questi poggiasse sul piano terra le superfici di destra del
capo stesso sicché le prime strutture metalliche attinsero subito la regione parieto-occipitoauricolare di sinistra dove produssero la vasta lacerazione al cuoio capelluto e la lesione del
padiglione auricolare; contemporaneamente impressero alla testa un movimento di rotazione,
cosicché vennero attinte da altre strutture metalliche le superfici nucali centrali e di destra; una volta
presentatesi le superfici di destra del volto, successive strutture metalliche lacerarono
trasversalmente il padiglione auricolare di destra. Per eseguire ora un confronto di tale ricostruzione
con le caratteristiche di altre lesioni ricordiamo principalmente: le ecchimosi escoriate, con caratteri
del tutto simili tra loro, situate sulle regioni frontali laterali; la frattura della branca mandibolare di
sinistra e la lussazione temporo-mandibolare dello stesso lato; la frattura delle ossa nasali e la
deviazione per schiacciamento della piramide nasale verso destra; la posizione in sede di
sopralluogo della testa della vittima che appariva poggiata sul piano terra con le superfici laterali di
sinistra.
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Ne deriva un quadro completo della dinamica prima accennata. Infatti, al primo impatto delle
strutture metalliche si produsse, per contraccolpo, la lesione escoriata-contusa con lacerazione alla
regione frontale destra che poggiava sul piano terra; subito dopo nel suo rotamento la testa si venne
a trovare, in un tempuscolo molto breve, poggiata sul piano terra con il naso e il mento; in quel
momento sopraggiungeva un'altra struttura metallica che impattava sulla nuca (dove produceva
alcune lesioni, quelle centrali) e comprimeva il capo sì da fratturare le ossa nasali; ancora dopo,
continuando il capo a ruotare ma continuando anche la compressione a tergo, si fratturava la branca
sinistra della mandibola che era venuta a trovarsi come unico punto resistente tra il piano terra e la
forza compressiva posteriore.
Non si fratturava la branca di destra proprio perché la testa in questo tempuscolo, come già detto,
era in rotazione e quindi la leva tra due punti di forza, piano terra e compressione posteriore, era
costituita dalla branca di sinistra. Immediatamente dopo veniva leso il padiglione auricolare di
destra, e, in sede contrapposta, anche il frontale di sinistra dove si produceva l'ecchimosi escoriata
con lesione cutanea; sempre contemporaneamente il naso veniva schiacciato verso destra. La
regione frontale mediale non riportava vaste lesioni perché mai a contatto pieno col terreno; infatti
anche quando la testa aveva la parte anteriore del volto sul piano terra i punti più sporgenti erano
costituiti dal naso e dal mento.
Per quanto riguarda le lesioni alla regione latero-posteriore del collo, la loro direzione nettamente
trasversale e obliqua - in uno con la loro caratteristica di escoriazioni "seriate" - le indica come
inequivocabilmente prodotte da un mezzo che agì per strisciamento in senso trasversale all'asse
corporeo. Analoghe considerazioni possono essere avanzate per le numerose escoriazioni presenti
alla regione posteriore della spalla sinistra, alla regione dorsale e, ancora più fondatamente, per
quelle presenti sulla regione lombare. Per tutte esse, infatti, i periti indicano una direzione
trasversale e obliqua e per le più basse parlano di "infiltrazione emorragica più accentuata".
Quest'ultimo particolare è chiaramente indicativo dell'azione di un mezzo che abbia anche
compresso oltre che escoriato, così come è tipico del pneumatico.
Non trascurabili, infine, sempre per una ricostruzione della direzione di attraversamento, appaiono
alcune delle lesioni all'arto superiore sinistro e in particolare quelle presenti sul braccio. Infatti,
tenendo presente che al momento del rinvenimento del cadavere l'arto superiore si trova piegato a
livello del gomito, appare verosimile che le lesioni sopra ricordate siano state prodotte dalle
strutture metalliche, ancorché non sia da escludere l'azione compressiva delle ruote almeno per
quanto concerne alcune escoriazioni.
Al termine della suesposta ricostruzione appare doveroso sottolineare che del vasto complesso
lesivo presente sulle regioni posteriori del capo, l'ampia lacerazione scollata verso il basso sulla
regione nucale di sinistra, per i suoi caratteri potrebbe anche essere indicativa di una azione
traumatica da mezzo contusivo che agì direttamente prima del sormontamento del corpo della
vittima. Comunque su tale particolare torneremo in seguito.
Affrontando ora il problema specifico del passaggio dei pneumatici sul corpo della vittima, va
ricordato che oltre alle summenzionate lesioni posteriori erano presenti, sulle superfici anteriori del
corpo, varie lesioni per lo più non infiltrate, e una escoriazione con ecchimosi in corrispondenza
della spina iliaca antero superiore di sinistra. Inoltre non risultavano, all'esame autoptico,
infiltrazioni emorragiche delle pareti toraciche e di quelle addominali, mentre venivano riscontrate
10 fratture costali, lo scoppio del cuore, e due lacerazioni del fegato, di cui una molto ampia (15
cm).
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Nell'insieme di tutte le lesioni (cutanee anteriori e posteriori, ossee, viscerali) si ravvisano le tipiche
caratteristiche lesive dei sormontamento a opera di pneumatici, quali sogliono riscontrarsi
nell'infortunistica stradale; scarsità di lesioni esterne per lo più rappresentate da escoriazioni non
infiltrate di sangue e da qualche ecchimosi nelle zone con resistenza ossea sottostante (come quella
nella specie presente sulla spina iliaca di sinistra e sulle ultime costole di sinistra), imponenza del
quadro lesivo interno rappresentato da fratture ossee e rotture viscerali. Non sembra che nel caso
specifico si possa parlare di "relativa modestia del quadro fratturativo costale" (pagg. 76, 77 della
relazione peritale) trattandosi di 10 fratture costali; né pare da condividere l'affermazione di
"irregolare distribuzione dei punti di frattura" (pag. 77 della relazione peritale) laddove si tengano
presenti sia le linee di distribuzione (emiclaveare destra ed emiclaveare sinistra, ascellare anteriore
sinistra e ascellare posteriore destra), sia i punti di frattura (IV, V, VII e VIII costola a destra, VI,
VII, VIII e IX a sinistra), e sia, infine, la frattura sternale che era situazione pressoché a livello di
una zona di frattura costale, terzo spazio intercostale.
Allo stesso modo non si può condividere l'affermazione di una relativa modestia del quadro lesivo
viscerale (pag. 77 relazione) in presenza di uno scoppio del cuore e di lacerazioni epatiche (queste
ultime mai ricordate dai Periti nelle considerazioni).
In definitiva, non risulta dalla traumatologia medico-legale, e dalla comune giornaliera esperienza
di infortunistica stradale, che nel sormontamento del corpo umano da parte di pneumatici il
"franamento del torace" e la "lacerazione del pericardio" o comunque "ben più gravi lesioni da
scoppio dei visceri interni" debbano essere assolutamente presenti così come affermano i Periti
(pag. 77 della relazione). Al contrario, la pratica giornaliera dimostra che sono più che sufficienti come nel caso specifico -10 fratture costali, la frattura dello sterno, lo scoppio del cuore, due
lacerazioni del fegato. Per quanto riguarda, poi, l'assenza di "impronte cutanee" o sulle vesti,
prodotte da pneumatici, la loro obiettivazione costituisce dato tutt'altro che costante così come
risulta proprio dalla letteratura in proposito.
Concludendo, da tutti gli elementi obiettivi appare come più attendibile che il sormontamento del
corpo di Pasolini a opera della propria autovettura sia avvenuto con la seguente dinamica: l'auto,
sopraggiungendo da destra rispetto al corpo, lo ha sormontato con le due ruote di sinistra secondo
una direzione nettamente obliqua dal basso in alto e da destra verso sinistra lungo una linea ideale
che dalla base dell'arcata costale raggiungeva la regione scapolare sinistra; le ruote stesse
producevano lesioni cutanee dirette alle regioni dorsali e lombari (queste ultime rappresentate da
tipiche escoriazioni prodotte dal bordo esterno del pneumatico), lesioni cutanee indirette all'addome
e al torace, due lacerazioni del fegato, lo fratture costali, frattura dello sterno, scoppio del cuore.
Durante il passaggio le strutture metalliche producevano direttamente molte lesioni lacere e lacerocontuse al capo, la lesione trasversale dei padiglioni auricolari, il distacco dal suo impianto del
padiglione auricolare di sinistra, le escoriazioni seriate alla regione postero-laterale sinistra del
collo; e indirettamente le fratture della branca mandibolare sinistra, la frattura delle ossa e delle
cartilagini nasali, le ecchimosi escoriate e lacerazioni cutanee alle regioni frontali; probabilmente
alcune delle lesioni all'arto superiore sinistro.
Appare quanto mai poco verosimile che l'autovettura sia passata sul corpo della vittima in senso
caudo-craniale senza sormontarlo con le ruote ma attingendolo soltanto in successivi momenti con
le strutture metalliche, per le seguenti ragioni:
1) assenza di "materiale ferroso" (non meglio identificato dai Periti) di presumibile provenienza
dalle strutture metalliche della autovettura, sui pantaloni indossati dal cadavere;
2) assenza di qualsivoglia lacerazione dei pantaloni stessi;
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3) assenza di ampie e numerose lacerazioni della canottiera come sarebbe da attendersi in una
dinamica così ipotizzata date le sporgenti strutture metalliche;
4) assenza di qualsivoglia lesione a carico dei tessuti di rivestimento e delle ossa del bacino e degli
arti inferiori, considerando che strutture molto resistenti quali il longherone del telaio della fiancata
vengono a distare, rispettivamente, cm 14 e cm 13,5 laddove la distanza dalla sommità dei glutei a
terra è, in un soggetto della corporatura di Pasolini, di cm 18-20 circa; e la distanza dalla superficie
posteriore delle cosce a terra è di cm 14 circa. Da non dimenticare che altre strutture metalliche
della autovettura distano, da terra, 12 e 13 cm;
5) assenza di lesioni da strappamento del cuoio capelluto con direzione dal basso in alto quali si
sarebbero certamente dovute verificare per il dimostrato impatto sul capo di strutture metalliche a
larga superficie con bordi netti: i due silenziatori del tubo di scarico;
6) assenza di vaste lacerazioni cutanee al dorso - con direzione dal basso in alto - sempre
considerando l'altezza da terra delle strutture metalliche e lo spessore del torace di Pasolini, che è
risultato di cm 23 (pag. 45 della relazione peritale).
Dinamica dell'aggressione. Ipotesi sulla presenza di più aggressori. Pur condividendo in parte
quanto affermato dai Periti di ufficio circa le difficoltà che in genere si incontrano nella
identificazione dei mezzi produttori di lesioni contusive, riteniamo che una tale affermazione non
debba mai escludere il particolareggiato esame di ogni elemento obiettivo per giungere quanto
meno alla prospettazione di ipotesi. Gli elementi obiettivi di maggiore interesse che si rilevano
dall'esame dei reperti, dai dati di sopralluogo, e dall'esame dei complessi lesivi, sono i seguenti:
1) il paletto più corto (cm 40,5 circa) è completamente macchiato di sangue e presenta adesi, alle
due estremità, capelli appartenenti a Pasolini;
2) il paletto più lungo (cm 58) presenta una piccola macchia ematica proveniente dal sangue di
Pasolini; 3) la tavoletta di legno recante la dicitura "Buttinelli A." presenta imbrattamento ematico
con adesione di capelli appartenenti a Pasolini in quattro zone distinte;
4) la tavoletta di legno recante la scritta "Via Idroscalo 93" presenta il margine inferiore "nel suo
terzo di sinistra" massivamente imbrattato di sangue; e presenta altresì formazioni pilifere
appartenenti ai capelli di Pasolini adesi sulla superficie posteriore;
5) il frammento di legno trapezoidale distaccatosi dalla tavoletta sudescritta, presenta anche esso
formazioni pilifere di Pasolini adese a incrostazioni ematiche;
6) la camicia a righe di Pasolini (rinvenuta a circa 70 metri dal cadavere) presenta vasta imbibizione
di sangue pressoché uniformemente diffusa sulla superficie posteriore e sulle maniche, mentre
scarsissime sono le macchie di sangue presenti sulle superfici anteriori;
7) sul polsino sinistro della maglia di lana a carne del Pelosi la macchia di imbibizione rossastra
(risultata poi essere di natura ematica prodotta dal sangue del Pasolini) non è "vasta" (pag. 15 della
relazione sui reperti) ma misura alcuni centimetri di larghezza e lunghezza;
8) la macchia di sangue (risultata poi appartenente al sangue del Pelosi) e rinvenuta sul bordo
anteriore della canottiera del Pelosi, è delle dimensioni di 3 cm;
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9) la parte inferiore della gamba destra dei pantaloni di Pelosi non è "diffusamente imbrattata" (pag.
14 della relazione sui reperti) di materiale ematico (risultato poi essere sangue di Pasolini), ma
presenta diverse macchie di sangue commisto a vasto imbrattamento di fango;
10) nessun indumento di Pelosi - tranne il polsino sinistro della maglia e il fondo della gamba destra
dei pantaloni di cui sopra - presenta residui ematici del sangue di Pasolini;
11) la lesione al capo del Pelosi non presentava zone circostanti ecchimotiche nèé escoriate;
12) prima di essere arrestato, il Pelosi, a bordo dell'autovettura di Pasolini condotta a forte velocità,
fu "incastrato" di colpo contro un marciapiede da un'auto della Polizia;
13) il corpo di Pasolini fu rinvenuto a circa 70 metri dalla sua camicia che appariva regolarmente
sfilata;
14) nelle vicinanze della camicia furono rinvenuti i due frammenti del bastone e le due metà della
tavoletta;
15) la tavoletta originariamente si trovava vicino al posto in cui fu rinvenuto il corpo di Pasolini;
16) presenza sangue di Pasolini sul tetto della propria auto. Per quanto riguarda le lesioni presentate
da Pasolini si rinvia alla prima parte della presente relazione. Sulla base dei dati riportati, in uno con
quanto visibile dalle fotografie del sopralluogo, possono avanzarsi le seguenti considerazioni. I
mezzi contusivi rinvenuti sul luogo del fatto, i due pezzi di legno e le due tavolette, hanno
certamente colpito reiteratamente il corpo di Pasolini. In particolare si può affermare che almeno
quattro o cinque delle lesioni presenti alle regioni posteriori vanno attribuite all'azione di detti
mezzi. Infatti i caratteri di alcune, quali la modesta infiltrazione ma la irregolarità dei margini e
soprattutto il successivo diramarsi di lesioni collaterali, e i caratteri di altre, quali l'ecchimosi dei
margini e la direzione della svasatura degli stessi, portano a ritenerle come certamente prodotte e
dal mezzo a larga superficie (tavola) e da quello a stretta superficie (margine della tavola e bastone).
Altrettanto verosimile appare il riferimento del complesso ecchimotico escoriativo interessante la
regione zigomatica di sinistra all'azione di un mezzo contusivo diretto, e così la zona ecchimoticoescoriativa di forma grossolanamente rettangolare situata sotto il gonion destro, nonché la
ecchimosi escoriata a forma di "L" rilevata in corrispondenza della spalla destra e le molteplici
escoriazioni ed ecchimosi presenti sugli arti superiori, nonché le lesioni fratturative delle falangi che
stando ai rilievi di sopralluogo circa la posizione del corpo difficilmente possono riferirsi al
sormontamento. In considerazione, però, della scarsa resistenza offerta dal bastone (un legno molto
secco, e friabile) e relativamente anche dalla tavoletta, acquista discreto valore l'ipotesi dell'azione
di altri mezzi contusivi.
Non soltanto, infatti, le fratture delle falangi fanno ipotizzare un mezzo contusivo molto più
resistente di quelli rinvenuti, ma va considerata, a questo proposito, l'ampia lacerazione con perdita
di sostanza (tanto che nella relazione peritale viene riferita con margini difficilmente ravvicinabili)
e scollata verso il basso sulla regione nucale di sinistra.
Come già accennato nel primo capitolo tale lesione proprio per i suoi caratteri porta a ritenerla
prodotta da un'azione tangenziale dall'alto in basso, sicché non è da escludere che possa essere stata
prodotta in questa fase dell'evento lesivo ma certamente da un mezzo ben più resistente del bastone
e della tavoletta.
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L'ipotesi dell'uso di altri mezzi contusivi si prospetta, poi, con maggiore interesse, là dove si
tengano presenti alcuni elementi di sopralluogo: il punto di rinvenimento della camicia di Pasolini
(a circa 70 metri dal corpo), la disposizione delle macchie di sangue sulla camicia dello stesso,
l'integrità di tale indumento, luogo dove fu usata la tavoletta, e luogo dove fu usato il bastone. Un
attento esame di questi elementi porta a una prima indiscutibile ricostruzione della dinamica dei
fatti: Pasolini in un primo momento, e in un luogo situato a circa 70 metri dalla definitiva caduta del
corpo, fu violentemente percosso al capo e le ferite sanguinarono abbondantemente.
La prova inconfutabile di ciò è data dall'abbondante impregnazione di sangue della camicia e al
rinvenimento di essa in una zona appunto situata a circa 70 metri dal cadavere. Quest'ultimo
elemento, data l'integrità dell'indumento, indica che fu la vittima stessa a togliersi la camicia dopo
che con le braccia (risultate inzuppate anche esse di sangue) si era riparato il capo o comunque
aveva tentato una difesa. Quale fu il mezzo che produsse cosi vaste lesioni? È a questo interrogativo
che appare veramente difficile rispondere qualora si ipotizzi il solo bastone, premesso che
certamente in quella prima fase non fu usata la tavoletta la quale era sul cancello di legno del
Buttinelli a circa 70 metri di distanza (laddove fu poi rinvenuto il cadavere di Pasolini), e che quindi
venne usata nella seconda fase dell'aggressione. Sorge quindi con fondatezza l'ipotesi di un altro
mezzo contusivo il quale abbia agito nella prima fase dell'aggressione. Ma comincia a prospettarsi,
a questo punto, anche l'ipotesi di un altro o di altri aggressori.
C'è da chiedersi infatti chi ha fatto uso dell'altro mezzo contusivo e, soprattutto, resta da spiegare
l'assenza di tracce ematiche sulle superfici anteriori degli indumenti di Pelosi (tranne una macchia
al polsino di sinistra della maglia) quali sarebbero dovute presentarsi fin da questa prima fase
dell'aggressione che produsse certamente abbondante emorragia.
Non riteniamo di dover ricordare la notevole vascolarizzazione del cuoio capelluto, ma vogliamo
soltanto far presente che quella emorragia, o comunque le lesioni che la produssero, ben
difficilmente può far escludere l'interessamento di vasi arteriosi e quindi emorragie a "nappo".
Tali perplessità acquistano maggior valore, poi, quando si passa a esaminare la seconda fase
dell'aggressione nella quale fu certamente fatto uso della tavoletta. Questo mezzo, infatti, fu usato di
piatto e di taglio più volte, e certamente anche sul capo della vittima (in differenti zone della
tavoletta erano presenti formazioni pilifere di Pasolini); esso è sì della lunghezza di 75 cm, ma su
una delle superfici larghe presenta una intensa macchia di sangue con intrisi più capelli, il che fa
ritenere un suo uso violento e quindi la sicura produzione di una emorragia a nappo che molto
stranamente non ha mai attinto le vesti del Pelosi. E d'altra parte appare molto artificioso ipotizzare
un'aggressione con mezzi contudenti operata ad arti sempre estesi! In definitiva, che dalla scena del
fatto delittuoso non possa escludersi la presenza attiva del Pelosi è dimostrato se non altro dalla
macchia di sangue sul polsino della sua maglia e dalle macchie sul bordo inferiore del suo
pantalone, ma che il Pelosi non fosse solo è quasi altrettanto sicuro per la modestia
dell'imbrattamento delle sue vesti che lascia perplesso chiunque abbia una se pur modesta
esperienza di lesività. Non riteniamo, a tale proposito, necessario - pur riservandoci di farlo in
determinate circostanze - produrre testi o lavori di criminologia e pubblicazioni fotografiche di
polizia scientifica, ma vorremmo soltanto ricordare quelle situazioni di imbrattamento ematico
diffuso che sogliono riscontrarsi nei sopralluoghi di ambienti dove la vittima è stata attinta al capo
da mezzi contusivi. In definitiva, sono due gli elementi obiettivi più rilevanti che portano a
prospettare come quasi certa la presenza di altri aggressori e l'uso di altri mezzi: la sproporzione tra
il bastone di legno che produsse sicuramente ferite al cuoio capelluto e l'entità delle lesioni stesse;
l'imponente emorragia verificatasi fin dalla prima fase della colluttazione e la modestia
dell'imbrattamento ematico sulle vesti del Pelosi.
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Un altro elemento, poi è insito in ognuna delle varie ipotesi che sono prospettabili circa tutta la
dinamica del fatto, e cioè la assenza o meno di una reazione di Pasolini e quindi il verificarsi o no di
una colluttazione.
È certo che Pasolini ricevette un violento trauma contusivo ai testicoli. Orbene, se tale trauma si
verificò nella prima fase esso impedì a Pasolini ogni reazione lasciandolo alla mercè dell'aggressore
e non permettendogli quindi, anche perché ripetutamente colpito al capo, di togliersi la camicia, di
alzarsi e di percorrere da solo circa 70 metri; e l'aggressore, d'altra parte, avrebbe potuto continuare
a infierire sullo stesso posto con lo stesso bastone fino a lasciare esanime la vittima.
Se, al contrario e come pare più attendibile, il trauma contusivo ai testicoli si verificò nella seconda
fase quando Pasolini cadde veramente esanime e fu allora alla mercè dell'aggressore che infierì con
la tavola, allora appare davvero poco credibile che nella prima fase non vi sia stata una colluttazione
tra vittima e aggressore, colluttazione durante la quale la vicinanza dei corpi rende veramente
contraddittoria la constatazione che il Pelosi sia rimasto indenne da ampi imbrattamenti di sangue.
Dalle indagini di laboratorio è stato dimostrato che i residui ematici rilevati all'interno
dell'autovettura di Pasolini, così come quelli presenti sulla canottiera del Pelosi, hanno le stesse
proprietà gruppo-specifiche del Pelosi.
Su questo dato obiettivo si possono avanzare soltanto due ipotesi: o il Pelosi ha partecipato a una
colluttazione con Pasolini e allora egli non poteva essere solo perché troppo "pulito" come abbiamo
detto prima; oppure la lesione alla regione frontale di Pelosi è stata prodotta in un momento
successivo e verosimilmente per urto contro il volante quando, come all'inizio ricordato, egli fu
violentemente "incastrato" alla guida dell'autovettura rubata, e condotta a forte velocità, da un'auto
della Polizia.
Comunque, in questa seconda ipotesi, torna a prospettarsi una assoluta mancanza di qualsivoglia
reazione da parte di Pasolini e quindi la più che verosimile presenza di altre persone. Ancora
perplessità molto gravi desta la presenza di sangue di Pasolini, descritto dai Periti come "piccole e
tenui incrostazioni", sul tetto dell'autovettura dello scrittore, e più precisamente in vicinanza del
bordo del tetto stesso a livello della parte posteriore della portiera di destra.
Evidentemente anche per questo dato obiettivo si possono avanzare soltanto due ipotesi: o il sangue
è stato "depositato" in quel punto direttamente da Pasolini stesso, o vi è stato "trasportato"
indirettamente dall'aggressore. Nel primo caso - considerando l'altezza da terra del punto in cui
erano situate le tracce ematiche e la presenza di una struttura metallica con bordo quasi tagliente
quale lo sgocciolatoio - si potrebbe anzitutto ritenere che la testa di Pasolini vi abbia direttamente
battuto durante la colluttazione, ma una tale ipotesi appare contraddetta dalla scarsità del sangue
nonché dall'assenza di altri elementi biologici (capelli), quantunque a questo proposito non possa
sottovalutarsi il lungo tempo intercorso tra i fatti e l'osservazione dell'auto da parte dei Periti. Resta
allora da considerare la possibilità - ancora nell'ambito della prima ipotesi - che durante
l'aggressione Pasolini sia stato proiettato contro l'autovettura sì da urtarvi con le parti superiori del
tronco e quindi schizzare sangue sul tetto dell'auto o che, sempre durante la colluttazione, Pasolini
si sia venuto a trovare vicino alla propria autovettura e vi si sia appoggiato con una mano già
imbrattata di sangue. In tutte e due queste eventualità, però, viene a configurarsi una nuova
dinamica dell'aggressione che non trova alcuna rispondenza nei racconti del Pelosi.
Quest'ultimo, infatti, in tutti i suoi interrogatori ha sempre descritto una primissima fase di
aggressività di Pasolini iniziata in vicinanza della rete di recinzione (a circa 20 metri cioè da dove
era rimasta posteggiata l'auto) e poi sviluppatasi lungo un percorso di molti metri (50 circa in
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direzione del punto dove fu poi trovato il corpo di Pasolini) durante il quale sarebbe cominciata la
sua reazione.
Orbene, dovendo considerare assolutamente inattendibile la versione fornita da Pelosi per l'assenza
sul suo corpo e sulle sue vesti dei segni di così violente percosse, viene a ripresentarsi ancora una
volta il "vuoto" nella prima fase, ovverossia torna l'interrogativo sulla successione esatta dei primi
tempi e soprattutto si prospetta sempre di più l'ipotesi di una prima fase molto "movimentata"
svoltasi in vicinanza dell'autovettura (presenza della camicia insanguinata, uso reiterato del bastone
o comunque di un corpo contundente, sangue di Pasolini sul tetto della propria autovettura) e quindi
l'ipotesi di una aggressione a opera di più persone, data sempre la scarsa verosimiglianza - per le
ragioni prima riferite - di un primo susseguirsi di violenza del solo Pelosi contro Pasolini pressoché
inerme.
Qualora, poi, si volesse ipotizzare un "trasporto" del sangue di Pasolini sul tetto della sua
autovettura a opera di Pelosi, anzitutto ci si dovrebbe chiedere di nuovo come l'imbrattamento da
sangue interessasse soltanto le mani dell'aggressore, e in secondo luogo perché egli avesse necessità
di portarsi sul lato destro dell'autovettura. Per concludere, l'esame approfondito di tutti i dati
obiettivi (sopralluogo, interrogatori di Pelosi, reperti, bastone, tavola, vesti, lesioni di Pasolini) da
una parte smentisce il racconto di Pelosi sulla dinamica di tutta l'aggressione, e dall'altra induce ad
avanzare con fondatezza l'ipotesi che Pasolini sia stato vittima dell'aggressione di più persone.
Sentenza del processo di primo grado
Passando all'esame dei fatti contestati al Pelosi, rileva innanzitutto il collegio la necessità di una
attenta disamina di tutti gli elementi di causa per una più puntuale ricostruzione di una vicenda che
appare per molti aspetti oscura. E vero che esiste in atti la confessione piena dell'imputato, ma tale
confessione - nel vigente ordinamento di rito penale fondato sul libero convincimento del giudice
sulla base di tutte le risultanze di causa - non esime il Tribunale dal ricercare la verità sostanziale.
Anche in presenza di una confessione è sempre necessario che il collegio giudicante esamini tutti
gli elementi acquisiti agli atti per non lasciarsi fuorviare da ciò che viene interessatamente
rappresentato ma per controllare se effettivamente ciò che viene ammesso corri-sponda in pieno a
ciò che è realmente avvenuto. E ciò non solo nel presente procedimento, troppo emotivamente
vissuto dall'opinione pubblica per la notorietà della vittima [...]
Ritiene anzi il collegio di dover rilevare come la notorietà della vittima abbia reso particolarmente
arduo e diflicile il suo compito di ricerca della verità.
Il clamore che l'episodio ha avuto sulla stampa, le interpretazioni non sempre obiettive e
documentate che sono state proposte, la prospettazione di versioni contrastanti non basate su una
"lettura" delle risultanze ma solo sulla scelta aprioristica di una verità di comodo, il settario
schierarsi pro o contro una tesi in funzione di preconcette opinioni politiche, tutto ciò ha certamente
resa più confusa sin dal primo momento l'indagine, inquinando quella serena atmosfera di ricerca
della verità che era indispensabile in un caso così delicato. E questo clima che ha favorito il sorgere
di testimonianze fantasiose, di rivelazioni interessate, di auto o etero accuse sostanzialmente
pubblicitarie, di ricostruzioni mitomani degli avvenimenti
Il Tribunale non ritiene di dover neppure prendere in considerazione, anche solo al fine di
confutarlo, tutto questo ciarpame processuale, per basare il suo giudizio esclusivamente su quei dati
obiettivi che pur emergono in modo cospicuo dalle risultanze istruttorie. È solo da aggiungere che
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nessun serio contributo probatorio alla ricostruzione della verità può venire dalla "versione
alternativa" proposta dal settimanale "L'Europeo", i cui giornalisti - su richiesta della difesa del
Pelosi sono stati ascoltati come testimoni al dibattimento.
I predetti giornalisti non hanno ritenuto di poter rivelare l'identità delle loro fonti di informazione,
per cui il Tribunale non è assolutamente in grado di valutare direttamente - come sarebbe necessario
- l'attendibilità delle dichiarazioni che si assume essere state effettuate ai predetti giornalisti.
Potrebbe trattarsi di persone interessate allo sviamento delle indagini o di mitomani, per cui nessun
conto può farsi di dichiarazioni rese in una simile situazione e non controllate né controllabili. Del
resto i racconti così come riportati appaiono quanto meno fantasiosi e pertanto insuscettibili di
alcuna utilizzazione, anche se fossero stati proposti nel corso del procedimento in osservanza di
precise regole processuali. Resta pertanto - come ricostruzione diretta delle vicende che avvennero
la sera del 10 novembre all'Idroscalo di Ostia - solo la versione data dal Pelosi. In mancanza di
testimonianze dirette che suffraghino o contraddicano tale versione, il necessario riscontro può
essere effettuato solo sulla base degli altri elementi probatori esistenti in atti e sulla base della stessa
congruenza in tutte le sue parti delle deposizioni rese dall'imputato.
La versione dei fatti data dal Pelosi si incardina su tre punti fondamentali: ero solo; ho reagito a una
aggressione del Pasolini che pretendeva da me prestazioni sessuali che non intendevo concedere;
quando, a seguito della colluttazione, ho visto il Pasolini a terra rantolante sono stato preso dal
terrore e sono fuggito con la macchina senza accorgermi di passare con l'auto sul corpo accasciato a
terra. Appare opportuno esaminare distintamente le tre proposizioni, per vedere se trovino riscontro
negli elementi processuali o se invece siano decisamente contrastate dalle risultanze di causa. 1)
Ritiene il collegio che dagli atti emerga in modo imponente la prova che quella notte all'idroscalo il
Pelosi non era solo. Esistono infatti sia prove positive che dimostrano in modo inequivocabile che
quanto meno un'altra persona era presente al fatto, sia elementi indiziari univoci e concordanti,
desumibili dalle risultanze probatorie e peritali, che confortano tale tesi.
a) Al momento del fermo del Pelosi da parte dei Carabinieri di Ostia venne rinvenuto sul sedile
posteriore dell'auto del Pasolini un golf verde. Tale golf non apparteneva sicuramente al Pasolini
(dichiarazione della Chiarcossi in istruttoria e in dibattimento) né al Pelosi (che al momento del
fatto indossava altri indumenti). Né può ritenersi che il golf verde sia uno "straccio" usato dal
Pasolini per pulire parti della macchina: ciò sia perché il golf - pur avendo delle macchie sul dorso non presenta affatto le caratteristiche di uno straccio ma piuttosto quelle di un normale indumento
usato anche se un po' logoro; sia perché la Chiarcossi - che pur esaminò la macchina e il suo
contenuto poco prima che il Pasolini la prendesse nella sera fatale - ha escluso di aver mai visto
nella macchina il golf verde; infine perché il golf venne rinvenuto dai Carabinieri Cuzzupè e
Guglielmi (ved. dep. in istruttoria e in dibattimento) sul sedile posteriore dell'auto insieme al
giubbotto e al maglione del Pelosi e del Pasolini (e sarebbe assai strano che questi indumenti
fossero stati posti insieme allo straccio). [...] Comunque - fosse il golf sul sedile posteriore o fosse
nel porta-bagagli - deve in ogni caso riconoscersi che costituisce sicuramente prova della presenza
di una persona diversa dal Pasolini e dal Pelosi. [...]
b) Nella macchina è stato rinvenuto - e repertato come risulta dalla missiva in data 15 novembre
1975 della Legione Carabinieri di Ostia Lido - un pIantare per scarpa destra. Tale pIantare non era
certamente nella macchina del Pasolini prima della notte del 10 novembre perché la Chiarcossi ha
dichiarato di aver pulito e ordinato la macchina del cugino la mattina del 31 ottobre e, se avesse
rinvenuto un simile oggetto, lo avrebbe sicuramente notato e buttato via. Il piantare non appartiene
inoltre al Pasolini perché da un esame delle scarpe dello stesso appare evidente che la scarpa destra
presenta all'interno lo stesso stato d'uso proprio della scarpa sinistra (il che non si sarebbe verificato
se nella destra fosse stato inserito un piantare e nella sinistra no). Né può ritenersi che il piantare
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appartenga al Pelosi, perché lo stesso non ha mai né affermato di far uso di pIantare né richiesta la
restituzione del piantare rinvenuto nella macchina che pure gli doveva essere utile per ben
camminare. Deve pertanto ritenersi che il piantare appartenga a una terza persona non identificata,
la quale ebbe a togliersi la scarpa, e quindi il piantare, per pulire la scarpa dal fango (o dal sangue)
dimenticando nella confusione necessariamente conseguente alla commissione del delitto di
recuperare l'oggetto.
c) Il Pelosi quando si fermò con il Pasolini nella macchina all'Idroscalo aveva con sé un pacchetto
di sigarette Marlboro e l'accendino [...] Ma dopo l'arresto il Pelosi fece ricercare dal Cuzzupè e dal
Vitali Luigi oltre all'anello anche le sigarette e l'accendino che non vennero rinvenuti nella
macchina. Ora, dovendosi ovviamente escludere che i due predetti oggetti siano potuti cadere fuori
della macchina, dato che erano nel portaoggetti della stessa, l'unica spiegazione logica che può darsi
alla loro scomparsa è che qualcun altro nella confusione li abbia presi e portati via con sé. Ma
questo indica chiaramente che all'Idroscalo doveva esserci almeno una terza persona non potendosi
altrimenti essersi volatilizzati gli oggetti suddetti.
d) Dai rilievi fotografici, nonché dal sopraIluogo effettuato dalla Polizia scientifica e dalla Squadra
mobile, emerge che sul terreno dell'area di rigore sulla parte sinistra del rudimentale campo di
calcio esistevano delle impronte di scarpe sicuramente non lasciate né dalle scarpe del Pasolini né
dalle scarpe del Pelosi. Mentre infatti le scarpe del Pelosi e del Pasolini hanno la suola liscia, le
impronte evidenziate (accanto ad altre di scarpe con suola e tacco liscio) sono sicuramente
appartenenti a scarpe con suola gommata (probabilmente scarpe da tennis). È da escludersi che le
impronte fotografate possano essere state lasciate sul terreno dai ragazzi che giocarono a pallone
nella mattinata del 2 novembre. I rilievi, come si evince dal verbale, sono stati effettuati alle ore
7,30 e comunque prima che arrivassero sul posto i ragazzi che poi giocarono a palla: ciò emerge
chiaramente dalle dichiarazioni rese in dibattimento dal dott. Masone, dal dott. Marieni, da
Solimene Ciro. Oltretutto gli ufficiali di Polizia giudiziaria hanno tutti concordemente escluso che i
ragazzi vestiti per giocare a calcio abbiano invaso la zona ove vennero ritrovate e fotografate le
impronte suindicate. Le impronte in questione sono state pertanto lasciate nella notte stessa in cui
avvenne l'aggressione al Pasolini, insieme a numerose altre impronte (teste Solimene) che
chiaramente indicano come nell'area di porta - e cioè molto vicino alla macchina del Pasolini - vi sia
stato un notevole movimento di persone. Inoltre il fatto che gli stivaletti di Pasolini furono rinvenuti
incrostati di fango - mentre non vennero rinvenute in altri luoghi dello spiazzo altre impronte di
scarpe - dimostra che il Pasolini a un certo momento di quella notte si trovò nell'area di porta e che
conseguentemente le impronte di scarpa con suola di gomma furono lasciate dai suoi aggressori,
così come le impronte di suole lisce, evidenti nella fotografia, debbono essere state lasciate dal
Pasolini. Ma se ciò è vero deve riconoscersi che oltre al Pelosi e al Pasolini vi era sicuramente
almeno un'altra persona che calzava scarpe da tennis o comunque con suola gommata.
e) Sul tetto della macchina del Pasolini, dalla parte del passeggero, sono state rinvenute delle
incrostazioni rossastre che - secondo le indagini peritali - sono di sangue del Pasolini. Tali
incrostazioni - che la perizia definisce "piccole e tenui" - non possono essere state depositate sul
tetto della macchina dal Pasolini stesso. Questo perché: - se la testa di Pasolini avesse battuto sul
tetto della macchina si sarebbero trovate insieme alle tracce ematiche anche tracce di capelli,
presenti in quasi tutti i reperti; - se il sangue fosse schizzato direttamente dal capo del Pasolini le
tracce ematiche sarebbero state assai più consistenti, data la notevole fuoriuscita di sangue dal capo
del Pasolini documentata dalla camicia profondamente intrisa di sangue; - se il Pasolini durante
l'aggressione si fosse appoggiato all'auto più vistose dovevano essere le tracce lasciate e non quelle
"piccole e tenui" rinvenute dai periti, proprio perché il Pasolini era inzuppato di sangue e la lotta a
ridosso della macchina avrebbe necessariamente dovuto far rinvenire altre tracce. Né può
dimenticarsi che, secondo la versione del Pelosi, il Pasolini non ebbe mai ad avvicinarsi all'auto
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dopo l'inizio della colluttazione, per cui deve escludersi che la traccia sia stata lasciata dal Pasolini
stesso.
Ma allora la "piccola e tenue" incrostazione di sangue deve essere stata "trasportata" indirettamente
dall'aggressore il quale, nella colluttazione, si era sporcato le mani con il sangue del Pasolini. E la
posizione della incrostazione (sul tetto in corrispondenza della parte posteriore della portiera destra)
fa ritenere che ciò sia avvenuto a opera di soggetto che, istintivamente, si è appoggiato con una
mano sul tetto dell'auto mentre con l'altra apriva la portiera per entrare nella macchina. Il che è assai
verosimile anche tenendo conto delle caratteristiche dell'Alfa 2000 GT la cui altezza massima della
carrozzeria è di mm 1315 per cui è normale che chi si debba chinare per aprire la portiera ed entrare
nell'abitacoIo appoggi una mano sul tetto che si presenta più basso della persona eretta. Si può
pertanto ritenere che chi entrò nella macchina dalla parte dello sportello di sinistra aveva le mani
sporche di sangue a seguito della lotta sostenuta col Pasolini. Ma tale persona non poteva essere il
Pelosi.
Deve ritenersi sicuro che il Pelosi - secondo quanto egli stesso ha affermato e secondo quanto è
nella logica delle cose - guidò l'auto del Pasolini dall'Idroscalo alla fontanella posta sul Lungomare
di Ostia. Ora, se fosse stato il Pelosi che, con le mani sporche di sangue, nella confusione del
momento cercò di entrare nella macchina prima dalla parte del posto del passeggero e poi dalla
parte della guida (il che appare francamente poco verosimile) si sarebbero dovute trovare altre
tracce di sangue del Pasolini sia sullo sportello di destra sia principalmente sul volante dell'auto.
Nessuna macchia di sangue del Pasolini venne invece trovata sul volante. E allora due sole ipotesi
sono possibili: o Pelosi aveva le mani sporche di sangue ed entrò nella macchina dalla parte del
passeggero, mentre altra persona guidò la macchina nella fase del sormontamento del corpo di
Pasolini e poi fino alla fontanella ove il Pelosi si lavò (ma sembra poco probabile che anche i
complici del Pelosi siano arrivati con lui fino alla fontanella) o il complice con le mani sporche di
sangue si sedette al posto del passeggero aprendo lo sportello di sinistra mentre il Pelosi, che non
aveva le mani sporche di sangue, si sedette alla guida della macchina. In un caso come nell'altro
appare sicuro che insieme al Pelosi entrò nella macchina altra persona che con lui aveva partecipato
all'aggressione.
f) È accertato che il Pasolini - prima di essere colpito allo scroto, di stramazzare a terra esanime e di
essere quindi sormontato dalla macchina - riportò diverse lesioni che, se pure non ne causarono la
morte, provocarono una violenta emorragia di sangue. Lo dimostra la imponente imbibizione di
sangue della camicia di Pasolini, le notevoli chiazze di sangue sulle tavolette e sul bastone, lo
strappo di capelli, le stesse caratteristiche delle ferite alla testa e cioè in una zona fortemente
vascolarizzata. Deve pertanto ritenersi che, a seguito delle lesioni, non vi fu una semplice
fuoriuscita di sangue bensì vi furono veri e propri "schizzi" di sangue. Ora, se la colluttazione fosse
avvenuta solo tra il Pasolini e il Pelosi - come quest'ultimo sostiene - vi dovevano essere
necessariamente, sulle mani e sui vestiti del Pelosi, cospicue macchie di sangue. [...]
Deve pertanto ritenersi che non fu solo il Pelosi ad avere la colluttazione con il Pasolini, perché
altrimenti egli avrebbe dovuto necessariamente avere sulle mani e sugli indumenti più rilevanti
macchie di sangue.
g) In una colluttazione tra due soggetti - a meno che uno non sia gravemente menomato sul piano
fisico - è impossibile che solo uno dei contendenti riporti gravi ferite mentre l'altro esca
praticamente indenne dalla lotta. Nel caso di specie invece il Pasolini ha riportato rilevanti lesioni,
con abbondante perdita di sangue, mentre il Pelosi non ha subito significativi traumi. Eppure il
Pasolini - come è notorio - non era un vecchio cadente incapace di organizzare una qualche difesa:
era agile, aveva un fisico asciutto, praticava lo sport, giocava ancora a calcio in partite regolari. È
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vero che il Pelosi ha affermato di avere riportato nella colluttazione diverse lesioni, ma all'esame
peritale è risultato che "la maggior parte dei rilievi è stata indirizzata da atteggiamenti soggettivi che
tendevano a localizzare in varie parti del corpo zone asserite dolenti. All'esame obiettivo queste
zone non hanno dimostrato alterazioni apprezzabili né tanto meno ripercussioni funzionali di
qualsivoglia natura". I periti obiettivamente hanno potuto rilevare soltanto "la ferita lacero-contusa
nella regione frontale alta, in via di cicatrizzazione, la lievissima escoriazione in corrispondenza
della coda del sopracciglio sinistro, l'altrettanto lievissima escoriazione superficiale lineare sul
margine dell'avambraccio destro, la sfumata area ecchimotica sulla faccia mediale del sesto
superiore dello stesso avambraccio, la piccola escoriazione in corrispondenza della regione dorsale
della falange prossimale del terzo dito della mano sinistra, la tenue ecchimosi alla superficie
mediale della coscia destra nella quale si inserivano tre escoriazioni puntiformi. In sostanza l'unica
lesione di un qualche rilievo e di un qualche interesse traumatologico può essere considerata quella
a carico della regione frontale alta". Ma in ordine a questa che costituisce l'unica vera lesione
riportata dal Pelosi - i periti hanno rilevato che il mezzo contusivo non poteva avere una larga
superficie e che esso ha esercitato la sua efficacia lesiva, in ogni caso di modesta entità, in senso
trasversale. [...]
Il Pelosi ai Carabinieri di Ostia e al Pronto Soccorso dell'Ospedale disse di aver riportato la lesione
battendo la testa contro il volante dell'auto durante la fuga: tale mezzo contundente presenta
effettivamente una superficie stretta e può aver operato in senso trasversale e non sagittale. Deve
anche aggiungersi che solo una ferita riportata all'interno della macchina durante la fuga può
spiegare appieno le piccole tracce di sangue di Pelosi rinvenute all'interno della macchina, sulla
tappezzeria della stessa verso l'alto, davanti al volante. Un'altra lesione di un certo rilievo è stata
successivamente riscontrata dai periti a seguito dell'annullamento della prima indagine radiografica
sul naso: è stato infatti accertato che il Pelosi presenta "esiti di frattura incompleta senza
spostamento dell'osso nasale di destra funzionalmente irrilevante".
[...] Poiché è stato accertato che il Pelosi urtò con il capo sul volante dell'auto, come egli stesso ha
affermato e come è stato comprovato da quanto sopra detto, deve ritenersi che anche la lesione al
naso possa essere conseguenza di quel trauma (mentre la fronte urtava contro il cerchio, il setto
nasale ben poteva urtare contro la "razza" del volante).
Comunque, anche a voler far risalire la frattura alla colluttazione con il Pasolini a cui del resto
sicuramente il Pelosi in qualche modo ha partecipato, resta il fatto che la modestia del complessivo
quadro lesivo riscontrato sul Pelosi, specie se in relazione all'imponente quadro lesivo riscontrato
sul Pasolini, mal si concilia con l'ipotesi di un duello a due, con violento e reciproco scambio di
colpi. Oltre tutto sul luogo della lotta sono stati trovati un bastone e due parti di una unica tavola
divisa al primo colpo in due tronconi, entrambi utilizzabili come arma di offesa: è seriamente
pensabile che ove la lotta si fosse svolta solo tra il Pasolini e il Pelosi, quest'ultimo abbia avuto la
possibilità di utilizzare tutti e tre i mezzi contundenti (tutti sporchi del sangue di Pasolini) mentre il
primo non ebbe mai la possibilità di impossessarsi di uno dei mezzi per organizzare un minimo di
difesa colpendo il suo aggressore? La differenza tra le lesioni subite dal Pasolini e la sostanziale
mancanza di lesioni sul Pelosi può spiegarsi solo ritenendo che non vi fu una colluttazione a due ma
una aggressione di più persone nei confronti di un uomo solo.
h) Le lesioni riportate dal Pasolini e il luogo in cui vennero ritrovati i vari reperti escludono nel
modo più sicuro che i fatti si siano svolti così come li ha rappresentati il Pelosi e danno nello stesso
tempo una significativa prova della necessaria presenza sul posto di più persone. Deve innanzi tutto
in proposito rilevarsi che la camicia di Pasolini, profondamente intrisa del suo sangue, venne
ritrovata sul retro dell'area di porta, a una notevole distanza dal luogo in cui Pasolini venne
rinvenuto esanime.
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È anche da aggiungere che il Pelosi ha sempre decisamente escluso di aver raccolto la maglietta
intrisa di sangue del Pasolini e di averla spostata, il che fa ritenere che la camicia venne tolta dal
Pasolini stesso, o al Pasolini da altri, nella parte dello spiazzo vicino alla porta ove era parcheggiata
l'auto.
Ora, poiché la maglietta del Pasolini era profondamente imbevuta di sangue, deve ritenersi che una
prima fase della colluttazione con violenta emorragia ematica da parte del Pasolini, avvenne
sicuramente nelle vicinanze o proprio nella area di porta (è sintomatico che in questa area vennero come sopra detto - rinvenute numerose impronte di scarpe diverse) e che questa prima fase non è
immediatamente collegata con la seconda fase che si sviluppò nei pressi della baracca del Buttinelli.
[...]
Ma se tutto ciò è vero, non solo "salta" completamente la ricostruzione dei fatti fatta dal Pelosi ma
prende consistenza la ipotesi che le ferite inferte al Pasolini nella prima fase dell'aggressione siano
state prodotte da corpi contundenti diversi da quelli rinvenuti sul posto e repertati.
Non può esser stata infatti utilizzata nella prima fase la tavoletta con la scritta Buttinelli sia perché
la tavola era collocata molto lontano dal luogo ove la prima fase della aggressione avvenne [...] sia
principalmente perché numerosi frammenti del legno della tavoletta sono stati rinvenuti "sul terreno
sottostante il tronco del cadavere e nelle immediate vicinanze dello stesso". Non appare probabile
neppure l'uso del bastone nella prima fase, sia perché la friabilità dello stesso mal si concilierebbe
con il pesante quadro emorragico che pure il Pasolini dovette presentare quando si tolse la camicia
per tamponare le ferite, sia perché il bastone venne sicuramente usato nella seconda fase (lo
dimostra il fatto che la parte più imbibita di sangue venne rinvenuta sotto il corpo di Pasolini e che
il Pelosi ha ammesso di aver preso l'altro pezzo del bastone che era vicino al corpo del Pasolini per
buttarIo poi nel campo vicino alla porta).
Ma se il bastone - che sicuramente dovette spezzarsi al primo colpo perché una parte non è quasi
sporca di sangue - si ruppe nella seconda fase, è da escludere che abbia potuto operare nella prima
fase producendo al Pasolini quelle notevoli ferite da cui uscì una così copiosa quantità di sangue.
Deve pertanto necessariamente concludersi ritenendo che nella prima fase dell'aggressione - che si
svolse nei pressi della porta di calcio - altri mezzi produttivi di lesioni vennero usati, mezzi che non
sono stati rinvenuti e che conseguentemente debbono esser stati portati via da persone diverse dal
Pelosi [...]
Deve inoltre rilevarsi che altri elementi portano a ritenere che anche mezzi diversi da quelli
rinvenuti sul posto e repertati abbiano prodotto le lesioni riscontrate sul Pasolini e non riconducibili
al sormontamento della macchina. Le lesioni fratturative alle falangi (due fratture e una lussazione)
poco verosimilmente possono esser state procurate da un bastone estremamente friabile e da due
tavolette del peso di 765 grammi una e di 700 grammi l'altra; [...]
È pertanto assai probabile sulla base di queste lesioni - che a provocarle siano stati mezzi di
maggiore consistenza di quelli rinvenuti, e questo elemento - collegato con quello precedentemente
analizzato - dà la sicurezza della presenza di altri corpi contundenti e quindi di altre persone. Vi
sono infine altri due elementi desunti dalle lesioni e dalla dinamica degli avvenimenti ricostruita
sulla base dei rapporti in atti che fanno ritenere la presenza di una pluralità di persone al momento
dell'aggressione al Pasolini. Se il bastone e le tavolette furono usati nei pressi della baracca del
Buttinelli - e ciò è comprovato dagli elementi sopra indicati - deve escludersi che siano stati usati
dalla stessa persona in momenti successivi e deve invece ritenersi che furono tutti usati
contestualmente da una pluralità di persone. Secondo la tesi del Pelosi, nella zona ove poi cadde
esanime il Pasolini lo stesso venne prima colpito dal bastone che si ruppe; poi il Pelosi buttò via il
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bastone, raccolse la tavoletta, colpì con questa il Pasolini, la ruppe, continuò a colpire con l'altro
moncone di tavoletta. Ma se ciò fosse stato vero il bastone si sarebbe dovuto trovare per lo meno
qualche metro distante dal luogo ove successivamente stramazzò il Pasolini, mentre il pezzo del
bastone che colpì più pesantemente la vittima fu rinvenuto proprio sotto il corpo della stessa.
È infatti evidente che Pasolini non poteva, in una colluttazione a due, rimanere immobile sullo
stesso posto attendendo che il suo aggressore - momentaneamente sfornito di un'arma - si chinasse,
raccogliesse la tavoletta e ricominciasse a colpirlo. Delle due ipotesi l'una: o Pasolini era in fuga
rincorso dal Pelosi [...] o era in corso un avvinghiamento tra Pelosi e Pasolini e allora quest'ultimo
avrebbe potuto approfittare del periodo in cui il Pelosi aveva buttato il bastone ed era chinato per
raccogliere la tavoletta per soverchiarlo e per impedirgli di prendere la tavoletta e ricominciare a
colpirIo. In realtà nessuna delle due ipotesi appare accettabile. [...]
Assai più logica appare invece l'ipotesi che il Pasolini mentre stava fuggendo venne raggiunto da
più persone che, dopo averlo fermato per i capelli, iniziarono a colpirlo tanto con il bastone che con
la tavoletta (e probabilmente anche con altri mezzi contundenti, come sopra rilevato).
Il secondo elemento che fa presumere la esistenza di una pluralità di persone è dato dalla lesione
che in sede peritale è stata così descritta: "ampia soffusione ecchimotica all'emiscroto destro estesa
al versante infero-laterale destro del terzo medile del pene con zona escoriativa di cm 2 circa
localizzata al centro della superficie anteriore dell'emiscroto medesimo" e che, sempre secondo i
periti, è stata cagionata dalla "applicazione violenta di un mezzo contusivo che ha agito sulla
regione determinando una infiltrazione emorragica anche del piano profondo". (Una simile lesione
non può certo essere stata cagionata se il Pasolini era in fuga rincorso dal Pelosi, né se vi era una
colluttazione a breve distanza tra due contendenti più o meno avvinghiati, come è la lotta descritta
dal Pelosi).
La precisione e la violenza del calcio inferto ai testicoli - che come affermano i periti provocò una
sensibile riduzione della capacità di difesa del soggetto - fa presumere non solo che il calcio costituì
l'atto terminale della seconda fase di aggressione ma anche che esso venne assestato da una persona
mentre altre tenevano ferma la vittima perché subisse il colpo di grazia. i) È provato, dal
rinvenimento di un pezzo del bastone sotto il corpo del Pasolini, che bastone e tavolette sono state
usate nella fase che si è svolta vicino alla baracca del Buttinelli. Anche il Pelosi riconosce ciò,
aggiungendo che quando la colluttazione ebbe termine per l'abbattimento del Pasolini, egli
"d'istinto" raccolse i pezzi della tavoletta e il paletto e li buttò vicino alla macchina.
Ora - a parte l'evidente stranezza di un ragazzo terrorizzato che, volendo scappare dal luogo ove vi è
stata una così grave colluttazione si attarda al buio alla ricerca delle tavolette e del paletto e li porta
tutti insieme senza minimamente macchiarsi di sangue gli abiti di cui pure le tavole erano assai
imbevute - deve rilevarsi che il paletto venne rinvenuto a una notevole distanza dalle due tavolette
(a 56 metri dal cadavere, mentre le tavolette erano a 90 metri dallo stesso). Non è questa una
ulteriore conferma che se il bastone, meno imbrattato di sangue, venne preso e poi buttato dal
Pelosi, le due tavolette - che dovettero necessariamente lasciare delle macchie di sangue sulle mani
e sugli indumenti di chi li raccolse - vennero prese da una terza persona che le buttò poi più vicino
alla macchina?
1) Un ulteriore elemento che fa ritenere la presenza di più persone sul luogo del delitto - e un loro
concerto successivo alla commissione del reato - è dato dal tempo che trascorse tra l'arrivo del
Pelosi e del Pasolini all'Idroscalo e l'arresto del Pelosi da parte dei Carabinieri sul Lungomare di
Ostia.
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È accertato (deposizione Panzironi) che Pasolini e Pelosi lasciarono la trattoria a mezzanotte e
cinque e che impiegarono non più di venti minuti per raggiungere l'Idroscalo (la distanza dalla
trattoria era di 30 km circa per cui anche se la macchina fosse andata a soli 120 km all'ora - ma il
Pelosi ha dichiarato in dibattimento che la macchina "correva", il che è logico dato che a quell'ora la
strada era completamente sgombra e l'auto aveva un motore assai potente - il tempo impiegato
doveva essere di circa un quarto d'ora): può pertanto ritenersi, anche calcolando la fermata per il
rifornimento di benzina, che i due arrivarono all'Idroscalo non oltre mezzanotte e mezza. L'altro
dato certo è che il Pelosi venne fermato dai Carabinieri alla 1 e 30.
La domanda che ci si deve rivolgere è se appare pienamente coperto l'arco di un'ora dalla
descrizione degli eventi così come l'ha raccontata il Pelosi. Appena giunti - dice il Pelosi - fumai
una sigaretta: 5 minuti circa; quindi Pasolini cominciò ad accarezzarmi i genitali e "mi prese il pene
in bocca per circa un minuto": può ritenersi, con criteri di larghezza, che siano trascorsi altri 5
minuti; quindi scesi dalla macchina si iniziò l'aggressione, la fuga, la colluttazione, l'abbattimento
del Pasolini, senza alcuna soluzione di continuità ma in modo piuttosto concitato e veloce: al
massimo può ritenersi che in questa fase sia stato impiegato un quarto d'ora; corsi quindi alla
macchina in preda al terrore, misi in moto l'auto, mi allontanai dall'Idroscalo e mi fermai alla
fontanella per lavarmi: in questa fase non poté impiegare più di 5 minuti.
Nell'insieme dunque può ritenersi che al massimo sia stata impiegata mezz'ora. E seriamente
pensabile che un'altra mezz'ora sia stata impiegata dal Pelosi per lavarsi sommariamente e per
raggiungere il lungomare vicinissimo alla fontanella, dove la macchina fu vista dai Carabinieri
procedere a 180 km all'ora (teste Guglielmi)? Non è invece molto più logico ritenere che il tempo
"vuoto" sia stato impiegato per decidere una comune linea di condotta tra le più persone che
avevano partecipato all'aggressione? Certo questo elemento - come tutti gli elementi sopra
considerati - da solo non potrebbe avere valore determinante e costituire prova sicura della presenza
di piu persone: ma la pluralità di elementi tutti gravemente indiziari e tutti concordanti in un unico
senso, la imponenza di essi, la univocità della loro direzione - nonché l'esistenza di alcune prove
positive della presenza di altre persone - danno, attraverso l'esame globale della situazione, la
tranquillante certezza che la proposizione del Pelosi "ero solo" non è affatto veritiera.
2) Neppure la proposizione del Pelosi: "Fui aggredito dal Pasolini e per difendermi dovetti colpirlo"
trova riscontro negli atti di causa; anzi, è chiaramente smentita da tutte le risultanze probatorie.
Appare innanzitutto evidente che, se più persone furono quella sera presenti all'idroscalo e
parteciparono all'aggressione del Pasolini, la tesi dell'aggressione subita dal Pelosi diviene
automaticamente priva di ogni fondamento. Inoltre deve rilevarsi come molte delle argomentazioni
poste a base della dimostrazione che il Pelosi non era solo valgono comunque a escludere che vi sia
stata un'aggressione da parte del Pasolini al Pelosi: basta qui accennare - riportandosi a quanto sopra
già detto - alla divisione della colluttazione in due fasi e alla assurdità che il Pasolini, già grondante
di sangue e quindi in qualche modo menomato, abbia spontaneamente aggredito nuovamente il
Pelosi - dopo averlo rincorso e raggiunto - presso la baracca del Buttinelli; alla ciocca di capelli del
Pasolini ritrovata lungo la stradetta che dimostra come lo stesso mentre fuggiva venne raggiunto e
afferrato per i capelli; alla mancanza di significative lesioni sull'aggredito Pelosi mentre rilevanti
lesioni furono rinvenute sul corpo del presunto aggressore. [...]
Appare molto strano che il Pelosi - profondamente traumatizzato e sconvolto, come afferma di
essere stato, per l'aggressione subita - fermato dai Carabinieri nella imminenza del fatto non abbia
raccontato immediatamente di esser stato vittima dell'aggressione di un bruto: ciò avrebbe anche
pienamente giustificata l'appropriazione della macchina. Invece il Pelosi con molta padronanza di sé
dice prima ai Carabinieri che la macchina l'aveva avuta in prestito da un amico, poi di averla rubata
davanti a un cinema, senza minimamente accennare alla aggressione a cui si era sottratto. E
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nasconde pure di aver subito lesioni durante l'aggressione, affermando - oggi, dice, falsamente - di
averle riportate urtando contro il volante della macchina.
Ma la mattina dopo con assoluta tranquillità racconta al primo venuto (un vicino di cella di Casal
del Marmo) di aver ammazzato Pasolini - specificando che era in carcere "perché ho ammazzato un
uomo e precisamente Pasolini: tanto tra poco lo vengono a sapere; mica sono deficienti quelli". E al
Procuratore della Repubblica dà quella versione dei fatti, incentrata sulla subita aggressione, che poi
manterrà fino in fondo. Non può non lasciare estremamente perplessi questo modo di fare: sia
perché innaturale in chi si sente sicuro di aver agito in stato di legittima difesa, sia perché
oggettivamente tende a far ritardare la scoperta del cadavere e lo scattare delle conseguenti ricerche,
il che non ha senso per chi ha tutto l'interesse a far emergere al più presto la realtà dell'aggressione
subita.
In realtà l'unica logica spiegazione al comportamento tenuto con i Carabinieri è che il Pelosi volesse
consentire ai suoi complici di allontanarsi indisturbati facendo perdere le loro tracce, proprio per
poter poi avvalorare la tesi predeterminata della aggressione subita. [...]
Sulla base dei numerosi elementi di prova raccolti deve pertanto ritenersi non attendibile la versione
dei fatti prospettata dall'imputato, e invece accertato che il Pasolini subì una aggressione da parte di
più persone restate sconosciute, e che lo stesso Pasolini, dopo essere stato ridotto all'impotenza, fu
volontariamente ucciso mediante il sormontamento da parte della sua macchina.
Contro una simile ricostruzione del fatto [...]
la difesa del Pelosi muove due obiezioni: nessuno poteva sapere ove il Pasolini avrebbe
accompagnato il Pelosi; nessuna causale del delitto è stata individuata e provata. Le due obiezioni
non sembrano rilevanti:
1) Di fronte a prove precise della presenza di più persone sul luogo del delitto e della loro
partecipazione allo stesso, non può essere esclusa tale partecipazione solo perché non si è potuta
trovare la prova dell'accordo nè si sono potuti identificare i coautori del reato. Deve comunque
rilevarsi come anche nella fase precedente all'arrivo del Pelosi e del Pasolini all'Idroscalo esistono
molti punti oscuri che lasciano seri dubbi sulla versione data dall'imputato:
a) Pur non conoscendo affatto gli amici del Pelosi che erano alla Stazione Termini e che - a quel che
essi dicono - non erano affatto "ragazzi di vita", il Pasolini si mostrò nei loro riguardi estremamente
diffidente e prudente. [...]
Come mai, pur avendo tanta diffidenza nella frequentatissima piazza dei Cinquecento, il Pasolini
accolse con tanta facilità nella macchina il Pelosi che pur faceva parte di quel gruppo di ragazzi di
cui diffidava e che non conosceva affatto secondo l'affermazione di Pelosi?
b) Non si comprende perché il Seminara entrò nel bar a chiamare il Pelosi perché andasse a parlare
con il Pasolini. Quale era il motivo per cui il gruppo ritenne opportuno far conoscere al Pasolini il
Pelosi?
c) Non si comprende bene perché, con quali argomenti e con quali promesse il Pelosi dopo essersi
allontanato da piazza dei Cinquecento insieme al Pasolini per una mezz'ora e cioè per un tempo
sufficiente ad avere un rapporto, convinse il Pasolini riluttante a tornare in piazza dei Cinquecento e
a impegnarsi a riaccompagnarlo nella tarda notte fino al Tiburtino. E non può non esser fortemente
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sospetto il particolare - riferito dal Seminara - secondo cui il Pelosi, tornando alla Stazione, avvertì
gli amici "di non farsi vedere dall'uomo in macchina".
d) Pelosi doveva conoscere bene la zona dell'idroscalo per esservi stato altre volte; in sede di
interrogatorio dibattimentale il Pelosi ha dichiarato che, volendosi lavare le mani alla fontanella,
lasciò la macchina in una traversa vicino alla fontana perché aveva paura che qualcuno vedesse la
macchina che aveva rubato, e in sede di ispezione dei luoghi ha specificato che la macchina la
posteggiò all'inizio di via delle Caserme, che è una strada che sbocca in piazza Scipione l'Africano
ove è collocata la fontanella. Ma poiché via delle Caserme, per chi viene dalla via dell'Idroscalo, è
prima della piazza e la fontanella è alla fine della piazza all'angolo della stessa con il Lungomare, il
Pelosi - per posteggiare la macchina in via delle Caserme quando ancora non poteva conoscere che
alla fine della piazza vi era una fontanella - doveva perfettamente conoscere i luoghi. Ma se il Pelosi
conosceva l'Idroscalo (mentre non risulta agli atti che Pasolini conoscesse tale luogo) è assai
probabile che il luogo del convegno fu proposto e scelto dal Pelosi e non dal Pasolini, con la
conseguente possibilità che il Pelosi abbia comunicato a qualcuno non identificato - al momento in
cui tornò alla Stazione - dove si proponeva di andare con Pasolini.
e) Assai oscura appare anche tutta la vicenda dell'anello rinvenuto sul luogo del delitto e che il
Pelosi fece cercare dai Carabinieri. A parte l'ovvia considerazione che in una persona
particolarmente agitata per quanto era avvenuto si può comprendere il desiderio di recuperare
sigarette e accendino per potersi calmare fumando ma si comprende molto meno il desiderio di
recuperare un anello di scarsissimo valore commerciale e di nessun valore affettivo, deve rilevarsi
come non sembra possibile che l'anello sia caduto al Pelosi durante la colluttazione. Questo perché
l'anello non era affatto largo sul dito del Pelosi [...]
appare assurdo che l'anello sia caduto spontaneamente dal dito perché andava strappato dal dito con
una certa violenza, dato che era stretto; ma se ciò è vero appare strano che possa essere stato
strappato dal Pasolini durante la colluttazione poiché - come si è già visto prima - tale colluttazione
avvenne tra più persone e non vi furono avvinghiamenti tra Pasolini e Pelosi perché questi
avrebbero lasciato segni vistosi sulla persona e sugli indumenti del Pelosi. [...]
Non si può quindi quanto meno escludere che l'anello sia stato tolto dal dito dallo stesso Pelosi e
lasciato cadere nelle immediate vicinanze del cadavere per fini che non è possibile in questa sede
individuare.
2) La mancanza di un preciso accertamento della causale del delitto non può portare alla esclusione
della responsabilità. [...]
In realtà possono farsi varie ipotesi: che si volesse rapinare Pasolini, che gli si volesse dare una
lezione per un precedente "sgarbo", che si volesse proteggere il Pelosi alle prime esperienze e che
un "protettore" vigilasse su di lui. Non esistono elementi - di fronte al mutismo sul punto del Pelosi.
sempre ancorato alla sua versione difensiva originaria - che possano far preferire una delle causali
sopra riportate o anche una causale diversa. allo stato non facilmente ipotizzabile.
Resta comunque il fatto che gli abbondanti elementi probatori positivi - e l'assoluta inattendibilità
della versione dei fatti data dal Pelosi - danno la tranquillante certezza che almeno due persone
aggredirono prima e poi volontariamente uccisero il Pasolini, per motivi che non si sono potuti
accertare. Potrebbe astrattamente ritenersi, una volta accolta la tesi della presenza di altre persone
all'idroscalo, che il Pelosi sia restato estraneo al delitto, semplice spettatore di una drammatica
scena in cui altri soli erano i protagonisti. L'ipotesi - che il collegio si è dovuto porre per scrupolo
ricostruttivo - non appare attendibile: perché, sia pure in misura assai limitata, qualche traccia del
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sangue di Pasolini era sugli indumenti del Pelosi; perché il Pelosi era in possesso della macchina
con cui il Pasolini venne ucciso; perché, se avesse solo assistito alla scena, avrebbe dovuto dirlo e
non proclamarsi ripetutamente unico uccisore del Pasolini: perché se fosse stato estraneo
all'omicidio non avrebbe cercato di coprire i suoi complici affermando ai Carabinieri di aver rubato
la macchina e ritardando cosi la scoperta di un delitto che era per proprio conto pronto a confessare.
[...]
Ricostruito il fatto, riconosciuto che il Pelosi lo ha commesso, valutata l'esatta configurazione
giuridica dei fatti contestati, resta al Tribunale il compito di esaminare - prima di una eventuale
affermazione della penale responsabilità dell'imputato - il problema se al momento dei fatti, e in
ordine agli stessi, il Pelosi fosse o meno imputabile. Il che significa dovere affrontare la complessa
questione - che ha dato luogo a profonde dispute dottrinarie e a molte incertezze giurisprudenziali del significato della formula usata dal legislatore nell'art. 98 C.p.
[...] Premesso tutto ciò, deve rilevarsi che i periti hanno ritenuto immaturo sul piano psicologico il
Pelosi perché presentava:
a) Una notevole povertà di contenuti culturali, evidenziata dalla incapacità di uscire dal particolare
per esprimere una valutazione critica della situazione. Hanno affermato i periti in dibattimento che
"malgrado le nostre domande non è emerso un suo concetto sulla funzione del lavoro, della
giustizia, della vita politica, della scuola, il tutto era ridotto al contingente senza alcun giudizio
critico", anche se hanno pure ammesso che "il ragazzo è in grado di dare alcuni giudizi morali ma
riteniamo che questi giudizi non siano tali da raggiungere la maturità che dovrebbe avere in
rapporto all'età cronologica".
b) Una superficialità affettiva per carenza affettiva larvata del soggetto con le figure genitoriali.
c) Una conseguente debole strutturazione dell'Io e delle sue funzioni per una non raggiunta fase
della propria identità intesa come consapevolezza del raggiungimento di uno stile individuale.
Ritiene il collegio di poter condividere il giudizio dei periti sulla povertà culturale e sulla
superficialità affettiva del Pelosi: il problema è però quello di vedere se tale povertà e superficialità
sia di cosi alto livello da escludere del tutto la capacità di intendere il significato antisociale
dell'uccisione di un uomo e di essere inconsciamente determinato a un atto di così rilevante gravità o se invece essa possa giustificare la diminuente di pena per la minore età e la concessione di
eventuali attenuanti ma non escludere tale capacità. Al riguardo il collegio osserva: - che il non
essere in grado di concettualizzare la funzione del lavoro, della giustizia, della vita politica, della
scuola non implica di necessità una incapacità di valutare il significato della vita e di comprendere
l'elementare concetto che non si può privare un uomo di tale bene.
Anche perché, se si può non avere una concreta e interiorizzata esperienza del lavoro, della scuola,
della giustizia, della vita politica, si ha certamente una profonda esperienza personale di cosa
significa vivere e di come la vita debba essere preservata. Questo anche perché l'elementare
concetto che la vita è un valore e l'uccisione di un essere umano un disvalore, è largamente
percepito in ogni ambiente sociale e largamente trasmesso come un punto fermo in una sia pur
traballante scala generale dei valori della nostra vita comunitaria; - che gli stessi periti hanno
riconosciuto che il Pelosi non è assolutamente privo della capacità di formulare o esprimere giudizi
etici: ma se una anche elementare capacità sussiste in questo campo non può non riconoscersi che la
valutazione negativa della uccisione di un uomo doveva essere presente in un soggetto di quasi
diciassette anni e mezzo; - che il Pelosi non è affatto apparso tanto sprovveduto culturalmente nel
corso del procedimento: ha saputo infatti imbastire con estrema abilità una tesi difensiva che
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occultasse la realtà di ciò che all'idroscalo era effettivamente avvenuto e ha mantenuto tale tesi
senza cedimenti lungo tutto l'arco dell'istruttoria e del dibattimento [...];
ha mostrato di non lasciarsi sopraffare dagli avvenimenti ma di saperli prevedere e controllare [...]
- che le carenze affettive familiari possono aver ritardato un regolare processo di strutturazione
dell'Io e di compiuta assunzione di una identità, ma che questo non appare sufficiente a escludere
che il Pelosi potesse percepire il significato antisociale dell'atto omicida e fosse in grado di
autodeterminarsi in ordine a un fatto di così rilevante gravità. [...] come il Tribunale ha accertato, con freddezza venne architettata una abile tesi difensiva che il Pelosi
ha saputo mantenere anche di fronte a tutte le contestazioni; non si può pertanto dubitare che
l'imputato aveva al momento del fatto quella capacità di intendere e di volere che lo rende
pienamente imputabile. Accertato che il Pelosi ha realmente commesso i delitti ascrittigli e
ritenutane la piena imputabilità, occorre infine procedere alla determinazione della pena equa.
Deve a tale scopo osservarsi in via preliminare che la compiuta istruttoria dibattimentale ha
confermato il fondamento, anche giuridico, delle contestazioni, mettendo in luce che il Pelosi pose
in essere comportamenti indirizzati al perseguimento di fini autonomi, e cioè azioni diverse, in
momenti diversi. Tali autonome azioni non si inseriscono in un piano criminoso unitario e quindi
deve escludersi il vincolo della continuazione tra i vari delitti. Da questo punto di vista deve essere
sottolineato che lo stesso furto dell'auto del Pasolini è stato contestato come aggravato solo perché
commesso al fine di conseguire l'impunità del delitto di omicidio. Ne deriva che anche nell'esercizio
del potere discrezionale di determinare l'entità della pena i delitti contestati possono essere
diversamente considerati. [...
] Per l'omicidio, ferma la gravità del reato per tutte le ragioni esposte in precedenza, debbono
trovare considerazione alcuni degli elementi già messi in luce nell'affrontare il problema
dell'accertamento dell'imputabilità. [...]
È pacifico che il Pelosi appartiene a un gruppo sociale di livello culturale abbastanza povero e che
nelle dinamiche dei rapporti familiari deve esserci qualche motivo di disturbo che può dar ragione
dell'instabilità scolastica prima e lavorativa poi e della attività criminosa anteriore a quella che è
oggetto del presente procedimento. [...]
Ponendo come base per i delitti di atti osceni e di omicidio la pena, rispettivamente di mesi tre e
anni 21 di reclusione, attraverso la concessione delle attenuanti generiche e con la diminuente della
minore età di obbligatoria applicazione, si perviene alla pena rispettivamente di mesi uno e giorni
10 e anni 9 e mesi 4 di reclusione. Lievemente diverso è il problema della determinazione della
pena per il delitto sub c) e cioè per il delitto di furto pluriaggravato dell'auto del Pasolini. Per questo
reato infatti pur rimanendo ferma la concessione delle attenuanti generiche fondata su ragioni di
equità, e della diminuente della minore età, deve innanzi tutto affermarsi che può ritenersi la
equivalenza tra attenuanti e aggravanti contestate. Nell'applicare la pena prevista per il furto
semplice deve essere tuttavia tenuto presente che il Pelosi è stato già altre volte arrestato per furto
d'auto e che pertanto la sua capacità a commettere tale tipo di reato [...] è abbastanza elevata. Pena
equa stimasi pertanto quella di mesi due di reclusione e lire 30.000 di multa. La condanna per il più
grave delitto di omicidio importa necessanamente anche la pena accessona della perpetua
interdizione dei pubblici uffici ai sensi dell'art. 29 C.p.
Segue per legge la condanna al pagamento delle spese processuali e di custodia preventiva. P.Q.M.
- visti gli artt. 483, 488 C.p.p. dichiara Pelosi Giuseppe colpevole del delitto di omicidio volontario
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in concorso con ignoti, così modificato al capo b) della rubrica, nonché degli altri delitti a lui ascritti
e, con la diminuente della minore età e la concessione delle circostanze attenuanti generiche,
ritenute equivalenti alle aggravanti relative al delitto di furto, lo condanna alla pena complessiva di
anni 9 mesi 7 e giorni 10 di reclusione e lire 30.000 di multa oltre al pagamento delle spese
processuali e di custodia. Visto l'art. 29 C.p. dichiara Pelosi Giuseppe perpetuamente interdetto dei
pubblici uffici. Roma, 26 aprile 1976 Tribunale composto da: Alfredo Carlo Moro, Presidente;
Giudici: Giuseppe Salomè, Matteo Guarino, Maria Grazia Milone.
Sentenza della Corte d'appello Roma
4 dicembre 1976
[...] In sostanza ogni strada è stata percorsa tutte le indagini ragionevolmente possibili sono state
svolte e hanno avuto esito negativo, come risulta dai relativi atti allegati al processo [...] Nessun
elemento è emerso che potesse essere utilmente fatto oggetto di ulteriori accertamenti da parte del
Tribunale, e che possa ora giustificare l'avvio di una attività istruttoria da parte della corte. Non
sono ravvisabili, in definitiva, lacune di sorta negli accertamenti compiuti in primo grado, cui
occorra rimediare attraverso una rinnovazione di indagini, la quale non soltanto sarebbe quanto mai
aleatoria e riferibile - al di fuori della funzione del dibattimento - a oggetti privi di sufficiente
concretezza, ma non potrebbe consistere che nella negativa ripetizione di tentativi di ricerca già
inutilmente compiuti. [...]
la corte non ritiene di dover procedere a una più estesa analisi dell'intera narrazione dell'imputato che pure presenta non pochi elementi di inattendibilità - ma di dover prima tentare di accertare se
egli abbia agito da solo, come si sostiene nei motivi d'appello, oppure insieme ad altri, come ha
affermato la sentenza impugnata.
Quest'accertamento, se dovesse concIudersi nel secondo senso, sarebbe infatti risolutivo quanto alla
natura dolosa del fatto. Va ancora una volta ribadito che nessun dubbio consistente circa la
partecipazione di terzi al delitto trae origine da elementi o da seri sospetti ricavabili da dati diversi
da quelli offerti dal racconto dell'imputato e dall'analisi dei reperti, delle tracce, dei risultati delle
perizie: cosicché si tratta di vagliare se questi dati giustificano le deduzioni attraverso le quali il
Tribunale è giunto a una ricostruzione del delitto implicante il concorso di altre persone.
Un elemento essenziale di tale ricostruzione è la scissione della vicenda in due fasi ben distinte, la
prima delle quali - secondo la sentenza impugnata - si sarebbe svolta vicino alla porta del campo di
calcio, la seconda nel luogo in cui il corpo di Pasolini tu ritrovato. A questo riguardo il Tribunale
attribuisce determinante valore al rinvenimento della camicia di Pasolini nella primi zona, e inoltre
al fatto che sul terreno dell'area di rigore furono rilevate impronte di scarpe con suola gommata
(probabilmente scarpe da tennis) sicuramente non appartenenti né a Pelosi né a Pasolini, e insieme a
esse altre numerose impronte denuncianti che nell'area della porta vi fu quella notte un notevole
movimento di persone.
Vari indizi portano poi a ritenere che il bastone e la tavola siano stati usati soltanto all'ultimo
momento [...] La corte rileva in contrario un primo dato di grande importanza e dal Tribunale
taciuto: ed è che nella zona attorno alla porta del campo di gioco e al punto in cui la camicia rimase
abbandonata non è stata trovata la minima traccia di sangue. Se si considera che avrebbe dovuto
trattarsi (dato lo stato in cui fu rinvenuta la camicia) di perdite di sangue abbondanti, le quali
certamente avrebbero lasciato tracce vistose sul terreno, si può subito negare con tutta sicurezza che
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vi sia stata una prima aggressione nel modo e nel luogo ritenuti dal Tribunale. Per di più alle
impronte di scarpe gommate, le quali avrebbero costituito un elemento di per sé decisivo se si fosse
potuto stabilire che furono lasciate contestualmente alla vicenda delittuosa, non è invece possibile
attribuire alcun rilievo indiziario. La sentenza impugnata si dà carico di escludere che le impronte
potessero essere state lasciate sul terreno dopo il delitto (e in particolare da un gruppo di ragazzi che
giocarono a pallone nella mattinata del 2 novembre, ma quando i rilievi della polizia erano già stati
eseguiti); trascura però di domandarsi se non potessero essere state lasciate prima, e precisamente
nel corso della giornata festiva del 1°novembre, in cui è probabilissimo che il campo di calcio fosse
stato frequentato da giovani giocatori, come fa ritenere il fatto che sul posto fu rilevata la confusa
presenza anche di moltissime altre impronte
. Così stando le cose, e non essendo stato possibile escludere che queste altre numerose impronte
fossero state lasciate in ore precedenti e tanto meno attribuirle soltanto a Pelosi e Pasolini, non si
può assegnare alle impronte di scarpe gommate, solo perché isolabili per la loro peculiarità, alcun
significato. Approfondendo l'analisi delle deduzioni del Tribunale, si deve poi rilevare che appare
difficilmente spiegabile perché mai l'uso iniziale di strumenti di offesa più consistenti ed efficaci,
che sarebbero stati sufficienti a far stramazzare la vittima, avrebbe dovuto essere seguito
dall'impiego di strumenti meno efficienti (e che peraltro i periti hanno giudicato perfettamente
idonei a provocare le lesioni riscontrate).
Se ne deduce che la scissione dell'aggressione in due distinte fasi sarebbe resa meno verosimile
dall'uso dei mezzi supposti dal Tribunale: ma più in generale essa appare meno verosimile in
rapporto all'ipotesi stessa della presenza di più aggressori, i quali è difficile credere che avrebbero
concesso a Pasolini una tregua sufficiente per sfilarsi la camicia e asciugarsi il sangue, o ai quali
certo più difficilmente egli sarebbe riuscito per qualche tempo a sfuggire. Cosicché l'episodio della
camicia, pur restando oscuro per più aspetti, s'accorda meglio con l'ipotesi che Pasolini e Pelosi
siano stati soli a fronteggiarsi, e non può essere affatto utilizzato per desumerne la partecipazione di
terzi all'aggressione. Gli altri elementi che la sentenza impugnata ha considerato come indizi del
concorso di più persone sono i seguenti: - nell'automobile di Pasolini furono rinvenuti un golf verde
e un pIantare per scarpa destra non appartenenti né a lui né al Pelosi; - non furono rinvenuti il
pacchetto di sigarette e l'accendisigari che il Pelosi, prima di scendere dall'auto insieme a Pasolini,
posò sul portaoggetti situato vicino al cambio; - sul tetto della macchina furono rinvenute, dalla
parte del passeggero, incrostazioni di sangue di Pasolini: nessuna traccia di sangue di Pasolini fu
invece rinvenuta dall'altro lato dell'automobile, né, soprattutto, sul volante; - troppo scarse furono le
tracce di sangue rimaste addosso a Pelosi, in rapporto all'entità delle emorragie subite da Pasolini e
alle modalità della colluttazione descritte dall'imputato; troppo scarse ugualmente, le lesioni
riportate da Pelosi, in confronto a quelle riportate da Pasolini; - il calcio ai testicoli fu troppo
violento e preciso per poter essere stato assestato durante una colluttazione a due, svoltasi a distanza
ravvicinata; - un pezzo del paletto e un frammento della tavola furono entrambi trovati sotto il corpo
di Pasolini (il che fa pensare a un uso contemporaneo dei due legni da parte di più persone); l'altro
pezzo del paletto e i due della tavola furono trovati a notevole distanza fra loro (il che fa pensare
che siano stati presi e gettati via da persone diverse, anche perché la tavola, più insanguinata,
avrebbe lasciato su Pelosi maggiori tracce di sangue); - il tempo di circa un'ora fra l'arrivo
all'Idroscalo e l'arresto dell'automobile da parte dei Carabinieri non poté essere tutto impiegato nel
modo raccontato da Pelosi (il che fa presumere che il tempo vuoto sia stato utilizzato per decidere
una comune linea di condotta tra le più persone che avevano partecipato all'aggressione). Ancora
una volta gli elementi che potrebbero avere rilevanza decisiva - il plantare e il golf appartenenti a
sconosciuti, rinvenuti nell'automobile - si rivelano in realtà privi di valore indiziario. La loro
importanza dovrebbe desumersi, nell'argomentazione del Tribunale, dal fatto che la mattina del 31
ottobre la cugina di Pasolini (teste Chiarcossi) ripulì sommariamente la macchina e non li notò.
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Ma è da ritenere che quando fece, secondo le sue parole, "un minimo di pulizia" della vettura
(probabilmente, come ha detto in istruttoria, ma non sicuramente, il giorno 31), la teste non vide i
due oggetti perché il plantare si trovava in posizione nascosta (cioè sotto il sedile del posto di guida)
e perché il golf si trovava nel portabagagli (ove fu rinvenuto al momento dell'ispezione, e non
sembra da ritenere più attendibile, come fa il Tribunale, il ricordo dei due Carabinieri che
fermarono Pelosi, secondo i quali il golf sarebbe stato sul sedile posteriore insieme agli altri
indumenti rinvenuti, giacché non si spiegherebbe perché durante le poche ore precedenti l'ispezione
esso soltanto, e non gli altri oggetti di vestiario, sarebbe stato spostato nel bagagliaio). In ogni caso
non sarebbe possibile escludere che il piantare e soprattutto il golf siano stati lasciati
nell'autovettura da qualche accompagnatore di Pasolini dopo la ripulitura da parte della Chiarcossi,
cioè nel corso delle giornate del 31 ottobre o dello stesso 1° novembre, durante il quale la macchina,
secondo le dichiarazioni istruttorie della stessa Chiarcossi, fu usata due volte prima di sera. Senza
dire che ben poco verosimile è che qualcuno abbia potuto togliersi il golf di dosso nella fredda notte
del delitto; e inoltre i supposti complici, se veramente avessero freddamente concordato col Pelosi
la linea di condotta immaginata dal Tribunale, avrebbero certamente avuto cura di non lasciare loro
tracce sull'automobile. Maggiore rilievo deve essere invece attribuito al mancato rinvenimento,
nell'interno dell'autovettura e sul luogo del delitto, dell'accendisigari e del pacchetto di sigarette che
Pelosi ha detto di aver lasciato nella macchina e che ricercò subito dopo l'arresto. In effetti, se egli li
lasciò veramente sul portaoggetti della vettura, la loro sparizione non sarebbe facilmente spiegabile.
Non può però escludersi che il ricordo dell'imputato non sia stato preciso, o il suo racconto non sia
stato fedele, e che ad esempio egli abbia nuovamente fumato dopo essersi lavato le mani alla
fontana e abbia smarrito i due oggetti in quel luogo, o che questi, caduti a terra sullo spiazzo
dell'Idroscalo, siano stati prelevati da una delle persone che giunsero sul posto prima dell'arrivo
della polizia.
Deve anche osservarsi che l'ipotesi del prelevamento da parte di supposti complici non
s'accorderebbe con l'atteggiamento tenuto da Pelosi quando fu fermato giacché egli si sarebbe ben
guardato dal far balenare la possibilità che accendisigari e sigarette potessero essere stati presi da
altre persone. Tutto ciò, peraltro, non toglie che la circostanza della sparizione desti qualche
perplessità, anche se non è possibile ritenerla un indizio univoco nel senso voluto dal Tribunale. Attenta considerazione meritano poi, e soprattutto, la sproporzione fra le lesioni riportate da
Pasolini e quelle riscontrate sull'imputato, la scarsità delle tracce di sangue di Pasolini sui vestiti di
Pelosi, l'assenza di tracce di sangue di Pasolini sul volante e la presenza d'una traccia sul tetto
dell'autovettura dal lato opposto a quello di guida, il rinvenimento di frammenti di due corpi
contundenti sotto il corpo della vittima. Che questi elementi possano spiegarsi con l'ipotesi della
partecipazione di più persone è indubbio; che ne siano indici sicuri e incontrovertibili è da negare. Il
Tribunale ha fatto di essi una analisi acuta e dettagliata, senza però raffrontarli a sufficienza con
l'ipotesi alternativa che Pelosi fosse solo, mentre è evidente che se con questa essi si mostrassero
compatibili, la loro forza indi ziaria (lei concorso ne sarebbe incrinata. Orbene, se si procede a
questo necessario raffronto si deve ammettere che la detta compatibilità non può essere esclusa
rispetto a nessuno degli elementi considerati. Per quanto riguarda, in primo luogo, la sproporzione
delle lesioni subite dai due contendenti, essa certo s'accorda malamente con la versione
dell'imputato, ma può trovare piena spiegazione proprio ipotizzando che, invece che essere stato
aggredito, sia stato lui ad aggredire Pasolini, cogliendolo di sorpresa e menomandone fin dall'inizio
la capacità di difendersi. Questa supposizione non è affatto contraddetta, come invece si prospetta
nella sentenza impugnata, dall'agilità e robustezza fisica di Pasolini, che peraltro era di
complessione fisica assai minuta (59 kg di peso e 1.67 m di altezza), poiché Pelosi poté valersi non
soltanto della maggiore vigoria della giovane età, ma verosimilmente d'una determinazione a
offendere che in Pasolini mancò, e con tutta probabilità lo portò a colpire duramente per primo e
d'improvviso. Cosicché, a questo riguardo perde altresì importanza stabilire se le due più rilevanti
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lesioni riscontrate su Pelosi gli furono prodotte da Pasolini o furono da lui riportate nel brusco
arresto della macchina quando fu fermato dai Carabinieri. [...]
Ciò che qui è da rilevare, a ogni modo, è che la lieve entità delle lesioni subite da Pelosi non è
indice univoco della presenza di altre persone, ma al contrario - e a maggior ragione se le due
lesioni più importanti furono da lui riportate nell'automobile - può convalidare l'ipotesi d'una
aggressione improvvisa e violenta da parte sua, alla quale Pasolini non poté reagire in modo
efficace. Ciò vale anche a fornire una plausibile spiegazione della limitatezza delle tracce di sangue
di Pasolini riscontrate su Pelosi.
Queste tracce, in verità, non furono, sproporzionate a quelle rinvenute nell'ambiente circostante.
E vero, infatti, che l'imbrattamento della camicia e le macchie sulle tavole e sul bastone dimostrano
che Pasolini subì forti emorragie, ma il luogo del delitto non rimase cosparso di sangue in modo
esteso (oltre alle chiazze sotto il corpo, soltanto tre piccole macchie e alcuni schizzi in zona, a circa
sette metri dal cadavere, secondo la descrizione della polizia scientifica), cosicché non pare esatta
l'affermazione della sentenza impugnata secondo cui le percosse con i corpi contundenti dovettero
provocare veri e propri getti di sangue. D'altra parte sangue di Pasolini è stato rinvenuto sul polsino
sinistro della maglia a carne di Pelosi, sulla parte terminale del suo pantalone destro e sotto la suola
di una scarpa, e altre tracce possono essere state completamente eliminate con il lavaggio, senza che
ne rimanessero residue sbavature. Senza dubbio l'imputato sarebbe rimasto sporcato in maniera più
evidente se la lotta, com'egli ha dichiarato, si fosse svolta in fasi alterne con continui afferramenti,
senza che fino all'ultimo egli riuscisse ad avere il sopravvento. Ma da ciò, come s'è detto, si può
trarre la deduzione che egli abbia mentito intorno allo svolgimento della colluttazione, e non
soltanto desumere che egli abbia avuto una parte secondaria nella vicenda e Pasolini sia stato
colpito anche da altri. Anche la presenza di una piccola traccia di sangue di Pasolini sul lato destro
del tetto dell'autovettura (immediatamente al di sopra dello sportello posteriore) e l'assenza di tracce
sul volante possono spiegarsi in modo diverso da quello supposto dal Tribunale. Anzitutto può
ipotizzarsi che Pelosi, lasciato Pasolini esanime al suolo e direttosi nuovamente verso l'area della
porta, abbia urtato contro il tetto dell'autovettura. [...]
Che poi il volante non sia rimasto sporco di sangue di Pasolini può spiegarsi pensando che Pelosi ne
fosse imbrattato solo al dorso delle mani e non sulle palme - cosa del tutto verosimile se du durante
l'intera aggressione egli continuò a stringere nelle mani uno dei corpi con-tundenti, con cui può
anche aver cagionato lo strappo della ciocca di capelli rinvenuta sul terreno - oppure che si fosse in
qualche modo ripulito strofinando le palme sulla camicia di Pasolini o più probabilmente sullo
straccio celeste, trovato in terra sporco di sangue di Pasolini, oppure ancora che prima di salire in
macchina abbia indugiato i pochi minuti sufficienti a far coagulare le macchie che avesse avuto
sulle palme, o infine che le incrostazioni rimaste sul volante siano state asportate dal successivo
attrito delle mani di Pelosi stesso e di chi guidò poi la macchina fino alla caserma. Le possibili
spiegazioni, tutte ragionevoli, sono dunque più d'una, e per conseguenza a quella prospettata dal
Tribunale non può essere attribuito il preteso valore. La stessa cosa è da dire quanto alla
contemporanea presenza di frammenti dei due corpi contundenti sotto e intorno al corpo di Pasolini.
Anche a questo riguardo la supposizione fatta nella sentenza impugnata, che i due legni siano stati
usati nello stesso tempo da diverse persone, è in astratto ammissibile, ma non può esciudersi che sia
stato soltanto Pelosi ad adoperarli nello stesso luogo in tempi consecutivi, tanto più se la vittima,
già raggiunta dai calci ai testicoli, era ormai già immobilizzata e probabilmente in ginocchio, fino a
quando, colpita ancora ripetutamente, cadde bocconi. [...] Da ultimo la corte deve attribuire mero
valore congetturale alle induzioni che la sentenza impugnata vuole trarre dalla precisione e violenza
del calcio ai testicoli, che sarebbe stato inferto da uno dei complici mentre Pasolini veniva tenuto da
altri, e dal tempo di circa un'ora trascorso fra l'arrivo all'Idroscalo e l'arresto dell'imputato, che
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sarebbe stato in buona parte impiegato dai concorrenti per decidere il da farsi dopo il delitto.
Trattasi in verità di illazioni che non sono suffragate da alcun elemento, non potendosi escludere
che Pelosi sia riuscito a colpire Pasolini al basso ventre quando l'altro non se l'aspettava, né essendo
in alcuna maniera individuabili i risultati della supposta concertazione, che del resto troverebbe
spiegazione in una ricostruzione dei tempi basata sul racconto di Pelosi, per altri versi dimostratasi
non credibile. L'ipotesi del concorso appare poi improbabile per alcune considerazioni di carattere
generale. Innanzitutto non è facile ipotizzare che Pelosi e Pasolini siano stati preceduti o seguiti sul
luogo del delitto da terze persone. I sospetti dovrebbero restringersi (com'è prospettato anche nella
sentenza impugnata) agli amici con cui Pelosi si trovava al momento dell'incontro con Pasolini,
perché questi soltanto avrebbero potuto sapere da Pelosi in quale luogo lui e Pasolini sarebbero
andati, e là attenderli o raggiungerli, oppure avrebbero potuto seguire la macchina di Pasolini fino
all'idroscalo Secondo la prima ipotesi, l'informazione avrebbe potuto essere data da Pelosi quando
egli ritornò a piazza dei Cinquecento, dopo circa mezz'ora, per richiedere al Seminara le chiavi di
casa (e in quel momento la scelta dell'Idroscalo avrebbe già dovuto essere stata concordata con
Pasolini). Stando invece alla seconda ipotesi, gli amici di Pelosi avrebbero dovuto porsi
all'inseguimento della macchina di Pasolini, arrestarsi e attenderla durante le soste, non perderla di
vista fino all'Idroscalo. Ma se la prima alternativa fosse vera, cioè se il piano criminoso fosse stato
concordato quando Pelosi ritornò indietro, è da credere che tutti avrebbero taciuto di questo ritorno,
che invece fu subito dichiarato sia da Pelosi sia dai suoi amici uditi come testi. Se invece i
compagni di Pelosi avessero deciso di seguire i due, è da supporre che l'inseguimento sarebbe
incominciato subito, senza che il gruppo si intrattenesse ancora per più di mezz'ora, come fece, in
piazza dei Cinquecento. Se poi la decisione dell'inseguimento fosse stata presa dopo il ritorno di
Pelosi, ancora una volta varrebbe l'osservazione che verosimilmente questo ritorno non sarebbe
stato confessato. D'altra parte, con riferimento alla prima ipotesi, deve osservarsi che è molto più
verosimile che sia stato Pasolini, da cui era provenuto l'invito, a scegliere il luogo di destinazione,
quasi certamente a lui noto per averlo frequentato altre volte (così come scelse la trattoria per la
cena, dove, a detta del teste Panzironi, si era più volte recato), mentre nessun elemento è emerso da
cui possa desumersi che Pelosi lo conoscesse. (La contraria illazione che il Tribunale ha voluto
desumere dal fatto che Pelosi, quando volle lavarsi le mani e i vestiti, arrestò l'automobile prima
della piazza in cui si trovava la fontana, appare arbitraria, posto che si trattò di una distanza di pochi
metri, appena dieci o quindici dalla fontanella, e l'imputato è credibile quando dichiara che decise di
non parcheggiare la macchini rubata nella piazza perché temeva che qualcuno lo vedesse). [...]
Con riferimento all'ipotesi dell'i nseguimento deve invece rilevarsi anche l'improbabilità che gli i
nseguitori, rimasti all'esterno della trattoria in attesa che Pasolini e Pelosi finissero la cena, non
siano stati notati dal trattore che accompagnò i due clienti all'uscita del locale (teste Panzironi), né
successivamente, al distributore di benzina, dall'altro automobilista sopraggiunto (teste De Angelis).
Con riferimento all'una e all'altra ipotesi non può poi non rilevarsi che se è vero che Pasolini, come
afferma la sentenza impugnata, aveva motivi di diffidenza verso i compagni di Pelosi, egli non
avrebbe mancato di mettersi in sospetto e invertire la marcia notando le luci del veicolo inseguitore.
Inoltre è assai importante la circostanza che nessuna traccia di veicoli, oltre quelle ben evidenti
lasciate dall'auto di Pasolini, sia stata trovata sul terreno dell'Idroscalo. Quanto alla conciliabilità
dell'ipotesi del concorso con l'atteggiamento tenuto dal Pelosi dopo l'omicidio, le ragioni di dubbio
sono molteplici. In primo luogo non pare credibile che Pelosi non avrebbe lasciato il luogo del
delitto insieme con i suoi complici, a bordo del veicolo o dei veicoli da loro utilizzati per arrivare
sul posto.
Anche se si temeva che Pelosi avrebbe potuto alla fine essere rintracciato attraverso le
testimonianze del De Angelis e del Panzironi, per le autorità inquirenti egli sarebbe stato l'unico
addentellato per poter giungere all'identificazione dei concorrenti, e costoro avrebbero avuto tutto
l'interesse a occultare ogni connessione fra lui e il delitto, in primo luogo non esponendolo a essere
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trovato in possesso dell'automobile di Pasolini. Se poi nel piano comune fosse rientrato anche il
furto dell'autovettura, o se per altra non comprensibile ragione si fosse deciso di far esporre Pelosi
all'arresto, concordandosi che avrebbe allora dovuto raccontare di essersi difeso perché era stato
aggredito, ebbene in tal caso Pelosi, per essere credibile, avrebbe subito dovuto avanzare questa
versione una volta arrestato. [...]
In definitiva, le conclusioni che da tutta la disamina che precede la corte trae intorno alla possibilità
della partecipazione di altre persone al delitto, anche se non possono essere espresse in termini di
totale e assoluta certezza, sono tuttavia suflicientemente tranquillanti, e possono essere riassunte
come segue: a) Un primo punto è certo, ed è che non può assolutamente essere condivisa, e anzi
deve essere considerata ingiustificata alla luce di una più approfondita e completa analisi dei fatti, la
sicurezza con cui il giudice di primo grado ha affermato l'esistenza del concorso di persone. Non
esiste infatti alcuna prova fisica della presenza di terzi sul luogo del delitto: ma non esiste neppure
quella molteplicità di indizi seri e concordanti, per la quale i singoli elementi, pur se dubbi o
insufficienti ove presi singolarmente, acquisterebbero forza probante proprio in virtù della loro
coesistenza. I dati che il Tribunale ha considerato imponenti e univoci, e dunque decisivi anche
perché collegati all'esistenza di prove positive della presenza di altre persone, sono invece per la
massima parte - come s'è visto ampiamente - inesistenti o labili, e per la parte residua privi di
univocità, cioè perfettamente compatibili anche con l'ipotesi che Pelosi abbia commesso da solo il
delitto. b) La valutazione complessiva delle circostanze, dei tempi, delle possibilità in genere del
raggiungimento del luogo del delitto da parte di altre persone, la mancanza di tracce della presenza
di altri sul luogo del delitto, nonché la supposizione del comportamento successivo che i
concorrenti, compreso il Pelosi, avrebbero ragionevolmente dovuto tenere, portano a escludere,
piuttosto che ad ammettere, l'ipotesi del concorso. Certo, la possibilità che chi ha commesso un
omicidio tenga atteggiamenti irragionevoli non può essere negata, ma la cosa è meno verosimile
quando si tratti di un delitto preordinato da più persone, che denuncia maggiore freddezza di
propositi e quindi maggiore capacità, almeno da parte di qualcuno dei compartecipi, di concepire e
imporre la condotta che meglio possa servire ad assicurare l'impunità. Ciò che deve recisamente
escludersi, a ogni modo, è che il comportamento tenuto da Pelosi dopo il delitto possa essere meglio
spiegato - come si pretende nella sentenza impugnata - se lo si collega alla complicità di altre
persone. c) Restano tuttavia alcuni lievi margini di dubbio sul concorso di terzi, nascenti da alcune
lacunosità del racconto di Pelosi e dalla astratta possibilità di interpretare in maniera diversa alcune
delle circostanze sopra esaminate: in particolare la sparizione dell'accendisigari e delle sigarette, il
ritrovamento di pezzi del bastone e insieme della tavola sotto il corpo di Pasolini, la sproporzione
fra le lesioni subite dalla vittima e quelle riportate dall'imputato: e insieme a esse la ciocca di capelli
ritrovata prima del punto in cui Pasolini cadde, che potrebbe far pensare che egli sia stato afferrato
mentre fuggiva: la stessa distanza fra l'automobile e il punto di caduta, che pure potrebbe essere
attribuita a un tentativo di fuga. Trattasi però di circostanze che possono tutte trovare spiegazioni
anche escludendo che Pelosi fosse con altri, e dunque non costituiscono indizi univoci del concorso
di persone. In definitiva, esprimendo il proprio definitivo giudizio sull'ipotesi del concorso di altri
nell'omicidio, la corte afferma di ritenere estremamente improbabile, per tutte le cose dette, che
Pelosi possa avere avuto uno o più complici. Quanto alle conseguenze giuridiche ditale residua e
pur marginale incertezza, esso impedisce certo di affermare che su tutte le modalità del delitto si sia
potuto fare piena luce (ciò che del resto era tanto più vero secondo la tesi della sentenza impugnata,
la quale dal suo punto di vista non ha certo potuto chiarire quale sarebbe stato il numero dei
concorrenti, quale la concreta partecipazione di ognuno, quale la ragione del supposto concerto
criminoso), ma non ha influenza sul l'accertamento della responsabilità dell'imputato, accertamento
che non rimane pregiudicato - come s'è detto a proposito della correlazione fra accusa e sentenza dal lieve dubbio residuale che Pelosi possa avere ucciso Pasolini anche con l'aiuto di terzi. In linea
giuridica, invero, vale il principio che quando il giudice non arriva ad appurare in maniera totale e
dettagliata ogni modalità del fatto cnminoso, non ne rimane perciò incrinato il giudizio di
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colpevolezza ove sia dissolto ogni dubbio sugli elementi essenziali dell'azione e sul rapporto di
causalità fra l'azione stessa e l'evento: in particolare, poiché nel diritto penale la concausa è trattata
come causa, la residua incertezza che non sia stato possibile sciogliere intorno al carattere
concorrente o esclusivo dell'azione non influisce sull'accertamento del nesso di causalità.
Mentre l'opinione che Pasolini fosse stato vittima di più persone aveva facilitato al Tribunale il
proprio giudizio sulla colpevolezza dell'imputato, essendo implicito nella partecipazione di più
complici il carattere doloso dell'azione di tutti i compartecipi, la corte deve ora giudicare della
colpevolezza muovendo dal presupposto che Pelosi agì da solo: ma ritiene ugualmente, con
tranquilla coscienza, che non possa aversi alcun dubbio sulla natura dolosa dell'azione dell'imputato
e sull'assenza di cause di giustificazione. Alla formazione di questo fermo convincimento valgono
già gran parte dei rilievi fin qui fatti, e innanzitutto l'acclarata falsità del racconto dell'imputato, che
certamente non appare attribuibile, se collegata con i dati obiettivi, a un maldestro tentativo di
difesa. S'è visto che la narrazione di Pelosi s'è rivelata anzitutto menzognera in rapporto alla
circostanza della camicia e dell'effetto dei calci ai testicoli. Ma le sue menzogne non finiscono qui.
È falsa, in primo luogo, l'affermazione che egli non sapeva di essersi accompagnato con Pasolini. In
piazza dei Cinquecento lo scrittore era stato riconosciuto dagli amici dell'imputato, due dei quali
avevano anche conversato con lui, gli avevano proposto un giro in macchina e scherzando gli
avevano chiesto una particina in un film. Sia i due sia il Seminara dissero a Pelosi che l'uomo della
macchina era Pasolini. [...]
Le menzogne sulla conoscenza dell'identità di Pasolini e delle sue tendenze sono evidentemente un
accorto tentativo di non far apparire che egli aveva accettato l'idea delle prestazioni sessuali che poi
sostenne di non aver voluto, e per opporsi alle quali avrebbe reagito. L'imputato si è reso ben conto
che la sua versione d'essersi difeso contro un'aggressione alla libertà sessuale sarebbe stata in
contraddizione con un suo iniziale consenso a rapporti sodomitici indifferenziati, e ha contestato
ogni elemento da cui quel consenso potesse implicitamente apparire. [...]
Quanto alla materialità dell'aggressione, che secondo l'imputato sarebbe stata tale da giustificare la
propria violenza difensiva, la corte rileva che se si ricerca a fondo nel suo racconto, anche senza
voler tener conto delle incongruenze di cui è infrcito, in quale modo l'aggressione stessa si sia
estrinsecata, non si trova nulla che possa far credere che la libertà sessuale dell'imputato o la sua
integrità fisica siano state veramente messe in pericolo o siano potute a lui apparire gravemente
minacciate. [...] È
ben vero che qualche lesione Pelosi l'ha riportata, e dunque un qualche scambio di colpi fra lui e
Pasolini ci deve essere stato: ma la sola ipotesi che appare verosimile, data la sproporzione delle
conseguenze dall'uno e dall'altro subite e date le caratteristiche di molte delle lesioni riscontrate sul
corpo di Pasolini (contusioni a carico dell'avambraccio e del dorso delle mani, che secondo i periti
denotano un atteggiamento difensivo), è che Pasolini si sia limitato a cercare di difendersi, e se pure
raggiunse Pelosi con qualche percossa, lo fece soltanto per contrastare un attacco, senza avere
l'intenzione o la possibilità di arrecare grave offesa e probabilmente incredulo delle reali intenzioni
dell'altro, venendo ben presto raggiunto da colpi di calci ai testicoli che gli tolsero ogni capacità di
resistere. Ciò è convalidato dal fatto che sul paletto sono stati trovati soltanto sangue e capelli di
Pasolini, il che da un lato fa escludere che il legno sia stato da lui stesso usato, o semmai soltanto in
una fase iniziale e (data la friabilità) senza particolare violenza, e dall'altro dimostra che Pelosi ebbe
modo di adoperare entrambi i corpi contundenti, così come egli ha finito per ammettere (pur
mentendo circa l'ordine del loro impiego, e mentendo altresì sul fatto che la tavola si sarebbe rotta a
primo colpo, giacché tracce di sangue di Pasolini sono state trovate su entrambe le facce di tutti e
due i pezzi) negli ultimi interrogatori. In definitiva, la generale inattendibilità del racconto di Pelosi
dimostrata dalle sue menzogne circa la camicia e circa le conseguenze dei calci ai genitali,
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l'incongruenza dei particolari da lui descritti, e infine l'analisi dei dati obiettivi portano a ritenere
che quando i due finirono per trovarsi, per ragioni che rimangono non chiare, a una cinquantina di
metri dall'automobile (ma occorre ricordare che in uno dei suoi interrogatori l'imputato ha
dichiarato che Pasolini gli aveva proposto di fare un giretto) vi dovette essere fra loro una
colluttazione durante la quale Pelosi riuscì ad afferrare Pasolini per i capelli [...] e a raggiungerlo
con violenza ai testicoli. Subito dopo, mentre Pasolini era incapace di difendersi, lo colpì alla testa
con il paletto; quindi prese la tavola e continuò a dar colpi con furiosa insistenza [...] Nello stesso
tempo, si deve affermare che dal racconto dell'imputato non appare verosimile che Pasolini abbia
posto in essere un tentativo di violenza carnale o altra immotivata aggressione fisica [...j. [...] Infine,
contro la tesi dell'aggressione si pone nettamente il comportamento successivo dell'imputato. A
parte il fatto che la preoccupazione di disperdere i mezzi di offesa e di eliminare da sé ogni traccia
di sangue coi lavaggio alla fontana, oltre che priva di giustificazione, sarebbe stata incompatibile
con lo stato d'animo di chi avesse dovuto difendersi da una violenza, è certo che se Pelosi avesse
agito per legittima difesa avrebbe mostrato ben diverso atteggiamento di fronte ai Carabinieri che lo
fermarono: non avrebbe cercato di sfuggire loro per occultare il furto della macchina, avrebbe
raccontato immediatamente l'accaduto, non avrebbe tentato di far apparire legittimo, come fece in
un primo tempo, il possesso dell'automobile, e poi di far credere che se ne era impossessato in luogo
e circostanze diversi [...] Intorno alla propria consapevolezza che Pasolini fosse a terra esanime
sulla strada percorsa dall'automobile l'imputato ha fornito versioni contraddittorie. Ha detto infatti
in dibattimento "credevo che l'uomo si fosse rialzato e se ne fosse andato"; "ero sconvolto perché
forse si era recato al commissariato a denunciarmi"; ma ha detto anche "avrei fatto una telefonata
anonima perché qualcuno andasse a soccorrerlo"; "non volevo assolutamente confessare l'omicidio
ai Carabinieri perché avevo paura che mi picchiassero"; "per scherzare dissi in carcere a un amico
che avevo ammazzato Pasolini"; e in istruttoria aveva detto "di lì Pasolini non si mosse più"; "al
mio vicino di cella dissi di avere ammazzato Pasolini perché pensavo che per tutte le botte che gli
avevo dato e perché era rimasto lì fosse morto o potesse essere morto". Tale contrasto di
dichiarazioni non sembra casuale, ma piuttosto diretto ad accreditare l'affermazione che quando
ritornò verso la macchina egli era sconvolto e non fu più in grado di pensare o stabilire dove la sua
vittima fosse o non fosse, non la vide più, non fu capace di rendersi conto che passando con l'auto
avrebbe potuto investirla. Ciò su cui, tuttavia, non può nutrirsi alcun dubbio è che l'imputato,
quando cessò di vibrare colpi, per simulare un incidente o comunque confondere gli indizi,
raccoglie i due pezzi della tavola e il pezzo più lungo del paletto (il più corto era rimasto sotto il
corpo di Pasolini), raccoglie anche la camicia (non è infatti dubbio che questa deve identificarsi con
lo "straccio o carta" di cui egli ha parlato, perché solo così si spiega che l'indumento sia finito
accanto ai pezzi di tavola) pone attenzione a non insanguinarsi troppo e avvolge i pezzi di legno
nella camicia, supera poi il punto in cui è l'automobile per andare a gettarli oltre la porta del
campetto di gioco, in una zona erbosa e piena di detriti. Successivamente, nonostante che non
conosca il tipo di autovettura, riesce ad avviarla, ad accendere le luci, a compiere con precisione
una manovra di retromarcia, passando sotto la porta larga non più di sei metri. A questo punto la
narrazione dell'imputato comprende due circostanze del tutto inattendibili: la prima è che egli
avesse il volto e gli occhi coperti di sangue, tanto da rimanergliene ostacolata la vista; la seconda è
che fosse partito "a tutto gas" (interrogatorio del 5 novembre) e che la macchina sbandasse perché
non nusciva a dominarla (interrogatorio dibattimentale).
La prima circostanza è certamente falsa, poiché - come si è visto - egli non aveva riportato alla testa
alcuna lesione che potesse produrgli una abbondante emorragia, né poteva essersi imbrattato a tal
punto il viso entrando in contatto con Pasolini (cosa di per sé da escludere alla luce dei rilievi sopra
fatti intorno allo svolgimento della colluttazione) senza che anche i suoi indumenti ne rimanessero
sporcati in modo molto più vistoso. La seconda circostanza non è credibile perché la presenza di
profonde buche nel terreno (salvo che nell'ultimo tratto più vicino al punto in cui giaceva Pasolini),
che anche a detta dell'imputato facevano sobbalzare la macchina, non consentiva di spingere ai
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massimo la velocità e perché le tracce rimaste sul terreno non denotano alcuno sbandamento, ma
sono invece perfettamente rettilinee. Quanto all'illuminazione del percorso, l'imputato ha in un
primo tempo dichiarato che aveva acceso le luci (ulterrogatorio (lei 2 novembre), poi che non
ricordava se aveva acceso i fari (interrogatorio del 15 novembre), quindi che era riuscito ad
accendere i fari, e anche a riaccenderli dopo che essi si erano spenti durante la retromarcia
(interrogatorio del 9 dicembre), infine (nel corso del dibattimento) che quando accese il quadro si
accesero i fari, ma che non sapeva se fossero "le luci di posizione o altro".
Da tali dichiarazioni - le quali rivelano ancora una volta l'accortezza con la quale in dibattimento
l'imputato ha cercato di attenuare, con parziali abili modificazioni, la portata di precedenti
ammissioni - la corte trae la certezza che Pelosi non procedette con le insufficienti luci di posizione
ma con i proiettori a luce abbagliante o anabbagliante, anche questi ultimi idonei, data la bassa
velocità tenuta, a illuminare il corpo di Pasolini da una distanza sufficiente per riuscire a evitarlo.
Quanto a questa possibilità e alla conseguente volontarietà del-l'investimento, la difesa ha preteso di
attribuire molta importanza alla presenza di un'angolatura nella recinzione delimitante la strada,
rasentando la quale l'automobile avrebbe necessariamente dovuto, seguendo un percorso rettilineo,
passare sul punto in cui giaceva il corpo.
Sta però di fatto:
a) che il corpo di Pasolini, posto in posizione obliqua rispetto all'asse stradale, aveva la testa a m
4,10 dalla recinzione delimitante la strada a sinistra secondo il senso di marcia dell'auto (e il tronco
e le gambe a distanza ancora minore) e a m 8,50 dalla recinzione di destra:
b) che lo spigolo della recinzione di destra sopraddetto, oltre il quale la recinzione stessa subiva
un'ampia rientranza, era a m 22-23 dal corpo:
c) che se dopo l'investimento l'auto avesse conservato la medesima direzione rettilinea, che tenne
fino al corpo, sarebbe andata poco dopo a urtare contro la recinzione di sinistra: d) che in effetti,
dopo il punto dell'investimento, le tracce dei pneumatici - com'è agevole rilevare dalle fotografie e
dalla pIanimetria - deviano verso destra di quel tanto che fu sufficiente per riprendere la direzione
esatta. Se ne desume che l'imputato, a parte la cautela con cui avrebbe dovuto procedere sapendo
della presenza del corpo di Pasolini, aveva uno spazio ampiamente sufficiente sia prima di
raggiungere il corpo (m 22 partendo dallo spigolo della recinzione) sia sulla destra di esso (m 8,50),
per evitare con tutta facilità di investirlo, senza dover compiere una brusca manovra ma soltanto con
una lieve e progressiva correzione di direzione. Ma se ne desume anche che il percorso naturale
dell'automobile, se il conducente non avesse voluto portarla proprio sopra il corpo, avrebbe piegato
leggermente verso destra subito dopo lo spigolo della recinzione. Non è credibile, in altre parole,
che una tale leggera necessaria deviazione sarebbe stata ritardata fino a che non fosse stato
raggiunto il punto dove in effetti fu eseguita, e, correlativamente, si deve pensare che se fu operata
proprio nel punto dell'investimento, quando le ruote di sinistra erano venute a trovarsi a meno di
quattro metri dal limite sinistro della strada e a circa nove metri dal destro, ciò fu dovuto alla
volontà di investire. Desta anzi impressione l'inesorabile precisione con cui, nelle fotografie. le
tracce dell'automobile puntano direttamente fin da lontano verso il corpo di Pasolini, ne sormontano
(quelle delle ruote di sinistra) il tronco, e riprendono poi, per effetto di una immediata correzione di
marcia, la giusta direzione. Da tutto quanto precede la corte ricava il duplice convincimento che,
dopo aver colpito Pasolini con insistente reiterazione, Pelosi conservò il dominio di se stesso, e
volle l'investimento con uguale determinazione. La lucidità e freddezza del suo comportamento
sono convalidate dall'atteggiamento che egli tenne subito dopo, quando, invece di fuggire in preda
al panico, si preoccupò di eliminare le tracce della lotta che ancora conservava su di sé e si arrestò
alla fontana, ebbe cura di non esporre troppo in vista la macchina rubata, si lavò accuratamente gli
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indumenti e le mani. Pochi minuti dopo, quando venne avvistato dai Carabinieri, decise
immediatamente di darsi alla fuga guidando con perizia e elevatissima velocità, fu capace di
simulare di arrestarsi per poi ripartire all'improvviso, seppe subito inventare bugie a proposito del
furto dell'auto. La piena consapevolezza delle azioni che aveva compiuto e delle conseguenze di
esse è poi dimostrata dalle dichiarazioni fatte la mattina successiva al suo vicino di cella, al quale
disse che stava in prigione perché aveva ucciso Pier Paolo Pasolini. Ciò fa anzi supporre che, dopo
l'investimento, egli possa essersi arrestato per assicurarsi che Pasolini non desse più segni di vita.
L'azione finale si collegò, dunque, nella sua fredda determinazione, a quella precedente, quando
Pasolini, ormai in balia del suo aggressore, venne colpito ripetutamente, senz'altro scopo che quello
omicida, alla testa e alla nuca. Allo stesso modo Pelosi, salito sull'automobile, non soltanto non si
curò di evitare il corpo di Pasolini giacente a terra, che sapeva bene dove fosse e che altrettanto
bene vedeva alla luce dei fari, ma si diresse decisamente su di esso e non cambiò direzione che
quando l'ebbe schiacciato con le ruote. [...]
Quanto precedentemente esposto sulla mancanza di prova che il delitto di omicidio sia stato da
Pelosi commesso in concorso con altri comporta l'eliminazione della modifica al capo b) della
rubrica, apportata dal Tribunale. P.Q.M. Visto l'art. 523 C.p.p. in parziale riforma della sentenza del Tribunale per i minorenni di Roma in
data 26.4.76, appellata dall'imputato Pelosi Giuseppe e dal Pg,
assolve Pelosi Giuseppe
dal reato di atti osceni a lui ascritti al capo
a) dell'imputazione e conferma le statuizioni della impugnata sentenza relativa ai due reati al Pelosi
ascritti ai capi
b) e
c) dell'originaria imputazione Roma, 4 dicembre 1976 Corte composta da: Ferdinando Zucconi
Galli Fonseca, Presidente; Consiglieri: Almo Fratoni, Giovanni Del Basso, Maria Luisa Lanza,
Marcello Vacchini.
Sentenza della Corte di cassazione 26 aprile 1979
Svolgimento del Processo
Nella notte tra l'I e il 2 novembre 1975 fu ucciso al Lido di Ostia Pier Paolo Pasolini.
Il corpo, rinvenuto al mattino su una strada di fondo naturale conducente a uno spiazzo in parte
occupato da un rudimentale campo di calcio, presentava gravi ferite alla testa e al torace. Sotto di
esso furono rinvenuti frammenti di legno insanguinati; a pochi metri un anello con la scritta 'United
States Army" e una ciocca di capelli; più oltre, verso Io spiazzo, un paletto macchiato di sangue;
infine, a 90 metri dal corpo, dietro la porta di sinistra del campo di calcio, gettati tra i rifiuti, due
pezzi di una tavola rotta e una camicia di lana, macchiati anch'essi di sangue.
Furono rilevate altresì tracce continue di pneumatici di autovettura che, partendo dai pressi della
porta, raggiungevano direttamente il cadavere e proseguivano oltre. Frattanto, all'una e trenta della
stessa notte una pattuglia di Carabinieri aveva fermato un giovane, poi identificato per il
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diciassettenne Giuseppe Pelosi, che, sorpreso mentre guidava a forte velocità e contromano
un'autovettura Alfa 2000, non si era arrestato all'alt. In caserma il giovane ammise di aver rubato
l'auto (che risultò appartenere al Pasolini) e aggiunse tra l'altro di aver smarrito un anello (che dalla
descrizione fattane risultò corrispondere a quello rinvenuto presso il cadavere). Interrogato poche
ore dopo dal magistrato, il Pelosi confessò di aver ucciso il Pasolini, sostenendo di aver agito per
legittima difesa, dopo essere stato aggredito per essersi rifiutato di sottostare a una prestazione
sessuale. Descrisse minutamente le vicende di quella notte, dall'incontro col Pasolini, verso le ore
22, presso la Stazione Termini, all'invito da lui ricevuto (dei quale aveva ben intuito lo scopo), alla
cena offertagli in una trattoria presso la Basilica di San Paolo, alle manovre tentate dal Pasolini
dopo che avevano raggiunto lo spiazzo isolato alla periferia di Ostia, all'aggressione subita mentre
cercava di sottrarvisi, alla sua viva reazione, protratta fino a quando aveva visto l'uomo cadere a
terra rantolante, alla fuga - infine - con l'autovettura del Pasolini, durante la quale non si era accorto
di essere passato sopra il corpo dello scrittore. Precisò che durante i fatti erano stati sempre soli, lui
e il Pasolini. In base agli elementi acquisiti si procedette contro il Pelosi per i delitti di omicidio, atti
osceni e furto aggravato.
Nel corso dell'istruzione furono disposte, tra l'altro, due perizie medico-legali, l'una per accertare le
cause della morte del Pasolini e i mezzi che l'avevano prodotta, l'altra per accertare le lesioni
riportate dal Pelosi. Risultò dalla prima che la morte del Pasolini era stata determinata da rottura del
cuore, con emopericardio, causata dalla compressione esercitata sul torace dal passaggio del
l'autovettura, che aveva cagionato la frattura del corpo sternale e di numerosi elementi costali.
Dalla seconda risultò che, a prescindere dalle numerose dolenzie accusate dal Pelosi, l'esame
obiettivo aveva consentito di riscontrare solo una ferita alla regione frontale e alcune contusioni ed
escoriazioni di limitata entità in varie parti del corpo. Altra perizia fu successivamente disposta per
accertare se il Pelosi fosse capace di intendere e di volere al momento dei fatti. Le conclusioni dei
periti furono negative.
Ampie indagini furono inoltre svolte per accertare se col Pelosi - contrariamente al suo assunto avessero concorso nei fatti altre persone. Con sentenza del 26 aprile 1976 il Tribunale per i
minorenni dichiarò il Pelosi colpevole di omicidio volontario, commesso in concorso con altre
persone rimaste ignote, nonché dei delitti di atti osceni e di furto aggravato, e, con la diminuente
della minore età e le circostanze attenuanti generiche (ritenute per il furto equivalenti alle
aggravanti), lo condannò alla pena complessiva di anni nove, mesi sette e giorni dieci di reclusione
e lire 30.000 di multa. Contro la sentenza del Tribunale proposero appello il Procuratore generale e
l'imputato.
Entrambi denunciarono la nullità della decisione per difetto di correlazione con l'accusa contestata.
Per il Pelosi furono inoltre formulate le seguenti conclusioni: "Assolvere l'appellante dai reati di atti
osceni e di furto con la formula più ampia, ovvero per insufficienza di prove: assolverlo
dall'imputazione di omicidio volontario per legittima difesa oppure per insufficienza di prove sul
fatto o sul dolo; ritenerlo semmai colpevole di omicidio preterintenzionale o colposo e condannarlo
al minimo della pena unificando i reati; riconoscere all'imputato le attenuanti di cui agli artt. 62 n°
1, 2, 5 e 62 bis, tutte prevalenti su qualsiasi aggravante; dichiarare l'imputato non punibile perché
immaturo; ordinare la rinnovazione totale o parziale del dibattimento; concedere tutti i benefici di
legge". Specifiche impugnazioni furono contestualmente proposte contro alcune ordinanze
pronunciate dal Tribunale nel corso del dibattimento.
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La Sezione per i minorenni della Corte d'appello di Roma, con sentenza del 4 dicembre 1976,
assolse il Pelosi dall'imputazione di atti osceni, mentre confermò le statuizioni della sentenza di
primo grado relative agli altri due reati (omicidio e furto) ascritti al Pelosi, secondo "l'originaria
imputazione" (non menzionante il concorso di ignoti). Avverso tale decisione il Pelosi ha
ritualmente proposto ricorso per Cassazione, a sostegno del quale sono stati presentati motivi, nei
termini, dal difensore di fiducia. Motivi della decisione 1. È opportuno premettere che il giudizio di
questa Corte è limitato - nell'ambito delle funzioni di mera legittimità attribuitele - all'esame e alla
soluzione delle questioni ad essa ritualmente sottoposte con i singoli specifici motivi di ricorso
prodotti nell'interesse del Pelosi, unico ricorrente.
Ne restano escluse pertanto le varie e a volte complesse questioni, trattate ampiamente nelle fasi di
merito, che non sono state riproposte in questa sede.
Nell'esposizione che segue saranno dunque esaminate specificarnente le singole doglianze
formulate nei sei motivi di ricorso prodotti, con i quali la decisione impugnata è stata censurata sotto il profilo del vizio di motivazione - in ordine ai punti concernenti:
a) la rinnovazione del dibattimento;
b) la ricostruzione dei fatti;
e) la volontà omicida e l'eesimente della legittima difesa;
d) le circostanze attenuanti; e) la capacità di intendere e di volere;
f) la qualificazione giuridica del furto.
2. Con il primo motivo di ricorso viene testualmente denunciata la "violazione degli artt. 475 e 524
C.p.p. in riferimento all'art. 520 C.p.p., per erronea, contraddittoria e mancante motivazione. Si
sostiene, in particolare, che "la Corte d'appello ha erroneamente ritenuto la inutilità della
rinnovazione del dibattimento, cadendo in contraddizioni e omettendo una adeguata motivazione".
E si segnala - a spiegazione della censura - che la Corte "mentre esclude la possibilità, anzi la
necessità, di integrare l'indagine", si chiede poi, d'ufficio, "se non esista la possibilità di una qualche
utile estensione dell'istruttoria dibattimentale". La doglianza non appare fondata. Non si ravvisano,
invero, sul punto, nella sentenza impugnata, i denunciati vizi di "mancanza" e "contraddittorietà"
della motivazione che ne giustificherebbero l'annullamento. [...]
Ma a tale obbligo la Corte di merito non si è certamente sottratta. Essa ha infatti esaminato
minuziosamente l'istanza di rinnovazione del dibattimento in relazione alle singole specifiche
richieste (acquisizione del libro Le giornate di Sodoma; acquisizione dei fascicoli intestati al
Pasolini eventualmente esistenti presso gli organi di polizia; ripetizione del sopralluogo; nuova
assunzione di testimoni; ecc.), e in relazione a ciascuna ha esaurientemente esposto le ragioni del
mancato accoglimento, chiarendo di volta in volta la ritenuta inutilità, inefficacia o irrilevanza dei
mezzi indicati, la genericità di alcune istanze, il contrasto di altre con la tesi difensiva. Contro la
completa e sistematica enunciazione delle ragioni per le quali la Corte ha ritenuto di non poter
accogliere la richiesta di rinnovazione del dibattimento, nessun argomento critico specifico è stato
addotto dal ricorrente a chiarimento della generica censura di mancanza di motivazione, la cui
infondatezza risulta evidente. Né ha maggior fondamento la censura di contraddittorietà, fondata sul
preteso contrasto tra la reiezione della richiesta della difesa e il quesito postosi d'ufficio dalla Corte
circa l'eventuale "possibilità d'una qualche utile estensione dell'istruttoria dibattimentale", quesito
risolto anch'esso - dopo accurata analisi - negativamente. Invero, col rigettare l'istanza difensiva di
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rinnovazione del dibattimento la Corte ha affermato - e dimostrato - l'inutilità di quegli specifici
mezzi di prova che l'appellante aveva richiesto, mentre attraverso il quesito postosi ex officio ha
inteso accertare se sussistesse la possibilità e l'utilità di altri, diversi, mezzi di prove atti a consentire
un più completo accertamento della verità, soprattutto in relazione a un punto (eventuale
partecipazione di altri soggetti) nettamente contrastato dalla tesi difensiva. Risulta pertanto palese la
piena compatibilità logica tra le due parti della motivazione in argomento.
3. Con il secondo mezzo di ricorso viene denunciata la "violazione degli artt. 475 e 524 C.p.p. per
erronea, contraddittoria e travisata ricostruzione dei fatti". Si lamenta, in particolare, che la Corte di
merito abbia "con una... valutazione apodittica... ricostruito gli avvenimenti di quella malaugurata
notte", attribuendo ingiustificato rilievo alle discrepanze esistenti tra le varie dichiarazioni del
Pelosi (discrepanze ritenute tali da inficiarne la piena credibilità), e si censurano specificamente le
affermazioni inerenti agli effetti dei calci sferrati ai testicoli della vittima (calci che la Corte avrebbe
confuso, secondo il ricorrente - con travisamento di fatto - con quelli dati in faccia). La doglianza
non può essere accolta. L'accertamento dei fatti, attraverso la valutazione delle risultanze
processuali, è compito esclusivo del giudice di merito. Il relativo giudizio non è sindacabile in sede
di legittimità, salvo il caso in cui si dimostri che esso è stato fondato su elementi inefficaci o
manifestamente esclusi dalle risultanze processuali, ovvero su argomentazioni affette da vizi logici.
Tale condizione non ricorre nella fattispecie. Il ricorrente ha formulato solo i due specifici rilievi
surriferiti in ordine alla valutazione delle risultanze e all'accertamento di fatto conseguente:
entrambi privi di fondamento. Risulta infatti dalla motivazione della sentenza impugnata che la
Corte non ha disatteso alcune affermazioni del Pelosi soltanto per le rilevate discrepanze bensì per
averne accertato - dopo un approfondito esame di ogni elemento acquisito - l'insanabile contrasto
con sicure risultanze obiettive, specificamente indicate. E per quanto concerne il riferimento critico
all'affermazione contenuta in sentenza circa l'effetto immediatamente debilitante dei violenti calci ai
testicoli, va osservato che la Corte ha dato congrua giustificazione di quanto asserito, anche con
riferimento alle risultanze autoptiche e alle precisazioni dei periti.
Né sussiste il preteso travisamento di fatto derivato, secondo il ricorrente, da un equivoco in cui
sarebbe incorsa la Corte confondendo i calci nei testicoli con quelli in faccia, giacché dalla stessa
dichiarazione del Pelosi, richiamata nella doglianza, chiaramente risulta la successione dei due
distinti atti di violenza, nel detto ordine.
Ma, a parte tali secondari e infondati rilievi, il ricorrente non ha addotto contro la ricostruzione dei
fatti operata dalla Corte di merito alcuna specifica e motivata censura. Nel motivo in esame, come
anche - incidentalmente - nel successivo, si fa riferimento in proposito a una valutazione
"apodittica" e ad "affermazioni arbitrarie"... che travisano la verità dei fatti", ma tali generiche
doglianze non sono poste in relazione con singoli punti della decisione impugnata, né viene addotto
alcun argomento per dimostrare la fondatezza dell'assunto, né indicato da quali risultanze
processuali i pretesi travisamenti debbano desumersi. Si tratta dunque di censure prive della
necessaria specificità, non idonee a consentire un controllo di legittimità, nei sensi suindicati. 4.
Con il terzo motivo di ricorso viene denunciata la "violazione degli artt. 475 e 524 C.p.p." per avere
la Corte "ritenuto di natura dolosa l'azione dell'imputato e ritenuta l'assenza di cause di
giustificazione". Si critica in particolare che la Corte di merito abbia illogicamente tratto il proprio
convincimento su tali punti essenziali da elementi (quali "i calci ai testicoli", "la camicia intrisa di
sangue", "la conoscenza che il Pelosi aveva delle tendenze omosessuali del Pasolini", "la
circostanza che... non rifiutò le prestazioni... , i dubbi sulla colluttazione"), che sarebbero altresì
frutto di erronee valutazioni. La doglianza, che concerne due affermazioni fondamentali della
decisione di merito, vivamente contrastate dalla difesa, si riallaccia per un verso alla critica della
"ricostruzione dei fatti" formulata nel precedente motivo di ricorso, mentre per altro verso può
considerarsi denuncia di vizi logici nelle deduzioni e conclusioni tratte dagli elementi acquisiti.
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Sotto il primo profilo si è già dimostrata la inaccoglibilità della censura. Resta dunque a questa
Corte da controllare - sulla base dell'insindacabile accertamento dei fatti operato dalla Corte di
merito - se sussistano vizi logici, nelle deduzioni tratte dalle circostanze accertate e nelle
conclusioni derivatene, tali da giustificare la denuncia di mancanza e contraddittorietà di
motivazione sui punti indicati, posta a base della richiesta di annullamento.
Dall'attento esame dell'ampia ed esauriente motivazione svolta sull'argomento nella sentenza
impugnata non può non dedursi che la censura è priva di fondamento. È opportuno ricordare, ai fini
della valutazione della adeguatezza e coerenza logica del ragionamento seguito dalla Corte, che
questa aveva stabilito in fatto:
a) che il Pelosi era pienamente consapevole, accompagnandosi quella notte fuori città col Pasolini e
accettando da lui la cena e la promessa di un compenso in denaro, della natura delle prestazioni che
in cambio gli sarebbero state richieste;
b) che deve escludersi che il Pasolini abbia posto in essere un tentativo di violenta sottoposizione
del giovane ai suoi desideri;
c) che nella colluttazione il Pasolini (il quale riportò lesioni sproporzionatamente più gravi) cercò
sostanzialmente di difendersi da un attacco, senza avere intenzione o possibilità di recare grave
offesa, finché non fu raggiunto da colpi (calci nei testicoli) che gli tolsero ogni capacità di reazione.
d) che successivamente, caduto in ginocchio, fu ancora colpito alla testa e alla nuca, finché cadde
esanime, come riferito dal Pelosi ("... L'ho colpito di taglio più volte finché non l'ho sentito cadere a
terra e rantolare");
e) che in seguito il Pelosi, dopo aver gettato lontano, tra i rifiuti, la camicia e le tavolette
insanguinate, si impossessò dell'auto del Pasolini, che diresse a fari accesi, senza deviazioni, sul
corpo inerte, schiacciandolo con le ruote di sinistra e volgendo poi a destra per allontanarsi. Sulla
base di tali accertamenti la Corte di merito ha ritenuto provata sia la sussistenza della volontà
omicida, sia l'insussistenza della causa di giustificazione. La sussistenza dell'animus necandi è stata
dimostrata dalla Corte con riferimento a due momenti distinti: quello della fase finale della
colluttazione (nella quale il Pelosi, quando ormai il Pasolini era accasciato, prono, nell'impossibilità
non solo di offendere, ma anche di difendersi, infierì - come egli stesso ha ammesso - colpendolo
ripetutamente, di taglio, in parti vitali - nuca, collo - e desistette solamente quando lo sentì cadere a
terra e rantolare), e quello successivo e determinante del passaggio con I'autovettura sul corpo inerte
(passaggio la cui asserita accidentalità è stata esclusa dalla Corte con argomenti ineccepibili, in base
a una scrupolosa valutazione delle risultanze obiettive, denotanti la rettilinea conduzione del mezzo
- nonostante l'ampio spazio esistente a destra verso il corpo della vittima - sicuramente visibile alla
luce dei fari e in posizione nota al conducente - e la successiva sterzata a destra subito dopo il
sormontamento.
Ha argomentato la Corte che il comportamento del Pelosi nel primo dei due momenti considerati anche se non giunse a cagionare direttamente la morte (che, secondo i periti, fu causata dallo
schiacciamento del torace con le ruote del l'autovettura) - è certamente dimostrativo della volontà di
uccidere, non potendosi attribuire altro significato al suo infierire sulla vittima accasciata finché non
la sentì rantolare, cioè finché non ebbe la convinzione della sicura fine.
Ed ha aggiunto che tale comportamento "riveste grande importanza anche al fine di intendere il
successivo", allorché il Pelosi, dopo aver gettato tra i rifiuti la camicia e le tavolette insanguinate,
avviò l'autovettura, accendendo le luci, e senza sbandamenti la diresse sul corpo inerte (che
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facilmente avrebbe potuto evitare tenendo la propria mano), per riprendere, subito dopo averlo
sormontato, con una immediata correzione di marcia, la giusta direzione. Dai due successivi univoci
comportamenti, unitariamente considerati, ha tratto la Corte il sicuro convincimento che il Pelosi,
nel colpire accanitamente il Pasolini fino a sentirne il rantolo e nello schiacciarne il corpo con
l'autovettura, non poté che essere animato da volontà omicida, attesa l'inequivoca efficacia dei
mezzi usati e la persistenza e rinnovazione dell'azione lesiva, condotta fino all'eliminazione di ogni
possibile dubbio di sopravvivenza della vittima.
E una significativa conferma della piena consapevolezza del delitto da parte del Pelosi la Corte ha
ritenuto di dover trarre dalla circostanza che il giovane, accompagnato dopo il suo arresto per il
furto dell'autovettura nel carcere minorile di Casal di Marmo, confidò poche ore dopo a un
compagno quando ancora nulla gli era stato contestato in ordine alla morte dello scrittore e nulla
sapeva del rinvenimento del cadavere e delle indagini appena iniziate - di avere "ammazzato un
uomo, e precisamente Pasolini", aggiungendo - come egli stesso ha ammesso "tanto fra poco lo
vengono a sapere; mica son deficienti, quelli!". Il ragionamento seguito dalla Corte di merito, nei
termini sopra riassunti, è limpido e coerente, immune da lacune e da vizi logici, in armonia con i
criteri accolti dalla giurisprudenza per la determinazione dell'animus necandi. Esso costituisce
congrua giustificazione del convincimento espresso sul punto e adeguata risposta alle osservazioni
formulate dalla difesa in sede di appello: non merita pertanto le censure, per altro superficiali e
sostanzialmente generiche, contenute nel motivo di ricorso. 5. Altrettanto esaurienti e corrette sotto
il profilo logico appaiono le considerazioni svolte nella sentenza impugnata in ordine all'esclusione
dell'esimente della legittima difesa. Perché si configuri tale causa di giustificazione occorre - com'è
noto - che il soggetto abbia commesso il fatto preveduto dalla legge come reato perché costrettovi non avendo altra scelta da un'effettiva (o ragionevolmente supposta) necessità di difesa dal pericolo
attuale di un'offesa ingiusta. E occorre altresì che sussista un rapporto di proporzione tra l'offesa e la
difesa.
La Corte di merito ha espresso il convincimento che nella fattispecie non solo manchi la prova degli
elementi richiesti per la configurabilità dell'esimente, ma siano emerse risultanze atte a escluderla.
Al riguardo essa ha tra l'altro posto in rilievo che il Pelosi, il quale aveva accettato per denaro di
sottoporsi a pratiche omosessuali, avrebbe certamente potuto eludere, senza difficoltà e senzi gravi
conseguenze, l'eventuale richiesta, certamente non violenta, di prestazioni meno gradite. Ha poi
osservato che nel litigio successivamente insorto - anche se per iniziativa dell'insoddisfatto Pasolini
- il comportamento di quest'ultimo, come è apparso evidente dalle risultanze obiettive, non costituì
mai un pericolo per il giovane, tale da richiedere una così violenta e protratta azione difensiva.
E ha posto in evidenza che, essendosi l'episodio svolto in più fasi, "la volontà offensiva con cui
vennero inferti i colpi decisivi rimase in ogni caso del tutto svincolata da qualsiasi, anche solo
supposta, necessità di difesa". Infine, a ulteriore conferma dell'insussistenza di una situazione di
giustificata difesa, la Corte ha segnalato la palese incompatibilità dei comportamento del Pelosi
(sosta alla fontana per eliminare le macchie di sangue, risposte date ai Carabinieri) con lo stato
d'animo di chi fosse stato poco prima costretto a difendersi da una grave violenza. Le
argomentazioni svolte in sentenza, con piena aderenza alle risultanze processuali e alla
ricostruzione dei fatti, non presentano lacune né vizi logico-giuridici: la censura di "insufficiente e
contraddittoria motivazione", sul punto è dunque infondata. 6 Con il quarto motivo di ricorso viene
denunciata la "violazione degli artt. 475 e 524 C.p.p. per carenza di motivazione sia circa la
richiesta di qualificare il fatto come omicidio preterintenzionale o colposo, sia circa la richiesta di
concedere le attenuanti di cui all'art. 62 n° 1, 2, 5 e 62 bis prevalenti su qualsiasi aggravante". La
doglianza, che non contiene alcun'altra specificazione, è infondata in ogni sua parte. Per quanto
concerne il riferimento critico alla mancata qualificazione del fatto come omicidio
preterintenzionale o colposo, la doglianza si risolve in una parziale immotivata ripetizione della
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precedente censura con la quale si era criticata la qualificazione del fatto stesso come omicidio
doloso. Le ragioni addotte al riguardo costituiscono pertanto una valida risposta alla censura in
esame
In ordine alla mancata applicazione della circostanza attenuante dei motivi di particolare valore
morale e sociale - a prescindere dalla evidente non configurabilità a favore del Pelosi della
intenzione di eliminare una situazione di fatto ritenuta immorale (che costituisce il richiesto
elemento soggettivo dell'attenuante), atteso che egli stesso di tale situazione immorale era
ampiamente e volontariamente partecipe - e in senso più spregevole, perché mosso da intento di
lucro - correttamente la Corte ha rilevato che "la dimostrata scissione tra la prima fase della vicenda
e la finale azione omicida rende chiara l'inesistenza dell'attenuante".
Per quanto riguarda la circostanza di cui all'art. 62 n° 2 C.p. la Corte d'appello ha osservato che non
può invocare la provocazione chi, in relazione al fatto commesso, si sia posto in una condizione di
immoralità, perché l'ordinamento non può tutelare situazioni giuridicamente o moralmente illecite.
E ha rilevato altresì che ai fini della configurabilità dell'attenuante deve necessariamente esistere un
nesso di causalità tra il fatto ingiusto del soggetto passivo e la reazione dell'agente, il che postula un
rapporto di proporzione, o almeno di non grave sproporzione, tra il primo e la seconda. Sulla base di
tali considerazioni di diritto, sostanzialmente conformi al costante orientamento giurisprudenziale,
la Corte di merito ha osservato che, accertata in fatto la conoscenza, da parte del Pelosi, delle
tendenze omosessuali attive del suo accompagnatore, e la libera accettazione, per un compenso in
denaro, di intrattenere con lui rapporti innaturali, non può configurarsi come fatto provocatorio - ai
fini dell'attenuante in esame - la richiesta di una prestazione risultata in pratica non gradita; né il
fatto ingiusto può ravvisarsi nelle modalità della richiesta, non essendo risultato - neppure dal
racconto dell'imputato - che la libertà sessuale e l'integrità di quest'ultimo siano state seriamente
messe in pericolo dal Pasolini, che non aveva alcuna logica ragione per farlo, anche se contrariato
da un inatteso rifiuto.
A ciò ha aggiunto la Corte il rilievo - decisivo, ad avviso di questo Collegio, per l'esclusione
dell'attenuante - che, secondo lo stesso racconto del Pelosi, "gli ultimi e più violenti colpi furono
inferti al Pasolini quando questi, prono a terra, incapace di qualsiasi reazione, era ormai un
bersaglio immobile e innocuo in balia della furia scatenata del suo antagonista; ed è indubbio che la
determinazione omicida dimostrata dal Pelosi nella fase finale della lotta - e ribadita dal successivo
volontario sormontamento del corpo esanime della vittima - non può, per la macroscopica
sproporzione con il presunto fatto provocante, essere ritenuta in rapporto di causalità con lo stesso".
Per quanto concerne poi l'attenuante di cui all'art. 62 n° 5, la Corte di merito ha esattamente
osservato in diritto che "per l'integrazione dell'attenuante in esame è necessaria la presenza di due
elementi, l'uno materiale, e cioè l'inserimento dell'azione della persona offesa nella serie delle cause
determinatrici dell'evento, l'altro psichico, consistente nella volontà di concorrere nella produzione
dell'evento medesimo": elementi palesemente non ravvisabili, nella fattispecie, nella condotta del
Pasolini, la quale - in estrema ipotesi - avrebbe costituito soltanto il movente del reato. In ordine,
pertanto, a tutte e tre le invocate circostanze attenuanti di cui all'art. 62 C.p., la Corte di merito ha
giustificato il proprio diniego con argomentazioni congrue e giuridicamente corrette, che non
meritano, sotto alcun profilo, la censura, per altro generica, formulata dal ricorrente. Per quanto
riguarda le circostanze attenuanti di cui all'art. 62 bis C.p., alle quali anche si riferisce la doglianza
in esame, va rilevato che esse erano state già concesse dal Tribunale nel giudizio dii grado.
Il riferimento ad esse, da parte del ricorrente, trova ragione, presumibilmente, nel diniego in sede di
giudizio di comparazione ex art. 69 C.p. - di una prevalenza delle attenuanti medesime sulle
aggravanti contestate per il delitto di furto: diniego giustificato per altro dalla Corte con valide
ragioni (obiettiva gravità del fatto: specifica pericolosità del soggetto, già altre volte arrestato per
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reati del genere), non confutate dal ricorrente. 7. Con il quinto motivo di ricorso viene denunciata la
"violazione degli artt. 475 e 524 C.p.p. per erronea, contraddittoria motivazione in relazione all'art.
85 e all'art. 98 C.p.".
Si sostiene in proposito che "la valutazione dell'imputabilità del Pelosi effettuata in sentenza e errata
per due ordini di motivi": il primo dei quali "verte sull'uso che della documentazione psichiatrica e
psicologica ha fatto la Corte d'appello" (che ne avrebbe disatteso le conclusioni attraverso
un'indagine "incompleta"), mentre il secondo riguarda "l'interpretazione dottrinale e
giurisprudenziale dell'immaturità seguita dalla Corte" (giudicata dal ricorrente "infondata in diritto,
errata in dottrina e totalmente inaccettabile in fatto"). La doglianza è priva di fondamento in
relazione ad entrambi i profili indicati. Procedendo per ordine logico, va rilevato anzitutto che
l'interpretazione dell'art. 98 C.p. seguita dalla Corte di merito non merita censura. Dispone detta
norma che "è imputabile chi nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto i 14 anni ma
non ancora i 18, se aveva capacità di intendere e di volere, ma la pena è diminuita". Ai fini penali come questa Corte ha più volte precisato - deve intendersi come capacità di intendere e di volere
l'attitudine del soggetto a rappresentarsi l'evento verso il quale la sua azione è diretta, a discernere e
valutarne gli effetti, ad autodeterminarsi nella scelta tra i motivi che esercitano influenza sulla sua
coscienza, e quindi anche a inibirsi, frenando l'impulso all'azione: Tale generale nozione è valida
anch per i minori tra i 14 e i 18 anni, nei cui confronti, per altro, la sussistenza della capacità - anche
nella provata assenza di infermità influente sullo stato di mente - non può mai essere presunta [...] e
deve in ogni caso essere accertata dal giudice, che deve a tal fine considerare il grado di sviluppo
intellettivo e di formazione del carattere, la capacità di intendere l'importanza di certi valori etici e il
dominio su di sé che il soggetto abbia acquisito, l'attitudine a distinguere il bene dal male, il lecito
dall'illecito, e a determinare Iiberamente la propria condotta per motivi consci [...]: l'evoluzione
richiesta non deve per altro confondersi con una completa maturità (che si realizza di norma assai
più tardi), bensì con quel grado di maturità nel campo intellettivo, etico e volitivo sufficiente a
rendere il minore consapevole del disvalore sociale dell'atto e capace di determinare in relazione a
esso la sua condotta. [...]
8. Con il sesto motivo di ricorso viene denunciata la "violazione degli artt. 475 e 524 C.p.p. in
relazione alla violazione degli artt. 624, 625 n° 761 n° 2 e 5 e artt. 626 C.p., per erronea,
contraddittoria motivazione e applicazione della legge". Si censura in particolare che la Corte abbia
ritenuto "sussistere il delitto di furto pluriaggravato, laddove trattavasi tutto al più di furto d'uso non
punibile per carenza di querela". La censura - redatta nei riportati succinti termini - è priva di
giuridico fondamento. [...]
9. Per le considerazioni che precedono il ricorso del Pelosi deve essere rigettato, con la conseguente
condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di una somma alla
Cassa delle ammende: somma che questa Corte, tenuto conto delle risultanze, determina in lire
centomila [...] Corte composta da: Elio Siotto, Presidente; Consiglieri: Franz Sesti, Leopoldo
Moleti, Francesca Pintus, Renato DeTullio.
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