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11. DELOCALIZZAZIONE E OCCUPAZIONE: IL CASO DELLA FRANCIA 11.1 Introduzione In Francia, il tema della delocalizzazione e dei suoi effetti sull’economia nazionale è stato al centro negli ultimi anni di un vivace e intenso dibattito politico ed economico, che ha visto coinvolti esponenti politici, attori istituzionali ed esperti della materia e che ha prodotto numerose analisi del fenomeno nei suoi diversi aspetti. Già all’inizio degli anni novanta, in concomitanza con la fase di recessione e con l’arrivo delle prime richieste di adesione all’Unione europea da parte dei paesi dell’Europa dell’Est1, un rapporto del Senato francese2 sottolineava i rischi per la tenuta dell’industria francese rappresentati dall’apertura alla concorrenza delle vicine economie dell’Est europeo caratterizzate da una manodopera qualificata ma con costi del lavoro inferiori, prevedendo per gli anni successivi un’ondata crescente di delocalizzazioni e ponendo il problema del suo impatto sull’occupazione nazionale. A dieci anni di distanza l’argomento è tornato di grande attualità, alla luce dell’effettivo allargamento dell’Unione europea ai dieci nuovi paesi dell’Europa dell’Est e dell’irruzione nella competizione internazionale delle nuove economie asiatiche, il tutto in un contesto di bassa crescita economica (tra il 2001 e il 2003 l’economia francese è cresciuta ad un tasso medio annuo dell’1% rispetto al 3,6% del periodo 1998-2000) e di ripresa della disoccupazione. In particolare, l’analisi del fenomeno della delocalizzazione produttiva si inquadra nel tema più ampio della deindustrializzazione – ovvero della riduzione progressiva del peso relativo dell’occupazione industriale – di cui, secondo alcuni3, la delocalizzazione sarebbe una delle cause. 11.2 Il concetto e la misurazione della delocalizzazione e la sua rilevanza per l’industria francese L’analisi dell’entità e degli effetti della delocalizzazione presuppone da un lato una definizione chiara e univoca del fenomeno, dall’altro l’esistenza di fonti di informazione adeguate per misurarne l’ampiezza. Il primo dato che emerge con chiarezza dalle numerose analisi elaborate in Francia in tema di delocalizzazione4 è che si è ancora molto lontani dall’aver soddisfatto entrambi questi requisiti. 1 Nel dicembre 1991, la Comunità europea ha siglato un accordo con Cecoslovacchia, Polonia e Ungheria allo scopo di rinforzare i propri legami tradizionali e instaurare relazioni stabili in vista di una futura partecipazione al processo di integrazione europea. A soli due anni di distanza, la Polonia e l’Ungheria hanno depositato la domanda di adesione all’Unione europea. Cfr. Rouam C. (1995). 2 Cfr. Sénat (1993). 3 Cfr. ad esempio il dibattito contenuto in Fontagné L. - Lorenzi J.H. (2005). 4 Si veda in particolare Aubert P. - Sillard P. (2005), Biscourp P. - Kramarz F. (2003), Daudin G. - Lavasseur S. (2005), Drumetz F. (2004), Fontagné L. - Lorenzi J.H. (2005), Grignon F. (2004), Maurin É. et al. (2003), Mucchielli J.L. - Puch F. (2003). 175 Per quanto riguarda il primo aspetto, diversi concetti di delocalizzazione tendono a coesistere nel dibattito attuale. Nella sua accezione più ristretta si può parlare di delocalizzazione solo nel caso di «trasferimento della capacità produttiva da un sito nazionale a un sito straniero con l’intento di importare, per il soddisfacimento dei consumi nazionali, i beni e i servizi precedentemente prodotti localmente»5. In tal caso il fenomeno verrebbe circoscritto alle sole ipotesi di spostamento in blocco di un’attività produttiva nazionale in territorio estero, senza che venga modificata la destinazione dei beni prodotti verso il mercato domestico. All’estremo opposto, alcuni studi6 qualificano come delocalizzazione «qualunque importazione di beni e servizi a cui corrisponde un sostituto a livello nazionale»7, a prescindere dall’effettiva riduzione dell’attività produttiva nazionale, nell’assunto che tali beni e servizi avrebbero comunque potuto essere prodotti nel paese d’origine. La definizione più frequente8 si colloca invece in posizione intermedia rispetto alle prime due. Secondo tale approccio, i fenomeni di delocalizzazione includerebbero da un lato il trasferimento – attraverso un investimento diretto estero – solo di una parte del processo produttivo svolto a livello nazionale (divisione verticale del lavoro), dall’altro il ricorso a contratti di sub-fornitura affidati a una impresa straniera indipendente – in assenza quindi di investimenti diretti – per la produzione di beni precedentemente prodotti internamente e ora importati dall’estero. Trattandosi di un fenomeno dai contorni motto sfaccettati, vi è difficoltà a pervenire a una sua esatta misurazione, che diventa tanto più complessa quanto più circoscritto è il concetto preso in considerazione. Se infatti la delocalizzazione nella sua accezione più ampia può essere misurata dal semplice andamento macroeconomico delle importazioni dai paesi emergenti (nell’idea che le perdite occupazionali imputabili alla delocalizzazione corrispondano al numero di occupati che sarebbe necessario utilizzare per realizzare sul territorio nazionale i prodotti importati dall’estero), la quantificazione del fenomeno secondo le definizioni più ristrette richiederebbe la disponibilità di dati provenienti da indagini ad hoc a livello di impresa. Nel caso francese, ma non solo, non esistono però fonti statistiche dirette e specifiche per la rilevazione dei processi di delocalizzazione. Le uniche informazioni di questo tipo hanno carattere sostanzialmente aneddotico e assolutamente non rappresentativo dal punto di vista statistico. È il caso, ad esempio, dei dati raccolti a livello europeo dallo European Monitoring Center on Change di Dublino sulle ristrutturazioni industriali all’interno delle quali si distinguono specificamente i casi di delocalizzazione e sub-fornitura internazionale. Secondo tale fonte (che raccoglie le informazioni essenzialmente dalla stampa), le ipotesi di delocalizzazione rappresenterebbero circa il 7% dei casi di ristrutturazione registrati negli ultimi tre anni e circa il 5% dell’occupazione soppressa (tab. 11.1). Per ovviare alla mancanza di una fonte statistica diretta e affidabile sulle scelte di delocalizzazione delle imprese francesi, si è fatto spesso ricorso a una serie di indicatori indiretti che, pur rispondendo ad altri fini, possono fornire un’idea, ancorché approssimativa, dell’andamento del fenomeno. Uno degli indicatori più utilizzati a tale scopo è l’evoluzione degli investimenti diretti esteri in uscita, ossia i flussi di capitale relativi sia alle partecipazioni delle im5 Cfr. Grignon F. (2004), pag. 14. È il caso, ad esempio, nel rapporto del Senato francese del 1993 già citato. 7 Cfr. Drumetz F. (2004), pag. 28. 8 Cfr. ad esempio Drumetz F. (2004) e Grignon F. (2004). 6 176 Tab. 11.1 – I casi di ristrutturazione aziendale in Francia per tipo di operazionea) Casi registrati Ristrutturazione interna Fallimento/chiusura Espansione attività Delocalizzazione Fusioni/acquisizioni Altro Totale Perdite occupazionali Val. ass. % Val. ass. % 207 117 34 28 21 9 416 49,8 28,1 8,2 6,7 5,0 2,2 100,0 100.990 33.348 0 8.108 9.323 1.579 153.348 65,9 21,7 0,0 5,3 6,1 1,0 100,0 a) Casi registrati fra l’1 gennaio 2002 e il 15 giugno 2005. Fonte: European Monitoring Center on Change. prese nazionali al capitale di imprese estere9, sia agli scambi finanziari fra strutture dello stesso gruppo dal paese preso in considerazione sia, infine, agli investimenti cosiddetti greenfield. L’idea sottostante è che ogni volta che una nuova unità produttiva viene insediata all’estero si registra un flusso di capitali in direzione del luogo prescelto. Secondo tale approccio, adatto ad analisi sia di tipo microeconomico che macroeconomico, la delocalizzazione delle imprese francesi sarebbe ancora un fenomeno molto limitato. Oltre l’80% degli investimenti diretti esteri risulta infatti localizzato nei paesi industrializzati (di cui il 57% nell’Ue-15 e il 21% negli Stati Uniti), a fronte del 2% dei paesi dell’Europa centro-orientale, dello 0,9% del Brasile, dello 0,4% della Cina e dello 0,1% dell’India (tab. 11.2). Tuttavia, l’utilizzo degli investimenti diretti all’estero come indicatore del fenomeno delocalizzativo soffre di almeno tre grandi limiti. Innanzitutto, non tutti gli investimenti diretti all’estero rappresentano effettivamente una scelta di delocalizzazione, potendo invece corrispondere a una strategia di conquista di un nuovo mercato (investimento di tipo orizzontale) senza riflessi sulla produzione nazionale oppure al raggiungimento di un mero interesse finanziario attraverso operazioni di fusione-acquisizione. In tutti questi casi l’esame dell’andamento degli investimenti diretti esteri porta in generale a una sovrastima dei casi effettivi di delocalizzazione (secondo le stime effettuate dalle missioni economiche promosse della Direzione francese per le relazioni economiche internazionali nei paesi dell’Europa centro-orientale, nel 2002 i casi di delocalizzazione rappresentavano non più del 10% degli investimenti diretti francesi all’estero10). In secondo luogo, la scelta di misurare l’ampiezza delle delocalizzazioni attraverso gli investimenti diretti esteri porta a trascurare tutte le operazioni di sub-fornitura internazionale che, come si è già avuto modo di osservare, rientrano nella definizione di delocalizzazione ma non comportano un trasferimento di capitali da un paese all’altro. Un approccio alternativo11 consiste nell’analizzare, sulla base dei dati doganali, l’andamento delle importazioni di beni manifatturieri effettuate diretta9 Secondo le regole stabilite dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi, 1993), la partecipazione deve riguardare almeno il 10% del capitale. 10 Per la Germania, Marin D. (2004) stima per la stessa area geografica di destinazione degli investimenti una percentuale pari a circa il 20%. 11 Cfr. de Gimel (2005). 177 Tab. 11.2 – Destinazione geografica degli investimenti diretti esteri francesi (Valori assoluti in milioni di euro e distribuzione % - 31 dicembre 2003) Paese Ue-15 Ide in uscita Milioni di euro Quota % 327,2 57,4 236,0 41,4 84,5 14,8 122,6 21,5 di cui: Zona euro Regno Unito Stati Uniti Paesi europei non Ue a) 26,0 4,6 Canada 23,5 4,1 Giappone 11,2 2,0 Europa centro-orientale b) 11,6 2,0 Brasile 4,9 0,9 Singapore 3,4 0,6 Australia 3,3 0,6 Marocco 2,4 0,4 Cina 2,2 0,4 Argentina 1,7 0,3 Messico 1,7 0,3 Hong-Kong 1,5 0,3 Turchia 1,3 0,2 Venezuela 1,1 0,2 Corea del sud 1,0 0,2 Thailandia 0,9 0,2 India 0,6 0,1 Altri Totale 22,0 3,9 570,2 100,0 a) Norvegia e Svizzera. Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Russia, Slovacchia e Ungheria. Fonte: Banca di Francia. b) mente dalle imprese industriali con riferimento ai soli paesi emergenti12. Per come sono costruiti, questi dati includono sia le relazioni tra filiali di uno stesso gruppo, sia i rapporti di sub-fornitura internazionale. Con riferimento alle imprese industriali con almeno 20 dipendenti i dati evidenziano (tab. 11.3) una crescita molto rapida delle importazioni di beni manifatturieri dai paesi a basso costo della manodopera13 fra il 1993 e il 2003, con una dinamica particolarmente pronunciata fino al 2000 e in ogni caso superiore alla crescita registrata nelle importazioni totali. Le importazioni provenienti dai paesi emergenti sono cresciute nel decennio preso in considerazione a un tasso medio an12 Le relazioni con i paesi altamente sviluppati vengono trascurate sulla base dell’assunto che esse rispondano a logiche di mercato diverse dalla delocalizzazione. 13 In particolare, i paesi emergenti presi in considerazione sono le economie dell’Europa centro-orientale (Peco) che sono entrate a far parte dallo scorso anno dell’Unione europea, l’America centro-meridionale, l’Asia al netto del Giappone, il Maghreb e la zona subsahariana e i paesi del Medio Oriente. 178 nuo del 12% (l’analogo incremento per le importazioni totali è stato del 6,1%) e il loro peso sul totale delle importazioni è passato dal 9,4% al 16,2%. Nel 2003 le aree geografiche maggiormente coinvolte (tab. 11.4) risultavano essere l’Asia al netto del Giappone (6,6%, di cui poco meno della metà riguarda la Cina), i paesi dell’Europa centro-orientale (4,8%) e il Maghreb (2,2%). In termini dinamici, la crescita più forte fra il 1993 e il 2003 è avvenuta nelle economie emergenti dell’Europa centro-orientale, la cui quota di importazioni di beni manifatturieri è passata in dieci anni dall’1,3% al 4,8%. Per quanto riguarda le economie asiatiche, la fase di maggiore accelerazione delle importazioni è avvenuta nella seconda metà degli anni novanta: fra il 1993 e il 2000 il peso delle importazioni da questa area geografica è passata rispettivamente dal 4,3 al 7,9% per poi stabilizzarsi al 6,6% nel 2003 (tab. 11.4); al suo interno, circa la metà dell’incremento registrato va attribuito all’economia cinese. Questo rallentamento nella quota di importazioni dai paesi asiatici non trova però conferma se si allarga il campo d’investigazione a tut- Tab. 11.3 – Struttura delle importazioni di beni manifatturieri da parte delle imprese industriali francesi (Milioni di euro e quote %; imprese con almeno 20 dipendenti) 1993 Importazione totale beni manifatturieri da parte delle imprese industriali di cui (in %): Provenienti dai paesi emergenti Provenienti dal resto del mondo 1999 2000 2001 2002 2003a) 64.472 101.609 124.048 118.275 113.881 116.550 9,4 90,6 14,2 85,8 15,7 84,3 15,6 84,4 15,8 84,2 16,2 83,8 a) Stime Sessi. Fonte: elaborazioni su dati Fontagné L. - Lorenzi J.H. (2005), pag. 168. Tab. 11.4 – Distribuzione geografica delle importazioni di beni manifatturieri da parte delle imprese industriali francesi (Milioni di euro e quote %; imprese con almeno 20 dipendenti) 1993 Importazione totale beni manifatturieri da parte delle imprese industriali di cui: Asia (escl. Giappone) di cui: Cina Peco America Latina Africa subsahariana Maghreb Medio Oriente Provenienti dal resto del mondo 1999 2000 2001 2002 2003a) 64.472 101.609 124.048 118.275 113.881 116.549 4,3 1,0 1,3 1,2 0,8 1,6 0,3 90,6 7,1 2,4 2,9 1,2 0,6 2,0 0,3 85,8 7,9 2,8 3,5 1,5 0,7 1,8 0,4 84,3 6,9 2,6 3,8 1,6 0,8 2,1 0,3 84,4 6,6 2,6 4,5 1,5 0,8 2,2 0,3 84,2 6,6 3,0 4,8 1,5 0,7 2,2 0,3 83,8 * Stime Sessi. Fonte: Fontagné L. - Lorenzi J.H. (2005), pag. 170. 179 te le imprese, industriali e non, per le quali si osserva una nuova accelerazione nel corso del 2003 imputabile principalmente alla Cina a cui non fa riscontro un analogo andamento nei paesi dell’Europa centro-orientale. Ciò significa che per quanto riguarda l’area asiatica l’aumento più recente delle importazioni ha obbedito non tanto a logiche di delocalizzazione quanto piuttosto a strategie commerciali di conquista dei nuovi mercati (fig. 11.1). Fig. 11.1 – Importazioni francesi di beni manifatturieri dall’Asia e dall’Europa centro-orientale: imprese industriali vs. tutte le impresea) (In % totale importazioni) 12,0 Asia (escl. Giappone): solo imprese industriali 10,0 Asia (escl. Giappone): imprese industriali e non 8,0 6,0 Peco: solo imprese industriali 4,0 2,0 Peco: imprese industriali e non 0,0 1993 1999 2000 2001 2002 2003* a) Stime Sessi. Fonte: elaborazioni su dati Fontagné L. - Lorenzi J.H. (2005). Fig. 11.2 – Settori di attività coinvolti dalle importazioni francesi di beni manufatti dai paesi emergenti (In % importazioni industriali del settore; imprese industriali con almeno 20 addetti) 60,0 50,0 1993 2002 40,0 30,0 20,0 10,0 Fonte: elaborazioni su dati Fontagné L. - Lorenzi J.H. (2005). 180 Totale Componenti elettrici Metallurgia Chimica- plastica Legno-carta Tessile Minerali Apparecchi elettrici ed elettronici Apparecchi meccanici Industria aeronautica e navale Automobili Apparecchi domestici Farmacia-profumeria Stampa-editoria Abbigliamento-calzature 0,0 Tornando a focalizzare l’attenzione sulle sole imprese industriali, i settori maggiormente coinvolti nelle importazioni dai paesi a basso costo della manodopera sono (fig. 11.2) l’abbigliamento-calzature (56,5% delle importazioni complessive del settore), la produzione di apparecchi domestici (34,6%), la fabbricazione di prodotti elettrici ed elettronici (25,8%) e l’industria tessile (25,3%). Per il tessile-abbigliamento, già coinvolto in modo rilevante nei processi di delocalizzazione dei primi anni novanta, il principale paese emergente di provenienza delle importazioni è l’Africa settentrionale, seguito dall’Asia e dai Peco. Il forte aumento delle importazioni dalle economie a basso costo della manodopera nel settore degli apparecchi domestici vede invece coinvolti principalmente i paesi asiatici. Questi dati hanno il pregio di fornire un quadro un po’ più preciso del fenomeno della delocalizzazione delle imprese francesi nell’ultimo decennio, contribuendo a delimitarne meglio l’ambito rispetto agli approcci più generali. Le informazioni raccolte si riferiscono tuttavia solamente alle importazioni registrate in entrata dalle imprese analizzate e non anche ai posti di lavoro coinvolti14. Un importante passo avanti in questa direzione è rappresentato da un recente studio dell’Insee15 che, denunciando l’assenza di indagini empiriche appropriate per l’analisi della delocalizzazione e dei suoi effetti sull’occupazione, propone un approccio basato su dati microeconomici a livello di stabilimento, impresa e gruppo, provenienti da diverse fonti (archivio Sirene degli stabilimenti e delle imprese, archivio Dads sui dati amministrativi degli occupati, dati doganali, informazioni sulla natura societaria delle imprese). Nessuna delle fonti utilizzate permette di misurare direttamente il fenomeno della delocalizzazione, ma il loro insieme consente di definire delle «presunzioni di delocalizzazione» rispetto ad una definizione del fenomeno che comprende sia il caso di delocalizzazione in senso stretto, sia le ipotesi di sub-fornitura internazionale. In particolare, gli autori individuano una presunzione di localizzazione ogni volta che, sulla base dei dati raccolti, vengono soddisfatte entrambe le seguenti condizioni: 1) l’impresa/gruppo riduce in modo rilevante e in un breve lasso di tempo i propri dipendenti in uno dei propri stabilimenti e ciò comporta alternativamente una contrazione di almeno il 25% del volume di lavoro o la chiusura dello stabilimento; 2) nello stesso arco di tempo l’impresa/gruppo accresce le importazioni del bene precedentemente prodotto in Francia. Pur rimanendo un metodo indiretto di misurazione dell’ampiezza della delocalizzazione, esso riesce però a superare alcuni dei limiti degli approcci precedenti. A differenza dell’approccio basato sugli Ide, ad esempio, si riesce infatti ad escludere i casi di investimento estero dovuti a strategia di conquista di nuovi mercati e ad includere le ipotesi di sub-fornitura internazionale. Rispetto allo studio basato sui dati doganali delle importazioni industriali, invece, si riesce ad analizzare – grazie all’utilizzo degli archivi amministrativi – l’evoluzione dell’occupazione all’interno delle singole imprese. Va inoltre sottolineato che l’analisi condotta dall’Insee si concentra sui flussi: ci si concentra infatti sulle variazioni occupazionali che avvengono nel breve lasso di tempo che intercorre fra la scelta dell’imprenditore di interrompere la produzione in Francia e quella di aprire un nuovo sito all’estero o stabilire un contratto di sub-fornitura internazionale. La stima che si ottiene è dunque quella del numero di posti di lavoro distrutti in un certo periodo di tempo in seguito alla scelta di delocalizzazione. 14 In realtà, restringendo ulteriormente l’analisi alle filiali industriali di gruppi francesi, de Gimel (2005) documenta che nel 2001 tali filiali occupavano circa 770.000 lavoratori, pari a circa il 20% dell’occupazione industriale in Francia. 15 Cfr. Aubert P.-Sillard P. (2005). 181 Tab. 11.5 – Occupazione soppressa per paese di destinazione delle delocalizzazioni (Numero di occupati e quote %; media annuale 1995-2001) Paesi Paesi sviluppati di cui: Spagna Italia Germania Stati Uniti Paesi a basso costo del lavoro di cui: Cina Brasile Marocco Tunisia Repubblica ceca India Polonia Romania Totale Occupazione delocalizzata Persone Quota % 7.175 53,0 1.148 1.093 1.018 933 16,0 15,2 14,2 13,0 6.370 47,0 1.905 519 514 483 371 333 297 227 29,9 8,1 8,1 7,6 5,8 5,2 4,7 3,6 13.545 100,0 Fonte: Aubert P. - Sillard P. (2005). I risultati principali di tale stima sono riportati nella tab. 11.5: tra il 1995 e il 2001 il numero medio annuo di posti di lavoro soppressi per scelte di delocalizzazione sarebbe stato pari a circa 13.500, che corrisponde a non più dello 0,35% dell’occupazione dipendente dell’industria francese e che si raffronta con le 500.000 uscite lorde che si registrano complessivamente ogni anno nell’industria francese a causa di licenziamenti ed esaurimento dei contratti a termine. I dati mostrano inoltre che i processi di delocalizzazione riguardano principalmente (53%) i paesi altamente sviluppati dell’Unione europea e gli Stati Uniti. Nell’ambito dei paesi a basso costo della manodopera, il 30% dell’occupazione delocalizzata in queste zone riguarda la Cina seguita a distanza da Brasile, Marocco e Tunisia (8% ciascuno). Lo studio evidenzia inoltre che nei casi di delocalizzazione verso le economie emergenti (ma ciò non vale per i paesi dell’Europa dell’Est) la modalità preferita dalle imprese è quella della subfornitura internazionale, piuttosto che l’insediamento produttivo da parte dell’impresa d’origine. Il tasso di delocalizzazione aumenta al crescere della dimensione d’impresa (fig. 11.3): nelle imprese con meno di 10 dipendenti il 6,9% dell’occupazione scompare ogni anno in seguito a forti riduzioni del personale, ma la percentuale di posti di lavoro che viene delocalizzata alternativamente nei paesi sviluppati o in quelli a basso costo del lavoro è solamente pari allo 0,02%; al contrario, nelle imprese con almeno 5000 dipendenti il tasso di distruzione dei posti di lavoro è pari ogni anno al 2,9%, ma le percentuali di delocalizza- 182 Fig. 11.3 – Tasso di distruzione dei posti di lavoro e tasso di delocalizzazione per dimensione d’impresa/gruppo (In % dell’occupazione industriale) 8,0 7,0 6,9 % posti lavoro distrutti 6,0 % posti delocalizzati paesi sviluppati 5,0 % posti delocalizzati paesi emergenti 3,8 4,0 2,7 3,0 2,0 2,0 1,0 0,0 0,02 0,05 0,02 0,01 < 10 10-49 0,13 0,05 50-499 1,6 0,21 0,29 500-4.999 0,41 0,32 5.000 e più Fonte: Aubert P. - Sillard P. (2005). zione verso i paesi sviluppati e quelli a basso costo del lavoro sono rispettivamente pari allo 0,41% e 0,32%. I dati utilizzati consentono infine di analizzare quali sono le categorie di lavoratori maggiormente colpite dai processi di delocalizzazione. La tabella 11.6 descrive la struttura dell’occupazione per qualifica professionale all’interno degli stabilimenti che risultano aver interrotto completamente la produzione o aver ridotto in modo rilevante il proprio personale. In particolare, le informazioni presentate consentono di quantificare l’incidenza di ciascuna categoria professionale all’interno di quegli stabilimenti che, secondo l’approccio seguito dagli autori, rientrano nelle ipotesi di presunzione di delocalizzazione. Ad esempio, con riferimento agli stabilimenti che risultano aver interrotto completamente la produzione, quelli che hanno delocalizzato verso i paesi a basso costo della manodopera hanno una presenza leggermente maggiore di lavoratori non qualificati: gli operai non specializzati rappresentano infatti il 26% degli addetti in questi stabilimenti, mentre ammontano al 21% dell’occupazione di tutti gli stabilimenti che risultano aver interrotto la produzione nel periodo considerato. Gli stabilimenti che risultano aver chiuso per trasferirsi nei paesi a maggiore tasso di sviluppo mostrano invece una più alta incidenza di manodopera qualificata: in questi stabilimenti la percentuale dei quadri risulta pari al 15% dei dipendenti, rispetto al 13% di tutti gli stabilimenti che risultano aver chiuso i battenti; viceversa il peso degli operai non specializzati è solamente pari al 13% rispetto al 21% degli stabilimenti totali. Risultati simili si ottengono per gli stabilimenti che hanno operato una forte riduzione del personale ma non hanno fermato completamente la produzione (seconda parte della tab.11.6): il 34% dei posti di lavoro distrutti a seguito della delocalizzazione nei paesi a basso costo del lavoro sono operai non specializzati; tale percentuale è maggiore rispetto al peso che questo tipo di lavoratori aveva sul totale dell’occupazione in questi stessi stabilimenti l’anno precedente i tagli occupazionali (28%). In ogni caso, i dati della tabella 11.6 mostrano che, per entrambi i casi esaminati, la distruzione di posti lavoro – pur avendo colpito in misura maggiore i lavoratori a bassa qualificazione, non sembra aver risparmiato il personale più specializzato. 183 Tab.11. 6 – Struttura professionale dell’occupazione per tipologia di stabilimento (Dati medi sul periodo 1995-2001; industria al netto del settore energia) Categorie professionali Stabilimenti che hanno chiuso Operai non specializzati Operai specializzati Impiegati non qualificati Impiegati qualificati Professioni intermedie Quadri Totale Stabilimenti che hanno ridotto considerevolmente il personale ma senza chiudere completamente Struttura dell’occupazione un anno prima dei tagli occupazionali Operai non specializzati Operai specializzati Impiegati non qualificati Impiegati qualificati Professioni intermedie Quadri Totale Distribuzione dei tagli occupazionali Operai non specializzati Operai specializzati Impiegati non qualificati Impiegati qualificati Professioni intermedie Quadri Totale Totale riduzioni del personale (%) Delocalizzazioni nei paesi sviluppati (%) Delocalizzazioni nei paesi a bassi salari (%) 21 30 10 3 23 13 100 13 31 11 1 29 15 100 26 32 8 2 21 11 100 23 30 8 3 21 14 100 11 29 8 1 34 17 100 28 29 8 2 24 9 100 25 28 7 4 22 13 100 15 31 6 2 35 12 100 34 29 7 1 24 6 100 Come leggere i risultati: Negli stabilimenti in cui si è registrata una forte contrazione dell’occupazione senza interrompere completamente la produzione, gli operai non specializzati rappresentano il 23% del personale e il 25% dei posti di lavoro distrutti. Gli operai non specializzati rappresentano inoltre l’11% del personale (e il 15% dei posti di lavoro distrutti) degli stabilimenti che hanno delocalizzato in un paese sviluppato e il 28% del personale (e il 34% dei posti tagliati) negli stabilimenti che hanno delocalizzato nei paesi a basso costo del lavoro. Fonte: Aubert P. - Sillard P. (2005). 11.3 Considerazioni conclusive: delocalizzazione e deindustrializzazione Tutti i lavori dedicati in Francia negli ultimi anni alla delocalizzazione concordano sul fatto che si tratta ancora di un fenomeno piuttosto limitato. Alcuni autori16 avvertono tuttavia che il processo è ancora nella sua fase iniziale e sta mostrando evidenti segnali di accelerazione. Le scelte di delocalizzazione da parte delle imprese sono inoltre solamente un aspetto del più ampio fenomeno della deindustrializzazione dell’economia francese, che suscita da tempo forti inquietudini nell’opinione pubblica ed è al centro del dibattito di politi16 Si veda ad esempio il contributo di Patrick Artus all’interno del rapporto Fontagné F. - Lorenzi J.H. (2005). 184 ca economica da alcuni anni. Pur continuando ad essere una delle principali potenze industriali del mondo, negli anni più recenti l’industria francese ha infatti progressivamente mostrato evidenti segnali di deterioramento della propria posizione internazionale in termini sia di riduzione della quota di occupazione, sia del peso sul valore aggiunto totale (che continua tuttavia ad essere tra i più elevati nel confronto con i principali paesi industrializzati), sia del contributo alla bilancia commerciale. Gli studi disponibili sull’argomento mostrano tuttavia come le scelte di delocalizzazione delle imprese francesi all’estero, pur presenti, possano spiegare solo in minima parte il processo, in gran parte fisiologico, della deindustrializzazione dietro al quale vi sarebbero invece soprattutto fattori di natura interna quali la ricerca di guadagni di produttività e l’esternalizzazione di alcune attività verso i servizi. Secondo un recente rapporto commissionato direttamente dal Presidente Chirac17, le crescenti difficoltà dell’industria francese sono il risultato del modello di specializzazione produttiva adottato che continua a privilegiare i settori tradizionali (materiali di base, aeronautica, attrezzature ferroviarie, agro-alimentare e beni di lusso) – maggiormente sottoposti alla concorrenza delle nuove economie emergenti – mentre è poco presente nei settori più innovativi. All’origine dell’inerzia del tessuto produttivo francese verso l’adozione e la diffusione delle nuove tecnologie vi sarebbe un livello troppo basso di investimenti privati in Ricerca e Sviluppo che risulta non solo inferiore a paesi come il Giappone, gli Stati Uniti e la Germania, ma è andato diminuendo negli ultimi dieci anni e non è stato compensato da un corrispondente incremento degli investimenti pubblici (che comunque si situano ad un livello comparabile a quello degli altri paesi). In realtà i dati mostrano che, all’interno di ciascun segmento produttivo (ad alta o bassa tecnologia), il livello di investimenti innovativi della Francia non è inferiore a quello degli altri paesi. Nei settori ad alta tecnologia, in particolare, la spesa in Ricerca e Sviluppo è sugli stessi livelli – e in alcuni casi superiore – a quella mostrata dagli altri paesi analizzati (anche se è andata diminuendo nell’ultimo decennio). Le cause del deficit innovativo dell’industria francese non risiederebbero quindi tanto nell’insufficienza degli investimenti in Ricerca e Sviluppo, quanto piuttosto nella particolare composizione settoriale del tessuto produttivo francese incentrato sulle industrie a basso contenuto tecnologico che, per loro natura, realizzano poca ricerca e sviluppo. Riferimenti bibliografici Aubert P. - Sillard P. (2005), «Délocalisations et reductions d’effectifs dans l’industrie française», Document de travail, Insee. Beffa (2005), Pour une nouvelle politique industrielle, mimeo, Janvier. Biscourp P. – Kramarz F. (2003), «Internationalisation des entreprises industrielles et emploi: une analyse sur la période 1986-1992», Économie e statistique N° 363-364-365. Daudin G. – Levasseur S. (2005), «Measuring the effect of international relocations on the French economy», Euroframe, Economic Assessment of the Euro Area: Forecasts and Policy Analysis, Spring Report 2005. 17 Si tratta del rapporto «Per una nuova politica industriale» curato dal Presidente della Compagnia Saint-Gobain Jean-Louis Beffa su invito esplicito del Presidente della Repubblica Chirac, frutto della collaborazione di un gruppo di lavoro di dodici esperti. Cfr. Beffa (2005). 185 Drumetz F. (2004), «La délocalisation», Bulletin de la Banque de France N° 132, Décembre. European Monitoring Centre on Change (2005), «European Restructuring Monitor Quarterly», Issue 1 – Spring. European Monitoring Centre on Change (2004), «European Restructuring Monitor Quarterly», Issue 1 – Spring. Fontagné L. – Lorenzi J.H. 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