LEZIONE 3 Come è di nuovo cambiato il contesto internazionale
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LEZIONE 3 Come è di nuovo cambiato il contesto internazionale
LEZIONE 3 Come è di nuovo cambiato il contesto internazionale nella fase più recente dello sviluppo industriale (dalla prima metà degli 80 a oggi). Dalla frammentazione delle catene del valore a scala nazionale alla loro ridislocazione a scala internazionale (dall’outsourcing all’offshoring). La frammentazione come elemento di facilitazione dello sviluppo industriale delle economie emergenti. Ruolo delle conoscenze proprietarie e delle istituzioni. * * * 1) La frammentazione § Feenstra (1988); [il problema è già evidente alla metà degli ‘80] Baldwin (2006) * La frammentazione della produzione su base internazionale [offshoring] [ i cui presupposti istituzionali abbiamo già visto in termini generali, con riferimento alle determinanti di fondo del processo di outsourcing in atto dall’inizio dei ‘70] Si avvia nella prima metà degli anni ’80. Il commercio internazionale è costituito proporzionalmente sempre meno da beni finiti e sempre più da beni intermedi. [la prima ondata della globalizzazione in tempi moderni è quella che caratterizza gli anni a cavallo del ‘900, e che spezza per la prima volta il vincolo di dover produrre beni manufatti in prossimità dei luoghi di consumo: la separazione dei due momenti (che B. chiama unbundling) apre la via all’esplosione del commercio internazionale su scala globale, cui si accompagna anche una dinamica molto sostenuta degli investimenti diretti all’estero] 1 Nei tempi recenti si realizza – attraverso l’intensificarsi di processi di offshoring – non soltanto una separazione tra fabbrica e consumo, ma anche lo “spacchettamento” della fabbrica stessa: ovvero – una volta venuta meno la necessità di realizzare le differenti fasi produttive una vicino all’altra [come visto nelle lezioni precedenti] – l’outsourcing può assumere una dimensione internazionale, e configurarsi come una delle componenti del commercio estero. prima di questo processo il commercio estero era avvertito sostanzialmente solo a livello dei beni finali (di consumo o di investimento che fossero); successivamente la concorrenza internazionale si è dislocata (anche) sul terreno dei singoli task. Questo significa che la globalizzazione non riguarda più soltanto l’investimento diretto che “replica” l’impresa altrove (soluzione tutta interna alla “gerarchia”), ma riguarda anche il ricorso al mercato: decidendo di cedere alcune attività all’esterno, le imprese decidono cioè di importarle. * Attenzione: accade anche che una quota crescente del commercio mondiale sia una funzione stessa dell’espansione multinazionale, in ragione degli scambi che avvengono all’interno dei confini delle stesse multinazionali (scambi c.d. intra-firm). SCHEMA SINOTTICO MAKE/BUY QUI prima schema semplice alla lavagna poi schema più complesso [slide 30] Implicazioni: i) Si creano mercati intermedi a livello internazionale; ii) Questo avviene non soltanto sul piano della produzione “completa” di beni (intermedi): ma anche su quello delle lavorazioni (tasks). 2 iii) Una quota crescente dei flussi di trade non nasce più dalle preferenze dei consumatori rispetto a una struttura dei vantaggi comparati che riguarda beni finali, ma dalle scelte di allocazione dell’attività produttiva esercitate dalle imprese. In questo senso gli scambi hanno sempre meno un’origine commerciale e sempre più un’origine produttiva. § Gereffi, Humphrey e Sturgeon (2005) * [Riassumendo:] La produzione diventa dunque un fenomeno trans-nazionale attraverso il trade. Questo fenomeno si aggiunge agli FDI. La differenza è che nel caso degli FDI gli scambi di beni (intermedi o finiti che siano) è intrafirm, ovvero avviene all’interno dell’impresa, Mentre nel caso della frammentazione cross-border avvengono tra le imprese. Mentre l’outsourcing aveva semplicemente frantumato le catene del valore in senso verticale, l’offshoring le rende anche distribuite nello spazio a livello internazionale. Gereffi et al discutono la questione in termini sostanzialmente concettuali, e anche quando fanno riferimento al suo correlato empirico (la diffusione dei fenomeni di offshoring) non considerano comunque mai esplicitamente il ruolo che le IVC possono svolgere – e di fatto hanno svolto – nello sviluppo delle “nuove” economie emergenti. Mentre invece proprio la frantumazione delle catene su base internazionale costituisce uno dei presupposti più importanti del loro processo di crescita. Di questo ci occupiamo ora 3 2) Divisione del lavoro, rendimenti crescenti dinamici e localizzazione dei saperi § Unido (2009) * Quello che è stato definito l’unbundling del processo produttivo, ossia la scomposizione del ciclo di produzione in fasi (“trade in tasks”) consente l’inserimento in un percorso di industrializzazione di quelle economie in ritardo che non sono in grado di organizzare e gestire un intero processo produttivo, includendole nel processo di sviluppo. [“trade in tasks … simplifies getting started”] il punto è che il combinato disposto della scomponibilità del processo e del costituirsi di mercati globali (e dunque di dimensioni colossali) crea uno spazio enorme per l’emergere di economie di specializzazione a scala internazionale, che traggono alimento da un’espansione della domanda senza precedenti. la rilevanza del trade in tasks scaturisce dal fatto che [come vediamo più avanti] la complessità economica non si acquisisce con facilità dal momento che la specializzazione produttiva di per sé non evolve “per salti”, ma sempre per spostamenti minimi intorno a quella di partenza – a meno dell’introduzione di politiche industriali rilevanti. E dunque lo sviluppo che si può immaginare per i “ritardatari” in assenza di politiche industriali sostenute è in questo caso fondato sullo sfruttamento di rendimenti crescenti di tipo dinamico [che abbiamo discusso nella prima lezione, ma che riprendiamo brevemente qui], e procede per via endogena attraverso l’accumulazione di conoscenze “locali”. Slide 31 e 32 Commento: 1) Il valore realizzato nel mondo latamente “emergente” e contenuto nelle X (quota dell’output) degli OECD è molto aumentato [prima figura] 2) In tutte le aree (e non solo nel mondo “sviluppato” dell’OECD) accade che la quota degli input intermedi di importazione sull’output cresce [seconda figura] 4 e anzi nelle aree non-OECD cresce ancora di più [che vuol dire che aumenta il trade in intermediates sud-sud] 3) Contestualmente il peso degli input intermedi importati sugli input intermedi totali aumenta molto meno. Il confronto tra questo dato e quello di cui al p.to 2 è coerente con l’idea che nello stesso periodo è il complesso degli input intermedi acquisiti sul mercato che aumenta, ovvero aumenta il peso degli acquisti di intermedi sull’output, ovvero si riduce il grado di integrazione verticale dei sistemi industriali [misurato dal rapporto tra valore aggiunto e output (produzione)]: Im / Y = (Im / It) x (It / Y); dove Im sono gli input intermedi importati e It sono quelli totali, e Y è l’output. Ma la questione non è comunque così semplice (non basta la scomponibilità dei processi produttivi, ossia la separabilità delle funzioni di costo, a fare lo sviluppo manifatturiero: che infatti si manifesta in alcune aree e non altrove: perché?) 5 [2A: Un modo di misurare lo spessore delle competenze detenute da ciascun paese] § Hausmann, Hidalgo e altri (2011) a) * Il principio smithiano della divisione del lavoro postula che un individuo non possa sviluppare tutte le capacità che servono per svolgere una pluralità di attività, a meno che queste attività non vengano svolte a livello elementare. [Il duale di questa proposizione è che qualsiasi attività che non sia elementare richiede, per essere svolta, che il lavoro venga diviso tra più individui (nella misura in cui il suo svolgimento richiede una specializzazione)]. La divisione del lavoro è quindi prima di tutto una divisione del sapere [in quanto saper fare, che è l’idea di Rossi- Koyré; v. comunque quot. da Loasby (1998): “the division of labour is a division of knowledge, and knowledge grows because it is divided”] In generale, quante più attività un’economia sviluppa tanto più ampio è lo spettro delle sue conoscenze: in questo senso il numero di quelle attività può essere considerato una misura dell’estensione dei suoi saperi. L’estensione delle conoscenze di cui dispone un sistema economico è misurata dal numero dei beni che è capace di produrre. Il grado di “complessità” di un sistema economico (di un paese) può essere considerato una funzione diretta del numero di prodotti che esporta (che colloca su mercati esposti alla concorrenza internazionale) e una funzione inversa del numero di paesi che esportano a loro volta quel prodotto. Esiste un algoritmo che fornisce questa misura. b) 6 Poiché il processo di apprendimento è per definizione path dependent (le conoscenze si sviluppano a partire da quelle già acquisite), d’altra parte, avviene che le potenzialità di sviluppo futuro di un sistema economico siano una funzione dell’ampiezza della knowledge in ciascun momento disponibile. [questo è parecchio importante: ne vedremo la rilevanza più avanti] Qui si pongono due questioni: * La prima è che lo sviluppo della conoscenza avviene sempre per intorni molto piccoli della specializzazione di partenza, e dunque è importante anche quanto prossime siano le competenze di cui un sistema in ciascun momento dispone, perché la loro prossimità può consentire una contaminazione (una “combinazione”) che accelera la crescita del know how complessivo. * La seconda ha a che vedere con la natura delle conoscenze detenute, ovvero con quali siano le competenze di cui si dispone: perché lo sviluppo è funzione anche del fatto che i diversi saperi non sono tutti uguali (esistono saperi suscettibili di svilupparsi molto più di altri), e dunque non è indifferente quale tipo di conoscenze un sistema economico – un paese – detenga. Poiché è possibile costruire algoritmi che misurano anche il grado di prossimità dei diversi prodotti, si può a partire da essi elaborare una serie di grafi che descrivono lo “spazio” dentro il quale si dislocano i prodotti (il “product space”). Slide 33 Un grafo è la rappresentazione di una rete di connessioni tra unità elementari. Nel grafo che vedete è rappresentato il product space a livello mondiale per gli anni 20062008. I nodi rappresentano i diversi beni (settori a 4 digit), la loro dimensione misura l’ampiezza del commercio mondiale relativa a quel bene. I legami connettono coppie di beni che vengono esportati insieme (co-esportati). Il grafo mostra che molti beni si raggruppano “naturalmente” all’interno di comunità definite. L’idea alla base di questo ragionamento è che la produzione dei beni che appartengono a una medesima comunità (che sono esportati insieme), ossia che sono 7 legati tra loro in misura maggiore di quanto siano legati a prodotti esterni alla comunità, sia incardinata su conoscenze comuni. Il product space rappresentato nel grafo è molto eterogeneo: contiene sia gruppi di beni densamente connessi che altri più sparsi. E, inoltre, alcuni gruppi occupano una posizione più centrale, e altri una posizione più “periferica”. Quanto minore la distanza [ossia quanto più intensi i legami tra i diversi beni], tanto maggiore la probabilità che le conoscenze necessarie per produrre ciascuno di essi si contaminino tra loro; e quanto maggiore la connessione [ossia la “centralità” in senso geometrico], tanto maggiore la probabilità che questa contaminazione abbia un impatto elevato sullo sviluppo manifatturiero dell’intero sistema perché se un gruppo di beni è centrale vuol dire che la sua vicinanza agli altri gruppi è alta, e dunque la contaminazione può realizzarsi tra un gruppo e l’altro. bassa distanza e alta connessione sono importanti proprio perché – come abbiamo detto – le conoscenze sono “localizzate” e si spostano in ciascun istante per intorni molto piccoli a partire dalla specializzazione già acquisita: dunque la capacità del sistema produttivo di un paese di diversificarsi e spostarsi verso produzioni più complesse dipende in misura decisiva dalla loro collocazione “iniziale” nel product space. * Dunque la peculiare dotazione di conoscenze di ciascun sistema economico è decisiva nel modellarne le potenzialità di sviluppo: vediamo, in punto di fatto, che cosa è effettivamente accaduto nel mondo c.d. “emergente”. 8 3) L’emergere degli emergenti § Romano e Traù (2013) [CSC 2013] Slide 34 implicazioni: i) le economie emergenti che crescono lo fanno assai più robustamente di quelle “emerse”, come conseguenza di due fatti: * partendo da valori minimi le variazioni percentuali dei livelli produttivi mostrano comunque per definizione incrementi particolarmente alti; * le fasi iniziali dello sviluppo sono per loro natura caratterizzate da tassi di crescita molto sostenuti, che non possono essere mantenuti per tutti gli stadi del processo che segue [Seguendo Kindleberger (1958, ma cfr. anche Cameron 1989), il profilo intertemporale della crescita può essere assimilato a quello di una curva di Gompertz; e, in questa prospettiva, vale in generale il principio che “the higher rate of growth has the prospect of slowing down”, poiché “on only a small portion of [the Gompertz curve] can geometric rates of growth be extrapolated, and then not for long”] ii) La seconda implicazione della figura è che non è scontato che lo sviluppo si manifesti: nel senso che il fenomeno di cui si discute può essere per definizione osservato esclusivamente nel caso in cui – per qualche ragione – in un determinato paese si sia effettivamente avviato un processo di marcata espansione dell’attività economica. E, come si vede dalla figura, in cui viene rappresentata la relazione tra la crescita dell’output manifatturiero nel periodo 19902011 e il livello dell’output manifatturiero pro-capite nel 1990, relativi al totale Mondo, coesistono, a pari livelli “di partenza” dell’output manifatturiero pro-capite, paesi caratterizzati da tassi di crescita diversissimi (a livelli di industrializazione minimi corrispondono valori della crescita altissimi come negativi), così come a livelli di industrializzazione crescenti (lungo un range estremamente ampio) corrispondono in moltissimi casi tassi di crescita simili. 9 dunque lo sviluppo economico (e in particolare quello sviluppo manifatturiero) non è un fenomeno meccanico; o, se si vuole, non è un destino ineludibile che spetti prima o poi a tutte le economie del mondo (gli “ultimi” non saranno necessariamente i “primi”). Al contrario, lo sviluppo viene sempre “da lontano”, ed è sempre “costruito”, nel senso che si tratta del risultato dell’azione di molte forze, che nelle economie effettivamente emerse hanno avuto modo di dispiegarsi lungo un arco temporale in generale molto lungo. 3A) Conoscenze pre-esistenti § Amsden (2001) * La capacità di sviluppo delle economie in ritardo – che non avevano avuto la possibilità di cavalcare né la prima né la seconda Rivoluzione industriale – è stata storicamente vincolata dall’assenza di tecnologie proprietarie rilevanti. “The Rest” ha dovuto fare leva su risorse diverse da quelle che avevano alimentato lo sviluppo dei first comer: il cardine è stata l’accumulazione di lungo periodo di una knowledge (di un “saper fare”) in ambito manifatturiero. [la Amsden include in “the Rest” Cina, India, Indonesia, Corea, Malysia, Taiwan e Thailandia in Asia; Argentina, Brasile, Cile e Messico in America Latina; Turchia in Medio Oriente] Come è avvenuto lo sviluppo dei late comer * In ciascun momento, la capacità di sviluppo di un sistema industriale può essere espressa in termini del suo livello di conoscenza (knowledge) accumulata, dove questa accumulazione rappresenta a sua volta l’esito della sua storia precedente e costituisce dunque un fenomeno “localizzato” e path dependent. In questo senso l’insieme delle conoscenze detenute da un sistema economico costituisce il più rilevante degli asset a sua disposizione per competere nei mercati mondiali, e dunque per entrare in un percorso di industrializzazione: in una parola, è la chiave dello sviluppo. [In termini dello stesso approccio à la H&H, che vede lo sviluppo 10 manifatturiero in termini della capacità di sviluppare product network a partire da una serie di conoscenze proprietarie], sotto questo profilo il fenomeno più macroscopico che l’osservazione dei fatti impone all’attenzione è che, nel corso del tempo, “[t]he social accumulation of productive knowledge has not been a universal phenomenon. It has taken place in some parts of the world, but not in others. The enormous income gaps between rich and poor nations are an expression of the vast differences in productive knowledge amassed by different nations” [Hausmann et al., 2011]. * Il punto, in questo caso, è che la conoscenza è una cosa diversa dall’informazione, e che l’utilizzazione di una tecnologia è una cosa diversa dalla sua disponibilità sul mercato, nel senso preciso che quello che conta dal punto di vista della possibilità di acquisire un qualsiasi livello di autonomia nel suo governo è la capacità di gestire la conoscenza sul piano produttivo: le capabilities che contano sono costituite dal “saper fare” incorporato negli individui e nelle organizzazioni. Questa caratteristica dipende strettamente dal loro essere in gran parte costituite da saperi taciti (non codificati) e dunque difficilmente trasmissibili, che rendono la conoscenza un bene non universalmente disponibile; al punto che si può affermare che “this is one of the fundamental reasons why technological catching-up by developing countries remains a challenging task even in an era of globalization and free-information flows” (Cimoli et al., 2009, p. 22). * Nella prospettiva di questa analisi, la prima spiegazione di questa evidenza è che le economie in ritardo ancora intorno alla metà del secolo scorso (“the rest”), ossia quelle che – diversamente dalle economie first comer – non erano riuscite a cavalcare né la Prima né la Seconda Rivoluzione Industriale, si sono trovate nella condizione di dover fronteggiare un contesto manifatturiero caratterizzato da conoscenze ormai inaccessibili, e nel quale la principale barriera all’entrata era per loro costituita dalla sostanziale assenza di conoscenze proprietarie rilevanti. 11 Detto in altri termini, l’esistenza di una discontinuità tecnologica radicale – le rivoluzioni industriali non avvengono nel continuo – ha creato una differenza strutturale nei presupposti dello sviluppo industriale tra i paesi che oggi chiamiamo industrializzati e quelli che chiamiamo emergenti: mettendo i secondi nella condizione di dover impostare le loro strategie di sviluppo su basi diverse. * In questo quadro i c.d. “vantaggi dell’arretratezza” [Gerschenkron 1962] – tradizionalmente invocati nella spiegazione del catching up delle economie europee e di quella americana nei confronti della Gran Bretagna nella seconda metà del XIX secolo – sfumano di fronte a un divario incolmabile, tale da avere di fatto reso impossibile, all’interno delle economie in ritardo, sviluppare autonomamente tecnologie originali. Per dirla con la Amsden, “[f]or the first time in history, backward countries industrialized without proprietary innovations. (…) Late industrialization was a case of pure learning, meaning a total initial dependence on other countries’ commercialized technology to establish modern industries” (2001, p. 2, corsivi originali). * In generale, l’anomalia del percorso di sviluppo che ne è derivato può ancora essere ricondotta sul piano concettuale alla logica della “sostituzione” dei pre-requisiti mancanti (quelli di cui erano dotati i paesi first comer) con altre leve invece disponibili (o comunque costruite); e, se si vuole, la stessa questione dell’apprendimento (il pure learning) può essere letta come una qualificazione del punto di vista espresso da Abramovitz (1989) in merito alla rilevanza dell’absorptive capacity nel determinare il ritmo e l’intensità del processo di accumulazione. Ma in questo caso, come si vedrà, è l’intera architettura del processo di sviluppo a risultare radicalmente diversa, così che il processo di industrializzazione avviato dalle economie che oggi definiamo emergenti si caratterizza fin dall’inizio in ragione di una radicale peculiarità, che ne segna tutta l’evoluzione successiva. * Almeno fino allo spartiacque del secondo conflitto mondiale, il tentativo 12 di avviare lo sviluppo di un sistema industriale competitivo fuori dell’ambito nord-europeo e americano su basi di mercato si può dire pressoché completamente fallito. E sarà anzi necessario attendere il “regime” della Golden Age perché si completi – in condizioni di economia almeno parzialmente aperta, e comunque tutt’altro che esclusivamente su basi di mercato – il processo di industrializzazione anche per due relativi late comer “occidentali” come Italia e Giappone. * Tra il 1850 e il 1950 dapprima la Seconda Rivoluzione Industriale alimenta il trionfo industriale della Gran Bretagna e quindi il suo raggiungimento da parte delle economie europee e americana, e successivamente (negli anni della prima grande globalizzazione e poi dei grandi conflitti mondiali) si consolida il dominio commerciale da parte del mondo industrializzato. * In tutto questo periodo “the rest” arranca lungo la low road della crescita industriale. E per quanto siano in questo lungo periodo documentabili progressi nell’attività manifatturiera, la loro velocità e intensità è insufficiente a consentire l’acquisizione di una capacità di competere a livello mondiale. * La produzione manifatturiera mondiale resta saldamente per tutto il XIX secolo (e ancora almeno nel primo trentennio del XX) nelle mani del mondo industrializzato, e sarà solo con l’avvio dell’indipendenza coloniale (e con l’emergere di un ruolo attivo dello Stato nel processo di industralizzazione, che ad esso si accompagna, cfr. infra) che si avvierà nelle economie in ritardo un meccanismo di import substitution. * Una questione chiave, all’interno di un tale contesto, è che lungo tutta questa fase l’attività di regolazione da parte dell’operatore pubblico nei paesi sottosviluppati è minima; al punto che si può dire che: “[g]overnment policies in India, Latin America, China, and the Ottoman Empire before World War I … provide a laboratory to study the effects of liberalism on attempts to industrialize without world-class skills (Amsden, 2001, p. 70). 13 Il risultato è che “After almost one hundred years, there was no obvious, organic solution to ‘the rest’s” economic predicament. It was in this context of industrial growth without industrialization that the developmental state was born” (p. 98). * Dunque, la consapevolezza diffusa di un fallimento radicale del mercato è all’origine, all’interno delle economie in ritardo, di una discontinuità importante nell’atteggiamento delle istituzioni nei confronti del problema; e a questa discontinuità contribuisce significativamente la contestuale nascita di quella che oggi si definisce development economics: che trae la sua ragione d’essere precisamente dalla convinzione che l’assenza di una politica esplicita di orientamento dell’attività economica da parte delle istituzioni è da considerarsi la causa, fino a quel momento, del mancato avvio di uno sviluppo industriale su basi endogene nelle aree “sottosviluppate”. A partire dagli anni Quaranta del Novecento, attraverso l’emergere di una serie di contributi importanti – RosensteinRodan (1943) con riferimento al ritardo delle economie dell’Europa orientale e meridionale, Lewis (1954) per l’intero mondo sottosviluppato, e quindi Singer (1964) e poi più estesamente Prebisch (1970) con riferimento all’America Latina – si afferma una visione del problema che attribuisce la persistenza del ritardo all’inadeguatezza delle c.d. forze di mercato nel favorire un processo di convergenza, e invoca l’intervento pubblico – come già avvenuto per le economie industrializzate (cfr. ancora qui soprattutto Chang 2002) – come strumento di emancipazione del mondo ancora sottosviluppato. Con riferimento specifico alla questione dell’industrializzazione, ai riferimenti sopra evocati vanno aggiunti almeno quelli di Myrdal (1957) e Hirschman (1958). “It was the war-torn decade of the 1940s that saw development economics emerge as a sub-discipline of academic economics, … distinguished, above all, by its exploration of the problem of government-engineered economic transformation” (Toye, 2003, p. 21, corsivo aggiunto). 14 Va da sé che l’attenzione alla questione trova una sponda naturale nel parallelo sviluppo – e nella diffusione non soltanto a livello accademico – del pensiero keynesiano. * Così, avviene che “In the postcolonial era, which began soon after the end of World War II, most underdeveloped countries adopted strategies of development which provided a sharp contrast with those of the first half of the twentieth century. For one, there was a conscious attempt to limit the degree of openness and integration with the world economy, (…) for another, the state was assigned a strategic role in development because the market, in itself, was not perceived as sufficient to meet the aspirations of latecomers to industrialization” (Nayyar, 2003, p. 63). * L’emergere di questo orientamento “affianca” quello che già da tempo – e in forma assai più radicale – costituiva il cardine dello sviluppo manifatturiero nel “mondo separato” delle economie appartenenti al blocco sovietico (gli stessi scambi all’interno del quale rispondevano a una logica in parte diversa da quella di mercato). In questo modo una quota sempre più consistente dell’industria mondiale, negli anni del secondo dopoguerra, comincia a essere interessata, in una forma o nell’altra, da un forte condizionamento istituzionale sulla direzione dello sviluppo produttivo. Si afferma e prende campo il “developmental state”. * L’imbocco, negli anni successivi al dopoguerra, della high road dello sviluppo manifatturiero da parte delle economie in ritardo può essere considerato una funzione dello spessore delle conoscenze manifatturiere accumulate al loro interno (nei termini richiamati più sopra) e della misura in cui il developmental state si è rivelato o meno in grado di tradurre questo capitale nel perno di una discontinuità del “modello” di industrializzazione. In ragione delle differenze iniziali, tra le diverse aree del mondo emergente, nella dotazione delle conoscenze e nel profilo delle istituzioni, il fenomeno ha interessato una parte di esse e non la loro totalità. 15 * Seguendo ancora lo schema suggerito dalla Amsden (2001), la disponibilità di competenze manifatturiere deve essere considerata propedeutica a qualunque ipotesi di sviluppo: semplicemente, “Countries in ‘the rest’ that industrialized rapidly after World War II had accumulated manufacturing experience in the pre-war period. This differentiated them from countries in ‘the remainder’ ”. Path dependence was such that no economy emerged from the blue as an industrial competitor” (p. 99, corsivo aggiunto)1. 3B) Le istituzioni * Su questa base si innesta il ruolo dello Stato. Nella misura in cui si incardina su presupposti istituzionali, lo sviluppo industriale diventa una funzione della capacità di disegnare e utilizzare efficientemente gli strumenti attraverso cui esso è progettato e gestito: i weakest performer sono quelli che sottodimensionano (ad es. l’Argentina) o sovradimensionano (ad es. l’India) il loro assetto istituzionale. I risultati migliori sono ottenuti in questo quadro da quelle economie in cui l’allocazione del sostegno statale nelle industrie destinate a sostenere lo sviluppo (più o meno sempre le stesse) si rivela in grado di tradursi nel medio termine in un upgrading che le metta in condizione di competere sui mercati internazionali (dove quello che conta è “how vigorously and rapidly exportables were extracted from a sequentially rising number of import substitution sectors”). Questo fenomeno, che la Amsden documenta attraverso la rassegna di una massiccia serie di contributi di analisi relativi alle singole economie (2001, cfr. in particolare cap. 4 e 5), assume a sua volta un profilo diverso a seconda delle modalità (dei “filtri”) attraverso cui le economie in ritardo hanno acquisito le conoscenze di cui si discute (e, in particolare, a seconda della presenza o meno di una precedente esperienza coloniale). In generale, i paesi che nel dopoguerra hanno investito maggiormente in imprese e competenze nazionali sono quelli che avevano sperimentato una presenza coloniale sul loro territorio, e che hanno avuto la possibilità, attraverso la nazionalizzazione, di acquisire direttamente un “saper fare” manifatturiero; gli altri sono rimasti maggiormente legati alla presenza multinazionale, ovvero a conoscenze in gran parte non proprietarie (cosa che ha implicato il sostanziale spiazzamento di un’industria nazionale competitiva sui mercati esteri). Del primo gruppo fanno parte tra gli altri Cina, India, Corea, Taiwan; del secondo Argentina, Brasile, Messico. In questo senso, mentre l’esistenza o meno di una precedente esperienza manifatturiera distingue chi emerge da chi resta fermo, il tipo di esperienza condiziona la natura e l’intensità dello sviluppo tra gli emergenti. 1 16 Il “modello asiatico” 1) Lo sviluppo manifatturiero all’interno dell’area est-asiatica si articola lungo un continuum che vede emergere nei mercati mondiali dapprima il Giappone, quindi le c.d. “tigri” (tra cui in particolare Corea e Taiwan), poi i paesi del c.d. second tier – Thailandia, Malesia e Indonesia – e successivamente la Cina e infine il Vietnam. La continuità del processo di industrializzazione – che assomiglia sul piano storico a un “passaggio di testimone” sequenziale tra le diverse economie dell’area – ha alimentato una lunga serie di studi volti a isolarne i tratti di fondo, nell’idea che la logica di questo sviluppo sia stata caratterizzata – pure con importanti differenze tra un paese e l’altro – da elementi largamente comuni (inclusi quelli di carattere culturale). La questione della “specificità culturale” riflette l’idea che il successo delle economie est-asiatiche sia l’esito di un complesso di fattori istituzionali (vocazione all’hard work, forte propensione al risparmio, attitudine all’accettazione di misure autoritarie), quale più quale meno riconducibili al confucianesimo; cosa che a sua volta comporterebbe la “non esportabilità” del modello ad altri ambiti territoriali, per definizione privi di un substrato culturale analogo. 2) In realtà il principio secondo cui i c.d. fattori istituzionali sono per loro natura esogeni, e – in quanto path dependent – non influenzabili sul terreno politico è tutt’altro che scontato: nel caso sempre evocato del Giappone, che può essere considerato il paradigma (e comunque il “laboratorio”) del “modello asiatico”, i risultati ottenuti in termini di estensione del processo di industrializzazione e di competitività del sistema produttivo nazionale devono infatti essere considerati, prima di tutto, come l’esito dell’elaborazione esplicita di un programma di sviluppo manifatturiero di lungo periodo incardinato sull’azione consapevole dell’operatore pubblico. E, in questo quadro, il contesto “ambientale” è a sua volta oggetto di costruzione, nel senso che le condizioni all’interno delle quali gli operatori sono chiamati a muoversi emergono da un progetto perseguito razionalmente: 17 “The famous Japanese consensus, that is, the broad popular support and willingness to work hard for economic development … is not so much a cultural trait as a matter of hard experience and of the mobilization of a large majority of the population to support economic goals. (…) The priorities of the Japanese state … are in this sense a product not of culture or social organization or insularity but of rationality” (Johnson 1982, p. 307). Nell’intero ambito asiatico, in realtà, l’elevata “qualità della burocrazia” è assai meno l’esito di una tradizione storica che non di una deliberata azione di importazione, assimilazione e innovazione delle istituzioni funzionali allo sviluppo – almeno quanto il medesimo orientamento (acquisizione dall’esterno e adattamento al contesto nazionale) ha agito, come sempre si sottolinea, sul piano dello sviluppo tecnologico. Il processo di costruzione del Giappone “moderno” sul piano istituzionale (che ha comportato l’importazione massiccia di modelli organizzativi dall’ambito europeo) e l’avvio del processo di industrializzazione (che ha comportato l’importazione di tecnologia) sono entrambi situabili nell’arco dell’era Meiji (1868-1912). [“Confucian culture has been there for centuries but did not lead to development earlier. Indeed, until the 1950s, many people blamed Confucianism for holding East Asia back” (Chang 2003] 3) In generale l’obiettivo finale della politica economica del developmental state nell’ambito est-asiatico è stato quello di assicurare lo sviluppo industriale, e non la stabilità macroeconomica (meno che mai – con l’eccezione di Taiwan per ragioni squisitamente storiche – il controllo dell’inflazione). Un tale obiettivo ha implicato la costante ricerca dell’upgrading del sistema produttivo, perseguito attraverso una politica di allocazione delle risorse in direzione degli investimenti (naturalmente anche attraverso interventi di volta in volta selettivi sul piano settoriale), e una contestuale compressione – quantomeno in termini relativi – dei consumi interni. 18 Il cardine di questa politica è nel suo essere finalizzata all’acquisizione di competenze proprietarie: in molti casi – massimamente in quello giapponese e coreano – l’obiettivo è stato perseguito realizzando un sostanziale blocco degli investimenti esteri in entrata e finanziando l’acquisto di tecnologia attraverso gli extra-profitti “monopolistici” realizzati sull’interno. Un elemento specifico di questa strategia, che caratterizza fortemente il “modello asiatico” rispetto a quello di altre grandi aree emergenti, è che lo sviluppo dell’offerta interna su basi endogene – che risponde a una logica di import substitution – è esplicitamente orientato fin dall’inizio alla crescita delle esportazioni: “At the heart [there was] a policy to allocate long-term investment capital to those import-substitution industries that were expected … to export at some future date”. (…) “Import substitution was the mother of export growth” (Amsden 2001, pp. 161 e 171). [La differenza fondamentale nell’approccio all’industrializzazione tra il mondo ex-sovietico e quello dell’America latina da un lato, e il mondo est-asiatico dall’altro (differenza che si rivela decisiva nel momento dell’apertura agli scambi mondiali) è che nel primo caso prevale una generale tendenza ad accrescere il livello dell’output sostanzialmente attraverso l’aumento dell’impiego dei fattori, nel secondo si assiste a un costante aumento della produttività, che è funzione diretta delle capacità che erano state accumulate sul piano organizzativo e istituzionale nella prima fase (“estensiva”) dello sviluppo] 4) Quali sono gli strumenti attraverso cui obiettivi finali e intermedi sono stati gestiti all’interno del developmental state est-asiatico? In generale, l’atteggiamento delle autorità, e la loro stessa credibilità, si sono fondati in questo schema su un presupposto fondamentale (e sostanzialmente atipico): costruzione di un regime di autonomia rispetto all’influenza di tutti i possibili gruppi di pressione, e contestuale condizionalità degli aiuti, intesa come subordinazione dell’aiuto (quale che ne sia la forma) al conseguimento di 19 obiettivi di performance misurabili precedentemente individuati. [“What differentiates East Asia from other countries is that the East Asian states have been willing and able to withdraw such support whenever necessary, because they were highly autonomous states” (Chang 2003] I tratti fondamentali di questo approccio ricorrono costantemente all’interno delle diverse economie dell’area; al punto che è possibile riscontrarli – oltre che nel “modello giapponese” sopra stilizzato – in paesi emersi in tempi successivi, e comunque carattezzati da forti disomogeneità sul piano strutturale. 5) Il caso coreano è forse il più spettacolare, sia per la determinazione con la quale l’industrializzazione del paese è stata perseguita, sia per i risultati che ancora negli anni più recenti essa ha consentito al paese di seguitare a ottenere sui mercati internazionali. Seguendo Chang (1994), l’avvio del processo deve essere fatto risalire al colpo di stato con cui il generale Park Chung Hee (educato nelle file dell’esercito giapponese nel corso dell’occupazione del Manchukuo, ed emerso nella nomenclatura militare durante la Guerra di Corea) assume il potere nel 1961. La discontinuità prodotta dall’avvento di Park (che resterà al potere per quasi un trentennio, fino al suo assassinio nel 1979, limitando fortemente i diritti civili nel paese) è senza precedenti, e si sostanzia in una serie di misure massimamente stringenti volte a canalizzare le risorse dell’economia verso un massiccio processo di sviluppo del settore industriale. Le misure includono la completa nazionalizzazione del sistema bancario (che verrà parzialmente ri-privatizzato solo nel 1982), e quindi il totale controllo sulla direzione dei flussi di finanziamento all’economia; la centralizzazione del potere di controllo dell’economia in un unico ministero (Economic Planning Board nella formulazione inglese) comprendente sia il versante delle entrate che quello della spesa (con l’obiettivo di eliminare ogni conflitto tra i due momenti); l’arresto di molti esponenti di primo piano dell’imprenditoria nazionale, e il loro successivo rilascio sotto condizione di “servire la nazione attraverso l’impresa” (ovvero di impegnarsi a costruire e gestire nuovi impianti negli ambiti settoriali indicati dal Governo); la mobilitazione del paese 20 sotto l’egida di un “Piano di rinascita della nazione”, in un quadro in cui le forze di lavoro vengono definite “soldati industriali” e gli esponenti del management vengono premiati in cerimonie pubbliche con medaglie in ragione dei risultati ottenuti (soprattutto sui mercati esteri); la centralizzazione nelle mani dello Stato della proprietà delle imprese appartenenti a molti settori considerati strategici (energia, fertilizzanti, acciao, elettricità). Come si vede, si tratta di una politica che può essere perseguita in questi termini soltanto nel quadro di un sistema politico autoritario. Ma è importante sottolineare che regimi autoritari hanno caratterizzato – in termini spesso ben più oppressivi – anche altri sistemi economici che non sono stati in grado di sviluppare nulla di comparabile sul terreno dello sviluppo industriale. La centralità attribuita a una strategia di industrializzazione di questa profondità, e la costanza con la quale essa è stata perseguita per così tanti anni, riflettono un atteggiamento fortemente influenzato dal corporativismo giapponese; in questo quadro le variabili di riferimento della politica sono prima di tutto a) l’accumulazione di capitale su basi nazionali (ossia escludendo l’afflusso di investimenti dall’estero) e b) il conseguimento di economie di scala nell’ambito manifatturiero. Il “modello” di industrializzazione è esplicitamente fondato sulla centralità della grande impresa. [Questo orientamento è del tutto coerente con la logica dello sviluppo manifatturiero che caratterizza – nei paesi già industrializzati – gli anni Sessanta, che sono quelli in cui il processo viene avviato, ma rimarrà inalterato anche negli anni successivi, nei quali invece in molti paesi industriali il sistema manifatturiero sarà investito da una progressiva frammentazione della struttura produttiva in senso verticale]. 21 Alla determinazione con cui le risorse dell’economia vengono canalizzate verso gli investimenti corrisponde infatti una sistematica penalizzazione dei consumi, ottenuta attraverso tutti gli strumenti disponibili (alle banche, che sono pubbliche, è fatto divieto di fornire credito al consumo, l’imposizione indiretta è costantemente elevata, l’importazione di beni di consumo dall’estero è scoraggiata attraverso barriere tariffarie). Il cambiamento strutturale che ne deriva – in termini di aumento di rilevanza della manifattura – è eccezionalmente intenso, e il risultato di questa politica sul piano della crescita è strabiliante: tra il 1963 e il 1972 la manifattura coreana cresce a un tasso medio annuo del 18,3%; e, sulla spinta del lancio di un programma di “Heavy and Chemical Industrialisation” (HCI), la crescita sale al 24,7% nel quinquennio successivo (1973-78), a fronte del vistoso slowdown del tasso di crescita che negli stessi anni investe l’intero mondo industriale. Il peso delle industrie incluse nel HCI passa da 22.8% nel 1961 a 39% del 1974, e poi a 44,5% nel 1978. In questo ambito vale la pena di sottolineare la stupefacente performance dell’industria cantieristica, nata dal nulla per diretta disposizione del generale Park (contro la volontà di un importante e influente gruppo industriale come Hyundai), che nel giro di poco più di un decennio (tra il 1973 e il 1986) passa da una quota sull’output mondiale pari a zero a una quota del 21,6%, e attualmente detiene la seconda posizione a livello mondiale dopo il Giappone. * L’indirizzo è esercitato dall’Economic Planning Board attraverso una serie di piani quinquennali. L’idea che guida questa politica – che per molti anni è stata peraltro condotta in un contesto sostanzialmente autoritario – è che, in un’economia in via di sviluppo, anche se un’industria può non essere profittevole in un determinato momento ai prezzi dati, questo non significa che essa non possa diventarlo. Questo atteggiamento, mentre si risolve “localmente” in una limitazione delle forze di mercato, riflette in realtà una visione di lungo periodo delle condizioni che consentono una forte presenza sul mercato: 22 [“What differentiates the Korean state’s attitude toward the market from that of many other states is that it has taken a dynamic view of the market whereby problems of technical change and learning, rather than allocative efficiency, have taken centre stage.” (Chang, 1994] 23 [Cenni sul “modello” cinese] In generale, la stessa natura autoritaria dello Stato implica di per sé una capacità di indirizzo assoluta, che si sostanzia nell’adozione di provvedimenti di tipo amministrativo; ma l’obiettivo dello sviluppo industriale è in ogni caso perseguito in Cina attraverso il ricorso a tutti gli strumenti canonici dell’intervento pubblico (“indiretti”) tipici della storia trascorsa dei paesi già industrializzati: proprietà diretta delle imprese da parte dello Stato, allocazione selettiva dei flussi di credito (anche in questo caso, come in quello coreano, l’intero settore del credito è di proprietà pubblica), agevolazioni fiscali a industrie individuate come target, barriere alle importazioni (tariffarie e non), domanda pubblica, e massima attenzione alla grande dimensione di impresa. Negli anni che seguono l’apertura al mercato (cioè dopo il 1979), all’economia di piano si comincia ad affiancare gradualmente un’economia “di mercato” i cui protagonisti sono principalmente imprese di proprietà delle municipalità (Town and Village Enterprises). Le TVE emergono prevalentemente nei settori ad alta intensità di lavoro, per sfruttare quella che è al momento la risorsa principale del paese. Nello stesso periodo vengono ristrutturate – ma non privatizzate, data anche l’assenza di un mercato dei capitali adeguato – anche le imprese statali (State Owned Enterprises). Un tratto peculiare della variante cinese del “modello asiatico” è rappresentato dalla speciale rilevanza assunta dai flussi di investimento diretto dall’estero (che, come visto più sopra, è invece massimamente osteggiata nei casi giapponese e coreano). Il problema principale dell’investimento estero in entrata – rappresentato dallo spiazzamento dell’industria locale – è superato canalizzandolo all’interno delle c.d. “Zone Economiche Speciali” (aperte fin dall’inizio al libero scambio, diversamente dal resto dell’economia che si aprirà solo a uno stadio di sviluppo più avanzato), e vincolando gli investitori a esportare l’intero ammontare dell’output prodotto (vincolo che viene gradualmente rilassato, man mano che le ZES cominciano a ospitare anche imprese nazionali). Le multinazionali interessate al mercato interno vengono invece condizionate a realizzare joint venture con imprese locali, forzando il trasferimento diretto di tecnologia all’interno del paese. Negli anni Novanta finisce l’economia di piano (rimangono i piani quinquennali ma solo come indirizzo) e aumentano le disponibilità finanziarie per fornire incentivi alle imprese grazie alla crescita avvenuta negli anni precedenti; l’aumento dell’occupazione nel settore privato permette di realizzare una forte concentrazione (riduzione del numero delle imprese e degli occupati) nell’ambito delle imprese statali, le ZES aumentano di numero e la crescita si fa sempre più export led. Questa seconda fase si chiude con l’entrata nel WTO 24 (dicembre 2001). Nel complesso le imprese cinesi godono di un sostegno statale che non ha eguali nel resto del mondo, in un quadro in cui – economia di mercato o no – il potere di indirizzo dello Stato resta formidabile. Attualmente le politiche industriali sono di competenza del Governo centrale, all’interno del quale svolge un ruolo centrale la National Development and Reform Commission (evoluzione della struttura che si occupava dagli anni Cinquanta della stesura dei piani quinquennali). La NDRC, che di fatto sovrasta i singoli ministeri, ha il compito di formulare le strategie per lo sviluppo di lungo periodo per quanto riguarda gli aspetti sia macro che micro economici, e ha il potere di approvare tutti gli investimenti più importanti (sia nel paese che all’estero). Una istituzione altrettanto importante è la State-owned Assets Supervision and Administration Commission (SASAC), costituita nel 2003, che è una Ownership Agency posta sotto diretto controllo governativo (il suo presidente ha rango di ministro) che controlla direttamente le imprese dei settori considerati strategici, a sostanziale monopolio statale (difesa, telecomunicazioni, petrolio, elettricità, carbone, shipping transoceanico, linee aeree), e indirettamente (attraverso altre holding) anche imprese che operano in mercati concorrenziali. Molte politiche vengono implementate a livello provinciale, o anche a livello inferiore, in un complesso rapporto di concorrenza e cooperazione tra diversi livelli decisionali (sia NDRC sia SASAC dispongono di branch a livello provinciale). Come nel caso coreano – e diversamente dal caso giapponese – l’industrializzazione della Cina, nel cui ambito trova comunque spazio anche l’attività di imprese di dimensione medio-piccola – è incardinata sulla ricerca di rendimenti di scala crescenti. In questo senso anche nel caso cinese l’orientamento verso la grande dimensione – massimamente intenso negli anni Ottanta – appare relativamente in controtendenza rispetto a quanto si manifesta in molte economie industrializzate nello stesso periodo; ma – nel quadro di cui si parla, che è quello dello sviluppo di una grande economia in forte ritardo – la questione presenta una connotazione specifica: l’avvio del processo di industrializzazione costituisce una condizione a sé, in cui le condizioni di contesto presentano carattere del tutto peculiare. 25