USUFRUTTO SUI BENI INTESTATI AI MINORI E AFFIDAMENTO

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USUFRUTTO SUI BENI INTESTATI AI MINORI E AFFIDAMENTO
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FOCUS
USUFRUTTO SUI BENI INTESTATI AI MINORI E AFFIDAMENTO CONDIVISO
Marina Marino
Avvocato del Foro di Roma
Il tema dell’usufrutto sui beni intestati ai figli minori porta con sé notevoli problemi interpretativi
che si sono ulteriormente complicati a seguito dell’applicazione della legge n. 54 del 2006.
Preliminarmente è utile ricordare che, ai sensi dell’art. 324 c.c., non sono soggetti a usufrutto legale:
• le pensioni di reversibilità da chiunque corrisposte;
• i beni:
a) acquistati dal figlio con i proventi del proprio lavoro;
b) lasciati o donati al figlio per intraprendere una carriera, un’arte o una professione;
c) lasciati o donati con la condizione che i genitori esercenti la potestà, o uno di essi, non ne
abbiano l’usufrutto (la condizione non ha tuttavia effetto per i beni spettanti al figlio a titolo di legittima);
d) pervenuti al figlio per eredità, legato o donazione, e accettati nell’interesse del figlio contro
la volontà dei genitori esercenti la potestà (se uno solo di essi era favorevole all’accettazione, l’usufrutto legale spetta esclusivamente a questi).
Per quanto attiene agli aspetti fiscali relativi ai beni dei figli minori, non soggetti a usufrutto, va
precisato che i redditi che derivano da tali beni devono essere dichiarati da uno dei genitori a nome di ciascun figlio; se la potestà è esercitata da uno solo dei genitori, la dichiarazione deve essere presentata da questi.
Stante la specifica elencazione normativa dei beni dei minori non soggetti a usufrutto legale, ne discende che tutti gli altri beni intestati ai figli minorenni sono soggetti a usufrutto legale dei genitori.
Lo stesso art. 324 c.c. stabilisce infatti che: “I genitori esercenti la potestà hanno in comune l’usufrutto dei beni del figlio”, e l’art. 327 c.c. precisa che: “Il genitore che esercita in modo esclusivo la
potestà è il solo titolare dell’usufrutto legale”.
L’esame della giurisprudenza ci permette di affermare che prima dell’entrata in vigore della legge
n. 54 del 2006, nei casi di separazione o divorzio dei genitori, non sono sorti rilevanti problemi interpretativi, in quanto si riteneva pacifico che l’usufrutto spettava al coniuge affidatario dei figli minori.
Successivamente all’entrata in vigore della legge sull’affidamento condiviso, poiché l’ipotesi ordinaria di affidamento dei figli minori è l’affidamento condiviso a entrambi i genitori, appare chiaro
che, nell’ipotesi di esistenza di beni immobili di proprietà di un figlio minore, l’usufrutto sui medesimi spetterà a entrambi i genitori, con tutte le intuibili conseguenze che potranno prodursi nell’ipotesi di contrasto tra gli stessi e del conseguente pregiudizio che potrà derivarne al minore.
Laddove non vi sia conflitto tra i genitori, gli stessi dovranno decidere come impiegare i frutti del
bene di proprietà del minore, seguendo la regola dell’accordo; laddove però non vi sia accordo o
i genitori siano separati o divorziati e i figli siano affidati in regime di affido condiviso, i genitori
potranno chiedere al giudice di autorizzare la scelta proposta da uno dei due, oppure chiedere al
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giudice di nominare un curatore che amministri i beni del minore, con il conseguente aumento di
spese, a danno del minore, che questo comporta.
Di certo la circostanza che due genitori trovino un accordo per attribuire ai figli posizioni giuridiche soggettive – che, essendo previste a diretto vantaggio della prole perché attribuite in adempimento di obblighi (artt. 30 della Cost. e 147 e 148 c.c.), individuano quali soggetti attivi solo ed
esclusivamente i figli –, dovrebbe escludere che il genitore affidatario, e nel caso di affidamento
condiviso i genitori, possa vantare diritti sui frutti del bene intestato al figlio.
Infatti, laddove sia rispettato il principio della proporzionalità regolato dall’art. 148 c.c., non c’è motivo di pretendere il rimborso di spese effettuate nell’interesse del minore utilizzando i frutti percepiti. È ben vero che l’art. 324 c.c. prevede che i frutti percepiti siano destinati al mantenimento
della famiglia e all’istruzione e educazione dei figli, ma non si deve dimenticare l’esistenza e, a giudizio di chi scrive, la prevalenza dei princìpi affermati dal legislatore negli articoli 147 e 148 c.c.
Pertanto le spese straordinarie, e cioè quelle relative a cure mediche non coperte dal Servizio sanitario nazionale o quelle necessarie alla formazione culturale del minore e sportive, dovranno essere corrisposte dai genitori nel rispetto della medesima proporzionalità che si utilizza nella determinazione del contributo al mantenimento dei figli ex art. 148 c.c., sempre che queste spese siano
effettivamente necessarie e consone alle possibilità economiche dei genitori.
Si deve anche tenere presente che i genitori frequentemente concordano modalità alternative di
contribuzione al mantenimento dei figli, prevedendo, anziché un assegno periodico, la corresponsione di un importo o la costituzione o traslazione di diritti reali su beni, a titolo di una tantum
per i figli.
Il principio cardine che regola l’obbligo di mantenimento nei confronti dei figli è quello contenuto nell’art. 148 c.c., che disciplina in maniera inderogabile sia l’aspetto della proporzionalità sia
quello dell’interesse del minore. Spesso ci si è trovati di fronte alla domanda se sia o meno possibile determinare il contributo al mantenimento dei figli, da parte di un genitore, con la corresponsione una tantum, come quella prevista per il coniuge nel divorzio. Alcuni ritengono che tale ipotesi non sia in alcun modo percorribile, con la conseguenza che tale statuizione contenuta nell’accordo debba essere considerata tamquam non esset, altri invece la ritengono ammissibile.
Deve essere chiarito che i genitori, all’atto della separazione, dovranno comunque avere piena consapevolezza che, contrariamente a quanto previsto per la corresponsione una tantum in favore del
coniuge all’atto del divorzio, questa corresponsione non è liberatoria in quanto un assegno di contributo al mantenimento dei figli ben potrà essere nuovamente determinato, ove tale contribuzione una tantum non risponda più ai criteri di cui all’art.148 c.c. sovraindicati.
In ordine all’ammissibilità o meno di detti accordi la giurisprudenza di merito è divisa e ha articolato opinioni anche assai difformi tra loro.
In via preliminare va detto che queste contribuzioni hanno, usualmente, per oggetto il trasferimento o la costituzione di diritti reali a favore dei figli minori.
Una parte della giurisprudenza di merito esclude fermamente l’ammissibilità di questi accordi e il
valore liberatorio degli stessi, e ciò in considerazione sia del silenzio della normativa in ordine alla possibilità di liquidare con il pagamento di una tantum l’obbligo al mantenimento dei figli, sia
dell’indisponibilità del medesimo diritto. Da questa analisi non può che discendere la facoltà per
il Tribunale di determinare, comunque, un assegno a titolo di contributo al mantenimento dei figli
minori.
Altre sentenze di merito ritengono invece ammissibili gli accordi tra i coniugi che prevedano la costituzione o la traslazione di diritti reali in capo ai figli e, quindi, riconoscono la validità della liquidazione una tantum dell’assegno in favore dei figli. Alcune di esse, come la sentenza della Corte
d’Appello di Milano, si limitano ad affermare la liceità della liquidazione una tantum a mezzo del
trasferimento di un diritto reale su di un bene (nel caso di specie era stata trasferita la nuda proprietà di un immobile al figlio e l’usufrutto sullo stesso alla madre affidataria) con il contemporaneo riconoscimento che, ove le situazioni si fossero modificate, il genitore affidatario avrebbe potuto chiedere la modifica delle condizioni della separazione con la determinazione di un assegno
per il mantenimento del figlio, in aggiunta al trasferimento operato. Il Tribunale di Vercelli e la Cor-
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te d’Appello di Torino hanno qualificato l’accordo con il quale un coniuge, nell’ambito degli accordi di separazione, si impegna a trasferire la titolarità di un determinato bene immobile ai figli quale contratto a favore di terzi, con la conseguenza che, in caso di mancato trasferimento successivamente all’omologazione della separazione, la legittimazione ad agire per ottenere la sentenza costitutiva spetta ai terzi e cioè ai figli. Appare quindi chiaro che se il negozio traslativo o costitutivo dei
diritti reali a favore dei figli, concluso dai coniugi all’atto della separazione consensuale, deve essere configurato come un negozio in favore di terzi, il figlio si trova a essere il terzo beneficiario.
Accanto a questa giurisprudenza di merito vi è quella di legittimità che inquadra l’accordo relativo
al trasferimento, o la costituzione di diritti reali su un immobile in favore dei figli, come accordo
di diritto familiare e si rifiuta di inquadrarlo nello schema del contratto a favore di terzi di cui all’art. 1411 c.c. A questo riguardo la Cassazione con la sentenza n. 4277/78 ha negato che al figlio
potesse essere riconosciuta la qualifica di terzo beneficiario ex art. 1411 c.c., poiché – rilevava la
Corte – il figlio era parte del negozio medesimo e ciò deriva dall’inquadramento che la Corte faceva di questa situazione, definendola accordo o convenzione di diritto familiare sottratta alle regole generali del negozio giuridico.
Successivamente, la Suprema Corte ha mutato opinione e ha ritenuto di inquadrare la questione sotto il profilo del contratto con obbligazioni del solo proponente di cui all’art. 1333 c.c., sostenendo:
“Allorché taluno, in sede di separazione coniugale consensuale, assume l’obbligo di provvedere al
mantenimento di una figlia minore, impegnandosi a tal fine a trasferirle nel prossimo futuro un determinato bene immobile, pone in essere con il coniuge un contratto preliminare a favore di terzo.
Quando poi, in esecuzione di detto obbligo, dichiara per iscritto di trasferire alla figlia tale bene, avvia il processo formativo di un negozio che, privo della connotazione dell’atto di liberalità, esula dalla donazione ma configura una proposta di contratto unilaterale, gratuito e atipico che, ai sensi dell’art. 1333 c.c., in mancanza di rifiuto del destinatario entro il termine adeguato alla natura dell’affare e stabilito dagli usi, determina la conclusione del contratto stesso e, quindi, l’irrevocabilità
della proposta. A nulla rilevando che la volontà di accettazione non risulti da atto scritto, dovendosi ritenere assolto l’obbligo della forma attraverso le modalità con cui è stata formulata la proposta”.
All’inizio degli anni Novanta, la Corte di Cassazione, in relazione all’accordo con il quale i coniugi pongono fine alla convivenza, ha affermato: “Esso può invero riguardare anche negozi che, pur
trovando sede ed occasione nella separazione consensuale, non hanno causa in questa, in quanto
non sono direttamente collegati ai diritti ed agli obblighi che derivano dal perdurante matrimonio:
tali negozi pertanto non si configurano come convenzioni di famiglia, quali figure giuridiche distinte dai contratti e caratterizzate da un sostanziale parallelismo di interessi e volontà (v. in tal senso
Cass. 1978 n. 4277), ma costituiscono espressioni di libera autonomia contrattuale. Come questa Suprema Corte ha frequentemente affermato (v. tra le altre, Cass. 1984 n. 3940), è diritto di ciascuno
dei coniugi condizionare il proprio consenso alla separazione personale ad un soddisfacente assetto
globale dei propri interessi economici, sempre che con tale composizione non si realizzi una lesione
di diritti inderogabili. La sentenza impugnata ha configurato le obbligazioni assunte con la richiamata scrittura del 22 aprile 1977, ed in particolare quella con la quale la Greco si impegnava a trasferire al marito l’appartamento di via Trieste, come modalità del più ampio accordo transattivo raggiunto tra i coniugi nell’ambito della loro discrezionale ed autonoma determinazione, rivolto al fine di definire il giudizio di separazione promosso dal Coglitore con addebito alla moglie e di prevenire l’altro, che il medesimo si era riservato di promuovere in ordine alla proprietà della casa coniugale e del negozio gestito dalla Greco.
La configurazione della fattispecie contrattuale delineata dalla Corte di merito appare immune da
errori di diritto, tenuto conto che l’oggetto del negozio transattivo va identificato non in relazione alle espressioni letterali usate dalle parti, ma alla oggettiva situazione di contrasto che esse hanno inteso comporre attraverso reciproche concessioni (Cass. 1988 n. 3714); che le reciproche concessioni
cui fa riferimento l’art. 1965 c.c. debbono intendersi rapportate alle posizioni assunte dalle parti stesse non solo nella lite in atto, ma anche in vista di controversie che possano insorgere tra loro e che
esse intendano prevenire, ed in particolare vanno commisurate alle rispettive pretese e contestazioni
concretamente formulate, e non ai diritti effettivamente spettanti in base alla legge (Cass. 1987 n.
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4619); che infine il giudice, allo scopo di verificare la natura ed il contenuto transattivo dell’accordo, può attingere ad ogni elemento idoneo a chiarire i termini dell’intesa, anche se non richiamato
nel documento, senza che ciò comporti violazione del principio della prova scritta (Cass. 1983 n.
3758; Cass. 1988 n. 3714, cit.). È peraltro noto che l’indagine compiuta dal giudice di merito al fine di stabilire l’oggetto, l’estensione ed i limiti della transazione inerisce ad un apprezzamento di fatto insindacabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione esente da vizi logici ed errori giuridici (Cass. 1981 n. 4612)”.
In buona sostanza la Corte di Cassazione riconosce che al momento della separazione consensuale i coniugi possono raggiungere accordi che non trovano causa nella separazione medesima e che
possono quindi avere natura negoziale; pertanto a detti accordi andranno applicate le regole generali del negozio giuridico.
Questo tipo di accordi è ritenuto ammissibile dal momento che con gli stessi si disciplinano gli
aspetti economici della separazione e gli stessi possono far parte del contenuto del verbale di separazione. Dal punto di vista dei requisiti formali l’accordo, in quanto inserito nel verbale di udienza – redatto da un ausiliario del giudice a norma dell’art. 126 c.p.c. e diretto a far fede di ciò che
in esso è attestato –, deve ritenersi che assuma la forma di atto pubblico ai sensi e per gli effetti di
cui all’art. 2699 c.c., costituendo, a seguito dell’omologazione, titolo per la trascrizione, ai sensi dell’art. 2657 c.c.
La Cassazione, con la sentenza del 15 maggio 1997, n. 4306, ha affermato che il trasferimento di
diritti reali, dal momento che si riconnette alla convenzione diretta a regolare il regime della separazione (essendone parte), ne segue validamente la forma, senza che si possa distinguere fra trasferimenti onerosi o gratuiti. Tale distinzione, infatti, assume rilievo in quella sede sotto il profilo
formale, essendo l’atto disciplinato, in via esclusiva dalla normativa speciale dell’art. 126 c.p.c.
Nella prassi, molti Tribunali di merito hanno accolto tale soluzione e significativa al riguardo è la
sentenza del Tribunale di Cagliari1: “Il Tribunale, nel recepire la volontà dei coniugi di compiere un
trasferimento immobiliare in seno al verbale di separazione consensuale, svolge funzione analoga a
quella dell’ufficiale rogante; è perciò nullo il trasferimento se dal predetto verbale non risultino gli
estremi della licenza edilizia o della concessione in sanatoria, o la dichiarazione sostitutiva di atto
notorio attestante la preesistenza dell’opera al giorno 1 settembre 1967, o ancora se non sia allegata copia della domanda di sanatoria munita degli allegati. 2 ottobre 2000”.
Altra parte della giurisprudenza solleva obiezioni che attengono ai controlli formali, normativamente previsti, nel caso di atti che abbiano per oggetto diritti reali. In particolare, si osserva che il giudice che riceve le dichiarazioni delle parti relative a un trasferimento immobiliare in sede di separazione consensuale o di divorzio congiunto, si limiterà a verificare che i coniugi effettuino le dichiarazioni di conformità urbanistica dell’immobile previste dall’art. 40 della legge n. 47/85 o, nell’ipotesi che si tratti di un trasferimento di terreni, richiederà il deposito del certificato di destinazione urbanistica di cui all’art. 18 della stessa legge, adempimenti dovuti a pena di nullità dell’atto
di trasferimento. Conseguentemente, coloro che sostengono tale indirizzo ritengono che il giudice
debba limitarsi a dare atto della volontà delle parti di effettuare il trasferimento immobiliare indicato nel verbale, al quale potrà essere riconosciuta natura di contratto preliminare di vendita, ma
nessun controllo sulla validità dell’atto è richiesto. Ciò in quanto non essendo il trasferimento immobiliare parte del contenuto necessario della separazione, non sarebbe compito del Tribunale vagliarne la validità.
In relazione alle problematiche che tutto questo comporta è bene osservare come, nonostante l’entrata in vigore dell’art. 23 legge n. 229/2003 che ha disposto l’abrogazione dei commi 13 ter, 13
quater, 13 quinquies dell’art. 3 d.l. n. 90/90, non sia più prevista, a pena di nullità, la dichiarazione di parte di inserimento dell’immobile nella denuncia dei redditi e che la situazione sia tale per
cui la scelta migliore sia quella di stipulare, prima della comparizione dei coniugi dinanzi al Presidente per la sottoscrizione del verbale di separazione consensuale, un atto di compravendita con-
1
Tribunale di Cagliari, sentenza pubblicata in Riv. Giur. Sarda 2001, 785.
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dizionato alla sottoscrizione del verbale di separazione alle condizioni contenute nel ricorso. Tale
soluzione garantisce entrambe le parti; evita che si debba avviare un giudizio che tenga luogo dell’atto di trasferimento che eventualmente si renda necessario per il rifiuto a stipulare da parte di
colui che si era impegnato a trasferire la proprietà dell’immobile; evita i pericoli connessi al tempo non breve intercorrente tra la sottoscrizione del verbale, l’omologazione, il rilascio delle copie
e la trascrizione. Evita, cioè, che nel frattempo il coniuge possa trasferire a terzi la proprietà dell’immobile con atto notarile che verrebbe a essere trascritto certamente prima del verbale di separazione.
Ormai, assai più che in passato, la giurisprudenza riconosce la legittimità del trasferimento di proprietà di un bene immobile in capo a un figlio minore, in quanto soggetto di diritto autonomo, laddove questo trasferimento abbia come scopo quello dell’adempimento degli obblighi ex artt. 147
e 148 c.c. da parte di quel genitore, con conseguente estinzione, totale o parziale, dei sovra richiamati obblighi.
Per tutti quei casi in cui l’intestazione di un bene immobile affittato, di titoli di Stato, di un pacchetto azionario o di fondi di investimento al figlio minore venga scelta dai genitori come una tantum dell’assegno di mantenimento per i figli (ad esempio in tutti quei casi in cui questa scelta risulti essere di maggiore tutela per il figlio rispetto alla corresponsione di un assegno mensile, in
considerazione delle problematiche relative all’esecuzione futura dell’obbligo di mantenimento,
che potrebbe essere così improbabile da mettere a rischio il diritto del figlio a essere mantenuto,
o perché detto assegno è stato determinato sulla scorta del reddito che appare e sarebbe assai difficile la dimostrazione del reddito reale), sarà utile, se non necessario, nel caso di affidamento condiviso, prevedere nello specifico la rinuncia del genitore che trasferisce detto bene all’usufrutto su
di esso onde evitare che l’autore del trasferimento possa tentare di avvantaggiarsene, con il pericolo che il rischio, che si è evitato con il trasferimento, torni a ripresentarsi sotto altra forma.
Sentenza interessante è quella del Tribunale di Salerno del 4 luglio 2006 che, in tema di reclamo
ex art. 2674 bis c.c. e 113 ter disp. att. c.c. contro la trascrizione con riserva, affronta gli argomenti più importanti in materia: quello della natura degli atti di trasferimento di questo tipo, quello della compatibilità degli stessi con la struttura del contratto a favore del terzo, quello del contenuto
necessario o meno degli accordi di separazione e della possibilità che al verbale di separazione
venga riconosciuto di essere titolo valido alla trascrizione.
Il problema dell’usufrutto si pone anche al momento dello scioglimento della comunione legale: in
forza dell’art. 194, II comma c.c., il giudice, cioè il Tribunale per i Minorenni, su ricorso del coniuge affidatario, può costituire a favore di quest’ultimo l’usufrutto su una parte dei beni spettanti all’altro coniuge in conseguenza dello scioglimento della comunione. In considerazione del carattere
pubblico del bene che questa norma intende tutelare, non sono validi accordi che escludano la possibilità di farvi ricorso e il Tribunale per i Minorenni, quando i coniugi applicano concordemente
l’art. 194, II comma e, quindi, costituiscono l’usufrutto su una parte dei beni dell’obbligato, ben potrà rideterminare la quota ove la medesima non venisse ritenuta adeguata alla tutela dei minori.
Questa normativa che, per molto tempo ha tutelato i diritti dei minori a non vedersi privati della
possibilità di continuare a vivere nella casa dove erano sempre vissuti e che negli anni ha garantito loro la possibilità di vedere soddisfatti i diritti di credito eventualmente maturati a seguito dell’inadempimento di uno dei genitori, con la legge sull’affidamento condiviso perde parte della propria peculiarità, dal momento che si pongono non pochi problemi, soprattutto di carattere processuale, ai quali fino a ora non sono state date risposte dalla giurisprudenza. Nell’ipotesi in cui un immobile è di proprietà comune dei coniugi affidatari in via condivisa dei figli minori e il coniuge, che
non vive nella casa, decida di voler sciogliere la comunione su detto bene e procedere, di conseguenza, alla vendita del medesimo, è legittimo chiedersi chi abbia la legittimazione attiva a proporre al Tribunale per i Minorenni, competente per territorio, la richiesta di costituzione di un usufrutto in favore del figlio e, in modo particolare, se sia necessario procedere alla nomina di un curatore in considerazione dell’evidente conflitto di interessi, quantomeno rispetto al genitore che intende procedere allo scioglimento della comunione e alla conseguente divisione del bene comune.
Vi sono infine delle notazioni di carattere fiscale relative a detti trasferimenti. La Cassazione, con
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la pronuncia del 30 maggio 2005, n. 11458, ha ritenuto, per quello che attiene ai casi di trasferimento di immobili effettuati come adempimento di accordi determinati e assunti in sede di separazione personale dei coniugi, che nel caso di un trasferimento gratuito da parte del padre separato alle figlie della propria quota di proprietà della casa di abitazione, in ottemperanza a un’obbligazione assunta in sede di separazione consensuale, si dovesse applicare non la normativa generale sugli atti di trasferimento di beni immobili tra coniugi o tra parenti in linea retta, ma la normativa speciale sugli atti esecutivi di atti di separazione personale tra coniugi di cui all’art. 19, legge 6 marzo 1987, n. 74.
Di opinione difforme è l’Agenzia delle Entrate che in una propria risoluzione (Risoluzione 151/E
del 19 ottobre 20052) esclude dal beneficio, di cui all’art. 19 l.div., la cessione di una quota di un
immobile al figlio della coppia all’interno di un procedimento di divorzio, perché tale cessione
“non sembra trovare causa giuridica nella sistemazione dei rapporti patrimoniali fra i coniugi al
momento dello scioglimento del matrimonio, bensì in un intento di liberalità nei confronti di un soggetto terzo (nella fattispecie uno dei figli), circostanza che non appare strettamente e funzionalmente collegata con lo scioglimento del matrimonio e che, peraltro, avrebbe potuto essere realizzata in
qualunque momento”.
Questa interpretazione dell’Agenzia delle Entrate non convince affatto, dal momento che detti trasferimenti non hanno una causa di liberalità all’origine, ma sono trasferimenti in adempimento agli
obblighi di cui agli artt. 147 e 148 c.c. e, quindi, sono chiaramente atti relativi ai procedimenti di
separazione o divorzio e quindi con esenzione fiscale.
Per i trasferimenti che riguardano i figli nati fuori dal matrimonio, si deve considerare che la Corte Costituzionale3 ha così deciso: “Dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, lettera b), della
Tariffa, parte prima, allegata al d.p.r. 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione delle disposizioni concernenti l’imposta di registro), nella parte in cui non esenta dall’imposta ivi prevista i provvedimenti emessi in applicazione dell’art. 148 cod. civ. nell’ambito dei rapporti fra genitori e figli”. La Corte
Costituzionale è pervenuta a tale decisione ritenendo “irragionevole e non conforme all’art. 3 della
Costituzione” la non estensione ai provvedimenti ex art. 148 c.c., per la determinazione del contributo al mantenimento del figlio naturale, dell’esenzione tributaria prevista per gli atti relativi ai giudizi di separazione e divorzio estesa anche ai provvedimenti relativi ai figli. La Corte Costituzionale ha altresì affermato che la mancanza di un rapporto di coniugio tra i genitori non giustifica la
disparità di trattamento tributario del provvedimento di condanna che comporterebbe un trattamento deteriore nei confronti dei figli naturali rispetto a quelli legittimi.
Di conseguenza il principio dell’esenzione tributaria deve essere esteso anche ai trasferimenti operati dal genitore naturale a favore del figlio, in adempimento all’obbligo di contribuire al mantenimento dello stesso, se non si vuole ricreare un’ulteriore disparità di trattamento in violazione degli artt. 3 e 30 della Costituzione.
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Il testo è disponibile all’indirizzo http://www.professionisti24.ilsole24ore.com/AreaProfessionisti/Diritto/agenzia_delle_entrate%20154_05.htm?cmd=art&codid=20.0.1556497669
3 Corte Cost. 11 giugno 2003, n. 202, in Dir. fam. pers., 2003, 323.
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