Convegno Cefalù 2004 - Provincia di Pesaro e Urbino

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Convegno Cefalù 2004 - Provincia di Pesaro e Urbino
Convegno Cefalù 2004
La religione “fai-da-te”: una tentazione di oggi?
I. INTRODUZIONE
1. Una premessa necessaria
In che modo crede l’uomo occidentale contemporaneo? O, più radicalmente, hanno
ancora qualcosa in cui credere davvero le nostre società? Occorre partire da questi
interrogativi per riuscire ad inquadrare la tematica in questione, ossia per stabilire se
le modalità in cui si esprime l’uomo religioso di oggi sono davvero soggettive e per
determinare se tale “soggettivismo” sia classificabile come una “tentazione”.
L’intento di questo saggio sarà proprio quello di determinare la fisionomia di
una delle forme dell’esperienza religiosa contemporanea, quella dell’opzione
soggettiva, andando alla ricerca dei suoi paradigmi, della sua weltanschauung e delle
sue forme, osservati da un preciso punto di vista, quello fenomenologico. E’ molto
importante specificare il punto di vista del nostro procedere e del nostro descrivere
perché, se non si comprende il metodo dell’analisi, si può rischiare di travisare il
senso del discorso. La fenomenologia della religione, infatti, è attenta al senso
religioso che si esprime all’interno degli universi del credere, e cerca di comprendere,
con uno sguardo partecipato, quali siano le esperienze profonde e autentiche che in
essi si dischiudono. In questa prospettiva - osserva Kristensen – “il credente ha
sempre ragione”, ma non nel senso che un credente non sbaglia mai, quanto piuttosto
perché solo ascoltando empaticamente il senso religioso che ciascuno,
individualmente o in gruppo, vive, si riescono a percepire i significati elaborati da un
uomo di fede. La fenomenologia chiede a chi si voglia avventurare in questo percorso
di far cadere ad uno ad uno i veli di ogni pre-giudizio, ossia di ciascuna precomprensione, per verificare il senso autentico del credere che si vuole indagare. Ma
cosa significa credere, in questa ottica: significa, per richiamare R. Otto 1 , aprirsi al
numinoso, ossia avvertire l’irruzione del ganz anderes, del Totalmente Altro, nella
propria esistenza; oppure, per dirla con M. Eliade, vuol dire percepire in che modo
l’uomo, attraverso il religioso, si autotrascende, traguarda il limite, protende il suo
sguardo oltre i confini angusti del mero esistente 2 . Si potrebbe anche azzardare che la
fenomenologia è particolarmente attenta al risvolto mistico della religione, stando ben
attenti, però, a non confondere l’aggettivo “mistico” con ciò che comunemente si
intende impiegandolo, ma comprendendo che esso, nel nostro discorso, indica ciò che
il credente sente profondamente in sé, ossia la base esperienziale sulla quale, in un
secondo momento, egli cristallizza in concetti o parole questo suo sentire. La
fenomenologia, dunque, vuole ritagliare proprio questo contorno al discorso: non ha
velleità teologiche, non deve appurare cosa sia giusto o sbagliato, non è obbligata a
stilare delle classifiche di gradimento tra le religioni; deve solo descrivere
dall’interno un mondo religioso affinché questo possa meglio essere dato alla
comprensione. La convinzione di fondo è, dunque, quella che in materia di religione
1
2
Cfr. R. OTTO, Il sacro. Il razionale e l’irrazionale nelle religioni, Feltrinelli, Milano 1989, p 17 e p. 34
Cfr. M. ELIADE, Il sacro e il profano, Bollati Boringhieri, Torino 1984, pp. 103 e ss.
non si possa far altro che parlare di “esperienza”, essendo la natura di Dio, anche del
Dio che si rivela nella storia, come quello ebraico-cristiano-islamico, di per sé
incomprensibile appieno, se non studiando l’esperienza che il singolo o un’epoca
elaborano di tale rivelazione. Studiare l’esperienza, però, non significa soffermarsi su
qualcosa di necessariamente “falso”, bensì vuol dire analizzare quelle porzioni di
verità che ciascun individuo e ciascuna epoca riescono ad afferrare, nella convinzione
che registra sempre un’eccedenza di senso alla propria percezione di Dio.
2. Le due grandi modalità del credere oggi
Dobbiamo riconoscere, infatti, che non esiste un solo modo di credere nel nostro
mondo. Si potrebbe paradossalmente affermare che esistono tanti modi quante sono
le persone che credono, ma ciò ci porterebbe in una deriva interpretativa sterile. Se si
dovessero individuare alcune grandi modalità attraverso le quali, oggi, si esplicano le
esperienze religiose, occorrerebbe individuarne almeno due: quella fondamentalista e
quella soggettivistica. Non esistono solo queste, ma direi che esse sono le più
rappresentative, accanto ad una miriade di altre forme più parcellizzate, e che
entrambe nascono sulle ceneri della modernità, anche se si sviluppano in modo
antitetico.
Per comprendere dunque in che modo oggi si crede, è necessario arrestarsi e
cercare di comprendere qual è l’humus culturale e filosofico entro cui si sviluppano
anche i discorsi religiosi. Senza questa pre-comprensione la nostra indagine
franerebbe nell’inconsistenza e nel fraintendimento. Che cosa percepisce di sé l’uomo
contemporaneo occidentale? A. N. Terrin 3 ha evidenziato due grandi espressioni del
filosofo francese Lyotard 4 capaci di condensare in maniera sorprendentemente
efficace i termini di tale autopercezione, che anche noi dobbiamo assolutamente
adoperare per far luce sul nostro percorso ancora in ombra. In primo luogo, Lyotard
afferma che, nel mondo contemporaneo, “ognuno è rinviato a sé”. La modernità,
infatti, con la sua fede nella ragione, nell’indagine conoscitiva basata sul metodo
scientifico, con la sua pretesa illuministica di squarciare le tenebre dell’ignoranza,
con le sicurezze delle sue speculazioni di matrice economicistica, ha finito con
l’erodere lentamente tutte le certezze, i miti fondanti, le identità dell’uomo
occidentale. Il dubbio metodico di matrice cartesiana ha frullato i grandi paradigmi
interpretativi religiosi, filosofici e culturali che affondavano le loro radici nella
mentalità medievale, nell’illusione di poter sostituire ad essi nuovi modelli di
conoscenza, più certi o, per dirla con Leibnitz, più matematici. Ovviamente, però,
questo nuovo approccio ha finito con l’essere esso stesso travolto dall’onda lunga del
criticismo. Il “noi” dell’epica antica, la capacità catalizzante e omologante delle
grandi narrazioni di significato tipiche della cultura occidentale e, infine, anche lo
scientismo inteso come strumento nuovo attraverso il quale rileggere ogni dato, sono
venuti meno, abbandonando il soggetto alla deriva di se stesso e stordendolo in un
individualismo, che è anche narcisismo ed egocentrismo, su cui è fiorita un’ampia
3
A. N. TERRIN, Mistiche dell’Occidente, Morcelliana, Brescia 2001, p. 70 e ss.
Il testo da cui Terrin desume le due definizioni è un saggio fondamentale di Lyotard in cui si indaga il concetto di
post-modernità: J. F. LYOTARD, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1991.
4
letteratura sia nell’ambito sociologico che in quelli psicologico e filosofico 5 . Oggi,
più o meno coscientemente, l’individuo si sente abbandonato a se stesso, prigioniero,
come il Minotauro di Dürrenmatt 6 , di un labirinto di specchi capaci di restituire solo
infinite proiezioni di sé.
La seconda folgorante espressione che Terrin cattura a Lyotard è, infatti, che non
solo “ognuno è rinviato a sé”, ma che “il sé è poca cosa”. L’individuo, lasciato a se
stesso, infatti, sperimenta un profondo senso di impotenza, che consiste proprio nel
non essere più capace di organizzare grandi significati, nel faticare a orientarsi grazie
ad un sistema etico di riferimento, nel non riuscire a riconoscere il valore dell’alterità,
sperimentando proprio quello smarrimento che il Minotauro di Dürrenmatt vive.
Nello splendido racconto dello scrittore svizzero, infatti, il Minotauro non uccide
perché animato da un istinto bestiale, ma perché incapace di misurare la sua forza
davanti all’altro che gli si mostra, abituato com’è alla sua sola immagine riflessa
mille e mille volte nelle pareti a specchio della prigione nella quale è rinchiuso. Il
“sé” enfatizzato, così, rende difficile un’autentica comprensione della diversità e
della differenza, imprigionando la vista all’interno del piccolo cono di luce che
ciascuno riesce a proiettare intorno a se stesso.
Se è vero quanto abbiamo affermato all’inizio, ossia che le religioni si
strutturano intorno all’esperienza, va da sé che è in tale contesto appena descritto che
si maturano le due più grandi modalità del credere oggi, il fondamentalismo e la
religiosità soggettiva, anche se le soluzioni offerte davanti alle miserie dell’io proprie
del nostro tempo risultano differenti e, per certi versi, diametralmente opposte.
Da un lato, infatti, vi è chi va alla ricerca di nuove e incrollabili certezze,
guardando indietro e immergendosi nel passato. Per districarsi dal linguaggio
autoreferenziale dell’individualismo, cioè, il credente cerca di riscrivere un
vocabolario minimo del suo credere, ricercando in modo ossessivo le radici del
proprio mondo, ossia tuffandosi all’indietro per riemergere dal passato con il
salvagente dei fondamenti. La modernità, quindi, viene negata, messa in parentesi, o,
peggio, rifiutata integralmente perché accusata di essere fuorviante ed
eccessivamente eclettica, e sostituita con poche, incontrovertibili, “verità” alle quali
aggrapparsi per guadare le ripide dei linguaggi frammentati. L’esperienza di Dio, in
questi casi, coincide con una riscoperta del letteralismo interpretativo delle scritture,
con l’appiattimento sulla tradizione, sconfessando le provocazioni continue della
contemporaneità nella sua proteiformica essenza. Su questa esperienza religiosa forte,
che generalmente scatura da brusche conversioni, si innesta una rilettura politica che
spesso strumentalizza le istanze autentiche di coloro che la vivono. Si tratta di tutto
un settore che ritorna alla religione intesa come involucro culturale, serbatoio delle
radici e della tradizione in quanto depositaria di simboliche forti e di linguaggi
calcificanti, su cui stratificare la rinascita dell’identità culturale e sociale. In questa
accezione, anche il fondamentalismo viene strumentalizzato, strattonato e tirato in
5
Si pensi, tra gli altri, a: C. LASH, L’io minimo. La mentalità della sopravvivenza in un’epoca di turbamenti,
Feltrinelli, Milano 1996; Z. BAUMAN, Le sfide dell’etica, Feltrinelli, Milano 1996 e IDEM, La società dell’incertezza,
Il Mulino, Bologna 1999; A. GIDDENS, Le conseguenze della modernità, Il Mulino, Bologna 1994
6
F. DURRENMATT, Il Minotauro, Einaudi,
ballo per avallare visioni politiche e ideologiche non in quanto fenomeno
autenticamente religioso, bensì in forza delle sue potenzialità, ossia in virtù del fatto
che esso torna ad offrire un linguaggio chiaro, certo e definitorio su cui chi si sente
naufrago possa trovare un approdo. Nel mondo globalizzato si può dire che si è
sviluppata un’anima fondamentalista profonda che non coincide solo con i
tradizionali fondamentalismi religiosi, dai Testimoni di Geova ai Mormoni, ma che si
impianta e si sviluppa anche sul fusto delle grandi religioni, fra cui il Cristianesimo e
soprattutto l’Islam 7 .
Dall’altro lato, invece, vi è il fenomeno del soggettivismo religioso, quello che
ora dobbiamo cercare di mettere a fuoco, per comprenderne i significati, ben sapendo
che, se è difficile generalizzare in ambiti più codificati, è pressoché impossibile farlo,
senza sacrificare qualcosa, in un contesto così variegato come è quello che andiamo a
descrivere. Ma, in estrema sintesi, cosa si intende per “religione soggettiva”, per
“religione fai-da-te”? Per tenerci cara una definizione operativa, che possa servire da
macro-contenitore entro cui situare meglio i differenti significati, occorre rilevare che
è una modalità secondo la quale è necessario mettere a frutto la frammentarietà nella
quale si vive, intesa come policroma rifrazione di una verità profonda e armonica, di
un Tutto in relazione, fino a individuare quel filo rosso che aiuti il soggetto,
attraverso un percorso autonomo, a recuperare il proprio essere frammento di una
totalità. In questo senso, ciascuno diviene artefice e fine della propria ricerca, unendo
in un collage creativo quei tasselli che più si confanno alla propria sensibilità,
rinunciando ad ogni pretesa dogmatica ed affidandosi alle seduzioni della creatività e
dell’intuizione. A paradigma di questa sensibilità religiosa vi è l’Oriente con la sua
capacità affabulatrice, con le sue tecniche di meditazione, con i suoi linguaggi poetici
e mistici. Ma, ed è bene sottolinearlo subito, si tratta di un Oriente per metafora, o,
meglio di un orientalismo, a tratti onirico, e quasi sempre sganciato dai contesti reali.
E’ insomma una modalità religiosa che fino a non molto tempo fa possedeva un
nome, quello di New Age 8 , ora in disuso perché troppo compromesso con forme
religiose di superficie. Ma cerchiamo di comprendere meglio i livelli e i grandi
paradigmi concettuali entro cui si inscrive questa grande nebulosa della religiosità
soggettiva.
II. QUALI LIVELLI?
Terrin ha molto ben sintetizzato la questione, sottolineando che, ormai, si
evidenziano nettamente quattro livelli, posti a differenti profondità, a cui si possono
iscrivere i credenti postmoderni. La presenza dei livelli dichiara che esistono diverse
tipologie di appartenenza a questa religiosità – mi si permetta il bisticcio - senza
7
Sulla questione del fondamentalismo e delle sue diramazioni si legga l’agile e chiaro saggio di K. KIENZLER,
Fondamentalismi religiosi. Cristianesimo, ebraismo, islam, Carocci, Roma 2003
8
Per una decodificazione dei messaggi della New Age, perlopiù vivi nella sensibilità religiosa del credente “fai-da-te”
anche se non riconosciuti come tali, si vedano: A. N. TERRIN, New Age. La religiosità del postmoderno, EDB,
Bologna 1992, e M. GALLIZIOLI, Un’utopia mistica. Quale etica e quale politica nel pensiero New Age, Agrilavoro,
Roma 1999.
appartenenza, ossia ci sono modi diversi di leggere dall’interno il fenomeno. E’
dunque all’analisi di Terrin 9 che faccio riferimento in questa parte del discorso.
1. PRIMO LIVELLO: del magico e del terapeutico
Il primo livello, coincidente con tutte le forme di New Age, è quella che si
riconosce in uno sfondo neomagico e terapeutico. “In questo ambito – osserva
Terrin – ci incontriamo di fatto con quella frangia di religiosità popolare New
Age che è attratta dall’astrologia, dalla cartomanzia, dalla pranoterapia, dalla
telepatia, dall’energia comunicativa, da quella spiritualità o pseudo-spiritualità –
qui le etichette non servono – che ama riferirsi all’energia proveniente dalle
piramidi, dai cristalli, che va dai maghi o dai fattucchieri, che in definitiva non
accetta più il primato di ciò che è scientifico o razionale” 10 . A questo livello si
possono iscrivere anche i successi editoriali di J. Redfield 11 , la Profezia di
Celestino; la letteratura a sfondo spirituale di P. Coelho 12 ; i romanzi della saga di
Harry Potter della Rowling 13 e, ultimo in ordine di tempo, il poliziesco new age
Il Codice da Vinci 14 , che ha sedotto milioni di lettori in tutto il mondo. Il
credente “fai-da-te” che attraversa questo livello, riscopre una religione
neopagana, fatta di forze e di potenze in continua relazione fra di loro,
utilizzando linguaggi evocativi e diretti. A una maggiore profondità, ma
partendo dai medesimi principi, si situa anche la ricerca di una salvezza che sia
innanzitutto salute, riconiugando il religioso con la terapeutico 15 . Nella visione
olistica postmoderna, infatti, non si dà salvezza religiosa senza il recupero di una
dimensione di sanità psicofisica. Il religioso, quindi, si allarga alla medicina, alle
terapie alternative, all’omeopatia, nella convinzione che ogni malattia sia segno
di una disarmonia e vada compresa e superata attraverso un itinerario di
conversione, di metanoia, ossia di un radicale cambiamento di vita. Salvare il
corpo significa anche salvare lo spirito e la mente, realtà avviluppate fra loro in
maniera inestricabile. Occorre notare – prima di lanciare strali o, peggio, sorrisi
di circostanza – che il neopaganesimo e il neomagico, pur con i loro linguaggi
fragili e incerti, intercettano una domanda che probabilmente le religioni
9
Faccio riferimento al terzo capitolo di A. N. TERRIN, Mistiche dell’Occidente, cit., pp. 95-126
A. N. TERRIN, Mistiche dell’Occidente, cit., p. 102
11
Cfr. J. REDFIELD, La Profezia di Celestino, Corbaccio, Milano 1994; IDEM, La Decima Illuminazione, Corbaccio,
Milano 1995; è utile anche la consultazione delle due “guide” ai romanzi, attraverso cui gli autori cercano di
sostantivare con esercizi di meditazione e riflessioni gli argomenti toccati da Redfield: cfr. C. ADRIENNE – J.
REDFIELD, Guida alla Profezia di Celestino, Corbaccio, Milano 1995 ; C. ADRIENNE – J. REDFIELD, Guida alla
decima Illuminazione, Corbaccio, Milano 1996.
12
Il brasiliano Paulho Coelho ha pubblicato negli ultimi anni una serie di romanzi che hanno ottenuto un largo successo
commerciale, catalogabili, perlopiù, come romanzi di formazione spirituale, tra cui i più celebri sono: P. COELHO,
l’Alchimista, Bompiani, Milano 1997; IDEM, Sullq sponda del fiume Pedra mi sono seduta e ho pianto, Bompiani,
Milano 1997; IDEM, Veronica decide di morire, Bompiani, Milano1999.
13
Sono cinque i romanzi finora pubblicati della saga di Harry Potter: J. ROWLING, Harry Potter e la pietra filosofale,
Salani, Milano 1999; id., Harry Potter e la camera dei segreti, Salani, Milano 2000; id., Harry Potter e il prigioniero di
Azkaban, Salani 2001; Harry Potter e il calice di fuoco, Salani, Milano 2001; id., Harry Potter e l’ordine della Fenice,
Salani, Milano 2003.
14
D. BROWN, Il Codice da Vinci, Mondatori, Milano 2004.
15
E. FIZZOTTI, a cura di, Religione o terapia? Il potenziale terapeutico dei Nuovi Movimenti religiosi, Las,
Roma1994.
10
tradizionali hanno trascurato in maniera eccessiva, vale a dire la necessità di
simbolico che è propria dell’essere umano.
2. SECONDO LIVELLO: dell’esoterismo
Il secondo livello della religiosità soggettiva si mostra ancora come un fatto
spurio, ossia come una sorta di risposta nevrotica ad un problema socio-culturale
che l’uomo contemporaneo pare non riuscire più ad affrontare ricorrendo ai
simboli della tradizione. E’ quindi ancora una risposta estrema ad un problema al
quale le religioni tradizionali faticano a trovare una soluzione simbolica valida
per l’uomo di oggi. La questione è la più scabrosa di tutte: la morte. Per l’uomo
contemporaneo, dice P. Aries 16 , la morte è divenuta “vergogna e divieto”,
suscitando ripugnanza sociale perché intacca la pretesa di onnipotenza
dell’uomo del Terzo Millennio. Essa si è trasformata nell’ultimo vero tabù del
mondo contemporaneo e dirompe nei vissuti personali di ciascuno senza trovare
argini simbolici efficaci e pubblici. Il soggetto, quindi, costretto a fare i conti con
tale privatizzazione del morire, annaspa in un vischioso sentimento di
abbandono. E’ questa incapacità di fare i conti con la morte che spinge il
credente “fai-da-te” a cercare vie alternative per rendere nuovamente
addomesticato o, comunque, meno selvaggio, il confronto con la più terribile
delle esperienze umane, riscoprendo percorsi neoesoterci che, con un linguaggio
chiaro, semplice e in certi caso semplicistico, tornino ad aprire orizzonti di
speranza. A questo livello si viene dunque a dire che il mondo dell’aldilà è in
continua comunicazione con quello dell’aldiqua, che è possibile comunicare con
i propri cari attraverso vie immediate o, più in generale, venendo a rispolverare
credenze reincarnazionistiche attraverso cui confidare in una continuazione. Tale
tendenza è stata molto forte negli anni Ottanta, quando anche in Italia sono
arrivate le nuove forme di spiritismo, riconducibili al channeling, alla
canalizzazione degli spiriti (l’entità Seth di J. Roberts; i messaggi di Ramtha da
J. Z. Knight; “il corso in miracoli” di H. Schucman) 17 , mentre ora sembra
recedere, anche se non è del tutto scomparsa, come hanno ben compreso i vari
imbonitori dei salotti televisivi, o, con differenti esiti qualitativi, pellicole di
largo successo quali Ghost, Il sesto senso, e i più recenti The Others di Cuaron e
The village di Shalyman. Questo livello si interessa anche di esperienze di premorte, studiate dalla dottoressa E. Kübler-Ross e da R. Moody; di ipnosi
regressiva con T. Dethlefsen 18 e di altri fenomeni analoghi. Ma lo sfondo
interpretativo va sempre tenuto presente: questi fenomeni si diffondono perché
16
P. ARIES, Storia della morte in Occidente dal Medioevo ai giorni nostri, Rizzoli, Milano 1989, p. 68 e ss.
J. ROBERTS, Dialoghi con Seth. Messaggi da un’altra dimensione, Mediterranee, Roma 1986; H. SCHUCMAN, Un
corso in miracoli; RAMTHA, Dio in te. La divinità dimenticata, Macro, Cesena 1997 e, in Italia, P. GIOVETTI, I
messaggi della speranza. Un ponte tra genitori e figli: un dialogo d’amore tra “aldiquà”e “aldilà”, mediterranee,
Roma 1997.
18
Cfr. E. KŰBLER-ROSS, La morte e la vita dopo la morte. La nascita ad una nuova vita, Mediterranee, Roma 1991;
IDEM, La morte è di vitale importanza. Riflessioni sul passaggio dalla vita alla vita dopo la morte, Armenia, Milano
1995; R. A. MOODY, La vita oltre la vita. Studi e rivelazioni sul fenomeno della sopravvivenza, Mondatori, Milano
1992; TH. DETHLEFSEN, Vita dopo cita. Dialogo con i reincarnati, Mediterranee, Roma 1993.
17
probabilmente tutte le altre risposte, quella della tradizione, hanno perduto la
loro efficacia simbolica.
3. TERZO LIVELLO: del “neo-romanticismo”
Con il terzo livello entriamo in una dimensione più sostantivata della religiosità
“fai-da-te”, quella che si riallaccia direttamente al romanticismo filosofico e che
crede nel potenziale assoluto della fantasia e dell’immaginazione. In molti
cercatori spirituali postmoderni si ritrovano “(…) quegli elementi fondamentali
del romanticismo riconosciuti, direi, unanimemente e cioè il ruolo
dell’immaginazione e della poesia, la riscoperta dell’amore per la 'natura vivente'
nell’ambito di una coscienza cosmica e olistica, e infine una nuova trasparenza
del mondo attraverso l’emergenza dello spirito, del divino come vera anima
mundi” 19 . In questo senso l’immaginazione è considerata come il vero
antibiotico per riuscire a tra-guardare il reale, per scrollarsi di dosso quella coltre
di pesantezza da cui l’uomo contemporaneo si sente schiacciare, per recuperare
una nuova visione esistenziale, intendendo questa parola nell’accezione
heideggeriana. L’uomo esiste nel mondo nel senso etimologico di colui che abita
il mondo ma ha anche la capacità di trascenderlo (ex-sisto), di star fuori; è colui
che può investire sul “qui ed ora” e insieme può – e non potrebbe sopravvivere
altrimenti – proiettarsi in avanti, o al di sopra delle contingenze. In questo senso,
il credente “fai-da-te” è colui che avverte la necessità di tornare a giocare
nuovamente con i significati attraverso la leggerezza (che non significa
inconsistenza) dell’immaginazione poetica, grazie a cui reincantare nuovamente
se stesso, le sue relazioni e la realtà circostante.
4. QUARTO LIVELLO: della mistica scientifica
I paradigmi della Nuova Scienza post-ensteniana diventano l’orizzonte
epistemologico di una parte minoritaria, ma molto avveduta, di credenti “fai-date” che, seppur rifiutando i paradigmi della scienza positivista, trovano rinforzi e
avalli alla loro Weltanschauung attraverso gli studi di fisici come D. Bohm 20 , di
biochimici come R. Sheldrake 21 , di filosofi della scienza come T. Kuhn 22 e W.
Stegműller 23 , magari mediati da divulgatori quali D. Chopra 24 o F. Capra 25 .
Anche qui dobbiamo affidarci alla sistemazione che della materia ha dato Terrin,
insostituibile per chiarezza e articolazione sintetica, e, insieme, stringente dei
contenuti.
Proprio partendo dai traguardi delle ultime riflessioni scientifiche, il nuovo
mondo religioso soggettivistico viene a dire – primo assioma - che la materia non
è tale, ma energia sfuggente. La fisica subatomica, lo studio dei quanti, dei quark
19
A: N: TERRIN, Mistiche dell’Occidente, cit., p. 112
D. BOHM, Universo mente materia. L’ordine sottostante al caos nella fisica moderna, Red, Como 1996
21
R. SHELDRAKE, L’ipotesi della casualità formativa. I nuovi sentieri dell’evoluzione, Red, Como 1998
22
T. KUHN, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1978.
23
H. STECMÜLLER, Hauptströmungen der Gegenwartphilodophie, A. Kröner Verlag, Stuttgart 1986, vol. II, p. 98
24
D. CHOPRA, Guarirsi da dentro, Sperling & Kupfer, Milano 1997
25
F. CAPRA, Il Tao della fisica, Adelphi, Milano 1981; IDEM, La rete della vita, Rizzoli, Milano 1997
20
e degli anti-quark, dimostrazioni quali la costante di Plank, la funzione d’onda di
Schrődinger (psi), il principio di indeterminazione di Heisenberg vengono a
dimostrare che in realtà la materia è energia 26 .
Il secondo assioma di questo ragionamento è che l’energia appare “autoorganizzantesi”, ossia intelligente, come dimostra, ad esempio, il paradigma
olografico descritto da Bohm che “tradotto in forma molto divulgativa e
semplificata potrebbe essere così descritto: prendendo in esame il sistema formato
da due elettroni la cui rotazione (spin) avviene in senso contrario, osserviamo che
se si separano questi due elettroni con lo spin al contrario e li si colloca in due
luoghi molto lontani tra loro – ad esempio, l’uno sulla terra, l’altro sulla luna –
succede qualcosa di strano: l’inversione dello spin di uno degli elettroni produrrà
automaticamente anche l’inversione dello spin dell’altro. E’ un fenomeno di
correlazione, di autoorganizzazione assolutamente inspiegabile” 27 , che mette in
affanno la tradizionale logica formale causa-effetto.
Il terzo assioma, poi, radicalizza i primi due, virando decisamente verso una
mescolanza di scientifico e religioso perché viene ad affermare che “l’energia
auto-organizzantesi non è altro che lo spirituale, ossia il Sé delle religioni
orientali”. In questo senso, per dirla con Guitton, il mondo è “il grande pensiero
di Dio” 28 , o, per citare un grande testo indù, la Chandogya Upanishad, l’anima
sottile che pervade tutto l’esistente, come dimostra il celebre dialogo tra il
maestro Uddālaka e il giovane discepolo Svetaketu:
“Prendi di là un frutto di fico” (è Uddālaka che parla)
“Eccolo, o venerabile” (è Svetaketu che risponde)
“Spaccalo”
“Eccolo spaccato, o venerabile”
“Che ci vedi?”
“Questi piccolissimi grani, o venerabile”.
“Bene, spaccane uno”.
“Eccolo spaccato, o venerabile”.
“Che ci vedi?”
“Nulla, o venerabile”, rispose quello.
Allora il padre gli disse: “Da questa istanza sottile che tu non
percepisci, o caro, da questa essenza sottile nasce invero questo
grande albero. Stanne pur sicuro, o caro. Qualunque sia questa essenza
sottile, tutto l’universo è costituito di essa, essa è la vera realtà, essa è
l’Ātman. Essa sei tu Svetaketu”. 29
26
Cfr. A. N. TERRIN, Mistiche dell’Occidente, cit., p. 118
Id,. p. 119
28
J. GUITTON, Dio e la scienza, Bompiani, Milano 1991, nelle conclusioni
29
Chandogya Upanishad, VI, 12, 1-3. Le Upanishad (che in sanscrito significa “star seduto accanto”, con evidente
riferimento al dialogo tra maestro e discepolo) sono poemi filosofici nei quali è esposta tutta la teologia induista. Cfr. C.
DELLA CASA, a cura di, Upanishad vediche, Tea, 1988, p. 194
27
III. QUALI PARADIGMI?
Una volta definiti i differenti livelli della galassia del credere soggettivo, occorre
andare alla ricerca dei paradigmi che, con sfumature diverse, agitano la ricerca dei
nuovi nomadi dello spirito. In questo senso, si può dire che gli ambiti di attrazione cui
viene sollecitato il credente fai-da-te sono sostanzialmente due: quello orientale e
quello relativistico, che ora è necessario cercare di declinare nelle loro
determinazioni.
1. L’oriente come paradigma implicito della nuova interdipendenza uomocosmo-dio.
L’orientalismo ha rappresentato la grande seduzione occidentale del XIX e del
XX secolo, interpretando, in qualche modo, una serie di esigenze e finendo con
l’incarnarsi nel sostrato culturale occidentale per divenirne insieme coscienza critica
e via di salvezza. Certo, per dirla con Said 30 , questo oriente che ha parlato al cuore
dell’occidente è stato un universo ancora una volta simbolico, più frutto
dell’interpretazione occidentale e della proiezione dei suoi desideri che galassia
culturale e religiosa autentica. Ma è stato, comunque, essenziale per elaborare una
sorta di nostalgia della relazione e dell’interdipendenza di ogni realtà, da
contrapporre alla logica dicotomica della scienza e della filosofia occidentali.
Quali sono queste suggestioni mutuate dall’oriente?
1.1. Innanzi tutto, il desiderio generale di un recupero del senso di sé nel
mondo, avvertendo che esiste un destino comune tra l’essere della natura e l’essere
dell’uomo 31 . Si tratta dell’esigenza di superare una logica che strappa via la persona
dal fato comune di tutta la realtà naturale: l’uomo, sostiene l’oriente, è natura nella
natura, parte integrante di un sistema che non può soffrire alcuna distinzione di
merito, nessun “a parte”. Il rispetto del mondo e della natura, quindi, viene vissuto
dall’oriente come una necessità, come un incrocio obbligato, saltando il quale tutta
l’architettura del cosmo si sfalda. Ma, nello stesso tempo, la realtà e l’essere umano
che la abita non vengono mai caricati di un significato eccessivo. Accanto alla
sottolineatura dell’assoluta importanza del mondo – quasi in un gioco di luce dai forti
contrasti cromatici – la sapienza orientale insegna anche l’inconsistenza delle realtà,
donando l’ansiolitico della “leggerezza” all’ansietà dell’occidente. L’uomo è
importante, il cosmo è fondamentale, ma occorre non dimenticare mai che tutto ciò
che ci circonda è frutto di maya, ossia di una forza illusionante che fa credere
all’uomo di essere qualcosa in sé e per sé definito. In realtà, il mondo e ogni persona
sono frutto della costante opera di classificazione che continuamente l’individuo
mette in atto: con le nostre percezioni e le nostre intuizioni crediamo di comprendere
il mondo, ritagliandone i significati, separandoli fra loro, senza comprendere che ogni
significato è in qualche misura un compromesso, generato da una operazione
mentale, mentre in sé e per sé non rappresenta nulla. Il credente “fai-da-te”
generalmente riprende questi due aspetti rilanciandoli all’uomo contemporaneo: da
30
E. W. SAID, Orientalismo.L’immagine europea dell’oriente, Feltrinelli, Milano 1999, p. 11
Cfr. R. PANIKKAR, Ecosofia: la nuova saggezza. Per una spiritualità della terra, Cittadella, Assisi 1993, p. 107 e
ss.
31
un lato, infatti, sottolinea la necessità di ritrovare la propria consaguineità con la
natura e, dall’altro, invita a non dare troppa importanza al desiderio di possesso e di
dominio perché le realtà non sono come sembrano e, soprattutto, come l’uomo le
rappresenta.
1.2. In secondo luogo, l’oriente acutizza nell’occidentale un rimpianto: quello
dell’incantamento mistico e della contemplazione 32 . L’uomo occidentale
comprende che le sue chiacchiere, i suoi rumori, le sue grida vanno sempre più
coprendo la voce della natura. Questa incapacità di ascolto dell’universo diviene
anche incapacità di comunicare con l’altro per l’impossibilità di distinguerne la voce.
Ognuno parla per suo conto, mentre l’oriente ricorda all’uomo l’importanza del
silenzio che è la base per ogni contemplazione e per ogni ascolto pregnante. E’
l’esigenza di una forte capacità emotiva e sentimentale di cui si sente orfano l’uomo
postmoderno ed è propria questa capacità di ascolto e di incanto di fronte alla totalità
che, in qualche modo e spesso in maniera inconsapevole, le società del benessere
vanno cercando. E’, dunque, una necessità di mistica perché i “tempi” della
contemplazione, della pienezza emotiva, dell’innamoramento e dell’incantamento
sono diametralmente opposti al tempo della produzione e del profitto. E l’efficacia
che persegue l’oriente è legata non tanto alla funzionalità, alla quantità e al guadagno,
valori dell’occidente, ma soprattutto al rispetto dei ritmi naturali sintonizzandosi sui
quali è possibile produrre un miglioramento della qualità della vita, come afferma il
filosofo francese F. Jullien 33 . Il credente “fai-da-te”, asfissiato dai gas di scarico della
competitività e della produttività, sfiancato dai ritmi ossessivi a cui ognuno è
vincolato, ricerca nell’Oriente un’oasi nella quale sostare, riconciliarsi con se stesso,
con la natura e con gli altri, e per gustare un tempo “inutile contro la spasmodica
ricerca dell’utile e del vantaggioso, intendendo per “inutile” tutto ciò che è in grado
di conferire qualità all’esistenza senza essere in relazione al possesso.
1.3. La via del silenzio e della contemplazione tracciata dall’oriente diviene
emblematica poi per un altro motivo, ossia per il fatto che anche il corpo con la sua
simbolicità viene coinvolto. Il credente contemporaneo, infatti, predilige un
approccio più immediato, più corporeo, ossia una sorta di teologia in atto, capace di
farsi gesto, musica, canto, movimento e, come è stato affermato, anche silenzio. Per
riuscire a comprendere più concretamente il discorso, è sufficiente pensare
all’enorme e crescente successo che incontrano le discipline yoga in tutto
l’Occidente. La visione yoga orientale è esattamente la summa del nuovo bisogno
religioso perché coniuga in maniera perfetta le ragioni del corpo con quelle dello
spirito, delineando un percorso religioso in grado di emancipare l’uomo odierno dal
tabù della fisicità. L’esperienza spirituale, dunque, diviene nello yoga e in altre
discipline orientali respiro, calore corporeo, immagine mentale, silenzio, emozione,
ossia diviene sperimentabile in prima persona al di là di ogni razionalizzazione. Lo
yoga è, infatti, un’esperienza di superamento dell’io e di adesione alla totalità
32
Cfr. A. N. TERRIN, Mistiche dell’Occidente. New Age, Orientalismo, Mondo pentecostale, Morcelliana, Brescia
2001, p. 127 e ss.
33
F. JULLIEN, Trattato dell’efficacia, Einaudi, Torino 1998.
attraverso una disciplina che è, insieme, corporea e mentale 34 . Nelle profondità
estatiche delle discipline orientali l’uomo contemporaneo, così disgregato e nudo di
certezze, riesce a recuperare in una visione unitiva tutti i suoi frammenti e le sue
incertezze, liberandosi dal fardello dell’identità e percependosi parte di un assoluto averbale 35 . Non è un caso che tra i diversi sentieri dello yoga quello ad essere più
battuto in Occidente sia il meno filosofico, ossia lo hatha yoga, lo yoga del sole (ha)
e della luna (Tha) che si basa sulle posture e sul controllo delle percezioni
corporee 36 . L’interesse per lo yoga, seppur a volte sia semplicemente un fenomeno di
costume in occidente, non può essere liquidato tout court come moda passeggera ed
esotica, ma è il segno evidente di una necessità che l’uomo religioso dell’ovest
avverte in maniera sempre più netta: il bisogno di rendere partecipe il corpo
dell’avventura spirituale, divenendo capaci di pregare con il respiro, con il calore, con
la contrazione o il rilassamento dei muscoli e non solo formulando pensieri.
2. Nel caleidoscopio del “relativo”
La religione del “fai-da-te” è inoltre cosmopolita per sua stessa natura, agile
com’è nello scivolare da un piano all’altro delle differenti dimensioni religiose. Se
l’Oriente risulta essere la grande anima ispiratrice, il grande “mito” di riferimento del
nomade spirituale del nostro tempo è anche vero che egli non è schizzinoso davanti
ad alcun contributo che venga dal mondo cabalistico dell’ebraismo piuttosto che dalle
seduzioni gnostiche e neognostiche, senza escludere la grande lezione
dell’esoterismo, come abbiamo delineato nella prima parte. L’eclettismo è, infatti,
una componente essenziale del sentire religioso postmoderno, abbagliato dalle
rifrazioni che provengono dagli specchi di mille e più tradizioni religiose. La visione
eidetica che si muove dietro questa indole proteiformica va ricercata nell’elogio del
“relativo” che, più o meno consapevolmente, con maggiore o minore rigore, viene
avallato da molti di coloro che sostengono il soggettivismo in campo religioso. Ogni
immagine storica, ogni formulazione linguistica, ogni concezione razionale, ogni
spiegazione, ogni teologia, sono, infatti, tentativi che sminuzzano l’essenza stessa
dell’esperienza religiosa autentica e, quindi, relativi per costituzione. L’esperienza
originaria del divino sarebbe assoluta e incomunicabile attraverso le normali forme
della comunicazione, ma partecipabile solo per via intuitiva, o, meglio, emotiva. Nel
momento in cui le religioni hanno cercato di costruire sistemi attorno al nucleo del
sentire mistico hanno creato sostanzialmente delle analogie che sfruttano i paradigmi
culturali dei diversi contesti storici per essere comprese dagli uomini di un dato
tempo e di una data cultura. In tutto questo, il cercatore spirituale non vede
necessariamente qualcosa di sbagliato in sé, perché comprende la necessità di dare un
abito linguistico a ciò che si sente a livello esperienziale, nella misura in cui colui che
media linguisticamente l’esperienza della totalità è consapevole della parzialità del
34
Il termine yoga deriva dalla radice sanscrita yuj che significa “aggiogare” e, quindi, per estensione “unire”. Cfr. M.
STUTLEY – J. STUTLEY, Dizionario dell’induismo, Ubaldini, Roma 1980, p. 508 e ss. Per una panoramica esaustiva
sullo yoga si legga l’imprescindibile saggio: M. ELIADE, Lo yoga. Immortalità e libertà, Sansoni, Firenze 1995.
35
Cfr. A. N. TERRIN, Mistiche del postmoderno: tra il rifugio nel sé la riscoperta dell’”olon”, in: G.
BONACCORSO, a cura di, Mistica e ritualità: mondi inconciliabili?, Messaggero, Padova 1999, pp. 84-142.
36
Cfr. M. ELIADE, op. cit., p. 218 e ss.
proprio dire, ossia del fatto che esiste sempre un quid di compromissorio e di mediato
in ciò che si afferma. Il cercatore spirituale si avvicina con questa leggerezza ai
mondi religiosi, sapendo che ogni mediazione storico-linguistica dell’esperienza del
sacro è di per sé autentica e imprecisa, sfocata o stonata, ossia relativa. Viceversa,
però, ciò che motiva la mediazione, la costruzione religiosa stessa, ossia l’esperienza
della totalità, è di per sé assolutamente autentico e anche, si potrebbe dire, identico,
perché il credente soggettivo ritiene che le religioni siano solo proiezioni ortogonali
differenti a partire da un unico fulcro, uguale per tutti. L’obbedienza cieca ad un
sistema non è più considerata una virtù, tanto che ciascuno deve ritagliarsi il proprio
tessuto religioso, a partire dalla propria sensibilità, costruendosi un apparato religioso
capace di condurlo allo stesso fulcro esperienziale. In questo senso, non risulta tanto
importante il come si arriva, ma diviene sostanziale la meta, ossia le esperienze della
fusionalità e della totalità che sono fondamentalmente uguali per tutti. In qualche
modo il postmoderno mette in guardia contro l’aleatorietà del linguaggio, anche
quello religioso, di per sé sempre sdrucciolevole, per porre in primo piano la
consistenza indeclinabile dell’esperienza religiosa.
Il credente fai-da-te, dunque, si sente relativista nei confronti delle culture e delle
diversità, senza avvertire in questa sua determinazione alcunché di negativo. Al
contrario, sembra dire con Clifford Geertz 37 , uno dei più autorevoli esponenti della
corrente interpretativa dell’antropologia contemporanea, solo un sano antiantirelativismo ci salverà da una ottundente e nevrotica esaltazione egocentrica del
nostro mondo. Certo, non si tratta di un relativismo nichilista, negativo e distruttivo,
in base al quale non esiste più un ordine certo e “consacrato” ispirato a criteri
identificabili, ma, molto più semplicemente e nelle forme più avvedute e
consapevoli, una disposizione d’animo personale e sociale che mira a cogliere la
complessità del reale. E’ un relativismo che aiuta il mondo a comprendere quanto sia
complessa la realtà per soffrire di venire ridotta in categorie rigide e rinchiusa nelle
camere stagne del nostro sistema di pensiero. Le culture, in questa visuale
prospettica, sono sistemi intricati e complessi, talmente ricchi di rimandi e sfumature
da divenire quasi indecifrabili. Il credente fai-da-te ha fatto propria questa lezione
sulla complessità proveniente dall’antropologia culturale e ha elaborato il significato
più autenticamente positivo della concezione relativistica, comprendendo che ogni
cultura è un valore a sé o, per lo meno, un sistema di significati estremamente
complesso. E, soprattutto, sottolinea quanto sia necessario creare una disposizione
interiore all’incontro culturale con l’altro, sviluppando una sensibilità verso il
diverso, il lontano e, addirittura, verso ciò che sembra sghembo o rovesciato. Questo
nuovo sguardo ha, ovviamente, una ricaduta anche in termini religiosi e di
esperienzialità religiosa. In primo luogo, questa sensibilità aiuta i credenti ad
avvertirsi, nel contempo, arricchiti e depauperati dalla propria cultura: arricchiti,
perché attraverso il linguaggio, le idee, i simboli del nostro ambiente culturale siamo
in grado di pronunciare il termine “dio” e, quindi, di vivere un’esperienza religiosa;
37
Cfr. G. GEERTZ, Contro l’antirelativismo, in id., Antropologia e filosofia. Frammenti di una biografia intellettuale,
Il Mulino, Bologna 2001, pp. 57-83
ma depauperati, perché quelle stesse parole, quelle stesse concezioni e “simboliche”
sono il nostro limite, rappresentando la prigione nella quale rinchiudiamo Dio stesso.
Si tratta, in ultima analisi, di una presa di coscienza che il concetto di verità è, in
fondo, estremamente evanescente, quasi una bolla di sapone che crediamo di poter
afferrare mentre ci può solo scoppiare tra le mani se non si compie il balzo verso una
comprensione profonda e non assertiva della verità stessa, ossia se non ci si apre ad
una dimensione esperienziale e spirituale in cui le differenze vengono superate in
virtù di un comune sentire, di un identico esperire. Il credente Fai-da-te è, quindi,
relativista a livello storico-culturale, ma è altresì convinto che esista un piano, quello
della mistica e della contemplazione, in cui si possa percepire che, al di là delle mille
rifrazioni del reale, esiste un quid unitivo.
Il relativismo, secondo il credente soggettivo, può essere superato nella misura in
cui si è in grado di aprirsi all’esperienza del misiticismo, all’esperienza profonda
della contemplazione. Un libro che ha ottenuto un largo successo editoriale e che è
stato molto apprezzato negli ambienti in cui ci si riconosce nella mentalità religiosa
soggettiva, Dio nel cervello, sembra sostantivare questa concezione. Secondo i due
scienziati che hanno condotto gli esperimenti su un vasto campione di monaci
buddisti e di suore francescane, Andrew Newberg e Eugene d’Aquili, quando la
persona religiosa afferma di avere un’esperienza mistica si registra un’insolita attività
cerebrale nel lobo parietale posteriore superiore del cervello, quella preposta
all’orientamento. Tale attività porta a controllare la dicotomia io-non io al fine di
potersi muovere, dal momento che, se non si possedesse tale confine si sarebbe
incapaci di oggettivare lo spazio. Durante i picchi meditativi, gli scienziati si sono
accorti che l’attività dell’aria indicata veniva inibita e quindi, “non trovando confini
tra sé e il mondo esterno, il cervello non può che percepire il sé come qualcosa di
infinito e profondamente connesso con tutte le cose captate dalla mente e ritenere
simile percezione totalmente e indiscutibilmente reale” 38 . Questa teoria affascina il
credente fai-da-te perché, se da un lato, egli avverte il reale come realtà in cui
l’irriducibilità delle differenze e la moltiplicazione dei punti di vista paiono
irrisolvibili, se il mondo gli appare “relativo” e frammentato visto dietro le lenti
dell’io, dall’altro, la realtà diviene per lui una rete di interconnessioni se vista
attraverso le percezioni che ci regalano gli stati mistici. Il relativo è dunque un
caleidoscopio che crea delle figure senza senso se ci si ostina a guardarle con una
logica dicotomica e razionale, mentre diventa uno strumento di moltiplicazione relata
dei significati se si guarda dentro il tubicino con una sensibilità mistico-unitiva
CONCLUSIONE
La religione fai-da-te: una tentazione, dunque?
Il termine “tentazione” non piace al fenomenologo quando viene impiegato al di
fuori dell’ambito religioso, biblico o teologico, come una sorta di giudizio, perché,
come già si è detto all’inizio, la fenomenologia non deve dare giudizi. Se l’accezione
38
A. NEWBERG – E. D’AQUILI, Dio nel cervello. La prova biologica della fede, Mondatori, Milano 2002, p. 16.
di questo termine è, dunque, quella di “tentazione” intesa come peccato, come errore
o come eresia, il fenomenologo tace, rimane indifferente, perché non è questione che
lo riguardi. Pertiene, semmai, alle coscienze individuali dei credenti osservanti,
rispondere a questo interrogativo. Il fenomenologo può solo constatare che
l’ambiguità è parte costitutiva del sacro in ogni sua manifestazione, perché il sacro -,
sia esso una forza, un’esperienza della coscienza, l’accettazione di un dato rivelato - è
sempre qualcosa che si dà nella luce e, insieme, che crea delle ombre. Tutti i mondi
religiosi, similmente, hanno proiettato e proiettano luce ed ombra, perpetuando
l’ambiguità del sacro, perché non c’è ermeneutica o procedimento esplorativo che ci
metta completamente al riparo dal pregiudizio, o, per dirla con il Wittgenstein delle
Ricerche logiche, dalla presunzione. Per Wittgenstein tutti i contenuti privati della
coscienza sono pressoché incomunicabili perché nessuno potrà mai essere sicuro di
quale sia la vera, profonda, autentica intenzionalità che spinge l’altro a dirsi, e questo,
si potrebbe aggiungere, è più vero ancora quando l’Altro lo dobbiamo scrivere con la
lettera maiuscola. I fraintendimenti linguistici sono dunque parte integrante dei mondi
religiosi, anche dei più spuri e non istituzionalizzati, come quelli a cui fa riferimento
la religiosità soggettiva.
In chiave fenomenologia, semmai, si potranno individuare i rischi che corre tale
forma di soggettività religiosa per come si stanno profilando all’interno dello stesso
mondo in questione e, in tal senso, l’enucleazione dei livelli che abbiamo operato
all’inizio sulla scorta del modello offerto da Terrin è già piuttosto eloquente. Oppure
si potranno rilevare alcune grandi mancanze, come la difficoltà ad elaborare anche un
discorso ed una prassi inerenti all’etica, come una certa indolenza per il modo
tradizionale di affrontare il tema dell’alterità, della solidarietà e della condivisione.
Ed è indiscutibile che, per il credente soggettivo, sia molto più difficile trovare un
varco per affrontare il discorso dell’altro, inquadrato non solo in parametri filosofici,
ma anche etici, politici, ed economici.
Viceversa, se per “tentazione” intendiamo più superficialmente “seduzione”
allora la risposta non può che essere affermativa, dal momento che l’uomo
contemporaneo sente il fascino della riscrittura individuale dei grandi valori e quindi
anche delle religioni. Qualche anno fa il sociologo Garelli in un suo saggio intitolato
Forza della religione e debolezza della fede 39 - ribadito di recente da Marco Politi nel
suo Il ritorno di Dio 40 - sosteneva che esiste un profondo scollamento tra il
cristianesimo istituzionale e i mille distinguo che i credenti, anche osservanti,
operano, testimoniando così che la tendenza al soggettivismo è parte integrante del
nostro tempo. Solo i mass media e la politica continuano a parlare di “cattolici” come
se essi fossero qualcosa di assolutamente omologabile e sovrapponibile, come se non
ci fosse dibattito all’interno dei mondi ecclesiali, come se anche il Cristianesimo non
dovessero subire una continua erosione di significati che sbriciola la costruzione
marmorea della religione istituzionale dalle periferie. Il nostro è un mondo
39
F. GARELLI, Forza della religione e debolezza della fede, Il Mulino, Bologna, in particolare il primo capitolo, dove
si afferma che, in Italia, “si crede nel Dio del cristianesimo, si è cattolici, più per motivi ambientali che per il richiamo
di un messaggio rivelato. (p. 24)
40
M.POLITI, Il ritorno di Dio. Viaggio tra i cattolici d’Italia, Mondatori, Milano 2004, p. 20 e ss.
soggettivo, con tutto ciò che di negativo e di positivo può venire da questa sua
essenza. La religione “fai-da-te”, nonostante i suoi linguaggi deboli, le derive di
significato, le incoerenze e quant’altro, lancia un chiaro segnale in questo senso,
ribadendo alle religioni istituzionali e, in particolare, al Cristianesimo (che, almeno in
Italia, è il primo interlocutore) quanto sia importante aprirsi ad un dialogo aperto e
non stigmatizzante con il dissenso, quanto sia fondamentale dare spazio a chi, pur
non riuscendo ad incastrarsi perfettamente nei parametri stretti dell’etica corrente,
sente forte l’esigenza di ricercare un senso profondo e di ravvisare dei significati per
continuare a credere innanzitutto nella vita. Il rischio che possono correre, da un lato,
i cristiani “convinti” e, dall’altro, i nomadi ondivaghi è che, i cristiani convinti
finiscano per coincidere solo con i conservatori e con gli intransigenti, ossequiosi ad
ogni dettame e convinti di commettere peccato ogni qualvolta avvertono dei dubbi su
alcune questioni, mentre i nomadi dello spirito, lasciati a se stessi, si perdano nelle
derive pericolose di una ricerca senza approdi e senza tradizioni condivise.
Al di là di ogni valutazione, occorre comunque ribadire che la religiosità
soggettiva, con tutte le sue debolezze argomentative, è una delle espressioni forti e
vincenti della religiosità contemporanea. Si potrà obiettare che, se ogni epoca venera
il dio che si merita, la nostra epoca non si distingue per grandi elaborazioni
filosofico-metafisiche, ma preferisce parlare di un Dio intimo, privato, soggettivo.
Tuttavia è l’esigenza di questo Dio che ci deve far riflettere, perché essa lascia
trasparire una nostalgia data da un senso di mancanza, di vuoto simbolico. Il nostro
tempo, per certi versi ridotto miseramente a prosa, asfissiato dalle logiche ferree del
profitto, del successo e del consumo; la nostra epoca che ha innalzato nuove
cattedrali, ma non a Dio, come ci ricorda G. Ritzer 41 , quanto piuttosto al consumo,
dalla forma spesso sgraziata dei grandi centri commerciali; la nostra epoca che
sembrerebbe autosufficiente o che si vuole illudere di esserlo, chiudendosi a doppia
mandata dietro il mito della sua superiorità non solo tecnologica, ma anche culturale
e politica; rivela tutta la sua debolezza, la sua paura, proprio attraverso la radicalità di
queste ricerche religiose autonome. Se ci ponessimo con l’angolazione spocchiosa di
chi le giudica dall’alto in basso correremmo il rischio non solo di non comprenderle,
ma di non comprendere anche noi stessi, in quanto quelle forme e chi le critica, sono
parte integrante di uno stesso sistema culturale. Esse sono testimonianza
dell’esigenza di simbolico dell’uomo contemporaneo, e il simbolico non è malattia
dalla quale si può guarire, quanto, piuttosto una modalità necessaria per poter vivere
nel “qui ed ora”. Il simbolico è ciò che ci conduce alla sospensione densa del silenzio,
che ci strappa alle chiacchiere, anche avvedute e fascinose, che facciamo su noi stessi
e su Dio, parte integrante e non sostituibile di ogni opzione religiosa. L’aprirsi al
simbolico è l’esigenza di questi cercatori spirituali, di questi battitori liberi dello
spirito che cercano un antibiotico per sanare le infezioni che le logiche esasperate
dell’egoicità dettate dai nostri sistemi economici e sociali producono nelle coscienze
individuali. E’ il tentativo di superare l’ego aprendosi ad una dimensione
contemplativa in cui, sostantivando il divino, si possa risostantivare anche il soggetto
41
G. RITZER, la religione dei consumi. Cattedrali, pellegrinaggi e riti dell’iperconsumismo, Il Mulino, Bologna 2000,
p. 113 e ss.
così smarrito. E’ il tentativo di superare quella sorta di tirannide rappresentata
dall’esasperazione dell’antropocentrismo, per recuperare un senso minuscolo di sé
nel mondo, per tornare a riconciliarsi con la realtà, con la natura-creazione nel suo
complesso, sentendosi parte della realtà in solido e non un “assolo” nella scrittura
musicale del mondo stesso, fino a comprendere che non c’è possibilità di salvezza per
l’uomo se l’uomo non si reimmerge in una visione complessiva che unisca, con dei
trait d’union, Dio, l’uomo e il cosmo.
Certo, alcune forme sembrano spurie anche per coloro che si identificano con
questa mentalità, ma non più o non meno di quanto certe forme di cristianesimo
possano sembrare spurie a chi, davanti a certi fenomeni, vorrebbe trovare il coraggio
di Gesù nel tempio. Certo, altre forme pongono dei problemi ai teologi cristiani,
perché vengono a mettere in discussione alcuni capisaldi della tradizione e delle
scritture, ma non è con i sorrisi spocchiosi che ci si confronta. Occorre intercettare la
domanda di senso che viene posta da queste modalità, occorre confrontarsi senza
anatemi e senza rigidità, occorre capire che, come ciascuno di noi è in parte magari
infinitesimale fondamentalista è anche, magari in parte ancora più infinitesimale, un
credente “fai-da-te” perché nessuno sfugge alla lettura culturale di Dio del proprio
tempo.