la danza dei sensi

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la danza dei sensi
DS1/DG
Franco Salerno
LA DANZA
DEI SENSI
La costruzione
delle immagini
e i segreti delle
sinestesie nelle
liriche di un
poeta-canone
del Novecento
CESARE
PAVESE
SIMONE
EDIZIONI
Š
Gruppo Editoriale Simone
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FRANCO SALERNO
La danza dei sensi
La costruzione delle immagini e i segreti delle sinestesie
nelle liriche di un poeta-canone del Novecento:
CESARE PAVESE
INDICE
1. Cesare Pavese: la costruzione di un intellettuale ...............................
Pag. 9
2. Dalla poesia-racconto al racconto del pensiero ..................................
» 19
3. L’orchestra dei sensi: rapporti segreti e numeri rivelatori nelle sinestesie
delle poesie pavesiane .....................................................................
» 49
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I
CESARE PAVESE:
LA COSTRUZIONE DI UN INTELLETTUALE
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1.1. Il tragico contro il voluttuoso
La lezione è questa: costruire in arte come nella vita; bandire il voluttuoso dall’arte
come dalla vita, essere tragicamente 1. Cesare Pavese (1908-1950) formula questo
programma, che funge da faro e nello stesso tempo da miraggio per tutta la sua
esistenza, in una delle prime pagine del suo Diario, Il mestiere di vivere, e in una
data, che si pone quasi all’inizio della sua attività di scrittore: 20 aprile 1936.
“Bandire il voluttuoso” vuol dire (usiamo le stesse parole di Pavese) vivere a scatti,
senza sviluppi e senza principi, considerare gli stati d’animo quali scopo a se stessi,
abbandonarsi all’assoluto, all’ignoto, all’inconsistente”, evitare le responsabilità,
provare sentimenti senza pagare 2.
Che cosa vuol dire invece, per lui, essere tragicamente? Da un punto di vista
tecnico-artistico Pavese afferma, nella stessa pagina, che il “tragico” per il poeta
consiste in uno sforzo di freddezza utilitaria, cioè nel non fermarsi mai ai risultati
acquisiti, nell’andare sempre avanti considerando tutto come esperienza positiva
da aggiungere al proprio bagaglio culturale, nell’utilizzare le cicche della sera prima
3
, nel continuare l’operazione di “scavo” all’interno della realtà e nel congegnare
le varie tessere del mosaico che diventa sempre più complesso e chiarificatore.
Un poeta si compiace di sprofondare in uno stato d’animo e se lo gode -ecco la
fuga dal tragico. Ma un poeta dovrebbe non dimenticare mai che uno stato d’animo
per lui non è ancora nulla, che quanto conta per lui è la poesia futura. Questo sforzo
di freddezza utilitaria è il suo tragico4.
E da un punto di vista etico-esistenziale, “essere tragicamente” significa sottrarsi
all’abbandono romantico-decadente, al raptus sentimentale, all’individualismo,
1
C. PAVESE, Il mestiere di vivere, 20 aprile 1936, Milano, 1964, p. 39. D’ora in poi indicheremo
quest’opera con l’abbreviazione M.V.
2
Ibidem, pp. 38-40.
3
Ibidem, 17 febbraio 1936, p. 33.
4
Ibidem, 20 aprile 1936, p. 39.
9
al narcisismo, ed agire, operare, fare, costruire, e costruire nel migliore dei modi,
con dedizione, con abnegazione, considerando ogni conquista come un punto
di partenza e l’esistenza stessa come un’opera di edificazione da portare avanti
giorno per giorno, mattone su mattone, fino alla meta della maturità.
E questo, tenendo presente un programma, sapendo che cosa si vuole e si deve
fare, possedendo, insomma, una chiave di interpretazione della realtà. Il timore di
Pavese è quello di sbagliare tutto, di impostare male la propria esistenza, di cadere
nelle spire del “voluttuoso”: perché, per lui, il peccato non è un’azione piuttosto che
un’altra, ma tutta un’esistenza mal congegnata 5.
E allora ci si mette con tutte le sue forze, da “provinciale” (modello mutuato
dal romanziere americano Sinclair Lewis 6), da piemontese, da langhigiano. Il suo
motto è: “Lavorare”, anche se “lavorare stanca”; anzi appunto perché “stanca”,
bisogna metterci impegno, volontà, monotona caparbietà. Per Pavese la volontà
è tutto; radicandosi nella dinastia degli alfierani, egli rivaluta la vecchia formula
“volere è potere”: Chi non ha avuto volontà dura, è il più deciso a conquistarsi questa
potenza, perché sa quanto essa valga (=Alfieri) 7.
La sua mira è quella di costruirsi uno “stile”, inteso non come ricerca grammaticale e retorica, ma come modo di vivere nella realtà, di interpretarla, di
conoscerla, cioè di stabilire dei rapporti fra l’individuo e la realtà, fra il soggettivo
e l’oggettivo, fra il sé e l’altro da sé:
Bisogna proprio lavorare di stile, cercare cioè di creare un modo di intendere la
vita (il tempo nel suo fluire) che sia una nuova conoscenza. […] Solo ciò che stimiamo
realmente esistente (il nostro stile, il nostro tempo = l’oggetto della nostra conoscenza)
vale la pena di essere scritto. Se miriamo ad insegnare un nuovo modo di vedere e
quindi una nuova realtà, è evidente che il nostro stile va inteso come qualcosa di vero,
di proiettabile al di qua della pagina scritta 8.
Ma questa operazione di “costruzione” non è condotta da Pavese all’insegna
dell’armonia, sull’esempio di quella dell’intellettuale di tipo stoico-epicureo o
oraziano.Egli dice di essere uno stoico, non un pagano 9, ma si sbaglia o, meglio,
5
Ibidem, 5 maggio 1936, p. 46.
C. PAVESE, Senza provinciali, una letteratura non ha nerbo, in La letteratura americana e altri saggi,
Torino, 1962, pp. 5-29. Questo saggio fu pubblicato per la prima volta con il titolo Un romanziere
americano, Sinclair Lewis nella rivista La Cultura, novembre 1930. D’ora in poi indicheremo la
raccolta di questi saggi pavesiani con l’abbreviazione La letteratura americana.
7
M. V., 4 novembre 1938, p. 130.
8
Ibidem, 24 ottobre 1938, p. 126. Le parole poste da noi in tondo sono in corsivo nel testo
pavesiano.
9
Ibidem, 5 marzo 1948, p. 333.
6
10
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vuole sbagliarsi, dando di sé una definizione positiva, che gli adatti sul volto la
maschera dell’olimpicità: lo stoico si prefigge delle regole etiche, che sono in genere
coercitive, restrittive, ma egli le applica con distacco, compostezza, equilibrato
dominio di sé e delle sue passioni, senza dilacerazioni interne, senza oscillazione
tra il polo negativo ed il polo positivo.
Pavese invece no, non è fatto di questa pasta: la sua via per raggiungere la vetta
dell’olimpicità e della maturità è tutt’altro che facile e piana. Checché ne pensi il
suo professore del Liceo Classico “D’Azeglio” di Torino, Augusto Monti, che vive
l’ideale della santità, della vigoria, della compostezza psicologica e morale, che
vede l’arte come un prodotto naturale, una normale attività dello spirito, che avrebbe
per carattere essenziale la sanità 10, il giovane Cesare ha già scelto la via opposta:
quella del lungo travaglio e maceramento dello spirito, dell’incessante calvario di
tentativi 11, del rodìo continuo, della logorante introspezione.
Agiscono, da sempre, all’interno della travagliata psicologia pavesiana, due
forze uguali e contrarie: il polo positivo e il polo negativo. L’esperienza dello
scrittore si snoda, infatti, tutta all’insegna di una drammatica tensione dialettica;
ed egli rimane sempre dimidiato fra impegno e disimpegno, fra individualismo e
collettivismo, fra irrazionale e razionale, fra destino e libertà. Altro che intellettuale
stoico, di classica memoria: Pavese è destinato a diventare uno degli intellettuali
archetipi della civiltà post-freudiana. Quella di Pavese è un’operazione tipicamente volontaristica: cioè estirpare ogni elemento “voluttuoso”, individualistico,
narcisistico dalla propria vita psichica:
[…] bisognerà opporre ad ogni compiacenza passionale una dura volontà di estirpamento -come un rullo compressore sull’erba- che ignori ogni deviazione e si compiaccia
di sé. Voluttà per voluttà è altrettanto ricca questa quanto la dispersione e molto più
sana. Il piacere di spezzare ogni catena deterministica di gioie o esasperazioni, per
sé solo. La sua stessa esclusività e monotonia renderà questo piacere volontario e non
deterministico. 12
1.2. Il caos e l’ordine
Pavese si illude, con questa operazione per così dire chirurgica, di aver reciso
definitivamente il bubbone, che gli si viene ingrossando sempre più sotto gli occhi: ma in realtà egli non ha fatto altro che frenare, reprimere, soffocare gli istinti
10
C. PAVESE, Lettere 1926-1950, Torino, 1968, vol. I, lettera indirizzata a Augusto Monti, 18
maggio 1928, p. 45.
11
Ibidem.
12
M.V., 4 novembre 1938, p. 130.
11
irrazionali. Egli crede di aver raggiunto l’olimpicità con il tentativo dello sperimentalismo realistico di Paesi Tuoi e de Il compagno. Ma già Lavorare stanca, con
cui egli vuole consegnare ai lettori un’immagine di sé come di un poeta anti-lirico,
anti-romantico, anti-crepuscolare, oggettivo, niente affatto costruito, si presenta
come un’opera, dal duplice volto: uno l’aspetto oggettivo, realistico, estroverso,
solare e l’altro (che man mano affiora nella raccolta ed è spesso presente in una
stessa struttura poetica come un livello inferiore da portare alla luce) soggettivo,
simbolico, introverso, sotterraneo.
Il dilemma gli si presenta chiaramente in tutta la sua pericolosità quando affronta il problema del mito e tenta di sondare la psicologia del profondo. Non si
accorge, invece, di essere entrato in un veicolo cieco, in un labirinto inestricabile,
senza il filo di Arianna, che lo possa guidare; e, inoltratosi nei suoi meandri, si
vota irrimediabilmente all’auto-distruzione.
Ma a rendere valida, importante, positiva e, nello stesso tempo, unica l’esperienza umana ed artistica di Pavese è l’impegno, la volontà, il tentativo (non
importa se coronato da successo) di sconfiggere le forze della negatività, di vincere
il “vizio assurdo”, il male oscuro dell’irrazionalità del destino, di positivizzare il
negativo.
C’è un vero e proprio imperativo etico-artistico, che ispira lo scrittore durante
tutta la sua carriera, dopo egli che lo ha rintracciato nel pensiero e nell’opera di
Sherwood Anderson: Portare ordine e disegno dove c’è il caos 13. Di qui scaturisce
una dialettica assiale per la scrittura pavesiana: mito versus ragione.
Fonte della poesia è sempre un mistero, un’aspirazione, una commossa perplessità di
fronte ad un irrazionale - terra incognita. Ma l’atto della poesia è un’assoluta volontà
di vedere chiaro, di ridurre a ragione, di sapere. Il mito e il logo.14
Ed è questo comandamento, impresso a caratteri cubitali nella sua mente, a
guidarlo, per tutta la sua esistenza, nelle sue avventurose ricognizioni all’interno
della selva della realtà. Ed ancora, poco prima della morte, egli scrive: Il problema
è sempre quello: razionalizzare, prendere coscienza, fare storia. 15
Tutta la sua poetica del mito è fondata su questo sforzo di chiarificazione e
di razionalizzazione:
13
C. PAVESE, La letteratura americana, cit., p. 45. La citazione fa parte della Prefazione al volume
Riso nero di Sherwood Anderson, Torino, 1932.
14
Ibidem, p.330. La citazione fa parte del saggio Poesia è libertà, datato nel manoscritto 31
dicembre 1948- 8 gennaio 1949, pubblicato per la prima volta su Il sentiero dell’arte, Pesaro, 15
marzo 1949.
15
M. V., 15 febbraio 1950, p. 369. Le parole da noi poste in tondo sono in corsivo nel testo
pavesiano.
12
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La vita di ogni artista e di ogni uomo è come quella dei popoli: un incessante sforzo
per ridurre a chiarezza i suoi miti. Ma non si può fare che in essi non sia il foco vitale,
la ratio ultima perché inconsapevole, della vita interiore. Il tonico potente che se ne
assorbe, l’unica e sola aspirazione degna di questo nome abusato, ne è prova. Soltanto
non bisogna vietarsi esteticamente lo sforzo più assiduo per ridurli a chiarezza, cioè
di distruggerli.16
E, ancor più precisamente, razionalizzare significa, per Pavese, trasformare in
libertà il destino, che egli così definisce:
Destino è ciò che di mitico ha una intera esistenza, un dramma. E ciò che accade e
non si sa che è accaduto. Ciò che pare libertà ed invece si chiarisce poi paradigmatico,
ferreo, prefissato. Destino è lo storico prima di essere inteso nei suoi nessi e nella sua
necessità-libertà. Quando si tratta di uomini, la poesia guarda sempre ai destini, si
muove sui destini e magari li intende, li chiarisce, ne fa storie.17
E proprio questa esigenza di razionalizzazione, di edificazione, di programmazione lo fa schierare spinge contro i falsi difensori dello spirito, che condannano
il significato materialistico della tecnica:
L’uomo -per Pavese- è la tecnica, fin dal giorno che impugnò una scure a combattere contro le belve o uno stilo per scrivere; e se oggi la tecnica appare la nemica dello
spirito, ciò è vero nel senso che in troppi paesi di questa terra il lavoro che gli uomini
compiono è accantonato e reso vano da chi non lavora e ci ingrassa. E la colpa non
sarà della tecnica, ma di chi crede che lo spirito non sappia di sudore e di terra, e sia
altro dall’entusiasmo di scoprire, trasformare e utilizzare la materia, tutta la materia 18
1.3. Il mestiere di scrivere
Scrivere è un mestiere come un altro, come vendere bottoni o zappare 19. Così scrive
Cesare Pavese in una lettera indirizzata a Fernanda Pivano, americanista raffinata
e sua allieva prediletta. Queste espressioni sorprendenti traggono giù l’artista dallo
scanno dell’oracolismo, privandolo di quella aureola da genio e da superuomo,
di cui lo ha circonfuso l’estetica del decadentismo: insomma l’artista, per Pavese,
non è altro che l’operaio della fantasia intelligente 20. Il compito dell’artista è, ap16
La letteratura americana, cit., p. 303. La citazione è tratta dal saggio Del mito, del simbolo e
d’altro, pubblicato per la prima volta in Feria d’agosto, Torino, 1946, pp. 155-161.
17
M. V., 10 gennaio 1950, pp. 366-367.
18
La letteratura americana, cit., p. 236.
19
Lettere 1926-1950, vol. I, cit., 5 novembre 1940, p. 378.
20
La letteratura americana, cit., p. 243. La citazione fa parte del saggio Di una nuova letteratura,
13
punto, quello di accettare il proprio mestiere, di sforzarsi di compierlo il meglio
possibile, badando a produrre dei valori condivisibili da tutti, come ogni buon
artigiano espleta il suo mestiere per gli altri.
Ascoltare ed accettare se stessi vuol dire non dibattersi in chiacchiere, ma attendere
al proprio mestiere, sapendolo mestiere, umiliandosi in esso, producendo dei valori.
Il calzolaio fa le scarpe e il capomastro fa le case - meno parlano del modo di farle e
meglio lavorano: possibile che il narratore debba invece impunemente chiacchierare
soltanto di sé? 21
E proprio perché l’arte è un’attività pratica, che richiede sempre più impegno,
una sempre maggiore tensione verso il chiarimento dei propri temi, essa non
permette l’acquisizione di posizioni definitive, conquistate una volta per tutte,
ma presuppone una continua evoluzione, un lavoro in divenire, un continuo
superamento dei dati conseguiti:
Arte è tecnica, e tutti sanno che un prodotto della tecnica è qualcosa di artificiale,
di approssimativo, che tende senza posa a perfezioni, a fondersi su scoperte più esatte
e puntuali. Arte è, insomma, artificio e in essa nulla è dato una volta per tutte; ogni
epoca riprende la questione dalle radici e ricrea la sua “arte moderna”. Nulla in questo
campo è mai definitivo.22
E proprio questo mirare a “scoperte più esatte e puntuali”, questo rigido senso
dell’autocritica spinge Pavese a non pubblicare moltissimi suoi racconti 23, varie
poesie, articoli e saggi e a lavorare incessantemente intorno ad un unico grumo
narrativo 24. Questa operazione gli consente di portare alla luce un nucleo narrativo
originario, di aggirarsi intorno al grosso monolito e staccarne dei pezzi e lavorarli e
pubblicato per la prima volta su Rinascita nel numero di maggio-giugno 1946 (il manoscritto reca
la data del 26 gennaio 1946).
21
Ibidem, p. 244.
22
Ibidem, p. 48. La citazione fa parte dell’articolo L’arte: non natura ma storia, pubblicato su
L’Unità di Torino, con il titolo Un libro utile, il 9 marzo 1947. Le parole poste da noi in tondo
sono in corsivo nel testo pavesiano.
23
La maggior parte di questi racconti è stata pubblicata, postuma, nelle raccolte Notte di festa e
Ciau Masino, mentre gli altri -rimasti extravaganti per molti anni dopo la scomparsa di Pavese- sono
stati inclusi nel volume Racconti, edito da Einaudi nel 1960. Pavese ha, inoltre, lasciato incompiuto
il romanzo Fuoco grande, scritto a quattro mani insieme a Bianca Garufi e ha tenuto nel cassetto
per circa dieci anni sia Il carcere (scritto nel 1938-39 e pubblicato solo nel 1949 insieme alla Casa
in collina nel volume Prima che il gallo canti) che La bella estate (scritta nel 1940 e pubblicata,
insieme a Il diavolo in collina e Tra donne sole nel volume La bella estate).
24
Spesso la stesura definitiva dei romanzi di Pavese è preceduta da esperimenti preliminari: per
esempio, il racconto Terra d’esilio potrebbe essere considerato un abbozzo de Il carcere, mentre Villa
in collina e Casa al mare un’anticipazione de La spiaggia e così pure Fedeltà rispetto a Il compagno.
14
studiarli sotto tutte le luci possibili 25. Tale scavo appare ossessivo e monotono, ma
è, per Pavese, proprio tale “monotonia” a garantire l’autenticità di uno scrittore:
Ogni autentico scrittore è splendidamente monotono, in quanto nelle sue pagine vige uno
stampo ricorrente, una legge formale di fantasia, che trasforma il più diverso materiale in
figure e in situazioni che sono sempre press’a poco le stesse.26
Questa ansia di costruzione trova la sua manifestazione più originale non nella
struttura narratologica dei romanzi, bensì nella formulazione di un linguaggio poetico, che ha le sue punte apicali nel livello metaforico del sistema delle sinestesie.
25
La letteratura americana, cit., p. 248. La citazione fa parte di un saggio L’influsso degli eventi,
che Pavese lasciò inedito con il titolo Le ragioni di Pavese, datato 5 febbraio 1948, scritto come
risposta ad un’inchiesta della rivista Aretusa.
26
Ibidem, p. 279. La citazione fa parte di un saggio, dal titolo Hanno ragione i letterati, scritto
tra il 24 e il 25 gennaio 1948 e poi trasmesso alla radio il 4 febbraio 1948.
15
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II
DALLA POESIA-RACCONTO AL RACCONTO DEL PENSIERO
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2.1. La prima fase: la poesia-racconto
Il percorso poetico di Cesare Pavese, iniziato nel 1930, contempla, nella sua
fase di esordio, un modello di poesia-racconto, realizzata attraverso una struttura
formale chiara e distinta, muscolosa, oggettiva, essenziale 1
Il mio gusto -scrive Pavese nel 1934, alludendo alla precedente esperienza
poetica- voleva confusamente un’ espressione essenziale di fatti essenziali, ma non la
solita astrazione introspettiva, espressa in quel linguaggio, perché libresco, allusivo,
che troppo gratuitamente posa ad essenziale.2
Ed ancora:
Insistevo allora sulla sobrietà stilistica per fondamentale posizione polemica: c’era
da raggiungere l’evidenza fantastica fuori di tutti gli altri atteggiamenti espressivi
viziati, a me pareva, di retorica; c’era da provare a me stesso che una sobria energia di
concezione portava con sé l’espressione aderente, immediata, essenziale. […] Era per
salvare l’adorata immediatezza, pagando di persona, sfuggire al facile e slabbrato lirismo
degli immaginifici (esageravo). È naturale che con un tale programma di semplicità si
veda la salvezza unicamente nell’aderenza serrata, gelosa, appassionata all’ oggetto.3
Pavese, dunque, per dichiarata posizione polemica, intende presentarsi ai
lettori come un poeta anti-tradizionale, anti-convenzionale, anti-lirico, anticrepuscolare, con un linguaggio essenziale, cioè di tipo denotativo, in una parola
come poeta naturalista, realista, istintivo. E vediamo che cosa dice, sempre per
1
C. PAVESE, Il mestiere del poeta, saggio scritto nel settembre 1934 e pubblicato in Lavorare
stanca, Torino, 1943, poi inserito nelle Poesie edite e inedite (d’ora in poi Poesie), a cura di Italo
Calvino, Torino, 1962, p. 194.
2
Ibidem.
3
Ibidem, pp. 196-197. Le parole da noi riportate in tondo sono in corsivo nel testo pavesiano.
19
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ribadire volontaristicamente la spontaneità e la casualità del suo procedimento
poetico, a proposito della sua “scoperta” della cadenza metrica.
Mi scopersi un giorno a mugolare una certa tiritera di parole (che fu poi un distico
de I mari del Sud) secondo una cadenza enfatica che fin da bambino, nelle mie letture
di romanzi, usavo segnare, rimormorando le frasi che più mi ossessionavano. Così,
senza saperlo, avevo trovato il mio verso, che naturalmente per tutto I mari del Sud
e per parecchie altre poesie fu solo istintivo.4
Il distico “scoperto”, che dà la cadenza ritmica a tutta la composizione I mari
del Sud (7-14 settembre 1930) e a molte altre, è “Ha vedùto inseguìre balène/ tra
schiùme di sàngue”, cioè un decasillabo con cadenza ternaria più un “emistichio”
di sei sillabe, che poi si ridurranno spesso a tre (p. es. “Camminiàmo una sèra
sul fiànco/ di un còlle”).
Ora perché non possiamo credere a Pavese, quando egli sostiene che il suo
verso è “istintivo”? In primo luogo, perché egli stesso sa che non esiste una
poesia “istintiva”; lo dimostrano le minute travagliatissime delle sue liriche e
la complessa trama di rapporti, che egli, come vedremo, ha sempre stabilito
all’interno del testo di una lirica. In secondo luogo, perché la scelta di un tipo
di metrica, anche se molto elastico, come quello del “verso lungo”, è adottata
da Pavese per organizzare e disciplinare l’espressione nello svolgimento del
periodo. Egli stesso dichiara: A quel tempo sapevo soltanto che il verso libero non
mi andava a genio, per la disordinata e capricciosa abbondanza che esso usava
pretendere dalla fantasia 5.
Ma soprattutto è la scelta di quella determinata cadenza ritmica che non è
per niente casuale; essa serve, infatti, allo scrittore per poter realizzare il modello
di poesia-racconto. In realtà, il decasillabo a cadenza ternaria conferisce al verso il
ritmo tipico di molta metrica tradizionale, ma è l’aggiunta dell’emistichio seguente
che permette al poeta di riprendere il discorso, di completarlo, di aggiungere altri
elementi al di fuori della cadenza ritmica, di narrare e raccontare in più e quindi
di dare al verso quel tono discorsivo e “prosastico”, a cui Pavese aspira: insomma
una strada a metà fra la poesia e la prosa (appunto “poesia-racconto”).
Pavese scrive:
una simile versificazione […] acccontentava anche materialmente il mio bisogno,
tutto istintivo, di righe lunghe, poiché sentivo di aver molto da dire e di non dovermi
4
5
Ibidem, p. 198.
Ibidem, p. 197.
20
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fermare ad una ragione musicale nei miei versi, ma soddisfarne altresì una logica. E
c’ero riuscito e insomma, o bene o male, in essi narravo. 6
Si controlli quali possibilità discorsive schiuda questo tipo di versificazione,
analizzando un passo della terza lassa de I mari del Sud:
Un invèrno a mio pàdre già mòrto/ arrivò un cartoncino
con un gràn francòbollo verdàstro/ di navi in un porto
e augùri di buòna vendèmmia./ Fu un grande stupore,
ma il bambìno cresciùto spiegò/ avidamente
che il bigliètto venìva da un’ìsola/ detta Tasmania
circondàta da un màre più azzùrro,/ feroce di squali,
nel Pacìfico a sùd dell’Austràlia./ E aggiunse che certo
il cugìno pescàva le pèrle./ E staccò il francobollo.7
È chiaro come l’“emistichio” seguente il decasillabo contenga un’”aggiunta”,
una modifica da parte del poeta, come qualcosa di più che il poeta vuol dire, vuol
raccontare. Per esempio “avidamente” è una chiarificazione del verbo “spiegò”, in
quanto indica lo stato d’animo con cui viene compiuta l’azione; “detta Tasmania”
e “feroce di squali” sono due qualificazioni aggiuntive, che completano il senso dei
vocaboli “isola” e “mare”. Anche “E aggiunse che certo” e “E staccò il francobollo”
sono due “aggiunte” non solo dal punto di vista sintattico (perché si tratta di due
frasi aggiunte dopo un punto), ma anche da un punto di vista dell’azione, perché
si tratta di due operazioni (quella dell’“aggiungere” e dello “staccare il francobollo”)
che avvengono cronologicamente “dopo” le azioni espresse precedentemente.
Per questo, quando la frase si configura a Pavese eccessivamente e inutilmente
prosastica, sintatticamente regolata dall’ipotassi, senza quella possibilità di breve
“aggiunta”, certamente non passa nella redazione definitiva. Si consideri, a tal
proposito, la parte finale della sesta lassa della medesima lirica, in cui figurava
inizialmente questo testo:
Mio cugino ha sofferto la fame nel mondo
ma non per questo è così grave. Forse
la sua virtù è di aver vissuto il mondo
con lo stesso occhio calmo che ora adopera
pensando di irritare i canellesi.8
6
Ibidem, p. 198. La parola da noi riportata in tondo è in corsivo nel testo.
Poesie, I mari del Sud, cit., vv. 29-30.
8
Le varianti delle minute delle poesie di Pavese sono state pubblicate da Italo Calvino nelle
note al citato volume di Poesie. Tale variante de I mari del Sud figura a p. 229.
7
21
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E vediamo invece la redazione definitiva:
Mio cugìno non pàrla dei viàggi/ compiuti.
Dice asciùtto che è stàto in quel luògo/ e in quell’altro
e pensa ai suoi motori.9
Pavese ha dunque evitato, in nome della paratassi (che si rivelerà una delle
regole sintattiche costanti ne I mari del Sud e in tutto il resto della sua produzione
poetica) un periodo composto da ben cinque proposizioni subordinate fra loro
(“Forse la sua virtù è/ di aver vissuto il mondo con lo stesso occhio calmo/ che
ora adopera/ pensando/ di irritare i canellesi/”). Egli lo ha sostituito con tre versi
(recanti frasi che terminano precisamente nell’ambito del verso), in cui figurano
una sola subordinata e una coordinata e l’ormai consueta cadenza ritmica del
“verso lungo” pavesiano, interrotta -una delle solite brusche frenate del ritmo
delle poesie di Pavese- dal versetto finale “e pensa ai suoi motori”, che, fra l’altro,
in una precedente variante, seguitava: “che ha imparato/ a conoscere a Frisco in
California” (con l’eliminazione di tale frase il poeta ha evitato, peraltro, anche
un’altra disposizione ipotattica della frase).
Indubbiamente I mari del Sud è una delle poesie più costruite di Pavese, nel
senso che segue una struttura interna ben prefissata. Lo schema della poesia,
precedente alla stesura in versi, è stato scoperto nelle carte di Pavese da Lorenzo
Mondo e si articola in questo modo:
alfa) salire in silenzio a vedere il faro (Siamo quasi in cima)
beta) col cugino così e così (ghiacciaia, automobili, soldi) (“mi imbarcherei domani”)
gamma) (Mai parlare) È stato lì e là. Ha veduto inseguire balene/ tra schiume di sangue.
delta) Mari del Sud. Bellezza.
epsilon) Langhe di notte (Spirito)
zeta) Domanda (“Tuo padre amava leggere. Far soldi in famiglia.
Pur non spenderli in medicine”)
eta) il faro della città e del mondo sognati da bambini
teta) È morto. Li ha spesi in medicine. La vita è dura. E smania. 10
9
Poesie, I mari del Sud, cit., vv. 90-92.
Lo schema è riportato in Lorenzo Mondo, Tra Gozzano e Withman: le origini di Pavese, “Sigma”
(dicembre 1964) e poi in Armanda Guiducci, Il mito Pavese, Firenze, 1967, p. 371.
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Questi appunti, in effetti, si possono ritenere una prima schematica enumerazione delle situazioni, che saranno in parte (con l’aggiunta di altre elaborate
in seguito) sviluppate nella stesura definitiva della composizione. Infatti, grosso
modo, “alfa” darà vita alla Iª e alla IIª lassa; il motivo della morte del padre (“teta”),
sarà presente nella IIIª lassa; i ricordi d’infanzia (“eta”), anche se contenutisticamente diversi, saranno espressi nella IVª lassa; la Vª lassa non figura anticipata
in questo schema; “epsilon” sarà il nucleo originario della VIª lassa, “gamma”
della VIIª, “delta” dell’VIIIª. Fra l’altro, dallo schema si può vedere anche come
il distico iniziale “ha veduto inseguire balene/ tra schiume di sangue” passi nella
redazione definitiva quasi integralmente, tranne la sostituzione di “inseguire” con
“fuggire” (ed è questo un altro motivo per ritenere il famoso distico non come
un’ “istintiva scoperta”, ma come un elemento che si inquadra in uno schema
logico, razionale, preordinato).
Cerchiamo ora di seguire l’articolazione dei nessi all’interno della struttura
poetica. Esaminiamo la prima lassa (vv.1-8):
Camminiamo una sera sul fianco di un colle,
in silenzio, nell’ombra del tardo crepuscolo
mio cugino è un gigante vestito di bianco,
che si muove pacato, abbronzato nel volto,
taciturno. Tacere è la nostra virtù.
Qualche nostro antenato dev’ essere stato ben solo
- un grand’uomo tra idioti o un povero folle per insegnare ai suoi tanto silenzio”.
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Innanzitutto esiste un rapporto a livello di rime fra il v. 1 e il v. 7 (-olle) e
fra il v. 2 e il v. 6 (-olo) 11. Il v. 4, inoltre, presenta una rima interna (con effetto
di allitterazione) -ato (pacato / abbronzato); così pure il v. 6 (antenato / stato).
Riscontriamo nel v. 2 un fenomeno di enjambement: “in silenzio”, staccato dal v.
1 e evidenziato all’inizio del v. 2. Tale parola “silenzio”, posta peraltro in rilievo
alla fine del v. 8, si ricollega ad un altro termine, messo in posizione equidistante e
anch’esso evidenziato all’inizio del verso: cioè “taciturno” (v. 5), a sua volta ribadito
per allitterazione (“taciturno”-“tacere”) dalla parola immediatamente seguente.
Il fenomeno dell’enjambement è presente anche in altri passi dei Mari del Sud
(come del resto in molte altre poesie). Per esempio:
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Nella minuta figurano anche altre varianti al posto di “ben solo” : “un bandito”, “bandito da
tutti”, “un idiota inseguito a sassate” (soluzioni queste, tutte e tre vertenti sull’allitterazione della
consonante “t” ) ed infine “un terribile uomo/ di quelli che una volta morivano in disparte/. O
forse era soltanto un contadino”.
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dalla vetta si scorge
nelle notti serene il riflesso del faro
lontano, di Torino (vv. 11-12)
altri squassi del sangue, dinanzi a rivali
più elusivi (vv. 47-89)
Mio cugino è tornato, finita la guerra,
gigantesco, tra i pochi (vv. 54-55)
Pigliò una ragazza
esile e bionda (vv. 65-6)
Il fenomeno dell’enjambement rientra sempre in quella tendenza, tipicamente pavesiana, a instaurare nel verso un modulo prosastico, in quel “bisogno di
righe lunghe”, per cui Pavese non può o non vuole far entrare una frase di senso
compiuto nell’ambito di un verso.
Così pure l’impostazione parattattica del periodo serve al poeta a creare un
ritmo discorsivo, quasi delle zone di parlato: difficilmente egli usa delle frasi
disposte secondo un ordine gerarchico di subordinazione. Abbiamo riscontrato
come nei vv. 91-93 (nel confronto fra minuta e redazione definitiva) l’uso della
paratassi sia frutto di un’operazione volontaristica, condotta in nome delle leggi
interne alla struttura poetica. Vediamo ora come effettivamente fra le proposizioni
coordinate non esista alcuna subordinazione, non solo a livello sintattico, ma
anche a livello logico e cronologico. Si vedano i vv. 41-46:
E dall’ultima volta
che son sceso a bagnarmi in un punto mortale
o ho inseguito un compagno di giochi su un albero
spaccandone i bei rami e ho rotta la testa
a un rivale e sono stato picchiato
quanta vita è trascorsa
E si considerino anche altri testi, per esempio i vv. 29-32 di Antenati:
E le donne non contano nella famiglia.
Voglio dire, le donne da noi stanno in casa
E ci mettono al mondo e non dicono nulla
E non contano nulla e non le ricordiamo
In questi periodi le proposizioni coordinate potrebbero anche scambiarsi l’una
con l’altra, senza modificare il senso intimo del periodo: in effetti non c’è nessun
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legame di subordinazione cronologica fra le azioni espresse nei due passi, nel
primo fra “lagnarsi”, “inseguire”, “rompere”, “picchiare”, nel secondo tra “stare
in casa”, “mettere al mondo”, “dire”, “contare” e “ricordare”.
E la mancanza di successione cronologica si verifica anche fra i vari periodi
della già citata I mari del Sud, con il brusco cambiamento dei modi dei verbi.
Mio cugino è tornato, finita la guerra,
gigantesco, fra i pochi. E se aveva denaro.
I parenti dicevano piano: “Fra un anno, a dir molto,
se li è mangiati tutti e torna in giro.
I disperati muoiono così”.
Mio cugino ha una faccia recisa. Comprò un pianterreno
Nel paese e ci fece riuscire un garage di cemento
[…]
S’era intanto sposato, in paese. Pigliò una ragazza
esile e bionda come le straniere
[…]
al mattino batteva le fiere e con aria sorniona
contrattava i cavalli.12
Ed è proprio questo tipo di procedimento a livello sintattico che gli permetterà di affrontare la prova sperimentalistica di Paesi tuoi (1941) e di scrivere un
periodo del genere:
Finalmente arriva il treno, adagio, che sembrava Talino quando attraversa una
strada. Forza! Una volta montati e partiti, comincia a far fresco per il movimento, e
corriamo a randa di un fianco boscoso. Talino non si sedeva e tira fuori il suo foglio.
Poi viene un milite e si conoscevano e si mettono a discutere e quello mi guarda. Io
fumavo e prendevo dell’aria.13
Si tratta chiaramente di un periodo, in cui sono saltati interamente i passaggi
cronologici e la connessione sintattica è regolata solo dal polisindeto, che pone, in
pratica, sullo stesso piano cronologico avvenimenti successi in momenti diversi.
In fondo al prosaismo sperimentalistico di una poesia come I mari del Sud e di
altre cronologicamente coeve per data di composizione (cioè dal 1931 al 1933),
c’è l’esigenza (ed in questo Pavese crede consista la sua anticonvenzionalità) di
“sfuggire al facile e slabbrato lirismo degli immaginifici”, di realizzare l’aderenza
serrata, gelosa, appassionata all’oggetto”.
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Poesie, I mari del Sud, cit., vv. 54-71.
C. PAVESE, Paesi tuoi, 1941, Torino, pp. 28-29.
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Pavese intende usare, per rompere definitivamente con il filone crepuscolare
ed ermetico, un tipo di linguaggio denotativo, in cui la parola esprime l’oggetto,
solo e proprio quell’oggetto, nei suoi contorni netti, in un campo semantico ben
definito, senza che possa dare adito ad associazioni mentali con altre entità semantiche. Egli è portato a concludere, almeno prima della scoperta dell’“immagineracconto” (1933), che “forse la natura stessa del linguaggio nega le immagini”.
E addirittura Pavese si preoccupa che anche in una proposizione assertiva, in
cui un significante sia qualificato da un’attribuzione già implicitamente appartenente al proprio campo semantico, siano già stati stabiliti dei rapporti logici e
sia già stato dato un giudizio di valore:
Non è già espressione di giudizio osservare che l’albero è verde? […] E com’è che la
natura del linguaggio nega la possibilità di non usare immagini? Che verde discenda
da vis e alluda alla forza della vegetazione è un bel rapporto e indiscutibile; ma anche
indiscutibile è la semplicità attuale di questa parola e il suo richiamarsi immediato
ad un’unica idea.14
Prendiamo per esempio i vv. 10-11 de I mari del Sud:
[…] dalla vetta si scorge
nello notti serene il riflesso dal faro
lontano di Torino.
Si tratta di un messaggio chiaro, inequivocabile, elaborato sulla base di un
linguaggio referenziale, cioè avente la funzione di denotare nel modo più certo
tutti i propri referenti. I sintagmi “dalla vetta si scorge”, “notti serene” e “il riflesso del faro lontano” evidenziano una connessione fra i termini, che presenta
due caratteristiche. In primo luogo, essa si rivela di significato univoco, senza
ambiguità; in secondo luogo è operata ad un livello normale, comune, quotidiano (in effetti anche “faro lontano” è una connessione convenzionale, poiché
il faro, spesso nella narrazione o nell’immaginazione, figura in questa posizione,
appunto perché lo si immagina come una fonte di luce posta da lontano come
punto di riferimento).
E l’uso del linguaggio denotativo è reso possibile anche per mezzo dell’adozione
da parte di Pavese di sottocodici tecnici, nei quali è chiaro che ogni termine ha
inequivocabilmente uno ed un solo significato. Si vedano i vv. 59-62 de I mari
del Sud:
14
M.V., 1 novembre 1935, p. 21.
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