Cultura del folklore di Massimo Pirovano

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Cultura del folklore di Massimo Pirovano
Cultura del folklore di Massimo Pirovano
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(Gli asterischi indicano delle parti omesse dall’originale)
Originariamente, e cioè alla metà dell’ottocento, il termine folklore indica le credenze del popolo, a cui
successivamente si vennero aggiungendo le tradizioni e i costumi in senso lato, quali: la narrativa, i canti,
i proverbi, i giochi, le feste, i riti. Ciò che accomuna tutti questi prodotti è il fatto di essere tramandati da
una generazione all’altra soprattutto attraverso la comunicazione orale diretta, la pratica e l’imitazione.
In seguito allo sviluppo delle scienze antropologiche, le ricerche sul folklore tendono talora a dilatare
ulteriormente il loro orizzonte nel senso dell’etnografia, inglobando così anche un’attenzione all’organizzazione sociale, all’economia e alle tecniche pre-industriali. L’ambiguità del significato di folklore, oltre
a dipendere dalla vastità e dall’articolazione di una simile gamma di espressioni culturali, deriva dalla
difficoltà a precisare la nozione di popolare, e quindi del relativo sostantivo.
Nell’accezione accolta prevalentemente dagli studiosi, con il termine popolo si vogliono indicare quei
ceti che in una certa epoca storica sono risultati economicamente e politicamente subalterni, e comunque
esclusi dall’esercizio del potere e dalla cultura alta: pescatori, boscaioli, pastori, contadini, minatori,
artigiani, operai, ecc., come portatori di attività, di conoscenze, di usanze, di credenze proprie o accolte
socialmente da altri contesti culturali. A partire da ciò si capisce perché si debba parlare più propriamente
di culture popolari e di espressioni folkloriche –al plurale – che per molti aspetti si legano ad un territorio
geografico ed economico specifico.
Anche per il Lecchese dunque si tratterà in primo luogo di tenere presente il peso decisivo che un
ambiente urbano o rurale esercita sul folklore e sulla cultura popolare.
Oggi, in una società caratterizzata dal diffondersi di una cultura di massa, quando si parla di folklore ci
si riferisce quasi sempre a fenomeni in declino, a sopravvivenze di altre epoche (magari conservate solo
nella memoria), o a tradizioni riprese di recente, magari proprio per riaffermare una identità collettiva
contro la generale massificazione.
In qualche caso il fatto folklorico viene addirittura sostituito con la manifestazione di tipo folkloristico,
in cui i protagonisti agiscono non più per se stessi ma per esibirsi; così viene meno la funzione originaria
di una usanza o se ne crea artificiosamente una del tutto nuova come, ad esempio, una promozione commerciale, turistica o un intervento di animazione sociale ( si pensi alle sagre alimentari o al palio dei rioni,
che avevano preso piede alcuni anni or sono).
La festa è il momento della vita collettiva che si oppone al tempo del lavoro, caratterizzato da pratiche e
valori differenti da quelli ordinari della vita quotidiana. Possono distinguere la festa il contatto con il sacro, un particolare grado di socievolezza, di entusiasmo, di eccesso, lo spreco, la trasgressione, il vizio,
ecc. Le feste tradizionali si legano al ciclo della vita oppure al ciclo dell’anno, e sono queste più riconoscibili come collettive. Questa distinzione in realtà è molto meno evidente nelle società tradizionali che in
quelle complesse come la nostra.
In generale possiamo dire che proprio la relativa inattività produttiva nel periodo invernale, con il rientro dell’immigrazione stagionale specie nei paesi di montagna, favoriva il concentrarsi nei mesi freddi di
un maggior numero di feste sia di tipo religioso che laico.
Un discorso a sé meritano le feste, le devozioni e le pratiche rituali dedicate ai santi, ritenuti patroni di
determinate comunità o di protettori della salute di uomini e di animali. Anche le visite ai santuari erano e
sono ancora oggi una occasione di devozione, oltre che di evasione dal quotidiano (si pensi alle bancarelle, alle giostre, ai banchetti, ecc. talvolta malsopportati dal clero); un giorno dell’anno in cui sacro e
profano si trovano abbinati nella festa.
Con le feste patronali talora coincidono fiere di notevole interesse economico. Specialmente negli ultimi
due secoli il razionalismo, la religione del lavoro, notoriamente ben radicata nella nostra mentalità, e soprattutto l’enorme miglioramento delle condizioni medie di vita delle classi popolari negli ultimi decenni
(alimentazione, età media, salute) hanno ridotto l’importanza di buona parte delle motivazioni sociali delle feste. La loro frequenza e il loro rilievo sociale, anche se con un andamento non lineare, hanno subito
un complessivo declino. Negli ultimi anni però alcune feste hanno ripreso vigore anche in diversi centri
del nostro territorio, come molti fenomeni del folklore, in relazione al senso di precarietà e di insicurezza
psicologica e sociale indotti da nuovi problemi che investono la collettività.
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Il culto cristiano è ben lontano dal presentarsi come un blocco monolitico. Per esempio la sua realtà
complessa e sfaccettata si è sempre espressa non solo nella religiosità ufficiale, ma anche attraverso la
religiosità del popolo, basata su riti, comportamenti, credenze, simboli di volta in volta accettati, tollerati,
favoriti ed anche respinti da parte dell’autorità religiosa.
Risulta arduo riconoscere caratteri specifici, autonomi della religiosità popolare all’interno del territorio lecchese e brianzolo. E’ venuto ormai meno quel mondo contadino con i suoi rapporti sociali, i suoi
valori e ritmi di vita che costituiva il substrato, la cultura depositaria di una certa mentalità religiosa.
Tra gli aspetti della cultura folklorica, il carnevale rappresenta uno dei momenti festivi laici più importanti del ciclo annuale, sia per i significati psicologici che esso assumeva in una società fortemente regolata dalle consuetudini, sia per la collocazione calendariale all’interno dell’economia agricola prevalente
che favoriva il concentrarsi nel periodo invernale di molte feste socialmente importanti.
Comuni erano le visite delle maschere alle case dei conoscenti per fare scherzi, per giocare a non farsi
identificare, per avere degli alimenti in dono, ecc.
Il ribaltamento di ruoli psicologici, sessuali, sociali, mediante il mascheramento dell’aspetto e dei comportamenti rispondeva, seppure occasionalmente, al bisogno di invertire il normale ordine, imperniato sui
valori del lavoro, della parsimonia, della moralità, della serietà. Segno storicamente più recente di questa
istanza in ambiente popolare è anche l’usanza di festeggiare il carnevale con il ballo.
Il carnevale per il nostro territorio, a partire dagli anni del boom, ha assistito al diffondersi del modello di
carnevale viaregino nel quale il carnevale nel suo aspetto pubblico viene a coincidere con una sfilata di
carri più o meno elaborati in cui la componente folkloristica, di esibizione ha preso nettamente il sopravvento. ***
Parlare di giochi tradizionali vuol dire riferirsi ad attività infantili ma anche degli adulti, che implicano
in genere un uso modestissimo di oggetti e di attrezzature. I giocattoli erano rari e quelli comuni erano
piuttosto semplici: la palla, le biglie, le figurine, la lippa, la corda, il cerchio, la bambola, ecc.
Nella prima infanzia il gioco, abbinato alle filastrocche ritmiche, era un mezzo per acquisire abilità espressive e motorie, che in generale favorivano la conoscenza del proprio corpo.
I giochi tradizionali degli adulti si legano essenzialmente ai tempi e ai motivi della festa; che si svolgesse in famiglia, con le tombole del periodo invernale cui partecipavano anche le donne, o fuori casa. Il
gioco pubblico, secondo le usanze e i valori della tradizione, era riservato agli uomini, ai quali in ambiente popolare era concesso un margine di licenza molto maggiore, testimoniato dalla diffusione e dall’importanza sociale dell’osteria con i suoi giochi: dai dadi alla morra, dalle carte alle bocce.
L’osteria era il luogo di ritrovo popolare della tradizione, specialmente festivo, ormai raro nel nostro territorio, ma dotato fino agli anni ’60 del nostro secolo di grande importanza sociale. Il fatto di essere stata
considerata per molti secoli dalla cultura dominante, sia clericale che illuminata, un luogo di trasgressione
e di perdizione dipende dal fatto che nell’osteria, spazio riservato al sesso maschile, si chiacchierava, si
faceva largo consumo di vino, facilmente ci si ubriacava, si fumava, si praticava il gioco d’azzardo, si
bestemmiava. La liberazione degli impulsi meno nobili di artigiani e di contadini li conduceva spesso a
litigare anche violentemente. Dal punto di vista della cultura folkloristica, le osterie del Lecchese hanno
ospitato fino a tempi abbastanza recenti il teatro di Gioppino, piccole formazioni musicali e hanno rappresentato un’isola di resistenza del canto popolare sia in ambiente urbano che in ambiente rurale.
Anche per il canto popolare, come per la maggior parte delle espressioni della cultura folklorica, si
prospettava un discorso eminentemente storico, rivolto al passato. Le registrazioni sul campo e le raccolte edite di canti popolari del nostro territorio propongono ad esempio canti di lavoro, canti festivi e
canti legati ad occasioni più insolite. Tra i primi alcuni parlano esplicitamente di lavoro, talora per
protestare e lamentare le condizioni insopportabili, mentre altri accompagnano l’attività produttiva
seguendone i ritmi. In questo caso (filanda) il canto serviva per attenuare la noia, dovuta alla ripetitività
della produzione, e ad allentare la tensione per un lavoro che richiedeva destrezza e concentrazione (il
canto a differenza del dialogo, non era sempre ostacolato dai datori di lavoro).
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Negli stabilimenti serici si è verificato un incontro di repertori e di generi, al di là della pertinenza tematica del canto rispetto ai problemi del lavoro. Infatti si eseguivano canti narrativi, spesso di origine antica
come per alcune ballate, ma anche canzoni da cantastorie, o canti di ispirazione religiosa. In altre parole il
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canto eseguito durante il lavoro riprendeva composizioni originate in altri contesti e pensati per altre
funzioni, spesso rituali. Le scadenze del ciclo della vita così come del ciclo dell’anno potevano essere accompagnate da canti specifici: ninne nanne e canti e rime infantili, canti di coscrizione, canzoni di corteggiamento, di fidanzamento, di matrimonio, ecc. *** Piccole formazioni orchestrali, composte da strumenti a corda, fiati e strumenti ad ance libere, erano diffuse nel nostro territorio ma si dedicavano prevalentemente alla musica da ballo. Allo stesso modo uno strumento più radicato nei nostri paesi come il
Firlinfeu si era affermato indipendentemente dal canto vocale.
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Gli studi più recenti hanno mostrato come l’uso del firlinfeu sia passato, nel tempo, dalla cascina al
palcoscenico. In altre parole quello che si era diffuso nelle nostre zone come uno strumento contadino per
solisti o piccolissimi gruppi di esecutori, spesso parenti, ha assunto nel tempo i tratti di uno strumento da
banda – appunto la Banda di cann. Lo strumento musicale popolare che accompagnava la vita nei cortili
è diventato nel secondo ‘800, e soprattutto dopo la prima guerra mondiale, uno strumento dei gruppi
folkloristici per esibizioni e manifestazioni pubbliche, non di rado accompagnate dall’innesto di balletti in
costume.
L’insieme dei racconti tramandati oralmente è stato considerato, almeno a partire dalla cultura romantica uno degli aspetti fondamentali del folklore. In particolare le fiabe e le leggende venivano considerate
quali vie di accesso privilegiate alle credenze e alla mentalità popolari. Quasi sempre le storie avevano
una circolazione assai vasta favorita dai movimenti degli uomini e, negli ultimi secoli, anche dalla stampa.
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Ricerche non occasionali, compiute nel Lecchese solo a partire dagli anni ’80 del nostro secolo, mostrano la ricchezza complessiva che il patrimonio della letteratura popolare ha avuto in passato, ma anche la
progressiva emarginazione di queste storie dall’uso quotidiano. Ciò va messo in relazione alla decadenza
dell’economia agricola e al diffondersi di nuove tipologie abitative (con la scomparsa delle stalle come
luogo riscaldato di scambio culturale) oltre che al prevalere di nuove forme di socialità e di comunicazione, come quelle portate dalla radio e dalla televisione.
L’espressione medicina popolare indica presso gli studiosi di etnografia e folklore il complesso dei
modi tradizionali di intendere la malattia, di comportarsi di fronte ad essa, di organizzarsi nella difesa
della salute, che si incontra nelle classi popolari rurali e urbane. Queste forme culturali nascono in primo
luogo dalla osservazione e dall’esperienza delle donne e degli uomini della campagna consolidatesi, in
genere in tempi lunghissimi, in una conoscenza dei prodotti della natura e dei loro effetti, inimmaginabile per coloro che, nati e cresciuti in ambiente urbano, oggi si affidano alla medicina ufficiale. ***
In posizione tradizionalmente centrale, aspetto del folklore sono considerati i proverbi. In particolare il
senso comune li ritiene come la sintesi di una saggezza consolidata nel corso dei secoli, per il fatto di esprimere convinzioni, regole, constatazioni empiriche in forma perentoria e sentenziosa. Rispettivamente,
valgano da esempio: Ogni ufelèe fa ‘l sò mestèe; Bisogna fa ‘l pas segùunt la gamba; Santa Luzzia l’è ‘l
dè püsè cürt che ghe sia. Eppure i proverbi presentano in diversi casi una buona dose di equivocità
(:Quand la Grigna la gh’ha soeu èl capèll, o ch’el pioeuf o ch’el fa bell). In realtà è la loro struttura ritmica a favorirne in maniera decisiva la circolazione; la memorizzazione e la conservazione; tanto che
sembra essenziale alla loro diffusione la loro capacità di rassicurare chi li usa e chi li ascolta, e quindi di
integrare chi ne fa uso nel gruppo sociale di appartenenza.
Prima che l’economia del nostro territorio assistesse al prevalere quasi esclusivo dei settori secondario e
terziario, i consumi anche nel campo dell’alimentazione popolare tradizionale erano determinati dalle produzioni locali. Se ci riferiamo agli ultimi due secoli, il commercio dei generi estranei all’agricoltura e all’allevamento del Lecchese compariva nell’alimentazione sporadicamente e soprattutto nelle occasioni
festive (pasta, riso, zucchero, sale). Così notiamo che le fonti insistono sulla predominanza quasi esclusiva dei componenti vegetali nella dieta contadina quotidiana; dalle polente di cereali alle minestre (la
biada de l’òm), dai pani (di granoturco o di grano saraceno) alle castagne, senza dimenticare il vino, prodotto importante nelle nostre zone fino alla seconda metà dell’Ottocento. La scarsità di proteine e la monotonia alimentare provocavano quindi malattie endemiche come la pellagra, che non a caso colpiva i
mandamenti collinari, dove più forte era il consumo del mais rispetto alle zone montane. La carne, alimento che ha acquistato un posto centrale negli anni del benessere diffuso, ha mantenuto fino a qualche
decennio fa il carattere della eccezionalità ed un legame con certe feste (volatili e bovini a Natale, ovini a
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Pasqua). *** Il pesce veniva consumato più facilmente dove esistevano consistenti comunità di
professionisti e dove il diritto di pesca non era privato. Altrimenti, spesso di provenienza marittima, era
confinato al venerdì come cibo del giorno di magro. ***
Vino a Dorio, a Mandello, a Lecco. Già i secoli IX e X riservano la sorpresa di questa arte illustrata nel
calendario affrescato del chiostro di Piona. Poi nel Trecento è un gran produrre uve pregiate per l’arcivescovo a Orio –sopra Bellano -; bianche e nere alla Besonda e a S. Ambrogio di Lecco; fin nelle valli sperdute come Introzzo. ***
Gli statuti di Lecco offrono norme precise agli osti, a che non annacquassero il vino, che era bevanda
corroborante offerta ai poveri con pane in certe solennità dai ricchi e dalle chiese. *** - La Brianza era la
fonte massima e nel 1656 il Somaglia ritiene pretiosi i vini di Monterobbio, ma per quelli di Montevecchia scrive: “Qui pregia Bacco i suoi liquori c’hanno di vino il nome, e danno gran vigore a chi li assaggia, e rinfrescano, per così dire, la vita ad un mezzo morto”. *** Poi viene l’Ottocento col brindisi del
Porta e il nostranello della Cà Brüsada che piaceva al Manzoni nel suo Caleotto. L’industria, i malanni,
le brume ed ecco sparire il nostro vino. *** -Nel 1840 i cinque distretti della Brianza (Brivio, Cantù, Erba, Missaglia, Oggiono) producevano 80.000 ettolitri di vino. Gli stessi distretti disponevano di 2800 cavalli, circa 2800 tra asini e muli, 13600 vacche, 4280 buoi, 2040 maiali (notizie di A.Benini).
Da un punto di vista storico la pesca nel Lecchese ha sempre avuto notevole importanza economica per la
presenza del Lario, di vari laghi minori, dell’Adda e di molti torrenti; infatti questa attività di origini preistoriche ha garantito la sopravvivenza di molte generazioni di uomini del nostro territorio; sia tra i produttori sia tra i consumatori. *** Nelle epoche passate l’alimentazione -popolare e non- richiedeva prodotti ittici in maniera molto meno selettiva e la varietà di specie presenti nelle acque del nostro territorio
costituiva un punto di forza per l’attività peschereccia. Nelle famiglie numerose di operai e contadini la
fame spingeva anche al bracconaggio, spesso praticato con fiocine e reti professionali per sfamare i figli o
per arrotondare le magre entrate con un piccolo commercio abusivo. *** Dopo la crisi della professione
nel secondo dopoguerra, dovuta alle fatiche del mestiere, all’impegno e all’aleatorietà dei guadagni (a
confronto con la sicurezza del lavoro in fabbrica), alla diminuita redditività *** si assiste da alcuni anni
ad un ritorno di interesse da parte dei giovani verso il mestiere dei loro padri. ***
Sul distretto di Lecco della provincia di Como, e sulla lavorazione da parte delle donne e in particolare
delle fanciulle al di sotto dei dodici anni nelle filande, gli Annali universali di medicina pubblicarono nel
1873 uno studio del filantropo comasco dott. Serafino Bonomi. Vi si accennava al fatto che le bambine
erano escluse dall’obbligo scolastico, lavoravano per un salario pari al valore di un chilogrammo di pane
giornaliero per dodici ore d’inverno e per tredici ed anche quattordici d’estate; mantenevano le mani alternativamente nell’acqua bollente e in quella fredda; erano spesso ospitate anche la notte dentro la fabbrica,
ove dormivano, cosicché erano destinate a respirare sempre aria malsana; si giovavano di un vitto per lo
più non idoneo, portato da casa sotto forma di grossi pani umidi, destinati ad ammuffire, alternati soltanto
in alcune fabbriche con minestre predisposte dalla direzione aziendale. Migliaia di ragazze senza nome –
a differenza dei giovani arruolati nelle fabbriche del ferro, costretti a vent’anni alla visita di leva – si ammalavano quindi ed erano spesso destinate a malformazioni o ad una precoce vecchiaia quando non addirittura alla morte, in un’epoca nella quale la presenza di corrente idrica gratuita nelle nostre vallate, di una
vasta offerta di manodopera femminile a scarso prezzo e abituata all’obbedienza erano destinate a fare la
ricchezza di imprese per lo più straniere (Abegg, Dumoulin, Keller, Muller, Sigg e tutti gli altri dei quali
ormai è dimenticata la presenza).
Oggi di quel immenso lavoro – scomparso nel territorio lecchese attorno al 1930 – è rimasta traccia
soltanto nel museo Abegg di Garlate e nel filatoio Monti di Abbadia Lariana; esempi di lavoro, di fatica,
di sacrificio che hanno segnato la storia della nostra terra.